ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 521,  comma
2, del codice di procedura penale, promosso dal Giudice  dell'udienza
preliminare del  Tribunale  ordinario  di  Palermo  nel  procedimento
penale a carico di M. C. e di M. S., con  ordinanza  del  14  ottobre
2021, iscritta al n. 216 del registro  ordinanze  2021  e  pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale,
dell'anno 2022. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 5  ottobre  2022  il  Giudice
relatore Francesco Vigano'; 
    deliberato nella camera di consiglio del 19 ottobre 2022. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 14 ottobre 2021,  il  Giudice  dell'udienza
preliminare del Tribunale  ordinario  di  Palermo  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt. 3  e  112  della  Costituzione,  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 521, comma  2,  del  codice  di
procedura penale, nella parte in  cui  non  prevede  che  il  giudice
disponga  con  ordinanza  la  trasmissione  degli  atti  al  pubblico
ministero quando accerta che risulta una circostanza  aggravante  non
oggetto di contestazione. 
    1.1.- Il rimettente si trova a giudicare,  con  rito  abbreviato,
della responsabilita' penale di M. C. e di M. S.,  entrambi  imputati
di concorso in truffa aggravata  dall'avere  cagionato  alla  persona
offesa un danno patrimoniale  di  rilevante  entita'.  Nei  confronti
soltanto di  M.  S.  il  pubblico  ministero  ha  inoltre  contestato
l'aggravante della recidiva reiterata infraquinquennale.  Sulla  base
di tali contestazioni, il pubblico ministero ha richiesto la pena  di
dieci mesi di reclusione e 600 euro di multa a  carico  di  M.  C.  e
quella di un anno e sei mesi di reclusione e 1.200 euro di multa  per
M. S. 
    Il giudice a quo rileva che dall'esame dei  certificati  generali
del  casellario  giudiziale  relativi  ai   due   imputati   emergono
effettivamente, in capo a M.  S.,  due  precedenti  condanne  a  pena
pecuniaria per il delitto di invasione di edifici, mentre a carico di
M. C. - rispetto al quale il pubblico ministero non aveva  contestato
alcuna recidiva - risultano sedici condanne irrevocabili per  delitti
non colposi, molti dei quali di  particolare  gravita',  come  rapina
aggravata e sequestro di persona. 
    Il rimettente osserva quindi che l'art. 521, comma 2, cod.  proc.
pen. prevede che il giudice disponga con  ordinanza  la  restituzione
degli atti al pubblico ministero qualora  accerti  che  il  fatto  e'
«diverso» da come descritto nel  decreto  che  dispone  il  giudizio,
ovvero nella contestazione effettuata a norma degli artt. 516, 517  e
518, comma 2, cod. proc. pen. Secondo la  consolidata  giurisprudenza
di legittimita', tale disposizione non abiliterebbe invece il giudice
alla restituzione degli atti al pubblico  ministero  allorche'  dagli
atti  emerga  la  sussistenza  di  una  circostanza  aggravante   non
contestata, essendo l'eventuale provvedimento di restituzione in tale
ipotesi qualificato dalla giurisprudenza addirittura  in  termini  di
abnormita' (sono citate Corte di cassazione,  sezione  prima  penale,
sentenza 12 maggio 2015, n. 25882; sezione prima penale,  sentenza  5
luglio 2011, n. 30498; sezione  quarta  penale,  sentenza  25  giugno
2008, n. 31446). 
    1.2.- Il giudice  a  quo  dubita  della  compatibilita'  di  tale
interpretazione dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. con gli artt.
3 e 112 Cost. 
    Sotto   il   primo   profilo,   il   rimettente    ritiene    che
l'impossibilita'  di  procedere  alla  restituzione  degli  atti   al
pubblico ministero nel caso in cui emerga una circostanza  aggravante
non contestata abbia «l'effetto di ricondurre casi meno  gravi  a  un
regime sanzionatorio piu' pesante di quello riservato a casi di  pari
gravita' o addirittura piu' gravi». 
    Sotto  il  secondo  profilo,  il  principio  di   obbligatorieta'
dell'azione penale non dovrebbe  intendersi  limitato  agli  elementi
essenziali del fatto,  ma  dovrebbe  riguardare  anche  gli  elementi
circostanziali, tenuto conto dell'incidenza che la  loro  presenza  o
assenza ha sul complessivo trattamento sanzionatorio. 
    1.3.-  Evidente  risulterebbe,  pertanto,  la   rilevanza   delle
questioni prospettate, dato che il loro accoglimento  imporrebbe  nel
procedimento a quo la trasmissione degli atti al  pubblico  ministero
affinche' proceda alla rituale  contestazione  dell'aggravante  della
recidiva reiterata pluriaggravata anche a carico di M. C. 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate  inammissibili  e,
comunque, non fondate. 
    2.1.- Le questioni sarebbero anzitutto inammissibili per  difetto
di rilevanza, dal momento che nel giudizio abbreviato sarebbe esclusa
la possibilita'  di  procedere  alla  modificazione  dell'imputazione
ovvero alla contestazione di  una  nuova  circostanza  aggravante  ai
sensi degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen.,  la  cui  applicabilita'
sarebbe confinata alla fase dibattimentale. Sicche', pur  ipotizzando
che  questa  Corte  proceda  all'addizione  normativa  auspicata  dal
rimettente, la restituzione degli atti al pubblico ministero  sarebbe
comunque impossibile. 
    Inoltre, le questioni  risulterebbero  inammissibili  perche'  il
giudice a quo si sarebbe erroneamente  limitato  a  censurare  l'art.
521,  comma  2,  cod.  proc.  pen.,  «senza  considerare  il  dettato
dell'art. 522  codice  procedura  penale  riguardo  alla  sostanziale
equiparazione della circostanza aggravante al fatto nuovo e al  reato
concorrente rispetto alla rappresentata problematica del  difetto  di
contestazione penale». 
    2.2.- Nel merito, la censura formulata in riferimento all'art.  3
Cost. non sarebbe fondata, dal  momento  che  il  rimettente  avrebbe
omesso di «effettuare una ricognizione di sistema per valutare se gli
strumenti normativi a sua  disposizione  consentano  di  ripristinare
l'uguaglianza violata». In particolare, il giudice a quo avrebbe  ben
potuto escludere la recidiva reiterata contestata  a  M.  S.,  ovvero
riconoscere come sussistente la recidiva stessa, ma non applicare nei
suoi  confronti  alcun  aumento  di  pena,  o,  ancora,  operare   un
bilanciamento  tra   tale   aggravante   ed   eventuali   circostanze
attenuanti,  facendo  uso  sapiente  dei  poteri  discrezionali   che
presiedono alla commisurazione della pena ai sensi degli artt. 132  e
133 del codice penale; poteri che  avrebbero  consentito  al  giudice
perfino di infliggere una pena piu' severa all'imputato per il  quale
il pubblico ministero aveva richiesto un trattamento meno  severo  in
considerazione della mancata contestazione, nei suoi confronti, della
recidiva. 
    Quanto  poi  all'allegata   violazione   dell'art.   112   Cost.,
l'interveniente  esclude  che   il   principio   dell'obbligatorieta'
dell'azione  penale  comporti  un  dovere,  a  carico  del   pubblico
ministero, di «scandagliare ogni possibile contestazione in  astratto
elevabile rispetto al reato che intende perseguire». Non sarebbe  del
resto infrequente che il certificato del  casellario  giudiziale  non
sia aggiornato al momento del rinvio a giudizio, e che  solo  in  una
fase successiva i precedenti penali siano portati all'attenzione  del
giudice. Il che escluderebbe in radice che la  mancata  contestazione
della recidiva possa imputarsi al pubblico ministero. 
    In ogni caso, ad avviso  dell'interveniente,  sarebbe  «riservata
alle prerogative del PM la contestazione  di  circostanze  aggravanti
cui fa da contraltare il divieto per  il  giudice  di  sollecitare  o
autonomamente  ritenere  circostanze  aggravanti   non   oggetto   di
specifica contestazione». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice dell'udienza
preliminare del Tribunale  ordinario  di  Palermo  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt. 3  e  112  della  Costituzione,  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 521, comma  2,  del  codice  di
procedura penale, nella parte in  cui  non  prevede  che  il  giudice
disponga  con  ordinanza  la  trasmissione  degli  atti  al  pubblico
ministero quando accerta che risulta una circostanza  aggravante  non
oggetto di contestazione. 
    In sostanza, il rimettente sollecita questa Corte a una pronuncia
additiva, per effetto della quale il giudice dovrebbe  essere  tenuto
alla restituzione degli atti al pubblico ministero  non  solo  quando
risulti che il fatto sia «diverso» da  quello  contestato,  ma  anche
quando risulti dagli atti una circostanza aggravante  non  contestata
dal pubblico ministero. 
    2.- Le eccezioni sollevate dall'Avvocatura generale  dello  Stato
non sono fondate. 
    2.1.- Non e'  fondata,  anzitutto,  l'eccezione  secondo  cui  le
questioni sarebbero irrilevanti  dal  momento  che,  nell'ambito  del
giudizio abbreviato, il  pubblico  ministero  non  potrebbe  comunque
procedere alla contestazione di nuove circostanze aggravanti ai sensi
dell'art. 517 cod. proc. pen. 
    Contrariamente  a  quanto  sembra   ipotizzare   l'interveniente,
infatti, il  giudice  a  quo  non  mira  a  riaprire  l'udienza  e  a
sollecitare il pubblico ministero a procedere, in quella  sede,  alla
contestazione di nuove circostanze aggravanti - cio' che, secondo  la
giurisprudenza di legittimita' (Corte di  cassazione,  sezioni  unite
penali, sentenza 18 aprile 2019-13 febbraio 2020, n.  5788),  sarebbe
effettivamente  precluso  in  sede  di  giudizio   abbreviato   senza
richiesta di integrazioni probatorie, come nel caso di specie. 
    Il rimettente auspica, piuttosto, che  gli  sia  riconosciuta  la
possibilita' di restituire gli atti al pubblico  ministero  ai  sensi
dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen.,  affinche'  questi  proceda,
conformemente all'art. 335 cod. proc. pen., a  una  nuova  iscrizione
della notitia criminis e a un nuovo esercizio dell'azione penale  per
il  reato  correttamente  qualificato  dalla  circostanza  aggravante
originariamente non contestata. Il che ben potrebbe accadere, laddove
questa Corte accogliesse la questione di legittimita'  costituzionale
prospettata, anche nell'ambito del giudizio a quo, stante la pacifica
applicabilita' dell'art. 521 cod. proc. pen. al rito  abbreviato  (ex
plurimis, Corte di cassazione, sezione seconda  penale,  sentenza  21
febbraio 2019, n. 18566; Corte di cassazione, sezione seconda penale,
sentenza 18 dicembre 2012-9 gennaio 2013, n. 859). 
    2.2.- Neppure e' fondata la seconda eccezione di inammissibilita'
per carenza di rilevanza, formulata sull'assunto che  il  rimettente,
erroneamente, non avrebbe considerato il disposto dell'art. 522  cod.
proc. pen., che equiparerebbe la disciplina della nuova contestazione
di una «circostanza aggravante» a quella avente a oggetto  un  «fatto
nuovo» o un «reato concorrente». 
    In realta', l'art. 522 cod. proc. pen. si limita a  prevedere  la
nullita' soltanto parziale della sentenza di condanna pronunciata per
un fatto nuovo, per  un  reato  concorrente  o  per  una  circostanza
aggravante senza che siano state osservate le disposizioni in materia
di contestazioni suppletive, di cui agli artt. 516  e  seguenti  cod.
proc. pen. Contrariamente a quanto sembra  ritenere  l'interveniente,
l'art. 522 cod. proc. pen. non  sancisce  un  generale  principio  di
equiparazione di  trattamento  giuridico  fra  le  tre  ipotesi,  ne'
tantomeno tra queste e quella - oggetto delle  odierne  questioni  di
legittimita' costituzionale - del fatto «diverso»: ciascuna di queste
ipotesi e', in effetti, diversamente regolata dalle  disposizioni  in
questione, che disciplinano le contestazioni  suppletive  durante  il
processo e i poteri  del  giudice  in  sede  di  decisione.  Dal  che
discende tra l'altro, come correttamente osservato dal giudice a quo,
l'impossibilita' di estendere in via ermeneutica la  disposizione  in
questa sede censurata,  testualmente  riferita  al  fatto  «diverso»,
all'ipotesi  in  cui  risulti  al  giudice  la  sussistenza  di   una
circostanza  aggravante  (in  questo  senso,  ex  multis,  Corte   di
cassazione, sezione quarta  penale,  sentenza  13  ottobre  2021,  n.
44973; sezione prima penale, sentenza 12 maggio 2015, n.  25882;  con
specifico riferimento alla recidiva, sezione prima penale, sentenza 5
luglio 2011, n. 30498). 
    3.- Nel merito, la questione formulata con riferimento all'art. 3
Cost. non e' fondata. 
    3.1.- In proposito, occorre rammentare che, secondo  la  costante
giurisprudenza  di  questa  Corte,  il  legislatore  gode  di   ampia
discrezionalita' nella  configurazione  degli  istituti  processuali,
censurabile soltanto nei limiti della  manifesta  irragionevolezza  o
arbitrarieta' delle scelte operate (ex plurimis, sentenze n.  74  del
2022, n. 213 del 2021, n. 95, n. 79 e n. 58 del 2020). 
    Un tale standard di giudizio - particolarmente  rispettoso  della
discrezionalita' del legislatore - si impone anche allorche', come in
questo caso, vengano allegate dal rimettente irragionevoli disparita'
di trattamento, o  irragionevoli  equiparazioni  di  trattamento  tra
situazioni diseguali. La disciplina del processo e', infatti,  frutto
di delicati  bilanciamenti  tra  principi  e  interessi  in  naturale
conflitto  reciproco,  sicche'  ogni  intervento  correttivo  su  una
singola disposizione, volto ad assicurare una piu' ampia tutela a uno
di tali principi o  interessi,  rischia  di  alterare  gli  equilibri
complessivi del sistema. Cio' spiega perche' questa Corte sia  solita
esercitare una speciale cautela  nello  scrutinio  delle  censure  in
materia processuale fondate, in particolare, sull'art. 3 Cost. 
    3.2.- La premessa ermeneutica da cui muove il giudice rimettente,
relativa all'impossibilita' di estendere la disciplina dettata per il
fatto «diverso» all'ipotesi del fatto connotato  da  una  circostanza
aggravante non contestata dal pubblico ministero, e' invero corretta,
come  gia'  osservato  (supra,  punto  2.2.).  La  giurisprudenza  di
legittimita' ritiene, anzi, abnorme il provvedimento del giudice che,
rilevata  l'omessa  contestazione  della  recidiva  nell'imputazione,
restituisca gli atti al pubblico  ministero  affinche'  la  riformuli
(Cass., sentenza n. 30498 del 2011). In tale ipotesi il  giudice  non
potra' nemmeno ritenere esistente in base agli  atti  la  circostanza
non contestata, essendogli cio' precluso dall'art. 521, comma 1, cod.
proc. pen., e dovra' pertanto limitarsi a pronunciare condanna per il
fatto di reato  non  qualificato,  come  ritualmente  contestato  dal
pubblico ministero. 
    Il rimettente ritiene che tale diritto vivente sia produttivo  di
irragionevoli  differenze  di  trattamento   censurabili   al   metro
dell'art. 3 Cost., emblematicamente esemplificate dal caso di  specie
sottoposto al suo esame, in cui - a parita' di delitto commesso -  un
imputato  al  quale  e'  stata  ritualmente  contestata  la  recidiva
rischierebbe di essere punito  piu'  severamente  rispetto  ad  altro
imputato al quale la recidiva non e' stata  contestata  dal  pubblico
ministero,  nonostante   i   numerosi   precedenti   risultanti   dai
certificati del casellario giudiziale. 
    3.3.- Che la  soluzione  consacrata  dal  diritto  vivente  possa
produrre risultati come quello evidenziato dal giudice a quo  e',  in
effetti, innegabile. 
    Ne' e' possibile, come  suggerisce  l'Avvocatura  generale  dello
Stato,  sollecitare  il  giudice  a  far  uso   dei   propri   poteri
discrezionali nella commisurazione della pena per evitare  disparita'
di trattamento (ovvero l'eguale trattamento di situazioni  diseguali)
tra diversi imputati, per correggere l'eventuale omissione, da  parte
del pubblico ministero, della contestazione di circostanze aggravanti
a questo o quell'imputato. 
    Un tale suggerimento e', anzi, improprio,  dal  momento  che  una
circostanza aggravante non contestata all'imputato,  e  pertanto  non
oggetto  di  contraddittorio  tra  accusa  e  difesa,   deve   essere
considerata tamquam non esset per il giudice. Cio' vale anche,  e  in
special modo, per la recidiva,  che  pure  e'  fondata  sulla  previa
commissione di delitti accertati con sentenze  definitive  risultanti
per tabulas dai certificati del casellario  giudiziale,  giacche'  la
sua applicazione non e' mai obbligatoria: il che comporta il  preciso
onere  per  il  pubblico  ministero,  che  intenda  contestarla,   di
dimostrare, nel contraddittorio con l'imputato, che nel caso concreto
i reati da lui precedentemente commessi siano indicativi di  una  sua
maggiore colpevolezza e di una sua maggiore  pericolosita'  (sentenza
n. 120 del 2017, punto 2 del Considerato in diritto e precedenti  ivi
richiamati; nello stesso senso, ordinanza  n.  145  del  2018;  nella
giurisprudenza di legittimita', Corte di  cassazione,  sezioni  unite
penali, sentenza 24 febbraio 2011, n. 20798). 
    La  disciplina  in  questa  sede   censurata,   dunque,   implica
fisiologicamente la possibilita' di un trattamento sanzionatorio  del
condannato meno severo di quello che deriverebbe dall'applicazione di
circostanze aggravanti  ritenute  sussistenti  dal  giudice,  ma  non
contestate - consapevolmente, o anche per mera  disattenzione  -  dal
pubblico ministero; e, correlativamente, la possibilita' di  identici
trattamenti sanzionatori per imputati di  fatti  di  reato  analoghi,
alcuni dei quali  pero'  connotati  dalla  presenza  di  una  o  piu'
circostanze aggravanti, anche in questo caso rilevate dal giudice, ma
non contestate dal pubblico ministero. 
    3.4.- Queste possibili alterazioni della logica del principio  di
eguaglianza   nella   commisurazione   della   pena   sono,    pero',
l'altrettanto fisiologica conseguenza della regola  della  necessaria
correlazione tra accusa e sentenza, saldamente radicata  nel  sistema
del codice di  procedura  penale.  Come  da  tempo  questa  Corte  ha
evidenziato (sentenza n. 88 del 1994), tale  regola  di  sistema  e',
anzitutto, funzionale al corretto svolgersi del contraddittorio, e  a
garantire cosi' la pienezza del diritto di difesa  dell'imputato.  In
secondo  luogo,  essa  tutela  la  stessa  posizione   del   pubblico
ministero, che  l'ordinamento  vigente  -  imperniato  sul  principio
accusatorio - individua come esclusivo titolare  dell'azione  penale.
Infine, la regola assicura la posizione di terzieta' e  imparzialita'
del giudice rispetto alle opposte allegazioni delle parti:  posizione
che e' pur essa inscindibilmente legata  alla  logica  del  principio
accusatorio. 
    La regola in questione chiama il  giudice  a  pronunciarsi  sulla
responsabilita' dell'imputato per i soli fatti descritti nel capo  di
imputazione, o che siano stati oggetto delle eventuali  contestazioni
suppletive durante il processo, proprio perche'  unicamente  su  tali
fatti si e' svolto il contraddittorio tra le parti; ed esclude che il
giudice  possa  affermare  la  responsabilita'  dell'imputato   -   e
applicare la relativa sanzione, o frazione di sanzione  -  per  fatti
«nuovi»  o  «connessi»  non  ritualmente  contestati,  per  un  fatto
«diverso» da quello contestato, o ancora per  circostanze  aggravanti
anch'esse non oggetto di contestazione. 
    La disposizione di cui all'art. 521, comma 2, cod. proc. pen.  in
questa sede censurata e', in  effetti,  essa  stessa  espressione  di
questa regola, precludendo al giudice di condannare l'imputato per il
fatto che risulti dal compendio delle  prove,  ma  sia  «diverso»  da
quello descritto nell'imputazione. 
    Nell'ipotesi tuttavia in cui il giudice rilevi la presenza di  un
fatto «nuovo» - connesso o meno con  quello  contestato  -  ulteriore
rispetto  a  quello  oggetto  di  imputazione,  egli  puo'   comunque
pronunciare condanna per il  fatto  contestato  e  ritenuto  provato,
lasciando poi che sia il pubblico ministero a procedere eventualmente
per tale  ulteriore  fatto  di  reato  emerso  durante  il  processo.
Nell'ipotesi, invece, di fatto «diverso»  da  quello  contestato,  il
giudice dovrebbe limitarsi ad assolvere l'imputato; onde, in  assenza
di una disposizione come quella oggi censurata, al pubblico ministero
sarebbe precluso iniziare una nuova azione penale, per effetto  della
regola generale del ne bis in  idem  consacrata  dall'art.  649  cod.
proc. pen. Per evitare tale risultato, che condurrebbe alla  radicale
non punibilita' di un imputato che risulti comunque aver commesso  un
reato, seppur diverso da quello contestato  dal  pubblico  ministero,
l'art. 521, comma 2, cod. proc.  pen.  dispone  che  il  giudice,  in
questo caso, non definisca il processo attraverso  una  pronuncia  di
assoluzione, ma restituisca gli atti al  pubblico  ministero  perche'
questi possa procedere, se del caso, a un nuovo esercizio dell'azione
penale sulla base del fatto emerso in giudizio. 
    3.5.- Occorre a questo punto chiedersi se risulti  manifestamente
irragionevole, o addirittura arbitrario, non  estendere  tale  regola
anche al caso in cui risultino circostanze aggravanti del  fatto  non
contestate dal pubblico ministero. 
    In questa ipotesi, il giudice  e'  invero  tenuto  a  pronunciare
condanna  soltanto  per  il   fatto   contestato,   non   qualificato
dall'aggravante;  e  il  pubblico  ministero  non  avra'  poi  alcuna
possibilita' di "recuperare" tale aggravante ne' nei successivi gradi
di giudizio, ne', a fortiori, in un diverso giudizio, stante anche in
questo caso lo sbarramento del ne bis in idem. 
    Vi e' tuttavia  tra  le  due  ipotesi  la  differenza  essenziale
poc'anzi segnalata: in quella del fatto «diverso» il  giudice  -  ove
non potesse restituire gli atti al pubblico ministero - dovrebbe tout
court assolvere l'imputato; quando invece,  dopo  aver  accertato  la
commissione del  fatto  cosi'  come  contestato,  il  giudice  rileva
altresi' la presenza di una circostanza  aggravante  non  oggetto  di
contestazione, l'esito del giudizio resta comunque di condanna. 
    Naturalmente, il legislatore avrebbe potuto  prevedere  anche  in
questo caso la  possibilita'  per  il  giudice  di  non  definire  il
giudizio,  e  di  restituire  gli  atti  al  pubblico  ministero  per
consentirgli di procedere  a  una  nuova  contestazione,  comprensiva
dell'aggravante risultante dagli atti, si' da giungere -  al  termine
del nuovo processo -  all'applicazione  di  una  pena  corrispondente
anche nel quantum all'effettiva colpevolezza  dell'imputato.  Ma  una
simile soluzione avrebbe comportato la necessita' di regressione  del
procedimento alla fase delle indagini preliminari.  Soluzione  questa
che non e' mai indolore, dal punto di vista dei  molteplici  principi
costituzionali  in  gioco,  che  all'evidenza  includono   anche   il
principio - coessenziale al  diritto  alla  difesa  dell'imputato,  e
«connotato identitario della giustizia del processo» (sentenza n.  74
del  2022)  -  della  ragionevole  durata   del   processo,   sancito
all'unisono  dall'art.  111,  secondo  comma,  Cost.  e  dalle  carte
internazionali dei diritti. 
    La soluzione della restituzione degli atti al pubblico  ministero
affinche' riformuli l'imputazione  costituisce,  d'altra  parte,  una
deviazione dalla funzione essenziale del giudice -  che  l'art.  111,
secondo comma,  Cost.  esige  sia  «terzo  e  imparziale»,  e  dunque
equidistante da entrambe le parti - nell'ambito  del  processo.  Tale
funzione  consiste,  essenzialmente,  nell'assumere  come   dato   di
partenza la prospettazione accusatoria, per verificare  se  le  prove
assunte nel contraddittorio con la difesa - o comunque sulle quali la
difesa  ha  interloquito,  nell'ambito  del  giudizio  abbreviato   -
consentano di ritenere provata, oltre ogni ragionevole dubbio, quella
prospettazione; non gia'  in  quella,  in  certo  senso  inversa,  di
assicurare che la  prospettazione  accusatoria  venga  adeguata  alle
prove effettivamente assunte in giudizio, o comunque utilizzabili  ai
fini della decisione. 
    La scelta del legislatore e' stata, dunque, quella  di  calibrare
la regola della restituzione degli atti al pubblico ministero, con il
suo carico di allungamento dei tempi processuali, sulla sola  ipotesi
del fatto «diverso», in cui  la  definizione  del  giudizio  con  una
sentenza assolutoria determinerebbe la totale impunita'  di  chi  sia
risultato autore di  un  fatto  di  reato,  privilegiando  invece  le
ragioni di tutela della  ragionevole  durata  del  processo  e  della
posizione di terzieta' e imparzialita' del giudice nel  caso  in  cui
l'errore del pubblico ministero si ripercuota soltanto  sulla  misura
della pena da infliggere a un imputato  comunque  condannato  per  il
fatto di reato risultato provato in sede processuale. 
    A giudizio di questa Corte, tale scelta  individua  un  punto  di
equilibrio non implausibile tra gli opposti interessi e  principi  in
gioco, tutti di grande  rilievo  nel  vigente  sistema  del  processo
penale; ed e' in ogni caso ben lungi dal poter essere qualificata  in
termini di manifesta irragionevolezza o arbitrarieta'. 
    Ne consegue la non fondatezza della censura ex art. 3 Cost. 
    4.- Neppure e' fondata la doglianza di violazione  del  principio
di obbligatorieta' dell'azione penale di cui all'art. 112 Cost. 
    4.1.- Una risalente giurisprudenza di questa Corte  ha  affermato
che «[l]'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale  ad  opera
del Pubblico Ministero [...] e'  stata  costituzionalmente  affermata
come elemento che concorre a garantire, da  un  lato,  l'indipendenza
del Pubblico  Ministero  nell'esercizio  della  propria  funzione  e,
dall'altro, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge  penale»
(sentenza n. 84 del 1979). 
    Riprendendo e ampliando il secondo dei  corollari  enunciati,  la
successiva  sentenza  n.  88  del  1991  ha  osservato  che   «[p]iu'
compiutamente, il principio di legalita' (art.  25,  secondo  comma),
che rende doverosa la repressione  delle  condotte  violatrici  della
legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalita'
nel procedere; e questa, in un sistema come il  nostro,  fondato  sul
principio di eguaglianza di tutti i cittadini di  fronte  alla  legge
(in particolare, alla legge penale), non  puo'  essere  salvaguardata
che attraverso l'obbligatorieta' dell'azione penale». 
    Il principio di obbligatorieta' dell'azione penale da  parte  del
pubblico  ministero  e'  connesso,  dunque,  tanto  al  principio  di
eguaglianza quanto a quello di legalita' in materia  penale,  essendo
in definitiva funzionale alla garanzia di  un'uniforme  e  imparziale
applicazione della legge penale a tutti i suoi destinatari. 
    Per garantire  l'effettivita'  di  tale  principio  l'ordinamento
prevede vari meccanismi che assicurano il  controllo  di  un  giudice
sulle  decisioni  del  pubblico  ministero   relative   all'esercizio
dell'azione penale  o  ai  suoi  stessi  esiti  -  a  cominciare  dal
controllo del giudice per le indagini preliminari sulla richiesta  di
archiviazione (art. 409 cod. proc. pen.), alla necessita' di verifica
giudiziale sulla congruita' degli accordi  tra  imputato  e  pubblico
ministero in merito all'applicazione della pena  su  richiesta  (art.
448 cod. proc. pen.), sino, appunto, alla disciplina di cui  all'art.
521, comma 2, cod. proc. pen. in questa sede censurata,  che  prevede
la restituzione degli atti al pubblico ministero perche'  proceda  ad
un nuovo esercizio dell'azione penale, allorche' il  giudice  ritenga
che il fatto sia diverso da quello contestato. 
    Nonostante la fondamentale connotazione  accusatoria  del  nostro
sistema processuale, il pubblico ministero non e',  insomma,  dominus
assoluto dell'azione penale, essendo previste varie  possibilita'  di
intervento del giudice per  assicurare,  anche  contro  l'avviso  del
pubblico ministero, l'uniforme e imparziale applicazione della  legge
penale ai suoi destinatari, in omaggio alla  ratio  sottesa  all'art.
112 Cost. 
    4.2.- Tuttavia, anche nella configurazione dei presupposti e  dei
limiti di tali controlli non possono non riconoscersi ampi  spazi  di
manovra  al  legislatore,  il  quale  e'  -  come  si   e'   poc'anzi
sottolineato - chiamato a  un  delicato  bilanciamento  tra  i  molti
principi che entrano in gioco nel  processo  penale,  e  che  possono
porsi in conflitto rispetto alle stesse esigenze di assicurare  piena
tutela al principio di obbligatorieta' dell'azione penale, nel  senso
ampio appena precisato. 
    Anzitutto, il principio di obbligatorieta' dell'azione penale non
puo' essere ragionevolmente esteso sino al punto di negare  qualsiasi
spazio valutativo al pubblico ministero sulla concreta configurazione
dell'imputazione, nella quale egli e'  tenuto  a  enunciare  i  fatti
storici  corrispondenti  all'insieme   delle   fattispecie   astratte
contenute nelle disposizioni da cui dipende la  rilevanza  penale  di
una condotta - ivi comprese quelle configuranti circostanze, le quali
spesso  contengono  clausole  generali  o  requisiti   elastici   che
rimandano necessariamente ad apprezzamenti discrezionali di chi debba
applicare la norma, a cominciare appunto dal pubblico ministero. Cio'
e' tanto piu' vero con riguardo all'aggravante della recidiva, la cui
applicazione implica sempre - come si  e'  rammentato  (supra,  punto
3.3.)  -  valutazioni  discrezionali  sulla  significativita'   delle
precedenti condanne rispetto alla concreta  maggiore  colpevolezza  e
pericolosita' dell'imputato:  valutazioni  che  proprio  il  pubblico
ministero e' chiamato in prima battuta a compiere,  e  che  spettera'
poi al giudice convalidare una volta passate attraverso il filtro del
contraddittorio. 
    D'altra parte,  il  legislatore  non  puo'  non  preoccuparsi  di
garantire l'effettivita' del  diritto  di  difesa  dell'imputato,  il
quale - una volta  formulata  l'imputazione  da  parte  del  pubblico
ministero - ha un'ovvia aspettativa a  poter  articolare  la  propria
strategia difensiva  in  relazione,  appunto,  all'imputazione  cosi'
cristallizzata, e non ad eventuali imputazioni alternative emerse nel
corso del giudizio, anche solo in termini di  circostanze  aggravanti
non ritualmente contestategli dal pubblico ministero. 
    Infine, lo stesso ruolo del giudice non puo' essere inteso sino a
ricomprendere, per necessita' costituzionale, un penetrante sindacato
su tutte le scelte compiute dal pubblico ministero nella  descrizione
del fatto che costituisce il thema decidendum del giudizio penale. Un
tale sindacato finirebbe infatti per snaturare la stessa posizione di
terzieta' e imparzialita' del giudice, chiamato in linea di principio
- come poc'anzi osservato (supra, punto 3.5.)  -  a  giudicare  della
corrispondenza dei fatti provati a quelli ascritti  all'imputato  dal
pubblico ministero, e non gia' ad assicurare, in chiave collaborativa
con quest'ultimo, l'adeguamento dell'imputazione ai fatti provati. 
    4.3.- In definitiva, la disposizione censurata individua -  anche
sotto il profilo della sua compatibilita' con l'art.  112  Cost.  ora
all'esame - un punto di equilibrio nient'affatto irragionevole tra il
complesso dei principi e interessi sottesi al delicato meccanismo del
processo penale; con conseguente non fondatezza della censura.