ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 6, comma 6,
del decreto-legge 30 novembre  2013,  n.  133  (Disposizioni  urgenti
concernenti l'IMU, l'alienazione di  immobili  pubblici  e  la  Banca
d'Italia), convertito, con  modificazioni,  nella  legge  29  gennaio
2014, n. 5, in combinato disposto con  l'art.  1,  comma  148,  della
legge  27  dicembre  2013,  n.  147,  recante  «Disposizioni  per  la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato  (legge  di
stabilita'  2014)»,  nella  versione  originaria  e  come  modificato
dall'art. 4, comma 12,  del  decreto-legge  24  aprile  2014,  n.  66
(Misure urgenti  per  la  competitivita'  e  la  giustizia  sociale),
convertito, con modificazioni, nella legge 23  giugno  2014,  n.  89,
promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Trieste, sezione
seconda,  nel  procedimento  vertente  tra  Generali  Italia  spa   e
l'Agenzia delle entrate - Direzione regionale Friuli-Venezia  Giulia,
con ordinanza del 27 maggio 2022, iscritta  al  n.  74  del  registro
ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 26, prima serie speciale, dell'anno 2022. 
    Visti l'atto di costituzione di Generali Italia spa, nonche'  gli
atti di intervento del Presidente del Consiglio  dei  ministri  e  di
Banca Carige spa - Cassa di Risparmio di Genova e Imperia; 
    udita  nell'udienza  pubblica  del  4  aprile  2023  la   Giudice
relatrice Daria de Pretis; 
    uditi l'avvocato Roberto Tieghi per Banca Carige spa -  Cassa  di
Risparmio di Genova e  Imperia,  l'avvocato  dello  Stato  Alessandro
Maddalo per il Presidente del Consiglio  dei  ministri  e  l'avvocato
Nicola Mazza per Generali Italia spa; 
    deliberato nella camera di consiglio del 5 aprile 2023. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 27 maggio 2022, iscritta al n. 74 reg. ord.
2022, la  Commissione  tributaria  provinciale  di  Trieste,  sezione
seconda,   ha   sollevato   distinte   questioni   di    legittimita'
costituzionale delle seguenti norme: 
    - l'art. 6, comma 6, del decreto-legge 30 novembre 2013,  n.  133
(Disposizioni urgenti concernenti l'IMU,  l'alienazione  di  immobili
pubblici e la Banca d'Italia), convertito, con  modificazioni,  nella
legge 29 gennaio 2014, n. 5, in  combinato  disposto  con  l'art.  1,
comma  148,  della  legge  27  dicembre   2013,   n.   147,   recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
dello Stato (Legge di stabilita' 2014)», come sostituito dall'art. 4,
comma 12, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per
la  competitivita'  e  la   giustizia   sociale),   convertito,   con
modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89; 
    - lo stesso art. 6, comma 6, del  d.l.  n.  133  del  2013,  come
convertito, in combinato disposto con  l'art.  1,  comma  148,  della
legge n. 147 del 2013 nella versione originaria. 
    Le norme censurate violerebbero gli artt. 3, 41, 42  e  53  della
Costituzione. 
    1.1.- Le questioni sono sorte nel corso di un  giudizio  promosso
da Generali Italia spa avverso il silenzio-rifiuto dell'Agenzia delle
entrate - Direzione regionale Friuli- Venezia Giulia sull'istanza  di
rimborso della somma di  euro  75.552.471,23,  versata  a  titolo  di
imposta sostitutiva delle imposte sui redditi delle societa'  (IRES),
dell'imposta  regionale  sulle  attivita'  produttive  (IRAP)  e   di
eventuali addizionali, in applicazione di quanto  previsto  dall'art.
1, comma 148, della legge n.  147  del  2013,  nel  testo  introdotto
dall'art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito. 
    Il rimettente riferisce che: 
    - Generali Italia spa nel  2013  deteneva  n.  19.000  quote  del
capitale della Banca d'Italia (d'ora in avanti, anche: Banca); 
    - a  seguito  dell'aumento  del  capitale  della  Banca  d'Italia
all'importo di euro 7.500.000.000 mediante  utilizzo  delle  riserve,
autorizzato dall'art. 4, comma 2, del d.l.  n.  133  del  2013,  come
convertito, il valore nominale di tali quote e' stato determinato  in
euro 25.000 ciascuna, per un importo complessivo di euro 475.000.000; 
    - l'art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013,  come  convertito,
ha previsto che, a partire dall'esercizio in  corso  al  30  novembre
2013, i partecipanti al capitale della  Banca  d'Italia  iscrivano  a
bilancio le quote di nuova emissione  nel  comparto  delle  attivita'
finanziarie destinate alla negoziazione  ai  medesimi  valori,  ferma
l'applicazione dei principi contabili internazionali; 
    - in seguito, l'art. 1, comma 148, della legge n. 147  del  2013,
al fine di attribuire alla rivalutazione delle quote rilievo fiscale,
avrebbe «imposto un riallineamento obbligatorio del valore fiscale al
valore contabile-civilistico», prevedendo che ai  maggiori  valori  -
iscritti dai partecipanti  nel  bilancio  relativo  all'esercizio  in
corso al 31 dicembre 2013 per effetto dell'art. 6, comma 6, del  d.l.
n. 133  del  2013,  come  convertito  -  fosse  applicata  un'imposta
sostitutiva dell'IRES, dell'IRAP e  di  eventuali  addizionali  pari,
nella versione originaria della norma, al 12 per cento, da versare in
tre rate di uguale importo;  successivamente,  nel  testo  introdotto
dall'art. 4, comma 12, del d.l. n.  66  del  2014,  come  convertito,
l'imposta e' stata fissata nel 26 per cento del valore nominale delle
quote al netto del precedente valore fiscalmente riconosciuto e ne e'
stato previsto il versamento in unica soluzione; 
    - Generali Italia spa, dopo avere imputato a conto economico  una
plusvalenza di euro 290.586.428 - derivante dalla differenza  tra  il
valore nominale delle quote di nuova emissione e  il  valore  fiscale
anteriormente riconosciuto -, ha  versato  il  16  giugno  2014  euro
75.552.471,23, corrispondente al 26 per cento della plusvalenza, e ne
ha poi chiesto il rimborso all'Agenzia delle entrate; 
    - contro il silenzio-rifiuto su  tale  istanza,  la  societa'  ha
proposto ricorso, con cui ha chiesto la condanna dell'amministrazione
finanziaria al rimborso dell'imposta sostitutiva versata,  sollevando
in particolare eccezione di illegittimita' costituzionale delle norme
che l'hanno istituita. 
    1.2.- Sulla rilevanza, il rimettente osserva che  il  giudizio  a
quo non puo' essere definito senza fare  applicazione  del  combinato
disposto dell'art. 6, comma  6,  del  d.l.  n.  133  del  2013,  come
convertito, e dell'art. 1, comma 148, della legge di stabilita' 2014,
quest'ultimo sia nel testo sostituito dall'art. 4, comma 12, del d.l.
n.  66  del  2014,  come  convertito  (che  ha   elevato   l'aliquota
dell'imposta al 26 per cento ed eliminato il  pagamento  rateizzato),
sia nel testo originario (che prevedeva l'aliquota del 12 per cento e
il pagamento rateale). 
    Cio', in particolare, sull'assunto che  l'eventuale  «caducazione
dell'art. 4, co. 12, DL 66/2014, verso cui il  [...]  ricorso  muove,
potendo dare luogo alla r[e]viviscenza del co. 148, dell'art.  1,  L.
147/2013 nel testo originale, rende[rebbe] necessario  chiarire  come
anche la norma sostituita sia  in  contrasto  con  la  Costituzione».
Norma che sarebbe a sua volta, anche nel testo originario - che  pure
prevedeva  un'aliquota  inferiore  e  piu'  favorevoli  modalita'  di
pagamento - costituzionalmente illegittima per vizi analoghi a quelli
che inficiano l'imposta  nella  sua  configurazione  finale,  che  si
limita  ad  «acui[re]  e  incrementa[re]  i  punti  di  contrasto  ed
inconciliabilita' con la fonte sovraordinata». 
    1.3.- Sulla non manifesta infondatezza, il giudice  a  quo,  dopo
avere ricostruito il quadro normativo, dubita che le norme  censurate
violino, in primo luogo, l'art. 53 Cost., per mancanza  dell'elemento
della «capacita' contributiva effettiva».  Nel  caso  di  specie  non
ricorrerebbe infatti «materiale apprendimento della ricchezza»,  che,
solo, potrebbe essere «oggetto di incisione». 
    I maggiori valori soggetti all'imposta sostitutiva deriverebbero,
inoltre, da un aumento del capitale della Banca d'Italia realizzato -
ai sensi dell'art. 4, comma  2,  del  d.l.  n.  133  del  2013,  come
convertito - mediante l'utilizzo di riserve statutarie costituite  da
utili gia' tassati presso la stessa Banca d'Italia, come  emerge  dai
bilanci di tale istituto,  che  nel  2013,  ad  esempio,  ha  versato
imposte pari a oltre il 35 per cento  degli  utili  lordi.  L'imposta
sostitutiva censurata realizzerebbe pertanto una  «doppia  tassazione
della medesima ricchezza», una prima volta degli utili prodotti dalla
Banca d'Italia, e una seconda volta assoggettando i  partecipanti  al
suo capitale a una nuova imposta sui maggiori valori  nominali  delle
loro partecipazioni. 
    Verrebbe cosi' «spezzato il rapporto di razionalita'  e  coerenza
sistematica che deve sussistere tra imposizione (anche sostitutiva) e
capacita'  contributiva»  e  si  sottoporrebbero   i   detentori   di
partecipazioni al capitale della Banca d'Italia a una  «inaccettabile
svantaggiosa discriminazione», sottraendo  loro  «una  ricchezza  che
l'erario ha gia' inciso». 
    1.4.- La norma  si  porrebbe  in  contrasto  con  i  principi  di
eguaglianza e di ragionevolezza sanciti all'art. 3 Cost. 
    L'«obbligo   di    riclassificazione    solo    fiscale»    delle
partecipazioni al capitale della Banca  d'Italia  nel  comparto,  non
corrispondente   alle   loro   caratteristiche,   delle    «attivita'
finanziarie detenute per la negoziazione» (cosiddetto "portafoglio di
trading") determinerebbe  l'ingiustificato  assoggettamento  di  tali
partecipazioni a un regime fiscale deteriore rispetto a quello  delle
partecipazioni  non  detenute  per  la  negoziazione,   «sfavorendone
l'acquisto e la detenzione». 
    Il rimettente ricorda che, in base a quanto previsto dall'art. 87
del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, recante «Approvazione del  testo
unico delle imposte sui redditi», le partecipazioni non detenute  per
la negoziazione beneficiano del regime di esenzione nella misura  del
95 per cento delle plusvalenze realizzate (cosiddetta  "participation
exemption" o "PEX"). 
    L'imposta sostitutiva censurata comporterebbe dunque «un aggravio
e non un risparmio d'imposta» a carico dei partecipanti  al  capitale
della Banca d'Italia, che sarebbero «chiamati a contribuire in misura
di gran lunga maggiore» rispetto agli altri contribuenti detentori di
partecipazioni   societarie   iscritte   tra   le   «immobilizzazioni
finanziarie». 
    1.5.- Sarebbe violato anche l'art. 41 Cost.,  per  grave  lesione
della liberta' di iniziativa economica privata. 
    Il rimettente ripropone sul  punto  considerazioni  gia'  svolte,
osservando  che  sarebbe  «sottoposta  a  tassazione  immediata,   ad
aliquota appena inferiore a quella piena, una ricchezza che,  secondo
le regole applicabili alla generalita' dei contribuenti e  necessarie
al corretto funzionamento dei principi su  cui  poggia  l'ordinamento
tributario, sarebbe rilevata solo al (suo) realizzo effettivo e nella
limitata misura del 5%». 
    1.6.-  Sarebbe  violato,  inoltre,  il  principio  del  legittimo
affidamento nella certezza dell'ordinamento giuridico,  in  relazione
al quale il rimettente invoca gli artt. 3, 41 e 53 Cost. 
    Rileverebbero in tale senso,  sia  la  «forzosa  esclusione»  dal
regime fiscale PEX di una ricchezza, pari  al  maggior  valore  delle
partecipazioni al capitale della Banca  d'Italia,  «insorta/maturata»
prima dell'introduzione del «censurato intervento normativo»; sia  la
«immotivata ridefinizione  sostanziale»  dell'imposta  sostitutiva  a
opera  dell'art.  4,  comma  12,  del  d.l.  n.  66  del  2014,  come
convertito, che ha innalzato l'aliquota dal 12 al 26 per cento  e  ha
eliminato la rateazione. 
    La «disattivazione» della PEX avrebbe comportato la  «inaspettata
introduzione di un trattamento fiscale deleterio, del tutto inverso e
irrispettoso  del  regime  che  l'ordinamento   aveva   razionalmente
stabilito per l'incremento di valore conseguito  sino  al  31.12.2013
dalle  partecipazioni»  in  esame.  L'illegittimita'  dell'intervento
legislativo   risulterebbe   evidente   considerando    l'irrazionale
diversita' di trattamento fra il partecipante al capitale della Banca
d'Italia che avesse realizzato la plusvalenza entro  il  31  dicembre
2013, potendo cosi' beneficiare  della  PEX,  e  quello  che,  avendo
conservato la partecipazione per  realizzare  la  medesima  ricchezza
successivamente, e' per cio' solo gravato da  un'imposizione  del  26
per cento. 
    La tutela del legittimo affidamento del  contribuente  a  vedersi
applicato il regime  fiscale  originario  si  desumerebbe  da  quanto
previsto all'art. 4 del decreto del Ministro  dell'economia  e  delle
finanze 8 giugno 2011, recante «Disposizioni di coordinamento  tra  i
principi contabili internazionali, di  cui  al  regolamento  (CE)  n.
1606/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 luglio  2002,
adottati con regolamento UE entrato in vigore  nel  periodo  compreso
tra il 1° gennaio 2009  e  il  31  dicembre  2010,  e  le  regole  di
determinazione della base imponibile dell'IRES e dell'IRAP,  previste
dall'articolo 4, comma 7-quater, del decreto legislativo 28  febbraio
2005, n.  38»,  che,  nel  disciplinare  la  riclassificazione  degli
strumenti finanziari per i soggetti che redigono i propri bilanci  in
conformita' ai principi  contabili  internazionali  (cosiddetti  "IAS
adopters"),  stabilisce  che  tali  riclassificazioni,  pur   potendo
comportare il passaggio da un regime (PEX)  a  un  altro  (tassazione
ordinaria), attribuiscono rilievo fiscale alle plusvalenze secondo la
disciplina fiscale applicabile allo strumento finanziario prima della
riclassificazione. 
    1.7.-  Infine,  il  giudice  a  quo  lamenta  la  violazione  del
principio  di  «inviolabilita'»  della  proprieta'  privata,  sancito
all'art. 42 Cost., per il «sostanziale  effetto  ablatorio»  prodotto
dalle norme censurate attraverso «una mera spoliazione patrimoniale».
Questo sarebbe il loro scopo, non di incidere su una nuova  ricchezza
(cioe' una ricchezza «non gia' rilevata ai  fini  dell'imposizione»),
ma di acquisire all'erario, per  far  fronte  a  indefinite  esigenze
finanziarie dello Stato, parte del  patrimonio  dei  partecipanti  al
capitale della Banca d'Italia alla data del 31 dicembre 2013. 
    2.- Con atto depositato il 16 luglio 2022  si  e'  costituita  in
giudizio Generali Italia spa,  parte  del  giudizio  a  quo,  che  ha
concluso per l'accoglimento delle questioni. 
    2.1.- La parte riassume  i  termini  della  vicenda  oggetto  del
giudizio a quo e ricostruisce  diffusamente  il  regime  contabile  e
fiscale a essa applicabile, in quanto impresa assicurativa  che,  non
essendo  tenuta  ex  lege   all'adozione   dei   principi   contabili
internazionali,  redige  i  bilanci  secondo  i  principi   contabili
nazionali (cosiddetti "OIC"). 
    Dopo aver precisato che la Banca d'Italia e' soggetta  a  IRES  e
IRAP, Generali Italia spa si sofferma sui temi: dell'irrilevanza  dei
plusvalori  non  realizzati,  dei  regimi  fiscali  dipendenti  dalle
classificazioni di bilancio  e  della  immodificabilita'  del  regime
fiscale a seguito delle riclassificazioni. 
    La regola dell'«[i]rrilevanza  dei  plusvalori  non  realizzati»,
applicabile ai cosiddetti "OIC adopters", si ricaverebbe dagli  artt.
85, 86 e 87 t.u. imposte redditi, che disciplinano le  sorti  fiscali
delle  partecipazioni  detenute,  sia   durevolmente   che   per   la
negoziazione, dai soggetti IRES. Essa consisterebbe nella irrilevanza
fiscale delle plusvalenze iscritte  (quindi  di  tipo  esclusivamente
valutativo) e  non  ancora  realizzate,  collegandosi  «al  principio
generale  del  "possesso"  del  reddito,  ossia  di  rilevanza  della
ricchezza  in  sede  di  sua  effettiva  apprensione  da  parte   del
contribuente». Un'eccezione alla regola sarebbe  rappresentata  dalla
rivalutazione opzionale dei beni d'impresa  avente  rilievo  fiscale,
accordata  in  alcuni  casi  dal  legislatore  dietro  pagamento   di
un'imposta sostitutiva ad aliquota ridotta rispetto all'ordinaria; la
razionalita' di tale particolare istituto, peraltro, riposerebbe  sul
carattere facoltativo  della  rivalutazione  fiscale,  affidata  alla
libera scelta del contribuente di sottoporsi a un'imposta sostitutiva
nonostante manchi, senza la realizzazione di  plusvalenze,  una  base
imponibile cui applicare l'imposta sostituita. 
    I «[r]egimi fiscali dipendenti dalle classificazioni di bilancio»
si "biforcherebbero" nel modo seguente: 
    - le partecipazioni iscritte  come  destinate  alla  negoziazione
(non immobilizzate) o iscritte tra le immobilizzazioni, ma non aventi
i «requisiti di accesso» alla PEX, sarebbero soggette al regime della
tassazione piena in caso di "realizzo", considerando il differenziale
positivo come un ricavo (per le prime: art. 85, comma 1,  lettera  c,
t.u.  imposte  redditi)   o   come   una   plusvalenza   patrimoniale
(corrispettivo meno valore fiscale) che concorre alla formazione  del
reddito (per le seconde: art. 86 t.u. imposte redditi); 
    - le partecipazioni iscritte tra le immobilizzazioni e  aventi  i
«requisiti di accesso» alla PEX sarebbero invece soggette  al  regime
di esenzione delle plusvalenze realizzate nei limiti del 95 per cento
(art. 87 t.u. imposte redditi). 
    La razionalita' intrinseca e il carattere necessario del  sistema
- e di conseguenza la irragionevolezza e arbitrarieta' di  interventi
legislativi  che,  come   quello   censurato,   ne   disattivano   il
funzionamento -  si  coglierebbero  considerando  che  il  regime  di
esenzione deriva dall'esigenza di evitare la doppia tassazione  della
medesima ricchezza, in quanto il plusvalore realizzato  in  occasione
della cessione di una partecipazione e' costituito da utili che, gia'
conseguiti o conseguibili in futuro dalla partecipata, hanno scontato
o sconteranno in via definitiva le imposte presso il soggetto che  li
ha prodotti. 
    Quanto all'IRAP, la plusvalenza in questione, anche  se  iscritta
nel conto economico tra i proventi, per effetto della classificazione
nel portafoglio di trading imposta  dalla  normativa  censurata,  non
avrebbe  comunque  concorso  alla  formazione  della  relativa   base
imponibile, essendo inserita in una voce dello stesso conto economico
diversa da quelle che rilevano ai fini IRAP, ai sensi dell'art. 7 del
decreto  legislativo  15   dicembre   1997,   n.   446   (Istituzione
dell'imposta regionale sulle attivita'  produttive,  revisione  degli
scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell'Irpef e istituzione
di una addizionale regionale a tale imposta, nonche'  riordino  della
disciplina dei tributi locali). 
    In base alla regola dell'«[i]mmodificabilita' del regime  fiscale
a  seguito  delle  riclassificazioni»  -   funzionale   al   corretto
funzionamento del sistema di tassazione, in quanto diretta a impedire
decisioni arbitrarie del contribuente sul trattamento  applicabile  -
le eventuali  riclassificazioni  delle  partecipazioni,  operate  nel
bilancio dopo  l'ingresso  in  un  determinato  regime  fiscale,  non
sarebbero idonee a modificare tale regime. In  applicazione  di  tale
regola, l'art. 87 t.u. imposte redditi cristallizza nel regime PEX le
partecipazioni iscritte nel primo bilancio  tra  le  immobilizzazioni
finanziarie,  anche  se  successivamente  riclassificate  tra  quelle
destinate alla negoziazione. E d'altro canto, dipendendo,  secondo  i
principi  contabili,  la  classificazione  delle  partecipazioni   in
bilancio dalla loro effettiva e concreta destinazione,  una  corretta
classificazione ha un ruolo decisivo nell'individuazione  del  regime
fiscale applicabile. 
    2.2.- Generali Italia spa illustra di seguito il contenuto  delle
disposizioni censurate, richiamando anche l'interpretazione che ne ha
dato l'Agenzia delle entrate -  secondo  cui  la  collocazione  delle
quote di nuova emissione  nel  portafoglio  di  trading  avrebbe  una
valenza solo fiscale, indipendente dall'impostazione di  bilancio,  e
comporterebbe un disallineamento tra il maggior valore nominale della
partecipazione e quello fiscalmente riconosciuto, che  l'applicazione
dell'imposta sostituiva provvede a riallineare -  e  passa  quindi  a
trattare delle singole questioni. 
    2.3.- Quanto alla violazione degli artt. 3, 41  e  53  Cost.,  la
parte aderisce ai  motivi  di  censura  esposti  dal  rimettente  con
riguardo  sia  all'ipotizzata  doppia   tassazione   della   medesima
ricchezza, sia al carattere discriminatorio del trattamento riservato
ai partecipanti al capitale della Banca d'Italia  rispetto  a  quello
previsto per gli «omologhi partecipanti  al  capitale  sociale  della
generalita' degli enti economici e delle societa' commerciali». 
    A vantaggio di questi ultimi, infatti, non solo e'  mantenuto  il
regime PEX, ma e' offerto, dalla stessa legge n.  147  del  2013  (ai
commi da 140 a 147 dell'art. 1), un regime opzionale di rivalutazione
delle partecipazioni ai fini fiscali, con un'imposta sostitutiva  del
12 per cento da versare in tre rate annuali. 
    Tra le due categorie di partecipazioni non esisterebbero elementi
di  disomogeneita'  idonei  a  giustificare  il  diverso  trattamento
censurato. Il regime PEX e' riconosciuto, infatti, dall'art. 87  t.u.
imposte  redditi,   sulle   plusvalenze   da   "realizzo"   di   ogni
partecipazione in enti economici soggetti (come la Banca d'Italia)  a
IRES.  Inoltre,  la  detenzione   di   partecipazioni   immobilizzate
"plusvalenti", in quanto  tale  inidonea  a  rivelare  una  capacita'
contributiva, non costituirebbe un fatto specifico  dei  partecipanti
al capitale della Banca d'Italia. 
    Il   trattamento   denunciato   dal   rimettente    sconfinerebbe
nell'arbitrio   e   nell'irragionevolezza,    apparendo    unicamente
finalizzato a soddisfare  straordinarie  esigenze  finanziarie  dello
Stato,  a  cui  si  sarebbe  dovuto  far  fronte   con   il   ricorso
all'incremento  temporaneo  dell'aliquota   IRES   o   agli   acconti
d'imposta,  strumenti  entrambi  rispettosi   del   principio   della
«universalita' contributiva». 
    Nell'attuare un «prelievo multiplo» sulla medesima ricchezza,  le
norme censurate violerebbero anche  il  principio  di  ragionevolezza
intrinseca  della  legge.   Sarebbe   manifestamente   irragionevole,
infatti,  incidere  piu'  volte  sugli  utili  prodotti  dalla  Banca
d'Italia,  in  una  misura  complessiva  che  finirebbe  per   essere
ampiamente superiore al 50 per cento, a fronte di aliquote  ordinarie
sulle societa' che si aggirano intorno al  33  per  cento  (27,5  per
cento IRES e 5-6 per cento IRAP). 
    Tali ragioni di illegittimita'  costituzionale  varrebbero  anche
per l'art. 1, comma 148, della legge  n.  147  del  2013,  nel  testo
originario. L'unica  differenza  sostanziale  tra  i  due  «complessi
normativi» consisterebbe solo nel «piu' elevato grado  di  iniquita'»
dell'assetto definitivo, che prevede un'aliquota aumentata al 26  per
cento e termini di  pagamento  inferiori  a  sessanta  giorni,  sotto
quest'ultimo profilo in contrasto anche con l'art. 3 della  legge  27
luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto  dei  diritti
del contribuente). 
    2.4.- Anche per quanto riguarda la violazione  dei  principi  del
legittimo affidamento e della tutela della proprieta' privata  (artt.
3, 41 e 42 Cost.), Generali Italia spa aderisce alle ragioni  esposte
dal rimettente, riproponendone e sviluppandone le argomentazioni. 
    Sulla lamentata  retroattivita',  in  particolare,  e'  censurato
l'improvviso mutamento dell'aliquota dal 12 al 26 per cento,  attuato
dall'art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come  convertito,  in
relazione a «un imponibile gia' insorto» e in  spregio  al  principio
che  esige  la  conoscenza  anticipata  da  parte  del   contribuente
dell'entita' dell'imposizione. Sarebbe  stata  cosi'  «frustrata»  la
prudenziale condotta di Generali Italia spa, che  aveva  accantonato,
nel bilancio al 31 dicembre 2013, le risorse necessarie ad  assolvere
all'imposta sostitutiva nella misura del 12 per  cento  in  tre  rate
annuali, e messa in crisi la programmazione delle  uscite  di  cassa,
necessaria  per  un'equilibrata  gestione   delle   attivita'   della
societa'. 
    A sostegno delle sue censure, la parte richiama di nuovo l'art. 3
della legge n. 212 del 2000, secondo il cui comma 1 «le  disposizioni
tributarie non hanno effetto retroattivo». 
    3.- Con atto depositato il  19  luglio  2022  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso  per  la
manifesta infondatezza delle questioni. 
    3.1.- Dopo avere ricostruito il  quadro  normativo,  mettendo  in
evidenza le finalita' della  riforma  dell'assetto  partecipativo  al
capitale della Banca d'Italia, e avere  illustrato  l'evoluzione  del
regime fiscale delle partecipazioni in esame, la difesa  erariale  si
sofferma sui caratteri del tutto peculiari  di  tali  partecipazioni.
Peculiarita' che non consentirebbero di assumere gli istituti fiscali
richiamati dal rimettente, e segnatamente  la  PEX,  a  parametri  di
riferimento nel presente giudizio di legittimita' costituzionale,  se
non altro perche', per effetto della  classificazione  fiscale  delle
quote del capitale della Banca d'Italia come titoli non immobilizzati
disposta dall'art. 6, comma  6,  del  d.l.  n.  133  del  2013,  come
convertito, il regime a essi applicabile sarebbe quello di tassazione
ordinaria dei ricavi, e non quello di esenzione delle plusvalenze  da
"realizzo" di partecipazioni immobilizzate. 
    Le censure muoverebbero dall'erroneo  presupposto  che  la  Banca
d'Italia sia una normale societa' di capitali e che la posizione  dei
partecipanti al suo capitale sia assimilabile a quella  dei  soci  di
diritto  comune,  anche  sotto  il   profilo   del   regime   fiscale
applicabile. Mentre si sarebbe qui in presenza di  particolari  quote
di partecipazione (non riconducibili  alle  categorie  delle  azioni,
delle  obbligazioni  o  di  altri  strumenti  finanziari),   di   cui
l'intervento legislativo - pur senza risolvere  i  dubbi  sulla  loro
effettiva natura giuridica - innova il regime fiscale, modificando  i
diritti dei partecipanti. 
    L'Avvocatura sottolinea che  le  quote  di  nuova  emissione,  da
iscrivere ex novo in bilancio ai sensi dell'art. 6, comma 6, del d.l.
n. 133 del  2013,  come  convertito,  sarebbero  state  acquisite  in
sostituzione delle precedenti e non per effetto di un comune  aumento
gratuito di capitale. 
    Anche i poteri dei soci delle societa' di capitali e  quelli  dei
partecipanti al capitale della Banca d'Italia sarebbero  radicalmente
diversi, come emergerebbe dal confronto, su  cui  l'interveniente  si
diffonde,  tra  le  norme  civilistiche  e  quelle  che  regolano  la
struttura della Banca d'Italia, con particolare riferimento  all'atto
costitutivo, allo statuto, all'oggetto sociale, all'estinzione  della
societa', al rischio d'impresa e  ai  poteri  dei  soci  in  sede  di
approvazione del bilancio e di ripartizione degli utili. 
    A fronte di tali profonde differenze, secondo l'Avvocatura non e'
corretto ricondurre le  vicende  relative  al  capitale  della  Banca
d'Italia  (ente  pubblico  a  struttura  partecipativa)  allo  schema
ordinario del rapporto tra soci e societa' di capitali, e  pretendere
che le relative  partecipazioni  siano  assoggettate  al  trattamento
fiscale delle ordinarie partecipazioni societarie. 
    Sarebbe decisiva, in particolare, la considerazione che gli utili
della Banca d'Italia, con i quali  sono  alimentate  le  riserve  nel
rispetto delle previsioni statutarie, traggono origine dall'esercizio
delle attivita' di interesse pubblico svolte dalla Banca in base alla
legge e in regime di esclusivita'. La peculiare natura degli utili  e
la loro stretta connessione  con  le  funzioni  pubblicistiche  della
Banca d'Italia giustificherebbero il riconoscimento al legislatore di
un'ampia discrezionalita' nella definizione del loro regime fiscale. 
    Nel legittimo esercizio di tale discrezionalita', il  legislatore
avrebbe  dunque  assimilato  il  regime  fiscale   delle   quote   di
partecipazione alla Banca d'Italia, emesse a seguito di un aumento di
capitale realizzato con l'utilizzo di riserve che  partecipano  della
stessa  natura  degli  utili,  a  quello  dei  titoli  iscritti   nel
portafoglio di trading. 
    La  sottrazione  delle  quote   al   regime   PEX   non   sarebbe
irragionevole, tenuto conto che  tale  regime,  sia  pure  diretto  a
evitare la doppia tassazione, non si applica indistintamente a  tutte
le partecipazioni, ma solo a quelle che presuppongono un  legame  tra
il socio e la societa' tale  da  far  ritenere  che  il  primo  abbia
investito nella seconda per ritrarne redditi assumendosi  il  rischio
d'impresa. Cio' che si desumerebbe da alcuni dei requisiti  richiesti
dall'art. 87 t.u.  imposte  redditi,  quali  l'ininterrotto  possesso
delle partecipazioni per almeno dodici mesi prima della cessione e la
loro iscrizione nel primo bilancio tra le immobilizzazioni. 
    Queste   conclusioni    sarebbero    confermate    dalla    ratio
dell'esenzione delle plusvalenze che ispira la PEX, che e' quella  di
consentire i riassetti delle partecipazioni di gruppi societari e  di
holding, resi cosi' liberi  di  gestire  i  propri  portafogli  senza
generare carichi fiscali. Finalita', questa, non rilevante  nel  caso
delle partecipazioni al capitale della Banca d'Italia. 
    3.2.- L'imposta sostitutiva in esame non appare comunque, secondo
l'interveniente, priva di collegamenti con un presupposto  economico,
onde non violerebbe il principio della capacita' contributiva. 
    La genesi dell'imposta sarebbe connessa alla riforma dei  criteri
di remunerazione delle quote di partecipazione alla Banca d'Italia  e
al loro nuovo regime di circolazione, ora tendenzialmente libero.  Le
quote stesse, come visto, sono iscritte nei bilanci dei  partecipanti
come nuovi titoli, il cui maggior valore comporta per  la  ricorrente
nel giudizio a quo l'iscrizione a conto  economico  di  un  utile  da
"realizzo" pari a circa 290 milioni di euro, idoneo  a  concorrere  a
determinare l'utile di esercizio distribuibile ai soci. 
    Dai maggiori valori iscritti a bilancio  emergerebbe  percio'  un
indice  di  capacita'  contributiva  a  cui  commisurare  il   carico
d'imposta. La soluzione sarebbe in linea con il costante orientamento
di questa Corte secondo cui  l'ampia  discrezionalita'  riservata  al
legislatore in relazione alle varie finalita' cui, di volta in volta,
si ispira l'attivita' di imposizione fiscale consente, sia  pure  con
il limite della non arbitrarieta', di  determinare  i  singoli  fatti
espressivi della capacita' contributiva (e'  citata  la  sentenza  di
questa Corte n. 10 del 2015). 
    La difesa  erariale  ricorda  altresi'  che,  sempre  secondo  la
costante giurisprudenza costituzionale, il legislatore, nell'assumere
un determinato presupposto economicamente valutabile quale indice  di
nuova  capacita'  contributiva  in  riferimento  solo  a  determinati
soggetti, deve considerare l'insieme degli interventi legislativi che
hanno complessivamente accompagnato quello censurato  (e'  citata  la
sentenza n. 288 del 2019, relativa all'addizionale  IRES  disposta  a
carico delle imprese bancarie e assicurative dall'art.  2,  comma  2,
dello stesso d.l. n. 133 del 2013, come convertito). 
    La possibilita' di istituire  un'imposta  sostitutiva  dell'IRES,
dell'IRAP  e   di   eventuali   addizionali,   con   la   conseguente
"disattivazione" della PEX, non sarebbe  dunque  preclusa  a  priori,
potendo trovare giustificazione nel quadro di  scelte  "compensative"
operate non irragionevolmente dal legislatore. Scelte  individuabili,
come visto, per un verso nel  mutamento  dei  diritti  economici  dei
partecipanti, prima limitati a una quota irrisoria degli utili e a un
importo aggiuntivo commisurato  ai  frutti  delle  riserve,  comunque
destinati in gran parte ad alimentare le riserve  stesse;  per  altro
verso,  nella  creazione  di  un  mercato  delle  quote,   attraverso
l'ampliamento della platea dei potenziali acquirenti e  la  riduzione
della concentrazione delle quote in capo a pochi partecipanti. 
    Si dovrebbe inoltre considerare  che  l'aumento  di  capitale  e'
stato  eseguito  con  l'utilizzo  di  riserve  che  non  sono   nella
disponibilita' dei partecipanti. Non  irragionevolmente,  dunque,  il
legislatore avrebbe escluso la PEX e previsto un'imposta  sostitutiva
straordinaria,    «in    contropartita    dell'aumento,    egualmente
straordinario, del capitale della Banca, realizzato con l'impiego  di
riserve  accumulate  con  utili  netti  su  cui  i  partecipanti  non
avrebbero potuto vantare diritti economici». 
    In altri termini, l'aumento di capitale avrebbe rappresentato  un
modo per far transitare le riserve nel capitale e da li', in  termini
economici, nella sfera dei partecipanti. Tale esito  giustificherebbe
il trattamento fiscale  prescelto,  tenuto  conto  delle  «innegabili
ripercussioni in  termini  di  maggiore  solidita'  patrimoniale  dei
soggetti che di tale istituto detengono le quote, cio' comportando un
miglioramento  del  loro  rating  nei  confronti  degli  investitori,
nazionali ed esteri». 
    Inoltre, l'aumento di  capitale,  e  il  conseguente  aumento  di
valore delle singole quote, avrebbe utilizzato una ricchezza che, per
quanto preesistente e gia' tassata presso la Banca d'Italia,  non  si
potrebbe ritenere gia' esistente in capo ai partecipanti  neppure  in
termini economici, a differenza delle riserve costituite nei  bilanci
delle societa' commerciali, che possono sempre essere distribuite  ai
soci. Cio', sotto il profilo sostanziale, escluderebbe la  violazione
del divieto di doppia  imposizione  lamentata  dal  rimettente.  Tale
divieto,  peraltro,  esprimerebbe  un  mero   «valore   orientativo»,
rilevante soltanto nell'ambito del reddito d'impresa e anche in  tale
ambito non in tutte le fattispecie,  come  dimostra  l'ipotesi  della
doppia tassazione dei dividendi percepiti dai soggetti  IAS  adopters
su titoli detenuti in un portafoglio non immobilizzato. 
    3.3.- Le stesse considerazioni varrebbero a  escludere  anche  la
violazione dell'art. 41 Cost. La peculiare  natura  dell'investimento
in quote di capitale della Banca d'Italia  potrebbe  giustificare  un
trattamento fiscale che  non  lede,  per  il  solo  fatto  di  essere
differenziato, la liberta' di iniziativa economica. 
    Quanto alla pretesa violazione dell'art. 42 Cost.,  il  lamentato
effetto ablatorio della proprieta' privata dovrebbe parimenti  essere
escluso,  una  volta   riconosciuto   legittimo   l'esercizio   della
discrezionalita' legislativa. 
    3.4.- Quanto alla lesione del legittimo affidamento, l'Avvocatura
ritiene che le norme censurate non siano retroattive,  giacche',  pur
applicandosi a presupposti d'imposta sorti prima della  loro  entrata
in vigore,  nell'anno  2013,  sarebbero  state  introdotte  in  epoca
anteriore  sia  al  «momento  di   liquidazione   dell'imposta»   (da
identificare con quello  di  presentazione  della  dichiarazione  dei
redditi: 30 settembre  2014),  sia  alla  data  fissata  per  il  suo
versamento  (16  giugno  2014),  dunque  in  pendenza  del   rapporto
tributario, senza che dunque si possa ritenere che si sia formato  un
legittimo affidamento in capo al contribuente. 
    In ogni caso, nemmeno un'eventuale retroattivita' - comunque  non
preclusa alle leggi tributarie  -  avrebbe  determinato  una  lesione
della capacita' contributiva, non essendosi spezzato il rapporto  che
deve sussistere tra imposizione e capacita' stessa. 
    3.5.- La difesa erariale si sofferma infine sulle  «ripercussioni
economiche»   di    un'eventuale    pronuncia    di    illegittimita'
costituzionale. Le somme versate  a  titolo  di  imposta  sostitutiva
oggetto della richiesta di rimborso ammonterebbero all'incirca a euro
1.300.000.000. In caso di rimborso resterebbe  da  versare  l'imposta
sulle plusvalenze da "realizzo", con importi notevolmente variabili a
seconda  che,  sulla  base  della  sentenza  di  questa  Corte,   sia
applicabile o meno il regime PEX. 
    Una pronuncia di  accoglimento  potrebbe  inoltre  indirettamente
incidere  sul  trattamento  fiscale  dei  dividendi   percepiti   dai
partecipanti IAS adopters, come le banche,  che  non  sarebbero  piu'
soggetti a IRES sull'intero, ma solo sul cinque per cento. 
    4.-  Nel  giudizio  e'  intervenuta  ad  adiuvandum,   con   atto
depositato il 18 luglio 2022, Banca Carige spa - Cassa  di  Risparmio
di Genova e Imperia (di seguito: Banca Carige), societa' incorporante
Cassa di Risparmio  di  Carrara  spa,  gia'  titolare  di  quote  del
capitale della Banca d'Italia. 
    Banca Carige si afferma legittimata a intervenire per il fatto di
avere  instaurato  un  diverso  giudizio  tributario  avente  analogo
oggetto, al fine di ottenere  il  rimborso  del  prelievo  della  cui
legittimita' costituzionale si controverte in questa sede. 
    Secondo la interveniente, la  completa  assimilazione  della  sua
posizione a quella di Generali Italia spa, parte del giudizio a  quo,
la renderebbe titolare di un interesse qualificato, inerente in  modo
diretto e immediato al rapporto  dedotto  in  giudizio,  giacche'  la
definizione   della   questione   di   legittimita'    costituzionale
risolverebbe direttamente e immediatamente anche la  controversia  di
cui essa e' parte. 
    4.1.-  Nel  merito,  l'interveniente   ricostruisce   il   quadro
normativo di riferimento  e  svolge  diffuse  considerazioni  adesive
delle ragioni esposte dal rimettente,  aggiungendo,  sulla  lamentata
violazione dell'art. 42 Cost., che l'incremento dell'aliquota dal  12
al 26 per cento e  l'eliminazione  del  pagamento  rateale,  disposti
dall'art. 4, comma 12, del d.l. n.  66  del  2014,  come  convertito,
violerebbero  anche  l'art.  1  del   Protocollo   addizionale   alla
Convenzione europea dei  diritti  dell'uomo,  in  assenza  di  motivi
imperativi di interesse generale idonei a giustificare l'imposizione. 
    5.- Banca Carige ha  depositato  il  6  marzo  2023  una  memoria
illustrativa, nella quale precisa di  avere  medio  tempore  proposto
appello avverso la sentenza di  primo  grado  di  rigetto  della  sua
istanza, e, nel merito, replica alle difese svolte dal Presidente del
Consiglio dei ministri. 
    6.- Anche Generali Italia spa ha depositato, il  14  marzo  2023,
una memoria illustrativa, in cui replica alle difese  del  Presidente
del Consiglio dei ministri. 
    Queste  non  si  confronterebbero  con  il  vincolo  di  coerenza
sistematica che limita la discrezionalita' del legislatore. Una volta
individuato    discrezionalmente     il     presupposto     economico
dell'imposizione e il  modello  di  tassazione  della  ricchezza,  il
prelievo dovrebbe comunque essere coerente con  tali  scelte,  e  non
potrebbe  «svantaggiare»  i  contribuenti  che  soddisfino  tutti   i
presupposti applicativi del modello di tassazione adottato,  pena  la
violazione dei parametri costituzionali invocati dal rimettente. 
    Il sistema di tassazione  della  ricchezza  prodotta  dagli  enti
commerciali prescelto dal legislatore individuerebbe  nel  regime  di
participation   exemption   dall'IRES   un   «portato    fondamentale
dell'ordinamento tributario». Tale regime, pacificamente applicabile,
in assenza della novella  censurata,  anche  alle  partecipazioni  al
capitale della Banca d'Italia, prescinderebbe dalla possibile diversa
natura degli enti partecipati (purche' essi svolgano, come  la  Banca
d'Italia,  attivita'  commerciale)  e  dalle  peculiari   regole   di
formazione della loro base imponibile ai fini IRES (che per la  Banca
d'Italia  sono  contenute  nell'art.  114  t.u.  imposte  redditi)  e
interesserebbe tutte le partecipazioni di qualsiasi  natura  detenute
durevolmente  da  soggetti  IRES,  purche'  esse   garantiscano   una
remunerazione  derivata  esclusivamente   dalla   partecipazione   ai
risultati economici dell'emittente. 
    Si  tratterebbe  dunque  di  una   regola   di   «imprescindibile
razionalita'», in  base  alla  quale  la  ricchezza  prodotta  da  un
soggetto IRES rappresenta  una  capacita'  economica  unitaria  anche
quando fluisce in capo al partecipante, e su  tale  flusso  unico  di
capacita' economica non devono  gravare  piu'  livelli  impositivi  a
titolo di IRES. 
    La PEX  costituirebbe  pertanto  il  regime  appropriato  per  le
partecipazioni in Banca d'Italia, ne' le peculiarita'  descritte  dal
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  (attinenti  alle  funzioni
dell'istituto e ai caratteri dei diritti economici  e  amministrativi
dei  partecipanti  al  capitale)  sono  idonee  a  giustificare   una
distinzione tra la vasta schiera  di  enti  partecipati  (soggetti  a
IRES) e l'altrettanto ampia gamma di strumenti partecipativi. 
    Quanto all'argomento dell'assenza di un  «rischio  d'impresa»  da
parte dei partecipanti al capitale della  Banca  d'Italia,  la  parte
osserva che il regime PEX non sarebbe un «premio» per chi rischia, ma
un istituto confacente alle variegate ipotesi in cui il reddito,  che
ha gia'  «scontato»  l'IRES,  «venga  nuovamente  ad  esprimersi  sul
partecipante (di lungo corso)». 
    Il trattamento delle partecipazioni in esame  come  destinate  al
trading, con esclusione della PEX -  e  la  doppia  tassazione  della
stessa  ricchezza  -,  non  sarebbe  giustificato   dalle   modifiche
statutarie introdotte a seguito  della  riforma  del  capitale.  Tali
modifiche  non  avrebbero  inciso  sugli  elementi  da  cui   dipende
l'applicazione del regime  di  esenzione  ex  art.  87  t.u.  imposte
redditi, sicche' sarebbe irragionevole sottoporre i  partecipanti  al
capitale della Banca d'Italia a un  prelievo  straordinario  che  non
colpisce coloro che partecipano ad altri soggetti IRES. 
    Non sussisterebbero neppure gli indici  di  una  nuova  capacita'
contributiva individuati dal Presidente del Consiglio dei ministri. A
nulla rileverebbe, infatti, l'iscrizione della  plusvalenza  a  conto
economico tra i  ricavi,  dovuta  alla  discontinuita'  fra  nuove  e
vecchie partecipazioni, in quanto ai  fini  fiscali  il  provento  da
"realizzo" avrebbe dovuto  sottostare  al  regime  di  esenzione,  in
assenza delle disposizioni censurate. 
    Quanto all'argomento secondo cui l'aumento  di  capitale  sarebbe
stato attuato mediante utilizzo di riserve sulle quali i partecipanti
non potevano vantare diritti, la parte osserva che, da  un  lato,  le
riserve non apparterrebbero comunque allo  Stato,  ma  al  patrimonio
della Banca  d'Italia,  e  che,  dall'altro  lato,  l'operazione  non
avrebbe  portato  nella  sfera  economica  dei  partecipanti   alcuna
ricchezza ad essi prima  non  spettante,  in  quanto  «in  ogni  caso
(stante l'attuale od il vecchio Statuto), i partecipanti non  possono
apprendere le riserve ne´ tanto meno il  capitale  sociale  di  Banca
d'Italia». All'epoca dei fatti, peraltro, la  stessa  Banca  d'Italia
avrebbe smentito che la  riforma  comportasse  un  arricchimento  dei
partecipanti (e' citato il documento intitolato «Conseguenze  per  la
Banca d'Italia della legge  29  gennaio  2014,  n.  5»).  Sicche'  il
miglioramento di un indice patrimoniale non  sarebbe  espressione  di
nuova  ricchezza,  ma  si  limiterebbe  a  «rappresentare  i   valori
effettivi della situazione di fatto esistente ante novella». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe (reg.  ord.  n.  74  del
2022), la Commissione  tributaria  provinciale  di  Trieste,  sezione
seconda, dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 6,  comma
6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, in  combinato  disposto
con l'art. 1, comma 148, della legge n. 147  del  2013,  quest'ultimo
sia come sostituito dall'art. 4, comma 12, del d.l. n. 66  del  2014,
come convertito, sia nella versione originaria, in  riferimento  agli
artt. 3, 41, 42 e 53 Cost. 
    Le questioni sono sorte nel corso  di  un  giudizio  promosso  da
Generali Italia spa contro  il  silenzio-rifiuto  dell'Agenzia  delle
entrate - Direzione regionale Friuli-Venezia  Giulia  all'istanza  di
rimborso della somma versata, a  seguito  dell'aumento  del  capitale
della Banca d'Italia, e per effetto della  conseguente  rivalutazione
delle relative quote, a titolo di imposta sostitutiva  delle  imposte
sui redditi  delle  societa'  (IRES),  dell'imposta  regionale  sulle
attivita' produttive (IRAP) e di eventuali  addizionali,  in  base  a
quanto previsto dall'art. 1, comma 148, della legge n. 147 del  2013,
nel testo introdotto dall'art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del  2014,
come convertito. 
    1.1.- Sulla rilevanza, il rimettente osserva che  il  giudizio  a
quo  non  potrebbe  essere  definito  senza  fare  applicazione   del
combinato disposto dell'art. 6, comma 6, del d.l. n.  133  del  2013,
come convertito, e dell'art. 1, comma 148, della legge di  stabilita'
2014, quest'ultimo sia nel testo sostituito dall'art.  4,  comma  12,
del d.l. n. 66 del 2014, come convertito (che ha  elevato  l'aliquota
dell'imposta al 26 per cento ed eliminato il  pagamento  rateizzato),
sia nel testo originario (che prevedeva l'aliquota del 12 per cento e
il pagamento rateale). 
    A  quest'ultimo  riguardo,  assume,  in   particolare,   che   la
previsione  dell'imposta   sostitutiva   sarebbe   costituzionalmente
illegittima  anche  nel  testo  originario  -  per  quanto  in   esso
presentasse un'aliquota inferiore  e  piu'  favorevoli  modalita'  di
pagamento - per vizi analoghi a quelli che inficiano l'imposta stessa
nella sua configurazione finale, che  semplicemente  ne  acuirebbe  e
incrementerebbe i profili di illegittimita'  costituzionale.  Con  la
conseguenza che l'eventuale «caducazione  dell'art.  4,  co.  12,  DL
66/2014, verso cui il [...] ricorso muove, potendo  dare  luogo  alla
r[e]viviscenza del  co.  148  dell'art.  1,  L.  147/2013  nel  testo
originale, rende[rebbe]  necessario  chiarire  come  anche  la  norma
sostituita sia in contrasto con la Costituzione». 
    1.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il  giudice  a  quo
ritiene che le norme censurate violino, in  primo  luogo,  l'art.  53
Cost.,  per  mancanza  dell'elemento  della  «capacita'  contributiva
effettiva». 
    Non  solo,  infatti,  nessuna  capacita'  contributiva   potrebbe
sussistere «in assenza del materiale  apprendimento  della  ricchezza
oggetto di incisione», ma  i  maggiori  valori  soggetti  all'imposta
sostitutiva deriverebbero da un  aumento  del  capitale  della  Banca
d'Italia (di seguito, anche: Banca) realizzato - ai  sensi  dell'art.
4, comma 2, del d.l. n. 133 del  2013,  come  convertito  -  mediante
l'utilizzo di riserve statutarie costituite  da  utili  gia'  tassati
presso la stessa Banca, con la conseguenza di una «doppia  tassazione
della medesima ricchezza». 
    Sarebbe altresi' violato l'art. 3 Cost., per lesione dei principi
di eguaglianza e di ragionevolezza, in quanto la  «previsione  di  un
obbligo di riclassificazione solo fiscale»  delle  partecipazioni  al
capitale  della  Banca  d'Italia   nel   comparto   delle   attivita'
finanziarie   detenute    per    la    negoziazione    determinerebbe
l'ingiustificato assoggettamento di tali partecipazioni a  un  regime
fiscale deteriore rispetto a quello delle partecipazioni  finanziarie
non detenute per la  negoziazione,  che  beneficiano  del  regime  di
esenzione, nei limiti del 95 per cento delle plusvalenze  realizzate,
previsto dall'art. 87 t.u. imposte redditi (cosiddetta "participation
exemption" o "PEX").  In  conseguenza  di  cio',  i  partecipanti  al
capitale della Banca sarebbero «chiamati a contribuire in  misura  di
gran lunga maggiore» di quanto  non  siano  gli  altri  detentori  di
partecipazioni   societarie   iscritte   tra   le   «immobilizzazioni
finanziarie»,  subendo  «un  trattamento  svantaggioso  e  gravemente
discriminatorio   rispetto   a   quello   riservato   agli   omologhi
partecipanti al capitale  sociale  della  generalita'  degli  enti  e
societa' commerciali». 
    Sussisterebbe  anche  una  grave  lesione   della   liberta'   di
iniziativa economica privata garantita dall'art. 41 Cost., in  quanto
sarebbe  «sottoposta  a  tassazione  immediata,  ad  aliquota  appena
inferiore a quella  piena,  una  ricchezza  che,  secondo  le  regole
applicabili  alla  generalita'  dei  contribuenti  e  necessarie   al
corretto funzionamento  dei  principi  su  cui  poggia  l'ordinamento
tributario, sarebbe rilevata solo al (suo) realizzo effettivo e nella
limitata misura del 5%». 
    La normativa censurata contrasterebbe ancora con il principio del
legittimo affidamento nella certezza dell'ordinamento  giuridico,  in
relazione al quale il rimettente invoca gli artt. 3, 41  e  53  Cost.
Rileverebbero in tal senso: 
    a) la «forzosa esclusione» dal regime PEX di una ricchezza,  pari
al maggior  valore  delle  partecipazioni  al  capitale  della  Banca
d'Italia, «insorta/maturata» prima dell'introduzione  del  «censurato
intervento normativo»; 
    b)  la  «immotivata   ridefinizione   sostanziale»   dell'imposta
sostitutiva a opera dell'art. 4, comma 12, del d.l. n. 66  del  2014,
come  convertito,  sotto   il   profilo   del   «grave   innalzamento
dell'aliquota» dal 12 al  26  per  cento  e  dell'eliminazione  della
rateazione  triennale,  con  conseguente   produzione   di   «effetti
spregiudicatamente retroattivi». 
    Infine, secondo il giudice a quo sarebbe leso anche il  principio
di «inviolabilita'» della  proprieta'  privata  di  cui  all'art.  42
Cost., in quanto le  norme  censurate  causerebbero  «un  sostanziale
effetto ablatorio» attraverso «una  mera  spoliazione  patrimoniale».
Esse non sarebbero dirette a incidere su una nuova  ricchezza  (cioe'
una ricchezza «non gia' rilevata ai fini dell'imposizione»), ma a far
acquisire  all'erario  parte  del  patrimonio  dei  partecipanti   al
capitale della Banca d'Italia alla data del 31 dicembre  2013,  senza
riguardo alle esigenze di contemperamento delle  indefinite  esigenze
finanziarie  dello  Stato  con  la  tutela  del  patrimonio  di  tali
contribuenti. 
    1.3.- Nel  giudizio  costituzionale  si  e'  costituita  Generali
Italia spa, argomentando a sostegno della fondatezza delle questioni,
ed  e'  intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio   dei   ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,  che  ha
concluso per la loro manifesta infondatezza. 
    E' altresi' intervenuta ad adiuvandum Banca Carige spa,  societa'
incorporante Cassa di Risparmio di  Carrara  spa,  gia'  titolare  di
quote del capitale  della  Banca  d'Italia,  che  afferma  di  essere
legittimata a intervenire per avere instaurato  un  diverso  giudizio
tributario di analogo oggetto al fine di ottenere il rimborso  di  un
prelievo imposto sulla base delle stesse norme della cui legittimita'
costituzionale si controverte in questa sede. 
    2.- Prima  di  affrontare  il  merito  delle  questioni,  occorre
risolvere alcuni profili preliminari. 
    2.1.-  Innanzitutto  deve  essere  confermata  l'inammissibilita'
dell'intervento   di   Banca   Carige,   per   le   ragioni   esposte
nell'ordinanza emessa all'udienza del 4 aprile  2023,  allegata  alla
presente sentenza. 
    2.2.- Un secondo profilo attiene alla rilevanza della censura che
investe il combinato disposto dell'art. 6, comma 6, del d.l.  n.  133
del 2013, come convertito, e dell'art. 1, comma 148, della  legge  n.
147 del 2013 nella sua versione originaria, ossia anteriore alla  sua
integrale sostituzione a opera dell'art. 4, comma 12, del d.l. n.  66
del 2014, come convertito. Il rimettente fonda  la  sua  censura  sul
duplice  assunto  che  l'eventuale  dichiarazione  di  illegittimita'
costituzionale della disposizione piu' recente  farebbe  rivivere  la
disposizione da essa sostituita, e che quest'ultima - sebbene preveda
un'aliquota inferiore e piu'  favorevoli  modalita'  di  pagamento  -
sarebbe comunque a sua volta inficiata nella  sostanza  dagli  stessi
vizi. 
    Il giudice a quo evoca dunque il tema  della  reviviscenza  delle
norme, rispetto al quale questa Corte ha chiarito con  giurisprudenza
costante che si tratta di fenomeno  circoscritto  a  casi  tassativi,
corrispondenti  alle  ipotesi  di  annullamento  di  norme  meramente
abrogatrici di altre disposizioni (ex plurimis, sentenze n.  220  del
2021, n. 10 del 2018 e n. 218  del  2015),  di  annullamento  di  una
disposizione legislativa per vizio procedurale (sentenze  n.  95  del
2020, n. 148 e n. 23 del 2016 e n. 32 del 2014; ordinanza n. 184  del
2017) e di declaratoria di illegittimita' costituzionale  di  singole
parole di una disposizione (sentenze n. 8 del 2022, n. 106 del 2018 e
n. 58 del 2006). A nessuna di queste  ipotesi  puo'  essere  tuttavia
ricondotto il caso di specie, nel quale l'art. 4, comma 12, del  d.l.
n. 66 del 2014, come convertito, non ha disposto la mera  abrogazione
del comma 148,  ma  ne  ha  integralmente  sostituito  il  contenuto,
sicche' l'eventuale annullamento della disposizione risultante  dalla
sostituzione (che neppure sarebbe  limitato  a  singole  parole,  ne'
deriverebbe da un vizio procedurale) non produrrebbe l'effetto di far
tornare in vita quella precedente. 
    Le questioni aventi per oggetto il combinato  disposto  dell'art.
6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, e dell'art. 1,
comma 148, della legge n. 147 del 2013 nella versione originaria sono
dunque inammissibili per difetto di rilevanza, posto che il giudice a
quo non sarebbe comunque chiamato a farne applicazione. 
    2.3.- Sempre in via preliminare va dichiarata  l'inammissibilita'
di  alcune  delle  questioni  sollevate  per  difetto   di   adeguata
motivazione sulla non manifesta infondatezza. 
    2.3.1.-  Non  risulta  motivata,   innanzitutto,   la   lamentata
violazione dell'art. 41 Cost. Il ricorrente assume che  sarebbe  lesa
la liberta' di iniziativa economica, in quanto verrebbe «sottoposta a
tassazione immediata, ad aliquota appena inferiore  a  quella  piena,
una ricchezza che, secondo le regole applicabili alla generalita' dei
contribuenti e necessarie al corretto funzionamento dei  principi  su
cui poggia l'ordinamento tributario, sarebbe rilevata solo  al  (suo)
realizzo effettivo e nella limitata misura del 5%». 
    L'argomento speso,  tuttavia,  incentrato  sul  meccanismo  della
tassazione e sulla sua misura, non da'  conto  in  alcun  modo  delle
ragioni per cui  la  lamentata  immediatezza  della  tassazione,  con
un'aliquota comunque inferiore a quella ordinaria (del 26 a fronte di
quella ordinaria del 27,5 per cento), inciderebbe sulla  liberta'  di
iniziativa economica. Ne' tale conseguenza sarebbe,  in  alcun  altro
modo, nemmeno implicitamente desumibile dal tenore della censura. 
    La  questione  risulta  dunque  inammissibile  alla  luce   dalla
costante giurisprudenza di questa Corte secondo  cui  l'ordinanza  di
rimessione deve contenere una «autonoma illustrazione  delle  ragioni
per le quali la normativa censurata integrerebbe una  violazione  del
parametro costituzionale evocato» (ex plurimis, sentenze n.  237  del
2021 e n. 54 del 2020). 
    2.3.2.- Alle stesse conclusioni si deve pervenire per la  censura
attinente alla pretesa retroattivita' delle disposizioni  contestate,
formulata  nell'ambito  delle  piu'  ampie  questioni  sollevate   in
riferimento agli artt.  3,  41  e  53  Cost.  in  tema  di  legittimo
affidamento. 
    Il  giudice   a   quo   lamenta   che   le   modifiche   relative
all'innalzamento dell'aliquota e alle meno  favorevoli  modalita'  di
pagamento dell'imposta, apportate dall'art. 4, comma 12, del d.l.  n.
66  del  2014,   come   convertito,   avrebbero   prodotto   «effetti
spregiudicatamente retroattivi», ma non chiarisce le ragioni per  cui
tale supposta retroattivita' della normativa censurata  violerebbe  i
parametri  invocati.  Ne',  del  resto,  stante   il   principio   di
autosufficienza dell'ordinanza di rimessione,  e'  possibile  colmare
tali lacune facendo ricorso alle integrazioni al riguardo  ricavabili
dalle memorie delle parti costituite (ex plurimis,  sentenze  n.  237
del 2021 e n. 239  del  2019),  e  segnatamente  alle  considerazioni
svolte sul tema, nel presente giudizio, da Generali Italia spa. 
    Sempre con riguardo  alla  censura  attinente  al  principio  del
legittimo affidamento (per la parte  residua),  l'invocato  parametro
dell'art. 41 Cost. risulta inconferente e comunque  di  esso  non  e'
indicata  la  pertinenza,  sicche'  la  questione  e'  in  parte  qua
inammissibile anche sotto questo ulteriore profilo. 
    3.- Passando all'esame del  merito  delle  restanti  censure,  e'
necessario dare innanzitutto brevemente conto del contesto  normativo
nel quale il d.l. n. 133  del  2013,  come  convertito,  si  innesta,
introducendo, al Titolo II, composto dagli artt. 4, 5 e 6, una  nuova
disciplina del capitale della Banca d'Italia. 
    3.1.- A partire dalla qualificazione della  Banca  d'Italia  come
istituto di diritto pubblico, operata dall'art. 20, primo comma,  del
regio decreto-legge 12 marzo 1936, n. 375, recante «Disposizioni  per
la  difesa  del  risparmio  e  per  la  disciplina   della   funzione
creditizia» (in precedenza  essa  aveva  lo  status  di  societa'  di
diritto privato), la struttura del suo capitale, le condizioni  della
partecipazione ad esso nonche' i diritti  di  natura  patrimoniale  e
amministrativa dei partecipanti sono disciplinati dalla legge e dallo
statuto della Banca stessa, secondo regole  derogatorie  rispetto  al
regime ordinario delle societa' di capitali. 
    Il valore nominale del capitale della Banca - rimasto  inalterato
fino all'emanazione del d.l. n. 133 del 2013, come convertito  -  era
fissato  in  «trecento  milioni  di  lire»  (pari  a  156.000  euro),
suddiviso in «trecentomila quote di mille lire ciascuna»  (0,52  euro
ciascuna) (art. 20, secondo comma). Era inoltre previsto che, a  fini
di  tutela  del  pubblico  credito  e  di  continuita'  di  indirizzo
dell'Istituto di emissione, le quote  potessero  appartenere  solo  a
casse di risparmio, istituti di credito di diritto pubblico e  banche
di interesse  nazionale,  nonche'  a  istituti  di  previdenza  o  di
assicurazione  (art.  20,  terzo  comma).  Lo  statuto  della   Banca
stabiliva ancora che la circolazione delle quote  non  fosse  libera,
nemmeno tra i soggetti legittimati a detenerle, e che esse  potessero
essere trasferite solo previo consenso del Consiglio superiore  della
Banca, su proposta del suo Direttorio, «nel rispetto dell'autonomia e
dell'indipendenza dell'Istituto  e  della  equilibrata  distribuzione
delle quote» (art. 3 dello statuto ante 2013). 
    Gli  artt.  39  e  40  dello  statuto  prevedevano  poi  che   ai
partecipanti potessero essere distribuiti dividendi  per  un  importo
fino al 10 per cento del capitale (dunque, per un importo complessivo
non superiore a 15.600 euro), oltre a una somma aggiuntiva  prelevata
dai frutti annualmente percepiti sugli  investimenti  delle  riserve,
non superiore al 4 per cento dell'importo delle riserve medesime. 
    Va ricordato infine - in quanto rilevante per la soluzione  della
questione - che la  disciplina  della  Banca  d'Italia  assoggetta  a
limitazioni il diritto di voto dei partecipanti al  suo  capitale  ed
esclude  che  questi  ultimi   possano   influenzare   le   attivita'
istituzionali della Banca, quali la vigilanza bancaria e l'attuazione
della politica monetaria. 
    3.2.- La riforma del 2013 -  qui  in  esame  per  il  trattamento
fiscale riservato al disposto aumento di capitale  -  e'  intervenuta
sul descritto quadro normativo, incidendo sull'assetto  partecipativo
al capitale della Banca come si era venuto definendo in concreto  nel
corso del  tempo.  Un  assetto  che,  per  effetto  dei  processi  di
concentrazione  bancaria  verificatisi  gia'  a  partire  dagli  anni
Novanta del Novecento, aveva visto crescere la  percentuale  detenuta
dai gruppi bancari di maggiori dimensioni. 
    Il legislatore  ha  cosi',  innanzitutto,  autorizzato  la  Banca
d'Italia ad «aumentare il proprio capitale  mediante  utilizzo  delle
riserve statutarie all'importo  di  euro  7.500.000.000»,  prevedendo
altresi' che «a seguito dell'aumento il capitale e' rappresentato  da
quote nominative di partecipazione di nuova emissione, di euro 25.000
ciascuna» (art. 4, comma  2).  Ha  inoltre  riconfigurato  i  diritti
patrimoniali,  nel  senso  che  «[a]i  partecipanti  possono   essere
distribuiti esclusivamente dividendi annuali, a  valere  sugli  utili
netti, per un importo non superiore al  6  per  cento  del  capitale»
(art. 4, comma 3). 
    L'obiettivo di ridurre  la  concentrazione  dei  partecipanti  al
capitale della Banca  e'  stato  perseguito  attraverso  un  triplice
ordine di misure: l'ampliamento della platea dei potenziali detentori
di partecipazioni, la  previsione  di  un  limite  massimo  di  quote
detenibili, una facilitazione del trasferimento delle quote. 
    Le  quote  di  partecipazione  al  capitale  possono  ora  essere
detenute da banche aventi sede legale e amministrazione  centrale  in
Italia, da imprese di assicurazione  e  riassicurazione  aventi  sede
legale e amministrazione centrale in Italia, da fondazioni  bancarie,
da enti e istituti di previdenza e assicurazione aventi  sede  legale
in Italia e da fondi pensione (art. 4, comma 4). 
    E' stata notevolmente  diluita  la  base  partecipativa,  con  la
previsione  che   «[c]iascun   partecipante   non   puo'   possedere,
direttamente o indirettamente, una quota del capitale superiore al  3
per cento»» (limite innalzato al 5 per  cento,  con  effetto  dal  1°
gennaio 2022, ai sensi dell'art. 1, commi 715 e 717, della  legge  30
dicembre 2021, n. 234, recante «Bilancio di  previsione  dello  Stato
per l'anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale  per  il  triennio
2022-2024»), e che inoltre «[p]er le quote possedute in  eccesso  non
spetta il diritto di voto ed i relativi dividendi sono imputati  alle
riserve statutarie della Banca d'Italia» (art. 4, comma 5). 
    Al fine di favorire  il  rispetto  di  tali  limiti,  alla  Banca
d'Italia e' consentito di acquistare temporaneamente le proprie quote
di  partecipazione  e  stipulare  contratti  aventi  ad  oggetto   le
medesime,  assicurando  trasparenza,   parita'   di   trattamento   e
salvaguardia  del  patrimonio  della  Banca,   con   riferimento   al
presumibile valore di realizzo (art. 4, comma 6). Per il  periodo  in
cui le quote restano nella disponibilita' della  Banca  d'Italia,  e'
previsto inoltre che il relativo diritto di voto sia sospeso e che  i
dividendi siano imputati alle riserve statutarie della stessa. 
    La riforma ha cosi' creato un  mercato  secondario  delle  quote,
favorito sia  dalla  possibilita'  di  una  sollecita  ricollocazione
attraverso la stessa Banca d'Italia, sia dalla prevista  soppressione
della clausola statutaria di gradimento (art. 6, comma 5, lettera d). 
    E' stata poi espressamente abrogata  la  disposizione  (art.  19,
comma 10, della legge 28 dicembre 2005, n. 262, recante «Disposizioni
per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati  finanziari»)
che aveva  affidato  a  un  regolamento  governativo  il  compito  di
ridefinire l'assetto proprietario della Banca d'Italia e di stabilire
le modalita' di trasferimento delle quote di  partecipazione  al  suo
capitale in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri  enti
pubblici (art. 6, comma 4). 
    3.3.-  Le  disposizioni  censurate  disciplinano  le  conseguenze
contabili e fiscali, per i  partecipanti,  dell'aumento  di  capitale
della Banca d'Italia e sono il risultato di una complessa  evoluzione
legislativa. 
    Nel testo anteriore alla conversione in legge, l'art. 6, comma 6,
del d.l. n. 133 del 2013 prevedeva che, a partire  dall'esercizio  in
corso alla data di entrata in vigore del  decreto  stesso,  e  quindi
dall'esercizio in corso al  30  novembre  2013,  «i  partecipanti  al
capitale della Banca d'Italia trasferiscono le quote,  ove  gia'  non
incluse, nel comparto delle attivita'  finanziarie  detenute  per  la
negoziazione, ai  medesimi  valori  di  iscrizione  del  comparto  di
provenienza», aggiungendo che, salvo quanto appena riferito, «restano
ferme le disposizioni di cui all'articolo 4 del  decreto  legislativo
28 febbraio 2005, n. 38». 
    Collegandosi a tale previsione, e  mentre  era  ancora  in  corso
l'iter di conversione, l'art. 1, comma 148, della legge  n.  147  del
2013 aveva previsto che «[a]l  trasferimento  previsto  dal  comma  6
dell'articolo 6 del  decreto-legge  30  novembre  2013,  n.  133,  si
applica l'articolo 4 del decreto del Ministro dell'economia  e  delle
finanze 8 giugno 2011, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 135 del
13 giugno  2011,  qualunque  sia  la  categoria  di  provenienza;  ai
maggiori valori iscritti in bilancio per effetto del comma  6,  primo
periodo, dello stesso articolo 6 del citato decreto-legge n. 133  del
2013 si applica un'imposta sostitutiva delle imposte  sui  redditi  e
dell'imposta regionale sulle  attivita'  produttive  e  di  eventuali
addizionali, con l'aliquota di cui al comma 143, da versarsi nei modi
e nei termini previsti dal comma 145». 
    Con  tali  rinvii,  il  legislatore  richiamava  l'aliquota,   le
modalita' e i termini di versamento dell'imposta sostitutiva prevista
nel regime di rivalutazione facoltativa dei beni  d'impresa  ai  fini
fiscali, disciplinato ai commi da 140 a 147 dello stesso art. 1. 
    Per parte sua, il comma 145 prevede che «[l]e imposte sostitutive
di cui ai  commi  142  e  143  sono  versate  nel  periodo  d'imposta
successivo a quello in corso al 31 dicembre 2013 in tre rate di  pari
importo, senza pagamento di interessi,  di  cui  la  prima  entro  il
giorno 16 del sesto mese dalla fine del periodo d'imposta, la seconda
entro il giorno 16 del nono mese dalla fine del periodo  d'imposta  e
la terza entro il giorno  16  del  dodicesimo  mese  dalla  fine  del
periodo d'imposta». Modalita' e termini analoghi (tre  rate  di  pari
importo da versare entro il 16  giugno,  il  16  settembre  e  il  16
dicembre 2014) valevano pertanto anche per l'imposta  sostitutiva  in
esame. 
    La soluzione normativa espressa negli artt. 6, comma 6, del  d.l.
n. 133 del 2013 e 1, comma 148, della legge n. 147  del  2013,  nella
versione  appena  riferita,  muoveva  dunque   dall'assunto   che   i
destinatari delle partecipazioni derivanti dall'aumento  di  capitale
della Banca d'Italia dovessero operare  una  riclassificazione  delle
quote che gia' avevano iscritto nei propri bilanci.  In  particolare,
le quote gia' iscritte tra le partecipazioni immobilizzate  (id  est,
nelle "immobilizzazioni finanziarie" o in comparti assimilabili, come
la categoria available for sale, a  seconda  dei  principi  contabili
seguiti dai partecipanti, diversi per  banche  e  per  assicurazioni)
dovevano essere riclassificate come attivita'  finanziarie  destinate
alla negoziazione (cosiddetto "portafoglio di trading"). 
    Questa impostazione aveva manifestato criticita' di varia natura,
sul piano contabile e fiscale, cui si e'  fatto  fronte  in  sede  di
conversione. L'art. 6, comma 6, del d.l. n. 133  del  2013  e`  stato
cosi' riformulato: «[a] partire dall'esercizio in corso alla data  di
entrata in vigore del presente decreto [id est, l'esercizio in  corso
al 30 novembre 2013], i partecipanti al capitale della Banca d'Italia
iscrivono le quote di cui all'articolo 4, comma 2, nel comparto delle
attivita' finanziarie  detenute  per  la  negoziazione,  ai  medesimi
valori.  Restano  in  ogni  caso  ferme  le   disposizioni   di   cui
all'articolo 4 del decreto legislativo 28 febbraio 2005, n. 38». 
    E' questa la versione dell'art. 6, comma 6, oggetto di censura da
parte del giudice a quo nel suo combinato disposto con il  comma  148
dell'art. 1 della legge n. 147 del 2013, il quale a sua  volta  viene
qui in considerazione - non  nella  versione  originaria,  della  cui
censura si e' esclusa  la  rilevanza  (vedi  supra,  punto  2.2.  del
Considerato in diritto) - ma nella sua versione definitiva. 
    Tale  ultima  versione  e'  frutto  dell'intervento   legislativo
operato con l'art. 4, comma  12,  del  d.l.  n.  66  del  2014,  come
convertito, che ha sostituito il comma 148 dell'art. 1 della legge n.
147 del 2013 nei termini seguenti: «[a]i maggiori valori iscritti nel
bilancio relativo all'esercizio in corso al  31  dicembre  2013,  per
effetto dell'articolo 6, comma 6, del decreto-legge 30 novembre 2013,
n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 29  gennaio  2014,
n. 5, si applica un'imposta sostitutiva delle imposte sui  redditi  e
dell'imposta regionale sulle  attivita'  produttive  e  di  eventuali
addizionali, da versarsi in  unica  soluzione  entro  il  termine  di
versamento del saldo delle imposte sui redditi dovute per il  periodo
d'imposta in corso al  31  dicembre  2013.  Gli  importi  da  versare
possono essere compensati ai sensi del decreto legislativo  9  luglio
1997, n. 241. L'imposta e` pari al 26 per cento del  valore  nominale
delle quote alla suddetta  data,  al  netto  del  valore  fiscalmente
riconosciuto. Il valore fiscale delle quote si considera  riallineato
al maggior valore iscritto in bilancio, fino a concorrenza del valore
nominale, a partire dal periodo  d'imposta  in  corso  alla  data  di
entrata in vigore della presente disposizione. Se il valore  iscritto
in bilancio e` minore del valore nominale, quest'ultimo valore rileva
comunque ai fini fiscali a partire dallo stesso periodo d'imposta». 
    Rispetto alla versione precedente i profili  di  novita'  possono
essere cosi' sintetizzati: a) l'aliquota dell'imposta sostitutiva  e'
aumentata dal 12 al 26 per cento; b) il suo versamento deve  avvenire
in unica soluzione (entro il 16 giugno 2014) e non piu' in tre  rate;
c) e' scomparso il riferimento all'art. 4 del d.m. 8 giugno 2021;  d)
l'imposta sostitutiva e' dovuta,  a  partire  dal  periodo  d'imposta
2014, sul valore nominale delle quote di nuova emissione (25.000 euro
ciascuna), al netto del precedente  valore  fiscale  riconosciuto,  a
prescindere dal valore effettivamente iscritto a bilancio, se  minore
del primo. 
    3.4.- Cosi' ripercorso l'iter della  sua  formazione,  l'art.  6,
comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, va interpretato -
in linea con la  tesi  sostenuta  dall'Agenzia  delle  entrate  nella
circolare n.  4/E  del  24  febbraio  2014  (Rivalutazione  quote  di
partecipazione al capitale della Banca d'Italia - Articolo  6,  comma
6, del decreto legge 30 novembre 2013, n. 133  e  articolo  1,  comma
148, della legge 27 dicembre 2013, n. 147)  e  fatta  sostanzialmente
propria dal rimettente - nel senso che la collocazione delle quote di
nuova emissione nel portafoglio di trading in esso  prevista  ha  una
valenza solo fiscale, indipendente dall'impostazione di  bilancio,  e
dunque a prescindere da valutazioni di carattere contabile. 
    Da un  punto  di  vista  esclusivamente  fiscale,  la  disciplina
inquadra le quote di partecipazione al capitale della Banca  d'Italia
nel comparto delle attivita' finanziarie detenute per la negoziazione
e determina un disallineamento tra il maggior valore  nominale  della
partecipazione  e  quello   fiscalmente   riconosciuto.   La   stessa
disciplina prevede inoltre che la differenza tra i due  valori  venga
"riallineata"   con   l'applicazione   di   un'imposta   sostitutiva,
caratterizzata da un'aliquota inferiore, anche se di poco,  a  quella
applicabile in caso di tassazione ordinaria. 
    Occorre  precisare,  a  questo   proposito,   che   l'istituzione
dell'imposta  sostitutiva  comporta  la   radicale   inapplicabilita'
all'aumento di valore delle quote di capitale  della  Banca  d'Italia
del regime PEX, previsto dal citato art. 87 t.u. imposte redditi.  In
base ad esso sono esentate dall'imposta sul reddito nella misura  del
95 per cento le plusvalenze determinate dal  realizzo  di  «azioni  o
quote di partecipazioni»,  quando  ricorrano  alcune  condizioni  che
garantiscono la  natura  non  speculativa  dell'operazione.  Se  tali
condizioni non ricorrono, all'intera plusvalenza  realizzata  -  pari
alla differenza tra il corrispettivo conseguito e  il  costo  fiscale
riconosciuto  -  si  continua  invece  ad  applicare  il  regime   di
tassazione ordinaria stabilito dall'art. 86 t.u. imposte redditi. 
    La (parziale) esenzione assicura alle plusvalenze  realizzate  un
trattamento fiscale  simmetrico  a  quello  dei  dividendi,  che  non
concorrono a formare il reddito della societa' o dell'ente ricevente,
«in quanto esclusi [...] per il 95  per  cento  del  loro  ammontare»
(art. 89, comma 2, t.u. imposte redditi).  In  entrambi  i  casi,  la
soluzione prescelta e' dunque  improntata,  al  fine  di  evitare  la
doppia imposizione, al criterio di tassazione del reddito al  momento
della produzione e non al momento della sua distribuzione. 
    L'imposta oggetto di  censura  colpisce  per  intero  il  maggior
valore derivante dalla mera iscrizione a bilancio della rivalutazione
delle quote di capitale della Banca d'Italia,  mentre  l'applicazione
del regime ordinario - del quale il partecipante a tale capitale  non
puo' piu'  beneficiare  -  comporterebbe,  al  momento  del  realizzo
(eventuale) della plusvalenza, l'esenzione nella misura  del  95  per
cento. 
    3.5.- Cosi' chiarita la portata della  normativa  contestata,  e'
possibile passare all'esame delle singole censure. 
    3.5.1.- Le questioni sollevate in riferimento agli artt. 3  e  53
Cost., per violazione del principio di capacita' contributiva  e  dei
principi di eguaglianza e ragionevolezza, sono strettamente  connesse
e si prestano a una trattazione unitaria, risolvendosi in sostanza in
un'unica questione, con cui il rimettente lamenta: 
    a) l'assenza del presupposto economico  dell'imposta,  in  quanto
quest'ultima non inciderebbe su una ricchezza realmente acquisita dai
partecipanti al capitale della Banca d'Italia, ricchezza che potrebbe
derivare solo dalla effettiva realizzazione della plusvalenza; 
    b) la sottrazione delle partecipazioni in esame al regime PEX, di
cui i detentori avrebbero altrimenti potuto  fruire  al  momento  del
realizzo della plusvalenza; 
    c)  la  conseguente  doppia  tassazione  economica  della  stessa
ricchezza, che il regime PEX mira a evitare,  in  quanto  il  maggior
valore delle partecipazioni corrisponderebbe a utili gia' tassati una
prima volta presso la Banca d'Italia, che verrebbero  assoggettati  a
imposizione una seconda volta presso i partecipanti al suo capitale; 
    d) l'ingiustificata disparita' di trattamento fra questi ultimi e
i detentori di partecipazioni durevoli  in  altri  «enti  e  societa'
commerciali» a cui si applicherebbe la PEX, trattandosi di situazioni
omogenee. 
    Dei vari profili di quella che risulta  essere,  nella  sostanza,
un'unica censura e' opportuno un esame unitario anche per la  stretta
connessione dei due parametri invocati: l'art. 53  Cost.  costituisce
infatti,  per  costante  giurisprudenza  costituzionale,  espressione
specifica in  materia  tributaria  del  piu'  generale  principio  di
eguaglianza e di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. (ex plurimis,
sentenze n. 149 del 2021, n. 142 del 2014, n. 116 del 2013 e  n.  111
del 1997; ordinanza n. 341 del 2000). 
    3.5.2.- Sempre secondo la giurisprudenza  di  questa  Corte,  per
«capacita'  contributiva»  ai  sensi  dell'art.  53  Cost.,  si  deve
intendere  l'idoneita'  del  soggetto   all'obbligazione   d'imposta,
desumibile dal presupposto economico cui l'imposizione e'  collegata,
presupposto che consiste in qualsiasi indice rivelatore di ricchezza,
secondo valutazioni riservate al legislatore, salvo il  controllo  di
legittimita' costituzionale sotto il profilo della loro arbitrarieta'
o irrazionalita' (ex plurimis, sentenza n. 42 del 1992). 
    In   questo   contesto,   «al   legislatore    spetta    un'ampia
discrezionalita'  in  relazione  alle  varie  finalita'  alle   quali
s'ispira l'attivita' di imposizione fiscale,  essendogli  consentito,
"[...] sia pure con il limite della non arbitrarieta', di determinare
i singoli fatti espressivi della capacita'  contributiva  che,  quale
idoneita' del  soggetto  all'obbligazione  di  imposta,  puo'  essere
desunta da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza [...]"  (sentenza
n. 111 del 1997)» (ex plurimis, sentenza n. 240 del 2017). Sicche' il
controllo di  questa  Corte  sul  rispetto  dei  menzionati  principi
costituzionali di cui agli artt. 3  e  53  Cost.  si  risolve  in  un
giudizio sull'uso ragionevole o meno che il legislatore stesso  abbia
fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, diretto  a
verificare la coerenza interna della struttura  dell'imposta  con  il
suo  presupposto  economico,   come   pure   la   non   arbitrarieta'
dell'entita' dell'imposizione (ex plurimis, sentenze n. 10 del  2015,
n. 142 del 2014, n. 116 del 2013, n. 223 del 2012 e n. 111 del  1997;
ordinanza n. 341 del 2000). 
    La possibilita' di imposizioni differenziate,  dunque,  anche  se
non vietata dagli artt. 3 e 53 Cost., deve pur sempre ancorarsi a una
adeguata   giustificazione   obiettiva,   la   quale   deve    essere
coerentemente, proporzionalmente  e  non  irragionevolmente  tradotta
nella struttura dell'imposta (sentenze n. 10 del  2015,  n.  142  del
2014 e n. 21 del 2005), e in particolare «ogni  diversificazione  del
regime  tributario,  per  aree  economiche   o   per   tipologia   di
contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni,  in
assenza  delle  quali  la  differenziazione  degenera  in  arbitraria
discriminazione» (sentenza n. 10 del 2015). 
    In  applicazione  di  tali  principi,  questa  Corte   aveva   in
precedenza  affermato  che,  cosi'  come  «l'ampia   discrezionalita'
riservata al legislatore in relazione alle varie  finalita'  cui,  di
volta in volta, si ispira l'attivita' di  imposizione  fiscale  [...]
consente al legislatore stesso, sia pure  con  il  limite  della  non
arbitrarieta',  di  determinare  i  singoli  fatti  espressivi  della
capacita' contributiva», allo stesso modo «non e' di per  se'  lesivo
del principio di uguaglianza e di capacita' contributiva il fatto che
il legislatore individui, di volta in volta, quali indici  rivelatori
di capacita' contributiva, le varie specie di beni  patrimoniali  sia
di natura mobiliare che immobiliare» (sentenza n. 111 del 1997). 
    Lo   specifico   tema   dell'ammissibilita'   delle    cosiddette
discriminazioni qualitative dei redditi e' stato affrontato in  tempi
piu' recenti nella sentenza n. 288 del 2019, sull'imposta  introdotta
con l'art. 2, comma 2, dello  stesso  d.l.  n.  133  del  2013,  come
convertito, che, in via straordinaria e temporanea, ha gravato di una
«addizionale» IRES le imprese creditizie, finanziarie e assicurative. 
    Nella pronuncia si ribadisce che la pur ampia discrezionalita' di
cui gode in astratto il legislatore nell'identificare gli  indici  di
capacita' contributiva  «si  riduce  laddove  sul  piano  comparativo
vengano in evidenza, in concreto, altre situazioni in cui  lo  stesso
legislatore, in difetto di coerenza nell'esercizio della  stessa,  ha
effettuato scelte impositive differenziate a parita' di presupposti»,
dal momento che «[i]n questi casi [...] viene in causa  il  principio
dell'eguaglianza   tributaria».   Si   riconosce,   nondimeno,   che,
ricorrendo determinate condizioni,  nelle  peculiari  caratteristiche
del mercato finanziario puo' essere non irragionevolmente individuato
uno specifico e autonomo indice di capacita' contributiva,  idoneo  a
giustificare una regola differenziata di  determinazione  della  base
imponibile,  occorrendo  considerare  «l'insieme   degli   interventi
legislativi   che   hanno   complessivamente   accompagnato    quello
censurato», ove quest'ultimo  «[si  collochi]  nel  contesto  di  una
riforma [...] che ha prodotto significativi effetti  compensativi  in
riferimento ai soggetti passivi della nuova imposta». 
    Di conseguenza, nella citata sentenza questa  Corte  ha  ritenuto
non censurabile l'individuazione del presupposto della  «addizionale»
IRES nell'appartenenza dei soggetti passivi al  mercato  finanziario,
ravvisando  in  tale  dato  uno   specifico   indice   di   capacita'
contributiva,  anche  in  ragione  del  vantaggio  derivante  a  tali
soggetti dalla piu' favorevole disciplina sulla  deducibilita'  delle
svalutazioni  e  delle  perdite  su  crediti  verso   la   clientela,
introdotta dall'art. 1, comma 160, della stessa legge n. 147 del 2013
prima della conversione del d.l. n. 133 del 2013. 
    Come si ricorda nella stessa  sentenza,  d'altra  parte,  «su  un
piano  piu'  generale,  questa  Corte  gia'  in  altre  occasioni  ha
giudicato  infondate,  in  presenza  di  oggettive   giustificazioni,
censure riferite a tributi istituiti solo per alcuni soggetti passivi
all'interno di una determinata categoria: nella sentenza n.  201  del
2014  ha  ritenuto,  infatti,  che  non   fosse   ingiustificata   la
limitazione al solo "settore finanziario" della platea  dei  soggetti
passivi sottoposti al prelievo "addizionale" sulle  remunerazioni  in
forma di bonus e stock options; in senso analogo, nella  sentenza  n.
269 del 2017 si e' affermato che "non e' irragionevole che  le  spese
di funzionamento dell'autorita' preposta  al  corretto  funzionamento
del mercato  [AGCM]  gravino  sulle  imprese  caratterizzate  da  una
presenza significativa nei  mercati  di  riferimento  [con  fatturato
superiore a 50 milioni di euro] e dotate di  considerevole  capacita'
di incidenza sui movimenti delle relative attivita' economiche"». 
    3.5.3.- Non diversamente dal  caso  appena  citato,  anche  nella
vicenda in esame questa Corte e' chiamata a verificare se, alla  luce
dei  principi  ricordati,   esistano   adeguate   giustificazioni   a
fondamento di un'imposta che, come  quella  introdotta  dall'art.  1,
comma 148,  della  legge  n.  147  del  2013,  ha  colpito  un'unica,
ristretta, cerchia di soggetti,  ossia  i  partecipanti  al  capitale
della Banca d'Italia, in relazione ai maggiori valori delle quote  da
essi iscritti in bilancio per effetto dell'art. 6, comma 6, del  d.l.
n. 133 del 2013, come convertito. 
    La verifica conduce a conclusioni affermative, con la conseguenza
che le censure prospettate sotto tale  profilo  in  riferimento  agli
artt. 3 e 53 Cost. non sono fondate. 
    3.5.4.- La riforma del 2013 del capitale della Banca d'Italia, di
cui si sono delineati sopra contenuti e finalita', presenta carattere
sistemico ed e' diretta a salvaguardare lo svolgimento delle funzioni
dell'autorita' nazionale di vigilanza, «anche in relazione al livello
di rischio emergente  dalla  natura  delle  attivita'  istituzionali,
rappresentando  l'adeguatezza  patrimoniale  un  canone   ordinatorio
dell'ordinamento finanziario europeo» (parere  della  Banca  centrale
europea CON/2013/96 del 27 dicembre 2013).  Per  quanto  riguarda  in
particolare la capitalizzazione e l'assetto  partecipativo  al  detto
capitale, l'ampliamento della platea dei partecipanti e la  riduzione
della concentrazione delle quote perseguono l'obiettivo di  eliminare
ogni potenziale rischio di influenza  (anche  solo  apparente)  nella
gestione della Banca. 
    Se le misure  assunte  sono  dirette  al  perseguimento  di  tali
finalita'  di  tipo  specificamente  pubblicistico,  nondimeno   esse
comportano effetti sicuramente benefici per i detentori di quote  del
capitale della  Banca  d'Italia,  derivanti  sia  direttamente  dalla
definizione del nuovo, enormemente piu' elevato, valore del capitale,
sia  da  una  serie  di   modifiche   attinenti   al   regime   delle
partecipazioni, che si risolvono in un sensibile miglioramento  della
condizione dei partecipanti. 
    Innanzitutto, dunque, viene in evidenza  il  nuovo  valore  delle
quote di 25.000 euro ciascuna (rispetto al precedente valore di  euro
0,52), conseguente all'aumento  complessivo  del  capitale  a  ben  7
miliardi e mezzo di euro (dalla precedente simbolica  cifra  di  euro
156.000). Alla rivalutazione delle quote e' conseguito un  oggettivo,
notevole rafforzamento della struttura patrimoniale dei partecipanti,
con  effetti  positivi  per  tutti,  considerando  il  loro  migliore
apprezzamento da parte del mercato, e in special modo a favore  delle
banche,  per  le  quali   tale   rafforzamento   e'   particolarmente
significativo ai fini  del  rispetto  dei  requisiti  prudenziali  di
vigilanza (come e' sottolineato nei lavori preparatori della legge di
conversione del d.l. n. 133 del 2013 e come rileva  la  stessa  Banca
d'Italia nel documento intitolato «Conseguenze per la Banca  d'Italia
della legge 29 gennaio 2014, n. 5»). 
    Tale  maggiore   solidita'   patrimoniale   -   pur   frutto   di
un'operazione  contabile  e  non  implicando  di  per  se'  materiale
apprensione di ricchezza - consegue alla "straordinaria"  imputazione
a  capitale,   per   la   prima   volta   dopo   settantasette   anni
dall'istituzione della Banca d'Italia come ente di diritto  pubblico,
delle riserve statutarie. 
    Occorre sottolineare a questo proposito  che  -  diversamente  da
quanto avviene  nelle  societa'  commerciali  -  su  tali  riserve  i
partecipanti non vantavano (come non vantano tuttora) alcun  diritto,
data la peculiarita' del loro status, non equiparabile a  quello  dei
titolari di partecipazioni  in  societa'  di  diritto  ordinario.  In
nessun caso, infatti, i detentori di quote del capitale  della  Banca
d'Italia   possono   disporre   delle   riserve,   deliberandone   la
destinazione a capitale, o anche solo nutrire affidamento sulla  loro
distribuzione, come e' consentito invece dalle norme civilistiche  in
tema di societa' di capitali, sia manente societate, sia in  sede  di
liquidazione; ipotesi,  queste,  radicalmente  incompatibili  con  le
regole che presiedono ai compiti, alla struttura e  al  funzionamento
della Banca d'Italia. 
    Rileva poi, in secondo luogo, la modifica  radicale  dei  diritti
economici  connessi  alle  quote  e  la  parametrazione  al  capitale
rivalutato dei dividendi, ora liquidabili nel massimo del 6 per cento
(rispetto al precedente  10  per  cento)  del  capitale  stesso,  con
notevolissimo  innalzamento  (non  comparabile  con   la   situazione
precedente)   del   prevedibile   flusso   dei   dividendi   annuali.
Innalzamento che va ben al di  la'  della  mera  compensazione  della
menzionata riduzione percentuale e dell'eliminazione della  possibile
remunerazione aggiuntiva sui frutti delle riserve (nei limiti  del  4
per cento). 
    Ancora, la riforma ha rimosso le caratteristiche  di  immobilizzo
permanente delle quote (come ha parimenti rilevato la Banca  d'Italia
nel citato documento), ponendo i presupposti per la creazione  di  un
mercato  secondario  delle  quote  stesse,  di  cui  fra  l'altro  il
legislatore ha favorito la sollecita ricollocazione prevedendo sia un
ruolo di intermediazione  della  Banca,  sia  la  soppressione  della
clausola statutaria di gradimento. Non e' dubitabile che tali misure,
collegate all'onere per i partecipanti di ridurre le quote  eccedenti
il limite massimo detenibile (oggi fissato al 5 per cento),  pena  la
non spettanza dei diritti di voto ed  economici,  abbiano  accelerato
gli scambi ai maggiori valori, altrimenti difficilmente realizzabili,
facendo acquistare alle partecipazioni, grazie alla riforma, una piu'
accentuata potenzialita' economica. 
    I  descritti,  plurimi,  effetti  positivi  della  riforma  sulla
posizione dei titolari delle quote si risolvono  in  un  indubitabile
nuovo valore economico della partecipazione detenuta, valore cui puo'
e deve essere riconosciuto il connotato  di  elemento  rivelatore  di
nuova ricchezza. 
    La considerazione che le "plusvalenze" derivanti  dall'iscrizione
a bilancio dei maggiori  valori  delle  quote  hanno  carattere  solo
valutativo (e risultano per questo fiscalmente  irrilevanti  ai  fini
dell'IRES, sulla base delle regole desumibili dagli artt. 85, 86 e 87
t.u.  imposte  redditi),   e   che   il   miglioramento   dell'indice
patrimoniale si limita a rappresentare  gli  effettivi  valori  della
situazione di fatto, non esclude - come invece sostiene  la  parte  -
che nel caso di specie si sia nondimeno in presenza di un fenomeno di
nuova ricchezza  e  dunque  di  un  indice  espressivo  di  capacita'
contributiva. 
    L'argomento della natura meramente valutativa  della  consistenza
del capitale non considera invero in tutte le sue implicazioni ne' il
dato,  decisivo  nella  fattispecie,  dell'inesistenza  di  qualsiasi
diritto dei partecipanti sulle riserve,  imputate  a  capitale  sulla
base di una scelta che solo il legislatore avrebbe  potuto  adottare,
ne' il prodotto della scelta stessa in termini di maggiore  solidita'
patrimoniale dei partecipanti e di prevedibile rilevante aumento  dei
loro flussi di dividendi, ne' i vantaggi  economici  derivanti  dalla
migliore circolazione delle quote nel mercato. 
    Se dunque, come visto, rientra nella discrezionalita' legislativa
desumere la capacita' contributiva di un soggetto da qualsiasi indice
rivelatore  di  ricchezza,  non  appare  in  se'   censurabile   che,
nell'esercizio di tale ampia discrezionalita', il  legislatore  della
complessiva riforma di cui al Titolo II del d.l.  n.  133  del  2013,
come convertito, abbia assunto come presupposto  dell'imposizione  in
capo ai detentori di partecipazioni al capitale della Banca  d'Italia
il maggior valore delle quote da essi iscritto in bilancio  all'esito
del disposto aumento del capitale stesso, ravvisando nella  descritta
vicenda della rivalutazione del capitale della  Banca  uno  specifico
indice di capacita' contributiva dei detentori della sue quote. 
    In conclusione, si deve escludere che la  scelta  impositiva  sia
arbitraria - come ritiene il rimettente - per il fatto che i maggiori
valori  iscritti  non  costituissero  plusvalenze  realizzate.   Come
chiarito, infatti, alla luce della complessiva operazione di  riforma
del capitale della Banca d'Italia, l'iscrizione dei nuovi  valori  si
e' comunque risolta nella evidente creazione di un nuovo valore per i
titolari delle quote. In questi termini, anche la  vicenda  in  esame
puo' essere ricondotta a quel novero di  nuovi  fenomeni  che  questa
Corte ha ricondotto alla piu'  generale  categoria  degli  indici  di
capacita' contributiva, osservando che «in un contesto complesso come
quello contemporaneo, dove si sviluppano nuove e multiformi creazioni
di valore, il concetto di capacita' contributiva non  necessariamente
deve rimanere legato solo a indici tradizionali come il patrimonio  e
il reddito, potendo rilevare anche altre  e  piu'  evolute  forme  di
capacita', che ben possono denotare una  forza  o  una  potenzialita'
economica» (sentenza n. 288 del 2019). 
    3.5.5.- Per le stesse  ragioni  appena  esposte,  si  deve  anche
escludere che l'imposta contestata dia luogo a una doppia  tassazione
della medesima ricchezza, come prospetta il  rimettente,  secondo  il
quale il maggior valore delle partecipazioni corrisponderebbe a utili
gia' tassati una prima volta presso la Banca d'Italia, che verrebbero
assoggettati a imposizione sul reddito una  seconda  volta  presso  i
partecipanti al suo capitale. 
    La capacita' contributiva a base dell'imposta censurata - che  il
legislatore impropriamente, in effetti, qualifica come  «sostitutiva»
di IRES, IRAP ed eventuali addizionali - e' ricollegabile invero a un
presupposto diverso dal possesso di un reddito, in relazione al quale
soltanto potrebbe assumere rilievo la  tassazione  degli  utili  gia'
avvenuta presso la Banca d'Italia. 
    Tale diversita' di presupposto trova la sua causa non nella  mera
partecipazione  al  capitale  della  Banca  d'Italia  -  circostanza,
questa, di per se' inidonea a giustificare l'imposta in esame  -  ma,
in linea  con  le  considerazioni  svolte  sulla  scia  della  citata
sentenza n. 288 del 2019, nella  descritta  specificita'  del  regime
normativo in cui l'intervento fiscale e' collocato, e tiene conto dei
descritti effetti compensativi determinati dalla riforma del capitale
della Banca d'Italia. 
    3.5.6.- Per ragioni non diverse, si deve  altresi'  ritenere  che
non sussista la  lamentata  disparita'  di  trattamento  rispetto  ai
detentori di  partecipazioni  durevoli  in  altri  «enti  e  societa'
commerciali»,   alle   quali,   ricorrendone   le   condizioni,    si
applicherebbe  il  regime  di   esenzione   PEX   sulle   plusvalenze
realizzate, proprio con la finalita' di evitare la doppia  tassazione
economica della stessa ricchezza. 
    Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, la  violazione
del principio di eguaglianza  sussiste  qualora  situazioni  omogenee
siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e  non  quando
alla  diversita'   di   disciplina   corrispondano   situazioni   non
assimilabili (ex plurimis, sentenze n. 270 del  2022  e  n.  172  del
2021). 
    Trattandosi,  nel  caso  in  esame,  di  una  vicenda  del  tutto
particolare,  legata   alle   peculiari   condizioni   del   capitale
partecipato e delle stesse modalita' di partecipazione  ad  esso,  il
riferimento al regime di  esenzione  PEX  non  e'  pertinente,  e  la
invocata omogeneita' e' da escludere, in ragione dell'inidoneita' del
regime  riservato  ai  titolari  di  partecipazioni  ordinarie  nelle
societa' e enti commerciali a costituire termine  di  raffronto,  per
l'evidente diversita' dei presupposti delle due situazioni comparate. 
    Di conseguenza  non  sono  rilevanti  nemmeno  le  considerazioni
svolte da Generali Italia  spa  sul  carattere  strutturale  di  tale
istituto tributario. 
    Per  completezza  di  esame   della   lamentata   disparita'   di
trattamento, si osserva che, nel diverso contesto  della  censura  di
violazione del legittimo affidamento (su cui infra, punto  3.6.),  il
rimettente si duole ulteriormente della disparita' di trattamento  di
coloro che sono colpiti dalla nuova imposta rispetto ai  partecipanti
al capitale della Banca d'Italia che avessero  realizzato  la  stessa
plusvalenza entro il 31  dicembre  2013,  potendo  cosi'  beneficiare
della PEX. E cio' sull'assunto che il  regime  di  esenzione  sarebbe
stato "disattivato" dall'art. 1, comma 148, della legge  n.  147  del
2013 solo a decorrere dal periodo d'imposta 2014, in cui si considera
avvenuto il riallineamento del valore fiscale a  quello  iscritto  in
bilancio. 
    Nemmeno sotto tale profilo, tuttavia, la censura e' fondata, alla
luce del costante orientamento di questa  Corte  (espresso  anche  in
materia tributaria) secondo cui,  in  generale,  il  fatto  che  alla
stessa  categoria  di  soggetti  si  applichi,  per  effetto  di   un
sopravvenuto mutamento di disciplina,  un  trattamento  differenziato
non contrasta con il principio di eguaglianza, poiche' il trascorrere
del  tempo  costituisce  gia'  di  per  se'  un  elemento  idoneo   a
giustificare un diverso trattamento (ex plurimis, sentenze n. 240 del
2019, n. 104 del 2018 e n. 18 del 1994). 
    3.5.7.- Si deve ritenere rispettato, infine, anche  il  requisito
della coerenza  interna  della  struttura  dell'imposta  con  il  suo
specifico presupposto economico. 
    Considerata la rilevanza che nel caso  di  specie  assume,  quale
indice di capacita' contributiva, il rafforzamento  patrimoniale  dei
partecipanti, la  scelta  del  legislatore  di  determinare  la  base
imponibile nei maggiori valori nominali delle  quote,  al  netto  del
valore fiscalmente riconosciuto in precedenza, risulta  plausibile  e
comunque non arbitraria. 
    Come  visto,  all'individuazione  della  base  imponibile  si  e'
pervenuti generando, con la previsione di cui all'art.  6,  comma  6,
del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, un disallineamento tra  il
valore  nominale   e   quello   fiscale   della   partecipazione,   e
prescrivendo, con il comma 148 dell'art. 1 della  legge  n.  147  del
2013, di riallineare il valore  disallineato  con  l'applicazione  di
un'imposta «sostitutiva», a un'aliquota comunque inferiore, seppur di
poco, a quella ordinaria. 
    Il meccanismo impositivo adottato e' dunque parzialmente  analogo
a  quello,  gia'  conosciuto  dall'ordinamento  tributario,  per   la
rivalutazione a fini fiscali dei beni d'impresa, prevista tra l'altro
nella stessa legge n. 147 del 2013, all'art. 1, commi da 140 a 147, e
consistente nella facolta'  per  il  contribuente  di  rafforzare  la
struttura  patrimoniale  dell'impresa,  acquisendo  maggiori   valori
fiscali dietro pagamento proprio di una  «imposta  sostitutiva  delle
imposte  sui  redditi  e  dell'imposta  regionale   sulle   attivita'
produttive e di eventuali addizionali» (comma 143). 
    E' vero che per l'imposta sostitutiva qui in esame e' esclusa  la
facoltativita' della scelta in capo al contribuente, ma il  carattere
obbligatorio  del  riallineamento  fiscale  e'   giustificato   dalla
descritta fisionomia dell'aumento del capitale della  Banca  d'Italia
(costituente la causa economica della rivalutazione), sottratto  alla
volonta'  dei  partecipanti/beneficiari  e  rimesso  del  tutto  alla
discrezionalita' del legislatore. 
    Nei termini illustrati,  l'imposta  censurata  supera  quindi  il
vaglio  della  connessione  razionale,  non  avendo  il   legislatore
travalicato il limite dell'arbitrarieta'. 
    3.6.-  Le  questioni  concernenti  la  violazione  del  legittimo
affidamento prospettano, nella parte in cui restano ammissibili (vedi
supra,  punto  2.3.2.  del  Considerato  in  diritto),  la   «forzosa
esclusione» dal regime PEX di una ricchezza, pari al  maggior  valore
delle   partecipazioni   al   capitale    della    Banca    d'Italia,
«insorta/maturata» prima dell'introduzione del «censurato  intervento
normativo». In particolare, la  «disattivazione»  della  PEX  avrebbe
comportato la «inaspettata introduzione  di  un  trattamento  fiscale
deleterio,  del  tutto  inverso  e  irrispettoso   del   regime   che
l'ordinamento  aveva  razionalmente  stabilito  per  l'incremento  di
valore conseguito sino al 31.12.2013 dalle partecipazioni» in esame. 
    Quanto gia' osservato sulla non irragionevolezza dell'imposizione
in esame comporta  la  radicale  insussistenza  dei  presupposti  del
legittimo  affidamento  sull'applicazione  dell'invocato  regime   di
esenzione. 
    Ne consegue che, per le stesse ragioni gia' esposte, nemmeno tali
questioni sono fondate. 
    3.7.- Infine, anche la censura di violazione dell'art.  42  Cost.
non e' fondata. 
    Il   rimettente   assume    che,    mancando    il    presupposto
dell'imposizione - ossia una nuova ricchezza diversa da  quella  gia'
incisa dalla tassazione presso  la  Banca  d'Italia  -  la  normativa
censurata  determini   un   illegittimo   effetto   ablatorio   della
proprieta'.  Quanto  gia'  ampiamente  osservato   sul   collegamento
dell'imposta in esame a un diverso indice di  capacita'  contributiva
smentisce l'assunto e porta anche  in  questo  caso  a  escludere  la
fondatezza della censura.