ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 4,  comma  3
(recte: del combinato disposto degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5),
del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.  286  (Testo  unico  delle
disposizioni concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e  norme
sulla condizione dello straniero), promossi dal Consiglio  di  Stato,
sezione terza, con ordinanze del 1° luglio  e  del  23  giugno  2022,
iscritte, rispettivamente, ai numeri 97 e 99 del  registro  ordinanze
2022, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  38,
prima serie speciale, dell'anno 2022. 
    Visti l'atto di costituzione  di  N.  N.,  nonche'  gli  atti  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica e nella camera di  consiglio  del  22
febbraio 2023 il Giudice relatore Maria Rosaria San Giorgio; 
    uditi l'avvocato Massimo Auditore per N. N.  e  l'avvocato  dello
Stato Lorenzo D'Ascia per il Presidente del Consiglio dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 9 marzo 2023. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con due distinte ordinanze di contenuto analogo, iscritte  ai
numeri 97 e 99 del registro ordinanze 2022, il  Consiglio  di  Stato,
sezione terza, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo
comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 8 della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo, questioni di  legittimita'
costituzionale dell'art. 4,  comma  3,  del  decreto  legislativo  25
luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle  disposizioni  concernenti  la
disciplina  dell'immigrazione  e   norme   sulla   condizione   dello
straniero). 
    La disposizione e' censurata - quanto all'ordinanza  iscritta  al
n. 97 reg. ord.  2022  -  nella  parte  in  cui,  al  terzo  periodo,
richiamando tutti «i reati inerenti  gli  stupefacenti»,  include  la
fattispecie di cui all'art. 73, comma 5, del decreto  del  Presidente
della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle  leggi  in
materia di  disciplina  degli  stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,
prevenzione,  cura   e   riabilitazione   dei   relativi   stati   di
tossicodipendenza), tra quelle automaticamente ostative  al  rilascio
ovvero al rinnovo del permesso di soggiorno. 
    Analogamente,  la  stessa  disposizione  e'  censurata  -  quanto
all'ordinanza iscritta al n. 99 reg. ord. 2022 - nella parte  in  cui
prevede che il reato di cui all'art. 474 del codice penale, rubricato
«Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con  segni  falsi»,
sia automaticamente  ostativo  al  rilascio  ovvero  al  rinnovo  del
permesso di soggiorno. 
    1.1.- Nell'ambito del giudizio che ha dato luogo  alla  ordinanza
iscritta al n. 97 reg. ord. 2022, il giudice rimettente riferisce  di
dover decidere sull'appello proposto avverso la sentenza  17  gennaio
2019,  n.  39,  del  Tribunale  amministrativo  regionale  Lombardia,
sezione staccata di Brescia, che  ha  rigettato  il  ricorso  di  uno
straniero [ai sensi dell'art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998]
la cui istanza di rinnovo del permesso di soggiorno  per  lavoro  era
stata respinta dal Questore  di  Brescia  per  la  esistenza  di  una
sentenza di condanna del richiedente  alla  pena  di  mesi  cinque  e
giorni dieci di reclusione, oltre ad euro 600 di multa, per il  reato
di cui al comma 5 dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990  (rubricato
«Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze  stupefacenti
o psicotrope»). La  fattispecie  incriminatrice  richiamata  punisce,
«[s]alvo che il fatto costituisca piu' grave reato, chiunque commette
uno dei fatti previsti dal presente articolo che,  per  i  mezzi,  la
modalita' o le circostanze  dell'azione  ovvero  per  la  qualita'  e
quantita' delle sostanze, e' di lieve entita'»,  stabilendo  le  pene
della reclusione da sei mesi a quattro anni e  della  multa  da  euro
1.032 a euro 10.329. 
    Il  ricorso,  in  primo  grado,  era  stato  respinto,  ai  sensi
dell'art. 4, comma 3, del d.lgs. n.  286  del  1998,  a  causa  della
condanna per un «reato ostativo, pertanto automaticamente  preclusivo
al rilascio del rinnovo». Nel  giudizio  di  appello,  lo  straniero,
soccombente in  primo  grado,  ha  riproposto  «le  medesime  censure
dedotte in primo grado», concernenti la violazione sia degli artt.  4
e 5 del d.lgs. n.  286  del  1998,  «perche'  il  reato  non  sarebbe
sintomatico di pericolosita' sociale»,  sia  dell'art.  10-bis  della
legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia  di  procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti  amministrativi),
«in quanto, qualora il preavviso di rigetto fosse  stato  ritualmente
notificato, egli avrebbe potuto proporre le  necessarie  osservazioni
per dimostrare l'efficacia del radicamento nel tessuto sociale». 
    In punto di rilevanza,  il  Collegio  rimettente  -  premessa  la
sussistenza della propria giurisdizione  -  richiama  la  motivazione
della sentenza penale di condanna  dell'appellante,  pronunciata  dal
Tribunale ordinario di Milano per detenzione illecita di  «gr.  19.00
di sostanza stupefacente di tipo hascisch» e per successiva  cessione
di «grammi 1,50 della medesima  sostanza»  a  una  terza  persona,  e
rimarca che essa riguarda la fattispecie di  cosiddetto  «spaccio  di
lieve entita'», di cui, per l'appunto,  all'art.  73,  comma  5,  del
d.P.R. n. 309 del 1990. Il giudice a quo sottolinea che  l'appellante
«non ha legami familiari sul territorio italiano» e, di  conseguenza,
non e' a lui applicabile la "mitigazione"  dell'automatismo  prevista
dall'art. 5, comma 5, secondo periodo, del d.lgs. n. 286 del 1998  (a
norma del quale, «[n]ell'adottare il  provvedimento  di  rifiuto  del
rilascio, di revoca o di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno
dello straniero che ha  esercitato  il  diritto  al  ricongiungimento
familiare ovvero del familiare ricongiunto,  ai  sensi  dell'articolo
29, si tiene anche  conto  della  natura  e  della  effettivita'  dei
vincoli  familiari  dell'interessato  e  dell'esistenza   di   legami
familiari e sociali con il  suo  Paese  d'origine,  nonche',  per  lo
straniero gia' presente sul territorio nazionale, anche della  durata
del   suo   soggiorno   nel    medesimo    territorio    nazionale»).
L'amministrazione, pertanto, si trovava  vincolata  a  respingere  la
richiesta  di  rinnovo  del  permesso  di  soggiorno,   non   potendo
effettuare alcuna valutazione discrezionale circa le circostanze  del
caso concreto, neanche in merito alla tenuita' dei fatti che  avevano
condotto  alla  condanna  penale.  A  giudizio  del  rimettente,   ne
seguirebbe «inevitabilmente una  pronuncia  di  rigetto  dell'appello
[...] tanto piu' per l'irrilevanza della  pure  lamentata  violazione
dell'art. 10 bis l. 241/90». 
    Ne',  sempre   in   punto   di   rilevanza,   sarebbe   possibile
un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma, tale  da
valorizzare «la pericolosita'  in  concreto  del  fatto  delittuoso».
Simile   opzione   ermeneutica,   pur   talvolta    adottata    dalla
giurisprudenza, non sarebbe percorribile, sia per un limite di natura
letterale (in quanto il testo di legge «esclude che vi sia differenza
tra le fattispecie di reato richiamate», non venendo in  rilievo  ne'
il principio di offensivita' ne' la  previsione  dell'art.  133  cod.
pen.), sia perche' la  ricerca  del  «punto  di  equilibrio»  tra  il
diritto di soggiornare liberamente  sul  territorio  nazionale  e  il
diritto dei cittadini alla sicurezza nazionale  non  potrebbe  essere
rimessa al giudice, ma dovrebbe restare di esclusiva  competenza  del
legislatore. 
    Ancora, il rimettente esclude di poter percorrere la strada della
disapplicazione  della  norma   per   contrasto   con   l'ordinamento
dell'Unione europea. Premette  che  la  materia  dell'immigrazione  -
coinvolta dalle norme di cui Capo secondo del Titolo V  del  Trattato
sul funzionamento dell'Unione europea, come  modificato  dall'art.  2
del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato dalla  legge
2 agosto 2008, n. 130 - costituisce «un  tipico  caso  di  competenza
concorrente tra l'Unione Europea e gli  Stati  membri»,  si'  che  la
vicenda de qua andrebbe collocata «nella sfera  di  competenza  dello
Stato  italiano,  in  qualita'  di  Stato  membro»,  con  conseguente
«necessita' di proposizione del giudizio di  legittimita'»  da  parte
del giudice, il quale  non  potrebbe  «disapplicare  direttamente  la
norma». A fronte dell'evoluzione della giurisprudenza costituzionale,
in tema di concorrenza tra il rimedio della disapplicazione e  quello
del giudizio di legittimita' costituzionale, nel caso  di  specie  il
rimettente «ritiene  di  dover  investire  preliminarmente  la  Corte
Costituzionale», pur se le «norme  censurate  si  appalesano  viziate
tanto rispetto alla  Carta  Costituzionale  quanto  al  Trattato  sul
funzionamento dell'Unione Europea». 
    Quanto  alla  non   manifesta   infondatezza   della   questione,
nell'ordinanza  di  rimessione  si  richiama  l'evoluzione  che,  sul
principio  di  proporzionalita',  si  e'   registrata   nel   diritto
dell'Unione europea, in cui esso, da  canone  ermeneutico  utilizzato
dalla Corte di giustizia dell'Unione  europea,  si  e'  imposto  «nel
panorama dei principi  fondamentali  del  diritto  europeo»,  fino  a
trovare positivizzazione nell'art. 5 TFUE. 
    Accanto  alla  proporzionalita'  verrebbe,  poi,  in  rilievo  il
«concetto di ragionevolezza», da intendersi  nel  senso  di  coerenza
della norma con il fine perseguito. Ragionevolezza e proporzionalita'
starebbero  in  rapporto   di   interdipendenza,   nel   senso   che,
nell'esercizio   del   potere   (da   parte   del    legislatore    o
dell'amministrazione), alla  preliminare  valutazione  dell'interesse
deve seguire una misura che vi risponda  e  che  «abbia  il  corretto
punto di bilanciamento tra interessi inevitabilmente confliggenti». 
    Nella materia di cui si tratta, l'art. 4, comma 3, del d.lgs.  n.
286 del 1998 rappresenterebbe «il punto di equilibrio  raggiunto  dal
legislatore per la protezione del bene della  sicurezza  pubblica  di
fronte  al  quale  la  liberta'  di  soggiorno  del  singolo  diviene
recessiva». Le fattispecie di rilievo penale indicate  come  ostative
dalla  norma  -  osserva  il  rimettente   -   sarebbero,   tuttavia,
«disomogenee tra loro in  termini  di  condotta,  di  bene  giuridico
protetto, di  limiti  edittali  di  trattamento  sanzionatorio  e  di
allarme sociale», e sarebbero tali da parificare, dal punto di  vista
della sanzione amministrativa applicata, reati gravi, come l'omicidio
volontario, ad altri di  ben  minore  portata,  come  quello  di  cui
all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990. 
    Il rimettente ricorda, in proposito,  che  la  giurisprudenza  di
questa   Corte,   pur   riconoscendo    al    legislatore    un'ampia
discrezionalita' nella regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno
dello straniero nel territorio nazionale, ha precisato  trattarsi  di
una  discrezionalita'  non   assoluta,   «dovendo   rispecchiare   un
ragionevole e proporzionato bilanciamento di tutti i  diritti  e  gli
interessi coinvolti» (e' citata la sentenza di questa  Corte  n.  202
del 2013). L'automatismo ostativo, basato su una presunzione assoluta
di pericolosita', ben potrebbe ritenersi giustificato, purche' sia il
frutto di un «bilanciamento, ragionevole  e  proporzionato  ai  sensi
dell'art. 3 Cost.», e non risulti arbitrario come accade quando  «sia
agevole [...] formulare ipotesi di accadimenti  reali  contrari  alla
generalizzazione posta  alla  base  della  presunzione  stessa»  (con
richiamo, ancora, alla sentenza n. 202 del 2013). 
    Il Collegio rimettente e' consapevole del dictum  della  sentenza
n. 148 del 2008, con la quale  questa  Corte  si  e'  espressa  sulla
«tenuta costituzionale» dell'art. 4, comma 3, del d.lgs. n.  286  del
1998,  giudicando  non  irragionevole   la   scelta   di   accomunare
fattispecie  di  reato  ontologicamente  diverse.  Cionondimeno,  «in
considerazione dell'evoluzione che  la  stessa  giurisprudenza  della
Corte Costituzionale  ha  maturato  negli  ultimi  anni  in  tema  di
proporzionalita' della pena», ritiene che quella decisione possa oggi
essere rivista, soprattutto alla luce della  successiva  sentenza  di
questa Corte n. 172 del 2012, che ha  ritenuto  non  compatibile  con
l'art. 3 Cost. la disciplina della «procedura di emersione del  2009»
(di cui all'art. 1-ter, comma 13, lettera  c,  del  decreto-legge  1°
luglio 2009, n. 78, recante «Provvedimenti anticrisi, nonche' proroga
di termini», convertito, con modificazioni, in legge 3  agosto  2009,
n.  102),  in   quanto   limitava   il   sindacato   della   pubblica
amministrazione non permettendo la valutazione della pericolosita' in
concreto del cittadino straniero. 
    Privare l'amministrazione del potere di  valutare  la  situazione
concreta costituirebbe un  rimedio  non  necessario,  vieppiu'  nella
cornice  legislativa  che  parifica  «fattispecie  di  reato  che  si
connotano per violenza, efferatezza, condotte  contrarie  alla  vita,
all'incolumita' fisica e psichica, alla liberta' sessuale (quali, tra
gli altri, reati di omicidio, violenza sessuale,  atti  sessuali  con
minorenni)», con un reato, quale quello ex  art.  73,  comma  5,  del
d.P.R. n. 309 del 1990, che  «ancorche'  suscettibile  di  essere  un
potenziale pericolo per beni di  interesse  rilevantissimo  [...]  lo
stesso legislatore [...]  ha  ritenuto  meno  grave,  prevedendo  una
collocazione topografica autonoma, un trattamento sanzionatorio  piu'
mite  e  un  conseguente  regime  processuale  differenziato».   Tale
disposizione -  prosegue  il  rimettente  -  delinea  quella  che  la
giurisprudenza della Corte di cassazione  ha  qualificato  come  «una
ipotesi autonoma di reato» che, ai  sensi  dell'art.  380,  comma  2,
lettera h), del codice di procedura penale, costituisce  un'eccezione
alle  ipotesi  di  arresto  obbligatorio  in  flagranza   di   reato;
situazione, quest'ultima, che dunque contrasterebbe con la scelta del
legislatore  di  individuare  tale  ipotesi  di  reato   tra   quelle
automaticamente ostative al rilascio o al  rinnovo  del  permesso  di
soggiorno. 
    Del resto,  alcune  condotte  di  reato  inerenti  alle  sostanze
stupefacenti  non  sarebbero  piu'  sintomatiche,  ormai,   di   quel
necessario grado di «pressing social need» che rende proporzionata la
misura. 
    In definitiva, l'automatismo previsto dalla norma  censurata  non
potrebbe dirsi «misura necessaria ovvero  idonea  alla  tutela  della
sicurezza pubblica», ne' «proporzionata in senso stretto», in  quanto
risulterebbe «troppo pregiudizievole della sfera del privato il quale
non puo' addurre alcun  elemento  relativo  al  proprio  percorso  di
integrazione   socio-lavorativa   che   possa   essere    preso    in
considerazione dall'amministrazione la  quale  si  vede  costretta  a
rigettare l'istanza». 
    L'esclusione della fattispecie di cui all'art. 73, comma  5,  del
d.P.R. n. 309 del 1990 dal novero dei reati ostativi non  produrrebbe
l'automatico rilascio ovvero rinnovo del permesso  di  soggiorno,  ma
«[f]avorirebbe unicamente il rapporto tra pubblica amministrazione  e
cittadino  straniero»,  consentendo  alla  prima  di  considerare  la
situazione fattuale del secondo. 
    Quanto  al  parametro  dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  in
relazione  all'art.  8  CEDU,   il   Collegio   rimettente   richiama
l'attenzione sul profilo della «protezione della vita  privata»  che,
nella giurisprudenza  della  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo,
attiene «all'identita' fisica e sociale della persona umana e non  e'
suscettibile di una definizione esaustiva» e finisce per tutelare «il
diritto allo sviluppo personale, inteso come personalita' o autonomia
personale comprendendo il diritto ad una vita sociale privata  e,  in
via piu' generale, il  diritto  a  partecipare  alla  crescita  della
societa'». 
    1.2.- Con l'ordinanza iscritta  al  n.  99  reg.  ord.  2022,  il
Consiglio di Stato riferisce di dover decidere sull'appello  promosso
contro una sentenza del TAR Liguria che ha respinto il ricorso di uno
straniero al quale l'amministrazione  aveva  negato  il  rinnovo  del
permesso di soggiorno per lavoro in  considerazione  delle  «numerose
denunce», a carico del richiedente, per ricettazione e per  commercio
di prodotti con marchi falsi, nonche' della  condanna,  dallo  stesso
riportata e pronunciata con decreto penale (non opposto  e  divenuto,
quindi, irrevocabile), alla pena di euro  2.350,00  di  multa  per  i
reati di cui agli artt. 474 e 648 cod. pen., per vendita di merci con
marchio contraffatto. 
    Osserva il rimettente che la sentenza di rigetto, emessa dal  TAR
Liguria, «ha ritenuto il  provvedimento  di  diniego  legittimo»,  ai
sensi dell'art. 4, comma 3, del d.lgs. n.  286  del  1998,  rilevando
l'esistenza sia del decreto penale di condanna  irrevocabile,  per  i
reati di cui agli artt. 474 e 648  cod.  pen.,  sia  delle  «numerose
denunce per gli stessi reati», e giudicando, per l'effetto, «logica e
razionale la valutazione di pericolosita'  del  ricorrente  ai  sensi
dell'art. 1, lett. a), d.lgs. n. 159 del 2011». 
    In punto di rilevanza, il rimettente -  premessa  la  sussistenza
della propria giurisdizione, e precisato, anche in questo  caso,  che
l'appellante «non ha legami  familiari  sul  territorio  italiano»  -
riferisce che la sentenza penale di condanna e' stata pronunziata sia
in relazione al reato di cui all'art. 474  cod.  pen.  («Introduzione
nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi») - poiche'  egli
poneva in vendita,  o  comunque  deteneva  per  la  vendita,  diversi
oggetti con marchio contraffatto,  tra  i  quali  giubbotti,  scarpe,
magliette, felpe - sia  a  quello  di  cui  all'art.  648  cod.  pen.
(«Ricettazione»), «perche', al fine di procurarsi un profitto», e  di
eseguire  il  reato  di  cui  all'altro  capo  di  imputazione,  egli
«acquistava o comunque riceveva gli oggetti di cui al  medesimo  capo
provenienti dal delitto di contraffazione dei  relativi  marchi».  La
condanna, dunque, e' stata pronunciata per  entrambe  le  fattispecie
delittuose, sia ex art. 474 cod. pen., sia ex artt. 648 e 61,  numero
2), cod. pen. 
    La  condanna  per  ricettazione,  precisa  l'ordinanza,  «non  e'
annoverabile [...] tra  le  ipotesi  di  reato  ostativo»,  ai  sensi
dell'art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, in  quanto  l'unica
fattispecie ostativa di ricettazione ivi contemplata,  attraverso  il
richiamo all'art. 380, comma 2, lettera f-bis), cod. proc.  pen.,  e'
quella aggravata, prevista dal secondo periodo del comma 1  dell'art.
648 cod. pen., ipotesi che non ricorre nel caso di specie. Viceversa,
portata ostativa  ai  sensi  del  citato  art.  4,  comma  3,  e'  da
riconoscere alla condanna per il reato di cui all'art. 474 cod. pen.,
con la conseguenza che ne deriverebbe «inevitabilmente una  pronuncia
di rigetto dell'appello, con contestuale conferma della  sentenza  di
primo grado,  tanto  piu'  per  l'irrilevanza  della  pure  lamentata
violazione dell'art. 10 bis». 
    Anche in questo  caso,  sarebbe  impraticabile,  a  giudizio  del
rimettente,   una   «interpretazione   costituzionalmente   conforme»
dell'art. 4, comma 3, del d.lgs.  n.  286  del  1998,  nel  senso  di
«valorizzare la pericolosita'  in  concreto  del  fatto  delittuoso».
Simile soluzione e' stata adottata in passato  dalla  giurisprudenza,
anche da parte della medesima  sezione  rimettente,  valorizzando  la
«tenuita' del fatto di reato» (ad esempio, nel caso di «detenzione di
n. 3 paia di jeans contraffatti»), ossia per fattispecie nelle quali,
«secondo l'id quod plerumque accidit», non  puo'  ritenersi  superata
quella «soglia di  pericolosita'  sociale  che  attiva  l'automatismo
previsto dalla norma». Di seguito, il rimettente argomenta  la  ratio
di  questa  soluzione  ermeneutica,  e  quindi  anche  la   sua   non
percorribilita'  nella  specie,  in  termini   del   tutto   analoghi
all'ordinanza iscritta al n. 97 reg. ord. 2022. 
    Anche le successive argomentazioni, riguardanti  l'impossibilita'
- a giudizio del rimettente - di disapplicare la norma  in  questione
per contrarieta' al diritto dell'Unione europea, ripercorrono  quelle
svolte nella suddetta ordinanza. 
    Riguardo alla non manifesta infondatezza, il Collegio  rimettente
opera una generale ricostruzione dei principi di  proporzionalita'  e
di ragionevolezza, alla stregua della giurisprudenza costituzionale e
di quella della Corte di giustizia UE e della  Corte  EDU,  e  ne  fa
derivare gli argomenti a sostegno  della  questione  di  legittimita'
costituzionale in  termini  del  tutto  coincidenti  con  l'ordinanza
iscritta al n. 97 reg. ord. 2022. 
    Con specifico riguardo alla fattispecie di reato di cui  all'art.
474  cod.  pen.,  nell'ordinanza  di  rimessione  si  sottolinea  che
«l'esigenza  di  sicurezza  e  tranquillita'   pubblica»,   all'epoca
valutata dal legislatore quando quel reato fu inserito  nel  catalogo
delle fattispecie autonomamente ostative al rilascio e/o  al  rinnovo
del permesso di soggiorno,  sarebbe  ormai  «progressivamente  venuta
meno», sia avuto riguardo alla netta diminuzione delle denunce («piu'
che dimezzate nel 2020»), sia in considerazione della  «residualita'»
dell'ipotesi ostativa in  esame:  cio',  potendosi  far  applicazione
dell'art. 131-bis  cod.  pen.  (che  esclude  la  punibilita'  quando
l'offesa e' di particolare tenuita'). A fronte di tale  possibilita',
secondo il rimettente, sarebbe «irragionevole sostenere»  che  questa
fattispecie incriminatrice possa ritenersi «connotata da  particolare
allarme sociale». Ne deriverebbe che la scelta  del  legislatore,  ai
fini dell'ostativita' automatica ex art. 4, comma 3,  del  d.lgs.  n.
286  del  1998,  di  «parificare»  questo  reato  minore  con   altre
fattispecie che «si connotano  per  violenza,  efferatezza,  condotte
contrarie alla vita, all'incolumita' fisica e psichica, alla liberta'
sessuale» sarebbe «contrari[a] al canone della proporzionalita'».  Al
contrario, l'esigenza di pubblica sicurezza  meglio  potrebbe  essere
tutelata se fosse riconosciuto,  all'amministrazione,  il  potere  di
procedere ad una valutazione in concreto delle singole situazioni. 
    2.- In entrambi  i  giudizi  e'  intervenuto  il  Presidente  del
Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso   dall'Avvocatura
generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilita' e, comunque,
per la non fondatezza delle questioni. 
    La difesa statale precisa, in punto di fatto, che gli  appellanti
dei giudizi a quibus non sono soggiornanti di lungo periodo, per  cui
essi non potrebbero beneficiare  delle  previsioni  dell'art.  9  del
d.lgs. n. 286 del 1998,  norma  che  esclude  l'automatismo  ostativo
delle condanne penali proprio per coloro che  siano  in  possesso  di
tale permesso di soggiorno. 
    Nel merito, le questioni sarebbero  non  fondate.  Il  precedente
specifico di questa Corte (la sentenza n. 148 del 2008) non  potrebbe
considerarsi superato - a  giudizio  dell'Avvocatura  generale  dello
Stato - dal recente orientamento in tema  di  proporzionalita'  della
pena. Cio', in quanto la misura del diniego di rilascio o di  rinnovo
del permesso  di  soggiorno  non  avrebbe  natura  sanzionatoria  ne'
costituirebbe  una  misura  restrittiva  di  liberta'   fondamentali.
Nemmeno si configurerebbe alcuna interferenza con la vita  privata  e
familiare dell'interessato, ai sensi dell'art. 8 CEDU. 
    L'interveniente osserva che l'art. 4, comma 3, del d.lgs. n.  286
del   1998   individua   «specifici   reati»   che,   per   le   loro
caratteristiche, «creano un particolare allarme sociale a prescindere
dall'intensita' del disvalore penale», in cio'  distinguendosi  dalla
previsione dell'art. 1-ter, comma 12 (recte: comma 13),  lettera  c),
del d.l. n. 78 del 2009, come convertito, ritenuta  irragionevole  da
questa Corte con la sentenza n. 172 del 2012 a causa del  suo  rinvio
generalizzato a tutti i reati di cui all'art.  381  cod.  proc.  pen.
Inoltre,  il  giudice  rimettente  non  avrebbe  considerato  che  il
complessivo sistema normativo consente  all'interessato  di  chiedere
all'amministrazione di valutare la propria condizione personale, come
previsto dall'art. 19, comma 1.1., del d.lgs. n. 286  del  1998,  nel
testo sostituito dall'art. 1, comma 1, lettera  e),  numero  1),  del
decreto-legge 21  ottobre  2020,  n.  130  (Disposizioni  urgenti  in
materia di immigrazione, protezione internazionale  e  complementare,
modifiche agli articoli 131-bis, 391-bis, 391-ter e  588  del  codice
penale, nonche' misure in materia di divieto di accesso agli esercizi
pubblici  ed  ai  locali  di  pubblico  trattenimento,  di  contrasto
all'utilizzo distorto del web e di disciplina del  Garante  nazionale
dei  diritti  delle  persone  private  della   liberta'   personale),
convertito, con modificazioni, in legge 18 dicembre 2020, n. 173. 
    In  sostanza,  osserva  l'interveniente,   la   conformita'   del
provvedimento  espulsivo  dello  straniero  rispetto  all'ordinamento
sovranazionale, «ivi incluso l'art. 8 della Convenzione  europea  dei
diritti dell'uomo», formerebbe  senz'altro  oggetto  di  valutazione,
proprio nell'ambito delle verifiche imposte dalla  novella  normativa
appena richiamata. La Corte EDU, del resto, avrebbe riconosciuto agli
Stati «il diritto [...] di  controllare  l'ingresso  e  il  soggiorno
degli stranieri»  nel  territorio  nazionale  e,  in  tale  contesto,
avrebbe affermato che il richiamato art. 8  non  prevede  un  diritto
assoluto per qualsiasi categoria di stranieri a non essere espulsi  o
estradati,  dovendo   invece   verificarsi,   nello   specifico,   se
l'espulsione o l'estradizione diano luogo a una violazione della vita
familiare o privata dell'interessato. Si ricorda che, nel valutare la
nozione di «vita privata e familiare» dello straniero, la  Corte  EDU
richiede un elevato grado di integrazione  sociale  dell'interessato,
specie alla luce di  un  lungo  periodo  vissuto  nel  territorio  in
questione (e' richiamata la sentenza della grande camera,  9  ottobre
2003, Slivenko contro Lettonia); le fattispecie oggetto dei giudizi a
quibus sarebbero del tutto diverse, dal momento che nessuno  dei  due
appellanti ha vincoli familiari in Italia,  ne'  ha  il  permesso  di
soggiornante di lungo periodo, «ne' e' emerso dalla documentazione in
atti un [loro] elevato livello di integrazione sociale». 
    In ogni caso, conclude l'Avvocatura generale dello Stato, anche a
voler ritenere che la misura in discussione  rientri  nell'ambito  di
applicazione  dell'art.  8  CEDU,  la  stessa  risponderebbe  «a  una
necessita' propria di una societa' democratica, come declinata  dalla
giurisprudenza della Corte europea  dei  diritti  dell'uomo,  che  ha
riconosciuto  un  ampio   margine   di   apprezzamento   agli   Stati
contraenti». I reati in materia di stupefacenti «sono sicuramente tra
quelli che comportano uno dei maggiori allarmi sociali»,  senza  che,
ai  fini  della  portata  ostativa  della  condanna,  possa  assumere
particolare rilevanza  l'entita'  della  pena  inflitta,  come  anche
riconosciuto dalla Corte EDU. Ne' potrebbe trascurarsi il  fatto  che
il   legislatore,   nel   suo   margine   di   apprezzamento,   possa
«ragionevolmente aver ritenuto  che  tutti  i  reati  in  materia  di
stupefacenti,   senza    distinzioni    rimettibili    al    giudizio
dell'autorita' amministrativa», cosi' come il reato ex art. 474  cod.
pen., «destano  un  livello  di  allarme  sociale  incompatibile  con
l'ingresso o il soggiorno dello straniero».  Anzi,  con  riguardo  al
reato ex art. 474  cod.  pen.,  proprio  l'ordinanza  di  rimessione,
mediante i dati di criminalita' che essa cita, «sembra confermare che
la finalita' anche preventiva perseguita dal legislatore  stia  dando
risultati positivi rispetto al dilagare di detto fenomeno criminoso e
che la norma censurata non possa quindi considerarsi irragionevole  o
sproporzionata rispetto allo scopo perseguito». 
    3.- Nel giudizio di cui all'ordinanza iscritta al n. 99 del  reg.
ord. 2022, si e' altresi' costituito N. N., appellante nel giudizio a
quo, sostenendo le ragioni dell'accoglimento. 
    Preliminarmente, egli sottolinea  che,  nell'originaria  versione
dell'elenco dei reati ostativi di cui all'art. 4, comma 3, del d.lgs.
n. 286 del 1998, non figurava la fattispecie dell'art. 474 cod.  pen.
Essa fu introdotta solo con la legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica
alla normativa in  materia  di  immigrazione  e  di  asilo),  che  la
inseri',  tuttavia,  come  nuovo  comma  7-bis,   all'interno   delle
previsioni di cui all'art. 26 del d.lgs. n. 286 del 1998, relative al
permesso di  soggiorno  per  lavoro  autonomo.  Successivamente,  per
evitare disparita' di trattamento rispetto ai titolari di permesso di
soggiorno per lavoro, la disposizione fu inserita  all'interno  della
norma generale di cui all'art. 4, comma 3.  Cio'  testimonierebbe  la
diversita' di origine e di esigenza che la previsione  del  reato  di
cui all'art. 474 cod. pen., come ostativo, ha assunto  rispetto  alla
previsione delle altre fattispecie di cui all'art. 4, comma 3. 
    Del resto - si aggiunge -  l'ostativita'  del  reato  di  cui  si
tratta, cancellata dalla normativa sulla "sanatoria"  dei  lavoratori
stranieri irregolari del 2009  ad  opera  di  questa  Corte  (con  la
richiamata sentenza n. 172 del 2012), non  e'  stata  riprodotta  dal
legislatore nemmeno nelle due successive discipline sulla  cosiddetta
emersione, di cui - rispettivamente - all'art. 5, comma  13,  lettera
c), del decreto legislativo 16 luglio 2012, n. 109 (Attuazione  della
direttiva 2009/52/CE che introduce norme minime relative a sanzioni e
a provvedimenti nei confronti  di  datori  di  lavoro  che  impiegano
cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno e' irregolare), e  all'art.
103, comma 10, lettera c), del decreto-legge 19 maggio  2020,  n.  34
(Misure  urgenti  in  materia  di  salute,  sostegno  al   lavoro   e
all'economia, nonche' di  politiche  sociali  connesse  all'emergenza
epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, in  legge
17 luglio 2020, n. 77. 
    Sembrerebbe, allora, del tutto irragionevole che  uno  straniero,
pur condannato ai sensi dell'art. 474  cod.  pen.,  ma  ammesso  alla
regolarizzazione proprio per effetto delle norme da ultimo citate,  e
quindi in possesso di regolare  permesso  di  soggiorno  per  lavoro,
possa poi incorrere nel rifiuto del rinnovo  di  tale  permesso  solo
perche' gia' condannato per quello stesso  precedente  penale;  che',
anzi, nel frattempo, tale precedente, e quindi la stessa  commissione
del  fatto,  «sono  diventati   piu'   risalenti,   e   quindi   meno
significativi in ordine alla valutazione  (della  pericolosita')  del
soggetto», il quale, trascorsi gli anni del soggiorno «"in sanatoria"
si sara', a quel punto, maggiormente integrato, verosimilmente  avra'
in corso attivita' lavorativa e quant'altro». Dal che,  un  ulteriore
profilo di "palese irragionevolezza" della normativa in esame. 
    Quanto precede - a giudizio della  parte  costituita  -  potrebbe
forse  condurre,  anziche'  a  una  declaratoria  di   illegittimita'
costituzionale  dell'art.  4,  comma   3,   a   una   possibile   sua
interpretazione "correttiva", nel senso  di  ritenere  implicitamente
abrogata la norma in questione nella parte in cui fa  riferimento  ai
reati - in particolare,  all'art.  474  cod.  pen.  -  per  i  quali,
nell'arco di oltre un decennio, e' stata resa  possibile  l'emersione
dal lavoro irregolare. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Consiglio di Stato, sezione terza, con  due  ordinanze  di
analogo tenore,  solleva  questioni  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in  cui
prevede che il reato di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R.  n.  309
del 1990 (nel caso della ordinanza iscritta al n. 97 reg. ord. 2022),
nonche' il reato di cui  all'art.  474  cod.  pen.  (nel  caso  della
ordinanza iscritta al n. 99 reg.  ord.  2022)  siano  automaticamente
ostativi al rilascio ovvero al rinnovo del permesso di soggiorno. 
    Il giudice  rimettente  e'  chiamato  a  decidere,  in  grado  di
appello, sulla  legittimita'  di  due  provvedimenti  di  diniego  di
rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro che sono stati
adottati, dall'amministrazione  competente,  in  conseguenza  di  una
sentenza di condanna a carico dei rispettivi richiedenti. In entrambe
le ordinanze di rimessione si precisa che il titolare del permesso di
soggiorno  da  rinnovare  non  ha  legami  familiari  sul  territorio
nazionale, sicche' non  risulta  applicabile  la  previsione  di  cui
all'art. 5, comma 5, secondo periodo, del d.lgs. n. 286 del 1998, che
"mitiga"  l'automatismo  censurato   imponendo   all'amministrazione,
allorche' il procedimento riguardi uno «straniero [ai sensi dell'art.
1, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998] che ha esercitato il  diritto
al ricongiungimento familiare» ovvero il «familiare  ricongiunto»,  o
(per effetto della sentenza di questa Corte  n.  202  del  2013)  uno
straniero «che abbia legami familiari nel territorio dello Stato», di
tenere conto «della natura e della effettivita' dei vincoli familiari
dell'interessato e dell'esistenza di legami familiari e  sociali  con
il suo Paese d'origine, nonche', per lo straniero gia'  presente  sul
territorio nazionale,  anche  della  durata  del  suo  soggiorno  nel
medesimo territorio nazionale». 
    Il  rimettente  dubita  della  legittimita'  costituzionale   del
descritto automatismo per violazione  degli  artt.  3  e  117,  primo
comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 8 CEDU,  censurando,
in particolare, il contrasto con i canoni di  proporzionalita'  e  di
ragionevolezza. A suo giudizio il legislatore, con una scelta «troppo
pregiudizievole della sfera del privato», avrebbe equiparato,  quanto
all'effetto ostativo  al  rilascio  o  al  rinnovo  del  permesso  di
soggiorno, fattispecie di minore entita' (pur  penalmente  rilevanti)
«con reati  gravi,  quali,  ad  esempio,  l'omicidio  e  la  violenza
sessuale», e avrebbe cosi' determinato un sacrificio della  posizione
giuridica dello straniero «che  non  risponde  a  necessita'  e  puo'
risultare,  in  taluni  casi,  ingiustificatamente   discriminatorio»
ovvero «eminentemente sproporzionato». 
    2.- Le questioni sollevate dalle due ordinanze di  rimessione  si
prestano a essere definite  con  un'unica  sentenza,  riguardando  la
medesima  disposizione,  censurata  con   riferimento   agli   stessi
parametri  costituzionali  e  convenzionali.  I  due  giudizi  devono
pertanto essere riuniti. 
    3.-  Preliminarmente,  deve  darsi  atto  di  una  sopravvenienza
legislativa, rispetto al quadro normativo vigente  al  momento  della
pubblicazione delle ordinanze di rimessione. 
    L'art. 7, comma 1, lettera c), n. 1, del decreto-legge  10  marzo
2023, n. 20 (Disposizioni urgenti in materia di  flussi  di  ingresso
legale  dei  lavoratori  stranieri  e  di  prevenzione  e   contrasto
all'immigrazione irregolare), convertito,  con  modificazioni,  nella
legge 5 maggio 2023, n. 50, sotto la  rubrica  «Protezione  speciale,
vittime del reato di costrizione  o  induzione  al  matrimonio,  cure
mediche e calamita' naturali», ha soppresso  il  terzo  e  il  quarto
periodo del comma 1.1. dell'art. 19 del d.lgs. n. 286 del  1998,  che
cosi' recitavano: «[n]on sono altresi'  ammessi  il  respingimento  o
l'espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano  fondati
motivi di ritenere  che  l'allontanamento  dal  territorio  nazionale
comporti una violazione  del  diritto  al  rispetto  della  sua  vita
privata e familiare, a meno che esso sia necessario  per  ragioni  di
sicurezza nazionale,  di  ordine  e  sicurezza  pubblica  nonche'  di
protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa  allo
statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra  il  28  luglio  1951,  resa
esecutiva dalla legge 24 luglio 1954,  n.  722,  e  della  Carta  dei
diritti fondamentali dell'Unione europea. Ai fini  della  valutazione
del rischio di violazione di cui  al  periodo  precedente,  si  tiene
conto  della  natura  e  della  effettivita'  dei  vincoli  familiari
dell'interessato, del suo effettivo inserimento  sociale  in  Italia,
della durata del  suo  soggiorno  nel  territorio  nazionale  nonche'
dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali  con  il  suo
Paese d'origine». 
    Il  richiamato  ius  superveniens,  peraltro,  non  determina  la
necessita' di restituire gli atti al giudice rimettente per una nuova
valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza  della
questione  di  legittimita'  costituzionale  sollevata,  non   avendo
incidenza immediata sulla disposizione censurata, tenuto conto che lo
stesso art. 7, comma 2,  stabilisce  espressamente  che  continua  ad
applicarsi la normativa previgente per le  istanze  presentate  prima
dell'entrata in vigore del d.l. n.  20  del  2023,  come  convertito,
nonche' «nei casi in cui lo straniero abbia  gia'  ricevuto  l'invito
alla presentazione dell'istanza da parte della Questura competente». 
    4.- Va altresi' premesso che  l'odierno  thema  decidendum,  come
delineato dalle ordinanze di rimessione, si  limita  a  quella  parte
della formulazione dell'art. 4, comma 3, terzo e quarto periodo,  del
d.lgs. n. 286 del 1998 che coinvolge nell'automatismo i reati di  cui
all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 e  di  cui  all'art.
474 cod. pen., per i quali sono state  pronunciate  le  condanne  che
assumono rilievo nei giudizi a quibus. 
    Va anzi precisato, quanto alla fattispecie di  cui  all'art.  474
cod. pen., che a essere rilevante e',  nella  specie,  unicamente  il
reato previsto e punito dal secondo comma di tale  disposizione,  che
incrimina  il  commercio  di   prodotti   con   segni   contraffatti:
l'appellante, infatti, e' stato condannato solo per  la  condotta  di
vendita (e di detenzione  per  la  vendita).  La  seguente  disamina,
pertanto, non potra'  riferirsi  alle  previsioni  del  primo  comma,
concernente la fattispecie dell'introduzione  di  tali  prodotti  nel
territorio   dello   Stato,   caratterizzata   da   un    trattamento
sanzionatorio sensibilmente differente. 
    Occorre, parimenti, segnalare che le  fattispecie  all'esame  del
giudice a quo hanno ad oggetto istanze di  rinnovo  del  permesso  di
soggiorno per lavoro. E', pertanto, a tale ipotesi che viene limitato
il  giudizio  di  conformita'  a  Costituzione   della   disposizione
censurata, cosi' circoscrivendosi il  thema  decidendum  rispetto  al
petitum formulato dal rimettente, esteso, invece, anche  al  rilascio
di detto titolo. 
    5.- Deve, ulteriormente, in via  preliminare,  chiarirsi  che  le
doglianze, espresse dal rimettente nei confronti dell'art.  4,  comma
3, del d.lgs. n. 286  del  1998,  che  disciplina  le  condizioni  di
ammissione dello straniero nel territorio dello Stato italiano,  sono
all'evidenza rivolte al combinato  disposto  di  questa  norma  e  di
quella di cui all'art. 5, comma 5, dello stesso decreto  legislativo,
che, nel riferirsi al rilascio e al rinnovo  (oggetto,  quest'ultimo,
delle istanze che hanno dato luogo ai giudizi a quibus) del  permesso
di soggiorno, li subordina alla sussistenza dei  requisiti  richiesti
per l'ingresso, implicitamente rinviando al citato art. 4, comma 3. 
    6.- Tanto premesso, le questioni sono fondate. 
    6.1.- Nei casi all'odierno esame di questa Corte, viene,  dunque,
in considerazione la predetta disciplina, che  -  per  gli  stranieri
privi di legami familiari - fa discendere dalle condanne previste dal
citato art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286  del  1998  la  conseguenza
automatica del diniego di rilascio  o  di  rinnovo  del  permesso  di
soggiorno (ovvero, ancora, della sua revoca). 
    Tale  automatismo,   che   non   si   rinveniva   nell'originaria
formulazione della norma, e' stato introdotto con l'art. 4, comma  1,
lettera b), della legge n. 189 del  2002,  che  ha  dato  luogo,  per
l'individuazione   delle   fattispecie   ostative,   a   un   sistema
«"bipartito" basato sulla enucleazione di due criteri concorrenti  di
natura composita» (sentenza n. 277  del  2014):  l'uno  di  carattere
misto (quantitativo-qualitativo) che, mediante il  richiamo  all'art.
380, commi 1 e 2, cod. proc. pen., include tra i reati ostativi tutti
quelli che prevedono l'arresto  in  flagranza  obbligatorio,  a  loro
volta individuati in base non solo al quantum di pena stabilito dalla
legge (comma  1  dell'art.  380  cod.  proc.  pen.),  ma  anche  alla
classificazione per "tipologia" (comma  2  dello  stesso  art.  380);
l'altro, di natura solo qualitativa, che fa rientrare,  tra  i  reati
ostativi, anche quelli specificamente individuati dalla norma  (tutti
i  reati  inerenti  agli  stupefacenti,  quelli  contro  la  liberta'
sessuale, il  favoreggiamento  dell'immigrazione  e  dell'emigrazione
clandestina e  alcune  fattispecie  legate  allo  sfruttamento  della
prostituzione). 
    6.1.1.- Con la generale dizione «reati inerenti gli stupefacenti»
il legislatore del 2002 ha incluso  dunque,  tra  i  reati  ostativi,
anche il cosiddetto "piccolo spaccio" di cui all'art.  73,  comma  5,
del d.P.R.  n.  309  del  1990  (nel  testo  sostituito,  da  ultimo,
dall'art. 1, comma 24-ter, lettera  a,  del  decreto-legge  20  marzo
2014, n. 36, recante «Disposizioni urgenti in materia  di  disciplina
degli  stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,  cura   e
riabilitazione dei relativi stati di  tossicodipendenza,  di  cui  al
decreto del Presidente  della  Repubblica  9  ottobre  1990,  n  309,
nonche' di impiego di medicinali», convertito, con modificazioni,  in
legge 16 maggio 2014, n. 79), previsto oggi come ipotesi autonoma  di
reato (gia'  per  effetto  dell'art.  2,  comma  1,  lettera  a,  del
decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, recante  «Misure  urgenti  in
tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e  di  riduzione
controllata   della   popolazione   carceraria»,   convertito,    con
modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n 10),  e  che,  all'epoca,
configurava  piuttosto  una   fattispecie   attenuata   rispetto   al
reato-base di detenzione  e  spaccio  di  stupefacenti.  Detto  reato
assume  rilievo  nel  giudizio  che  ha  dato  origine  all'ordinanza
iscritta al n. 97 reg. ord. 2022. 
    Quanto a quello di cui all'art. 474 cod. pen., cui fa riferimento
l'ordinanza iscritta al n. 99 reg. ord. 2022, esso e' stato parimenti
configurato, dal legislatore del  2002,  come  reato  automaticamente
ostativo, unitamente a quello di  cui  all'art.  473  cod.  pen.,  ma
relativamente a un'unica tipologia di permesso di  soggiorno,  quello
per motivi di lavoro autonomo, come previsto dal  nuovo  comma  7-bis
dell'art.  26  del  t.u.  immigrazione.  Solo   successivamente,   in
parallelo all'estensione del catalogo dei  reati  ostativi,  via  via
arricchito dal legislatore, le fattispecie degli artt. 473 e 474 cod.
pen. sono state incluse, con l'art. 1, comma 22, lettera  a),  numero
2), della legge 15 luglio 2009, n. 94  (Disposizioni  in  materia  di
sicurezza pubblica), nella previsione generale dell'art. 4, comma  3,
quarto periodo, del testo unico del 1998. 
    6.2.- Una delle  conseguenze  delle  modifiche  introdotte  dalla
legge n. 189 del 2002  e'  stata  quella  di  far  discendere,  dalla
commissione dei reati indicati nella nuova formulazione dell'art.  4,
comma  3,  terzo  periodo  (e  oggi  anche  quarto   periodo),   t.u.
immigrazione, anche l'effetto dell'automatismo  espulsivo.  Cio',  in
base  al  combinato  disposto  tra  tale  nuova  formulazione  e   la
previsione dell'art. 13, comma 2,  lettera  b),  del  medesimo  testo
unico, che - allora, come oggi - ricollega la misura dell'«espulsione
amministrativa», di  competenza  del  prefetto,  al  venir  meno  del
permesso di soggiorno sul territorio nazionale. 
    6.3.- Tanto premesso, il dubbio sollevato dal Consiglio di  Stato
riguarda il possibile contrasto tra quanto stabilisce l'art. 4, comma
3, terzo e quarto  periodo,  t.u.  immigrazione  (come  modificato  a
partire dalla legge n. 189 del 2002) e il parametro di ragionevolezza
e di proporzionalita' di  cui  all'art.  3  Cost.,  anche  alla  luce
dell'art. 8 CEDU, evocato come  parametro  interposto  rispetto  alla
denunciata violazione dell'art. 117, primo  comma,  Cost.  Cio',  con
riferimento a  quelle  fattispecie,  incluse  nell'elenco  dei  reati
ostativi, dianzi indicate, che sono caratterizzate da un minor  grado
di offensivita' quali, come gia' precisato, quelle  di  cui  all'art.
73, comma 5, del d.P.R. n. 309  del  1990  e  all'art.  474,  secondo
comma, cod. pen. 
    6.3.1.- La giurisprudenza di questa Corte  ha  chiarito  che,  in
presenza di  una  questione  concernente  il  bilanciamento  tra  due
diritti, il giudizio di ragionevolezza sulle  scelte  legislative  si
avvale del test di proporzionalita', che richiede di valutare  se  la
norma  oggetto  di  scrutinio,  con  la  misura  e  le  modalita'  di
applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al  conseguimento  di
obiettivi legittimamente  perseguiti,  in  quanto,  tra  piu'  misure
appropriate,  prescriva  quella  meno  restrittiva  dei   diritti   a
confronto  e  stabilisca  oneri  non   sproporzionati   rispetto   al
perseguimento di detti obiettivi (ex plurimis, sentenze  n.  260  del
2021, n. 20 del 2019 e n. 137 del 2018). 
    Cosi',   nel   vagliare   la   complessiva    ragionevolezza    e
proporzionalita' delle previsioni che, come nel caso oggi  in  esame,
implicano l'allontanamento dal territorio nazionale di uno straniero,
questa  Corte  ha  affermato  la  necessita'   di   «un   conveniente
bilanciamento» tra le ragioni che giustificano la misura di volta  in
volta prescelta dal  legislatore,  tra  le  quali,  segnatamente,  la
commissione di reati da parte dello  straniero,  «e  le  confliggenti
ragioni di  tutela  del  diritto  dell'interessato,  fondato  appunto
sull'art. 8 CEDU, a non essere sradicato dal luogo in cui intrattenga
la parte piu' significativa dei propri rapporti sociali,  lavorativi,
familiari,  affettivi»  (ordinanza  n.  217  del  2021,   di   rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia UE). 
    Se, dunque, per un verso, al legislatore va riconosciuta un'ampia
discrezionalita' nella regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno
di uno straniero nel territorio nazionale,  in  considerazione  della
pluralita'  degli  interessi  che  tale  regolazione   riguarda   (ex
plurimis, sentenze n. 277 del 2014, n. 148 del 2008, n. 206 del  2006
e n. 62  del  1994),  per  altro  verso  occorre  chiarire  che  tale
discrezionalita'  «non   e'   assoluta,   dovendo   rispecchiare   un
ragionevole e proporzionato bilanciamento di tutti i  diritti  e  gli
interessi    coinvolti,    soprattutto    quando    la     disciplina
dell'immigrazione  sia   suscettibile   di   incidere   sui   diritti
fondamentali, che la Costituzione protegge egualmente  nei  confronti
del cittadino e del non cittadino» (sentenza  n.  202  del  2013;  in
precedenza, anche sentenze n. 172 del 2012, n. 245 del 2011, n. 299 e
n. 249 del 2010, n. 78 del 2005). 
    Come  pure   questa   Corte   ha   affermato,   il   legislatore,
nell'esercizio di tale discrezionalita', «puo' anche  prevedere  casi
in cui, di fronte alla commissione di reati di  una  certa  gravita',
ritenuti particolarmente  pericolosi  per  la  sicurezza  e  l'ordine
pubblico,  l'amministrazione  sia  tenuta  a  revocare  o  negare  il
permesso   di   soggiorno   automaticamente   e    senza    ulteriori
considerazioni»:  cio',  tuttavia,   alla   condizione   che   simile
previsione sia il  risultato  «di  un  bilanciamento,  ragionevole  e
proporzionato ai sensi dell'art. 3 Cost., tra l'esigenza, da un lato,
di tutelare l'ordine  pubblico  e  la  sicurezza  dello  Stato  e  di
regolare i flussi migratori e, dall'altro, di salvaguardare i diritti
dello straniero, riconosciutigli dalla Costituzione» (sentenza n. 202
del 2013, che richiama la sentenza n. 172 del 2012). 
    La giurisprudenza  di  questa  Corte,  in  applicazione  di  tali
coordinate, e' quindi giunta, in  passato,  a  caducare  disposizioni
legislative  che,  nella  materia  dell'immigrazione,   introducevano
automatismi tali da incidere in modo sproporzionato  e  irragionevole
sui   diritti   fondamentali   degli   stranieri,   in   quanto   non
rispecchiavano un ragionevole bilanciamento tra tutti gli interessi e
i diritti di rilievo costituzionale coinvolti (sentenze  n.  245  del
2011, n. 299 e n. 249 del 2010). 
    6.3.2.- I descritti approdi giurisprudenziali  sono  in  sintonia
con gli orientamenti della giurisprudenza della Corte di  Strasburgo,
chiamata, con specifico riferimento all'espulsione dello straniero, a
confrontarsi con la norma convenzionale - l'art. 8 CEDU, che, come si
e' visto, per i presenti giudizi, il rimettente  assume  a  parametro
interposto - volta a proteggere il diritto  al  rispetto  della  vita
privata e familiare. 
    In particolare, la  Corte  EDU,  con  la  sentenza  della  grande
camera, 18 ottobre 2006, Üner contro Olanda - nel ripercorrere propri
precedenti arresti, concernenti i limiti dell'ingerenza dei  pubblici
poteri  sui  diritti  tutelati  dall'art.  8  CEDU,  in   chiave   di
proporzionalita'  -  ha  specificamente  individuato  i  criteri  che
consentono di  valutare  se  la  misura  dell'allontanamento  di  uno
straniero  possa   considerarsi   «necessaria»,   in   una   societa'
democratica, e «proporzionata» allo scopo legittimo perseguito.  Tali
criteri,  poi  sostanzialmente   ripresi   anche   dalla   successiva
giurisprudenza della stessa Corte di Strasburgo (da ultimo,  sentenza
della quarta sezione, 27 settembre 2022, Otite contro  Regno  Unito),
sono, in sintesi, i seguenti: natura e serieta'  del  reato  commesso
dallo  straniero;  lunghezza  del  suo   soggiorno   sul   territorio
nazionale; tempo trascorso dalla commissione del reato  (considerando
anche  la  condotta  tenuta  dallo  straniero   in   tale   frangente
temporale);  nazionalita'   delle   persone   coinvolte;   situazione
familiare   dello   straniero   che   dovrebbe   essere   allontanato
(considerando le ripercussioni sul coniuge e  sui  figli,  se  ve  ne
siano,  anche  in  considerazione  delle  difficolta'   che   costoro
incontrerebbero nel Paese di allontanamento dello straniero). 
    I   richiamati   criteri,   atti   a   orientare   le   decisioni
dell'amministrazione, presuppongono la conoscenza e la valutazione ad
ampio raggio della situazione individuale dello straniero colpito dal
provvedimento  restrittivo,  rifuggendo  dal  meccanismo   automatico
tipico delle presunzioni assolute. 
    6.3.3.- Del resto, come ripetutamente affermato da questa  Corte,
«le  presunzioni  assolute,  specie  quando   limitano   un   diritto
fondamentale della persona, violano il principio di  eguaglianza,  se
sono arbitrarie e irrazionali, cioe' se  non  rispondono  a  dati  di
esperienza  generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod
plerumque accidit» (ex plurimis, sentenze n. 253 del 2019, n. 268 del
2016, n. 213 e n. 57 del 2013), sussistendo l'irragionevolezza  della
presunzione assoluta tutte le volte in cui  sia  "agevole"  formulare
ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione  posta  a
base della presunzione stessa (ex plurimis, sentenza n. 213 del 2013,
nello stesso senso, sentenze n. 202 e n. 57 del 2013). 
    6.4.- Occorre, ora,  verificare,  la  tenuta  delle  disposizioni
censurate dal Consiglio  di  Stato  alla  luce  dei  principi  dianzi
richiamati. 
    6.4.1.- Viene, al riguardo, in rilievo, anzitutto,  il  reato  di
cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990. 
    Detto reato prevede la  pena  della  reclusione  da  sei  mesi  a
quattro anni e della multa  da  euro  1.032  a  euro  10.329  per  le
fattispecie di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze
stupefacenti o  psicotrope  «di  lieve  entita'».  Questa  previsione
incriminatrice, in quanto reato inerente agli  stupefacenti,  rientra
nell'elenco dei reati ostativi di  cui  all'art.  4,  comma  3,  t.u.
immigrazione, impedendo quindi il rilascio o il rinnovo del  permesso
di soggiorno, ma - al tempo stesso - essa  e'  espressamente  esclusa
dal  legislatore  dal  novero  dei  reati  che  consentono  l'arresto
obbligatorio in flagranza (art. 380, comma 2, lettera h,  cod.  proc.
pen.). In base alla forbice edittale della pena, il reato di  cui  si
tratta e' sottoposto dalla legge, piuttosto, al  regime  dell'arresto
facoltativo in flagranza (art. 381, comma 1, cod. proc. pen.), regime
che puo' attivarsi «soltanto  se  la  misura  e'  giustificata  dalla
gravita' del fatto ovvero dalla pericolosita'  del  soggetto  desunta
dalla sua personalita' o dalle  circostanze  del  fatto»  (art.  381,
comma 4, cod. proc. pen.). 
    Questa Corte, sia pure nell'ambito della disciplina (parzialmente
diversa) dell'emersione degli stranieri  dal  lavoro  irregolare,  ha
gia' giudicato  manifestamente  irragionevole  che  il  provvedimento
amministrativo di diniego,  avente  ricadute  sulla  regolarita'  del
soggiorno  dello  straniero  sul   territorio   nazionale,   consegua
automaticamente alla pronuncia di una sentenza di  condanna  per  uno
dei reati di cui all'art. 381 cod. proc. pen., proprio perche' questi
ultimi «non [sono] necessariamente sintomatici della pericolosita' di
colui  che  li  ha  commessi»:   e',   infatti,   significativo   che
l'applicabilita' di detta misura richieda una valutazione in concreto
circa la gravita' del fatto commesso o la personalita' del  soggetto,
risultando  cioe'  subordinata  «ad  una  specifica  valutazione   di
elementi ulteriori rispetto a quelli  consistenti  nella  mera  prova
della commissione del fatto» (sentenza n. 172 del 2012). 
    Ne  consegue  che,  all'esito  dello  specifico  procedimento  di
emersione dal lavoro irregolare, e' oggi possibile  il  rilascio  del
permesso di soggiorno a favore dello straniero,  pur  condannato  per
uno dei reati indicati  dall'art.  381  cod.  proc.  pen.,  beninteso
qualora l'amministrazione ritenga, con valutazione da compiersi  caso
per caso e rimessa alla sua discrezionalita'  di  giudizio,  che  non
sussistano minacce per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. 
    6.4.1.1.- Tale  profilo  svela  un  primo  aspetto  di  manifesta
irragionevolezza della disciplina generale sul rinnovo dei titoli  di
soggiorno. Infatti, la condanna per il reato qui preso in  esame,  se
anche, ex ante, non influisce sul  buon  esito  del  procedimento  di
emersione (ne' sul conseguente rilascio  del  permesso  per  lavoro),
determina invece il mancato  rinnovo  del  titolo  di  soggiorno  per
lavoro qualora  essa  sopraggiunga  ex  post  rispetto  all'emersione
stessa, con conseguente espulsione automatica del lavoratore emerso. 
    Se,  pertanto,  in  applicazione  della   "speciale"   disciplina
dell'emersione, come corretta dalla  sentenza  n.  172  del  2012  di
questa Corte, e' ben possibile il rilascio del permesso di  soggiorno
in favore di un lavoratore straniero condannato per il reato ex  art.
73, comma 5, del d.P.R.  n.  309  del  1990,  e'  proprio  la  natura
"unitaria"   del   complessivo   procedimento    e,    insieme,    la
funzionalizzazione dell'emersione al rilascio del titolo a richiedere
che i due sub-procedimenti siano uniformati, a livello di disciplina,
verso  un  unico  e  coerente  modello.  In  questa  prospettiva,  la
conclusione cui e' giunta questa Corte con la sentenza n. 45 del 2017
(di  inammissibilita'  per  contraddittorieta'  e  lacunosita'  della
motivazione dell'ordinanza di rimessione), in merito alla  disciplina
"speciale" applicabile all'intera sequenza procedimentale  che  parte
dall'emersione e giunge al rilascio del  permesso  di  soggiorno  per
lavoro,  non  puo'  non  trovare  logico  e  coerente  approdo  anche
nell'ambito della disciplina "generale" di cui all'art. 4,  comma  3,
del d.lgs. n. 286 del 1998, con riguardo al rinnovo di tale permesso. 
    6.4.1.2.- La disciplina censurata presta il  fianco  a  ulteriori
rilievi critici. 
    Nel caso oggi in esame, esiste, infatti, la possibilita' concreta
di accadimenti  contrari  alla  presunzione  introdotta  dalla  norma
censurata. Ben puo' verificarsi, invero, che uno  straniero  commetta
il reato di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990,  il
quale, per la sua lieve entita', per le circostanze del fatto, per il
tempo  ormai  trascorso  dalla  sua  commissione,  per  il   percorso
rieducativo eventualmente seguito alla  condanna,  non  sia  tale  da
comportare un giudizio di pericolosita' attuale riferito alla persona
del reo. 
    Risulta allora contrario al principio di proporzionalita',  letto
anche alla luce dell'art. 8 CEDU, escludere,  in  dette  ipotesi,  la
possibilita' che l'amministrazione valuti la situazione concreta,  in
relazione al percorso di inserimento nella societa'. Tanto  piu'  ove
si consideri che si fa qui  riferimento,  come  chiarito,  alla  sola
ipotesi di rinnovo, e non di rilascio,  del  permesso  di  soggiorno:
cio' che lascia  intravvedere  -  particolarmente  in  considerazione
della circostanza che si tratta di permesso per lavoro - un possibile
processo  di  integrazione  dello  straniero,  processo  che  sarebbe
irreversibilmente compromesso ove non si consentisse la  prosecuzione
del percorso lavorativo intrapreso. 
    Di tanto e' necessario che l'amministrazione procedente dia conto
nella valutazione che deve essere alla stessa  rimessa,  in  sede  di
disamina della domanda di rinnovo del permesso, al  fine  di  evitare
che tale valutazione si traduca in un giudizio astratto e,  per  cio'
solo,  lesivo  dei  diritti  garantiti  dall'art.  8  CEDU.  Il  che,
peraltro,  e'  quanto  gia'   sostanzialmente   accade   nel   nostro
ordinamento per le fattispecie di rilascio del permesso di  soggiorno
UE per soggiornanti di lungo periodo. A norma dell'art. 9,  comma  4,
del d.lgs. n. 286 del 1998, invero, il permesso  di  soggiornante  di
lungo periodo «non puo' essere rilasciato agli  stranieri  pericolosi
per  l'ordine  pubblico  o  la  sicurezza  dello   Stato»,   con   la
precisazione che, ai fini di valutare  la  pericolosita',  «si  tiene
conto»    anche    di    eventuali    condanne    «per    i     reati
previsti dall'articolo 380 del codice di procedura  penale,  nonche',
limitatamente ai delitti non colposi, dall'articolo 381 del  medesimo
codice». Da cio' la necessita' che l'amministrazione sia  chiamata  a
compiere, caso per caso,  un  proprio  apprezzamento,  in  quanto  la
pericolosita' non e' fatta discendere dalla mera sussistenza  di  una
sentenza di condanna penale. 
    Questa Corte ha, al riguardo, gia' avuto modo di  precisare  che,
nel giudizio di legittimita' costituzionale di  norme  che  limitano,
nei confronti degli stranieri, il godimento di  diritti  fondamentali
della persona,  non  puo'  ammettersi  una  differenziazione  tra  la
situazione di coloro che godono dello status di soggiornanti di lungo
periodo rispetto a quella di coloro che,  comunque,  sono  legalmente
residenti sul territorio nazionale, sia pure in forza  dell'ordinario
permesso di soggiorno (sentenza n. 54 del 2022). 
    6.4.1.3.- Va considerato, peraltro, che la gia' ricordata  (infra
punto 3 del Considerato  in  diritto)  sopravvenuta  abrogazione,  ad
opera dell'art. 7, comma 1, lettera c), n. 1, del recente d.l. n.  20
del 2023, come convertito, del terzo e quarto periodo del comma  1.1.
dell'art. 19 del d.lgs. n. 286 del 1998, fa  venir  meno  proprio  la
norma che, nel presente  giudizio,  l'Avvocatura  dello  Stato  aveva
valorizzato al fine di escludere la dedotta  violazione  dell'art.  8
CEDU. 
    La difesa statale aveva, infatti, osservato che proprio in virtu'
del richiamo alla «vita privata e familiare»  che  si  rinveniva  nel
testo   del   citato   comma   1.1.,   il    legislatore    «consente
all'interessato, sia pure in altra sede rispetto  a  quella  regolata
dalla norma censurata, di chiedere all'amministrazione di valutare la
propria  condizione  personale  al  fine  di  verificare  se  la  sua
espulsione possa dirsi conforme all'ordinamento  sovranazionale,  ivi
incluso l'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo». 
    6.4.1.4.- Va, infine, sottolineato che  l'interesse  dello  Stato
alla sicurezza e all'ordine pubblico non  subisce  alcun  pregiudizio
dalla sola  circostanza  che  l'autorita'  amministrativa  operi,  in
presenza  di  una  condanna  per  il  reato  di  cui  si  tratta,  un
apprezzamento concreto della situazione personale dell'interessato, a
sua volta soggetto all'eventuale sindacato  di  legittimita'  operato
dal giudice. 
    6.4.1.5.- Alla stregua  delle  suesposte  considerazioni,  questa
Corte ritiene di dover superare le conclusioni cui era pervenuta  con
la ormai risalente sentenza n. 148 del 2008. In quella occasione, una
questione di  legittimita'  costituzionale  sovrapponibile  a  quella
all'odierno esame, ma sollevata in riferimento a parametri  in  parte
differenti, fu giudicata non fondata, ritenendosi non  manifestamente
irragionevole condizionare l'ingresso e la permanenza dello straniero
nel territorio nazionale alla circostanza della  mancata  commissione
del reato di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990. Si
osservo' allora che il rifiuto del rilascio o rinnovo del permesso di
soggiorno, previsto dalle disposizioni in  oggetto,  non  costituisce
sanzione penale, sicche' il legislatore ben puo' stabilirlo per fatti
che, sotto il profilo penale, hanno una diversa gravita', valutandolo
misura  idonea  alla  realizzazione  dell'interesse   pubblico   alla
sicurezza e tranquillita', anche se ai fini  penali  i  fatti  stessi
hanno ricevuto una diversa valutazione. 
    La evoluzione della giurisprudenza costituzionale e convenzionale
in tema di proporzionalita', che, come si  e'  dianzi  visto,  si  e'
sviluppata particolarmente con riguardo all'art.  8  CEDU,  parametro
non evocato nel 2008, impone ora la diversa soluzione qui adottata. 
    6.4.2.- Le argomentazioni svolte possono  essere  riferite  anche
alle  riserve  in  ordine  alla  previsione,  come  ostativa,   della
fattispecie  di  cui  all'art.  474,  secondo   comma,   cod.   pen.,
concernente il commercio di  prodotti  con  segni  falsi,  a  maggior
ragione ove si consideri che la forbice  edittale  (che  arriva,  nel
massimo, alla pena di due anni di  reclusione)  non  e',  rispetto  a
quella gia' presa in esame, nemmeno  tale  da  comportare  la  misura
dell'arresto facoltativo in flagranza, di cui all'art. 381 cod. proc.
pen. (che richiede, in caso di delitto non  colposo,  la  pena  della
reclusione superiore, nel massimo, a tre anni). 
    7.- Deve, pertanto, dichiararsi  l'illegittimita'  costituzionale
del combinato disposto degli artt. 4, comma 3,  e  5,  comma  5,  del
d.lgs. n. 286 del 1998,  nella  parte  in  cui  ricomprende,  tra  le
ipotesi di condanna automaticamente ostative al rinnovo del  permesso
di soggiorno per lavoro, anche quelle, pur  non  definitive,  per  il
reato di cui all'art. 73, comma 5, del  d.P.R.  n.  309  del  1990  e
quelle definitive per il reato di cui all'art.  474,  secondo  comma,
cod. pen., senza prevedere che l'autorita'  competente  verifichi  in
concreto la pericolosita' sociale del richiedente.