ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 1,
del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in  materia
di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele  crescenti,  in
attuazione della legge 10 dicembre  2014,  n.  183),  promosso  dalla
Corte di cassazione, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra L.
S. e C. N. srl, con ordinanza del 7 aprile 2023, iscritta  al  n.  83
del registro ordinanze 2023 e  pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale
della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell'anno 2023. 
    Visti l'atto di costituzione  di  L.  S.,  nonche'  gli  atti  di
intervento di T. spa e del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza  pubblica  del  23  gennaio  2024  il  Giudice
relatore Giovanni Amoroso; 
    uditi gli avvocati Sandro Mainardi per T. spa, Marco Lovo per  L.
S. e l'avvocato dello Stato Roberta  Guizzi  per  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 23 gennaio 2024. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 7 aprile 2023 (reg. ord. n. 83 del 2023) la
Corte di  cassazione,  sezione  lavoro,  ha  sollevato  questione  di
legittimita'  costituzionale,  in  riferimento  all'art.   76   della
Costituzione, dell'art. 2, comma 1, del decreto legislativo  4  marzo
2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro  a  tempo
indeterminato a  tutele  crescenti,  in  attuazione  della  legge  10
dicembre  2014,  n.  183),  censurato  per  difformita'  rispetto  al
criterio di delega dettato dall'art. 1, comma 7,  lettera  c),  della
legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe  al  Governo  in  materia  di
riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi  per  il  lavoro  e
delle  politiche  attive,  nonche'  in  materia  di  riordino   della
disciplina dei rapporti di lavoro e  dell'attivita'  ispettiva  e  di
tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro). 
    1.1.- La Corte rimettente riferisce di dover decidere il  ricorso
avverso la  sentenza  di  appello  che,  in  parziale  riforma  della
pronuncia  di  primo  grado,  aveva  dichiarato   la   nullita'   del
licenziamento disciplinare/destituzione, comunicato al lavoratore  in
data 5 ottobre 2018, per violazione degli artt. 53 e 54 dell'Allegato
A al regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148 (Coordinamento delle  norme
sulla disciplina giuridica dei rapporti  collettivi  del  lavoro  con
quelle  sul  trattamento  giuridico-economico  del  personale   delle
ferrovie, tranvie  e  linee  di  navigazione  interna  in  regime  di
concessione), e, previa dichiarazione di estinzione del  rapporto  di
lavoro intercorso  tra  il  ricorrente  e  la  C.  N.  srl,  societa'
esercente il servizio di trasporto pubblico urbano, aveva  condannato
la datrice di lavoro al pagamento di un'indennita' non assoggettata a
contribuzione  previdenziale  di  importo  pari  a   sei   mensilita'
dell'ultima  retribuzione  di  riferimento   per   il   calcolo   del
trattamento di fine rapporto (TFR), facendo applicazione della tutela
economica prevista dall'art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015. 
    1.2.- Il giudizio principale risulta promosso  da  un  dipendente
che, assunto con mansioni di autista in data  successiva  all'entrata
in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015 (7 marzo 2015), all'esito di  una
contestazione disciplinare  seguita,  nonostante  le  giustificazioni
rese, dalla comunicazione dell'opinamento alla destituzione, ai sensi
della  normativa  speciale  prevista   per   gli   autoferrotranvieri
dall'art. 53, terzo comma, dell'Allegato A al r.d. n. 148  del  1931,
aveva chiesto di essere nuovamente sentito a propria difesa,  e  che,
come previsto in caso di conferma dell'opinamento, sulle sanzioni  di
competenza del Consiglio  di  disciplina  (d'ora  in  poi:  CdD),  si
pronunciasse il Consiglio stesso, ai sensi del nono  comma  dell'art.
53 citato. In  assenza  dell'istituzione  del  CdD,  l'Azienda  aveva
comunicato   il   provvedimento   disciplinare    di    destituzione,
tempestivamente impugnato in giudizio al fine di veder  accertata  la
nullita' del licenziamento per contrarieta' alle norme imperative  in
materia di procedure  per  l'irrogazione  di  sanzioni  disciplinari,
ovvero perche' di natura discriminatoria,  con  conseguente  condanna
della societa' convenuta alla reintegra ed al risarcimento del danno. 
    1.3.- La Corte d'appello di Firenze - dato atto che nonostante la
tempestiva  richiesta  del  lavoratore,  ai  sensi  della   normativa
speciale per gli autoferrotranvieri, il CdD non era stato costituito;
che la Regione non aveva indicato il proprio rappresentante nel  CdD;
che  la  sanzione  espulsiva  era   stata   adottata   dal   medesimo
amministratore delegato, il quale aveva proceduto alla  contestazione
disciplinare - aveva  configurato  la  violazione  di  una  forma  di
garanzia procedurale ulteriore e speciale rispetto a  quella  di  cui
all'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n.  300  (Norme  sulla  tutela
della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta' sindacale  e
dell'attivita'  sindacale  nei  luoghi  di   lavoro   e   norme   sul
collocamento), e dichiarato la nullita' del procedimento disciplinare
e della conseguente sanzione, in  quanto  la  potesta'  punitiva  era
stata esercitata dal datore di lavoro ormai privato di tale  facolta'
in conseguenza dell'obbligatoria devoluzione della decisione in  capo
al CdD. 
    La stessa Corte d'appello aveva, tuttavia, escluso che  l'ipotesi
sottoposta al suo esame rientrasse nella disciplina di  cui  all'art.
2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del  2015,  che  riservava  la  sanzione
della reintegra al  licenziamento  discriminatorio  o  «riconducibile
agli altri casi di  nullita'  espressamente  previsti  dalla  legge»,
poiche' in questo caso, esclusa la discriminazione, la nullita',  pur
sussistente   in   conformita'   dell'univoco   orientamento    della
giurisprudenza  di  legittimita',  non  risultava  espressa,   bensi'
riconducibile a categorie di ordine generale; optava  quindi  per  la
tutela indennitaria ex art. 3 dello stesso decreto legislativo. 
    1.4.- La sentenza era impugnata  in  cassazione  da  entrambe  le
parti. 
    La   parte    ricorrente    aveva    censurato    come    erronea
l'interpretazione  della  Corte  di  merito  secondo  cui  la  tutela
reintegratoria  fosse  applicabile  soltanto  ai  casi  di   nullita'
espressa, e non a tutti i casi di  nullita',  anche  derivanti,  come
nella specie, dall'art. 1418 del codice civile, sia sotto il  profilo
dell'eccesso  di  delega   che   della   illogicita'   e   incoerenza
dell'enfatizzazione  dell'avverbio  «espressamente»;  il  datore   di
lavoro, ricorrente in via  incidentale,  aveva,  invece,  dedotto  la
violazione e falsa applicazione degli artt. 53 e 54  dell'Allegato  A
al r.d. n. 148 del 1931, perche' l'esercizio del potere  disciplinare
del datore di lavoro, in  fatto  sospeso  per  l'inerzia  dell'organo
amministrativo   (Regione   Toscana)   nella   nomina   del   proprio
rappresentante nel CdD, sarebbe dovuto prevalere  sulle  garanzie  di
difesa del lavoratore secondo un criterio di proporzionalita'. 
    1.5.- In termini di rilevanza, la Corte rimettente premette  che,
secondo un consolidato diritto vivente, nel caso in cui il dipendente
autoferrotranviario,  a  seguito  dell'opinamento  di   destituzione,
invochi la pronuncia  del  CdD,  nella  persistente  vigenza  di  una
disciplina di maggior tutela  rispetto  a  quella  generale  prevista
dallo statuto lavoratori, rimane irrilevante il fatto  che  gli  enti
competenti non abbiano esercitato il potere di nomina dei  componenti
di quell'organo, prevedendo, l'art. 53 dell'Allegato A al r.d. n. 148
del 1931, una procedura inderogabile articolata  in  piu'  fasi,  ove
l'omissione di una sola di esse determina la nullita' della  sanzione
disciplinare che, in relazione al tipo di violazione,  rientra  nella
categoria delle nullita' di protezione in quanto fondata sullo  scopo
di tutela del contraente debole del rapporto. 
    Tale violazione -  prosegue  il  giudice  a  quo  -  non  sarebbe
assimilabile a quelle procedurali di cui all'art.  18,  sesto  comma,
dello Statuto dei lavoratori, come modificato dall'art. 1, comma  42,
lettera b), della legge  28  giugno  2012,  n.  92  (Disposizioni  in
materia di riforma del mercato  del  lavoro  in  una  prospettiva  di
crescita), poiche' l'adozione della sanzione  della  destituzione  da
parte del datore di lavoro che, in caso di opzione del lavoratore per
l'intervento del CdD, e' privato del potere  sanzionatorio,  deferito
ex lege al CdD stesso,  costituisce  una  violazione  a  monte  della
procedura, per  deviazione  dell'esercizio  del  potere  in  materia,
devoluto  ad  un  organo  terzo  anziche'   alla   parte   datoriale,
comparabile a quella di un licenziamento a non domino,  riconducibile
al regime generale delle  nullita',  disciplinato  dall'art.  1418  e
seguenti cod. civ., integrando l'ipotesi di nullita' per contrarieta'
a norma imperativa. 
    1.6.- Condividendo il presupposto interpretativo della  Corte  di
merito, secondo cui in presenza di  una  nullita'  non  espressamente
prevista  dalla  legge  sarebbe  preclusa  l'attrazione   nell'ambito
applicativo dell'art. 2, comma 1, del  d.lgs.  n.  23  del  2015,  il
giudice a quo ritiene non manifestamente infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale per un duplice ordine di ragioni. 
    In primo luogo, rileva il rimettente che la lettera  della  legge
delegante  sembrerebbe  comprendere  nell'area  della  reintegrazione
tutti  i  licenziamenti  nulli  e  discriminatori,   delegando   solo
l'individuazione   di   specifiche   fattispecie   di   licenziamento
disciplinare ingiustificato cui ulteriormente ricollegare il  diritto
alla reintegrazione; in altri termini, senza prevedere una  ulteriore
limitazione  alle  nullita'   espresse   dalla   legge,   la   delega
escluderebbe  del  tutto  la  possibilita'  di  limitare  l'area  dei
licenziamenti nulli e discriminatori. 
    In secondo luogo, osserva che la  restrizione  ai  soli  casi  di
nullita' espressa - nel senso di  sanzione  esplicitata  in  caso  di
violazione del precetto primario - finirebbe con  il  forzare  da  un
punto di vista  sistematico  la  coerenza  del  sistema  rispetto  al
principio generale che ricollega la conseguenza della  nullita'  alla
violazione di norme imperative dell'ordinamento civilistico,  laddove
la differenza tra  nullita'  espressamente  previste  e  nullita'  da
ricollegare a  categorie  civilistiche  generali  puo'  risultare  il
precipitato non di una  diversita'  ontologica  o  valoriale,  ma  di
peculiari  ragioni  storiche,  sistematiche  o   di   stratificazione
normativa, con esiti casuali e non razionali. 
    Esclude,  inoltre,  la  percorribilita'  di  una  interpretazione
costituzionalmente orientata della  normativa  censurata,  in  quanto
l'avverbio  "espressamente"  non   si   presta   ad   interpretazioni
semantiche diverse da quella limitativa  dei  casi  di  nullita'  cui
ricollegare la tutela  reintegratoria,  e  richiama,  infine,  sia  i
principi affermati da questa Corte nella sentenza n.  125  del  2022,
seppure con riferimento ad  un  diverso  profilo  e  ad  una  diversa
normativa  in  materia  di  licenziamento  per  giustificato   motivo
oggettivo,   con   riferimento   all'aggettivo    "manifesta",    sia
l'orientamento consolidato  della  giurisprudenza  costituzionale  in
tema di verifica sull'eccesso di delega. 
    1.7.-  Su  tali  premesse,  la  Corte  rimettente  dubita   della
necessaria  coerenza  tra  legge  delegante  e  legge   delegata   in
riferimento ad una distinzione di tutela  non  prevista  nella  norma
delegante e di individuazione incerta,  e  ritiene  rilevante  e  non
manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale,
in riferimento all'art. 76 Cost., della delimitazione ad opera  della
norma censurata della tutela reintegratoria ai soli casi di  nullita'
«espressamente previsti dalla legge»,  per  contrasto  con  la  norma
della legge delega che  dispone  la  limitazione  del  «diritto  alla
reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche
fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». 
    2.- Con atto depositato il 5 luglio 2023,  si  e'  costituita  in
giudizio la parte ricorrente nel giudizio principale, argomentando la
rilevanza  e  la   fondatezza   della   questione   di   legittimita'
costituzionale in esame con un richiamo alle considerazioni formulate
dal giudice rimettente quanto al mancato  rispetto  dei  limiti  alla
delega normativa posti dall'art. 1, comma 7, della legge n.  183  del
2014. 
    Osserva    la    parte    che    l'introduzione     dell'avverbio
«espressamente»,  che  restringerebbe  l'applicazione  della   tutela
reintegratoria ai soli casi in cui la nullita' sia  individuata  come
tale da una specifica disposizione di legge, non sarebbe coerente ne'
con i principi e i criteri fissati dalla legge delega, che ha  invece
esteso la reintegrazione ad ogni fattispecie di licenziamento  nullo,
senza alcuna esclusione, ne' con il  quadro  normativo  generale,  in
quanto una distinzione tra la nullita'  conseguente  alla  violazione
della  norma  inderogabile  di  protezione  pur   non   espressamente
prevista, e la nullita' espressamente prevista non e' indice  di  una
diversa gravita' del vizio che da' luogo alla nullita', posto  sempre
a  presidio  di   valori   ritenuti   fondamentali   dall'ordinamento
giuridico. 
    2.1.- La  nullita'  conseguente  alla  violazione  di  una  norma
inderogabile, come quella  che  prevede  il  pronunciamento  del  CdD
regolarmente costituito, e' sancita senza bisogno di  una  previsione
specifica in quanto espressamente prevista dall'art.  1418  cod.civ.;
la norma delegata sarebbe, quindi, irragionevole,  in  quanto,  senza
alcuna fondata giustificazione,  comporterebbe  una  distinzione  sul
piano delle tutele tra nullita' riconducibili ad una  disposizione  a
contenuto  generale,   quale   l'art.   1418   cod.civ.,   e   quelle
riconducibili ad una specifica disposizione. 
    3.- Con atto depositato il 17  luglio  2023,  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che   la
questione sia dichiarata manifestamente infondata. 
    La difesa statale rileva, in via preliminare, che l'eccentricita'
rispetto  alla  legge   delega   della   limitazione   della   tutela
reintegratoria alle sole nullita' testuali non sarebbe dimostrata ne'
dalla circostanza del tutto irrilevante che della  tutela  cosiddetta
reale possano  beneficiare  anche  licenziamenti  ingiustificati  ma,
appunto, non nulli, ne' da una presunta identita' ontologica  tra  le
nullita' testuali e quelle virtuali, contraddetta dal fatto che,  per
definizione, le  nullita'  virtuali  non  sono  riconducibili  a  una
casistica predeterminata, in quanto frutto della  mutevole  attivita'
ermeneutica dell'interprete, espressione, a sua volta, dei differenti
contesti storici e sociali circa la  natura  imperativa  della  norma
violata. 
    3.1.- Quanto  alla  rilevanza,  osserva  che  la  remittente  non
avrebbe esplorato una lettura interpretativa del criterio  di  delega
in  termini  di  endiadi,  essendo  plausibile   sostenere   che   il
legislatore  delegante,  nel  riferirsi  ai  licenziamenti  nulli   e
discriminatori, abbia  inteso  presidiare  con  la  tutela  in  forma
specifica  i  licenziamenti  nulli  in  quanto  discriminatori;  tale
lettura interpretativa sarebbe validata dalla considerazione  che  la
legge  delega  ha  separato   l'area   delle   nullita'   da   quella
dell'illegittimita' del licenziamento, con la conseguenza che  l'area
di operativita' del licenziamento nullo non possa piu'  ricomprendere
quello risultato illegittimo per vizi procedurali, dovendo escludersi
la riconducibilita' alle nullita' ex art.  1418,  primo  comma,  cod.
civ., dei vizi sull'erronea individuazione dell'organo  interno  alla
pubblica amministrazione per mezzo del quale il  potere  disciplinare
puo' essere esercitato, nonche' sul mancato rispetto delle regole che
stabiliscono le modalita'  di  costituzione  e  di  funzionamento  di
quell'organo  (Corte  di  cassazione,  sezione  lavoro,  sentenza  15
novembre 2022, n. 33619). 
    3.2.- Richiamata la  giurisprudenza  costituzionale  in  tema  di
violazione della legge delega, la difesa statale,  a  sostegno  della
non fondatezza della questione, osserva che la disposizione censurata
sarebbe certamente riconducibile all'ambito della delega di cui  alla
legge n. 183 del 2014, quale coerente sviluppo  e  completamento  dei
principi e dei criteri  direttivi  impartiti  con  la  stessa,  avuto
riguardo alla complessiva ratio dell'intervento riformatore, ispirato
alla necessita' di coniugare la disciplina  del  licenziamento  e  le
tutele  da  accordare  al  lavoratore  che  risulti  illegittimamente
licenziato con  le  dinamiche  del  mercato  del  lavoro  e,  quindi,
l'incentivazione alle assunzioni. 
    Avuto riguardo alla  finalita'  della  normativa  di  delega,  la
previsione dell'accesso alla tutela reintegratoria nei soli  casi  di
nullita' del licenziamento previsto dalla legge non ne  costituirebbe
una violazione, bensi' una logica evoluzione, in quanto, l'estensione
della  tutela  reale  alle  fattispecie  in  cui  la   nullita'   del
licenziamento e' rimessa alla valutazione  dell'interprete  circa  il
carattere imperativo della norma che si assume  violata,  frusterebbe
l'obiettivo del contingentamento delle ipotesi di reintegrazione  nel
posto di lavoro fissato riconoscendo un elemento di disfunzione nella
mancanza di flessibilita' in uscita dall'impresa. 
    4.- Nel giudizio e', altresi', intervenuta la T.  spa,  eccependo
l'inammissibilita' della questione per difetto di  motivazione  e  di
rilevanza. 
    L'interveniente,  societa'  per  azioni  a  prevalente   capitale
pubblico locale, avente ad oggetto la gestione del trasporto pubblico
locale  nella  Provincia  di  P.,  contesta  il   presupposto   della
perdurante  operativita'  dei  CdD  e,  quindi,  della  nullita'  del
procedimento  disciplinare  e  del   licenziamento/destituzione   del
lavoratore autoferrotranviere comminato dal datore  di  lavoro  senza
l'intervento  di  tale  organo;  a  suo  giudizio,  sussistendo   una
competenza legislativa delle regioni in materia di "tramvie  e  linee
automobilistiche di interesse regionale", l'ordinanza  di  rimessione
avrebbe omesso di individuare la legislazione regionale in base  alla
quale tali organismi potevano ritenersi ancora sussistenti. 
    5.- Nell'imminenza dell'udienza pubblica, la T. spa ha depositato
una memoria illustrativa per ribadire le proprie conclusioni. 
    5.1.- All'udienza pubblica del 23 gennaio  2024,  la  Corte,  con
ordinanza letta  contestualmente,  ha  dichiarato  l'inammissibilita'
dell'intervento del terzo. 
    All'esito della discussione, le parti costituite hanno  insistito
per  l'accoglimento  delle  conclusioni  rassegnate   negli   scritti
difensivi. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 7 aprile 2023 (reg. ord. n. 83  del  2023),
la Corte di cassazione, sezione lavoro,  ha  sollevato  questione  di
legittimita'  costituzionale,  in  riferimento  all'art.  76   Cost.,
dell'art. 2, comma 1, del  d.lgs.  n.  23  del  2015,  censurato  per
difformita' rispetto al criterio di delega dettato dall'art. 1, comma
7, lettera c), della legge n. 183 del 2014. 
    1.1.- La questione  e'  sollevata  nell'ambito  del  giudizio  di
impugnazione della sentenza della Corte  d'appello  di  Firenze  che,
rilevata la  nullita'  del  licenziamento  disciplinare-destituzione,
comunicato  al  lavoratore  per  violazione  degli  artt.  53  e   54
dell'Allegato A al r.d. n. 148 del 1931, aveva dichiarato estinto  il
rapporto di lavoro intercorso con una societa' esercente il  servizio
di trasporto pubblico urbano, e condannato la datrice  di  lavoro  al
pagamento dell'indennita' prevista dall'art. 3 del d.lgs. n.  23  del
2015. 
    Il giudice a quo condivide il duplice presupposto  interpretativo
della Corte  di  merito,  secondo  cui  e'  affetto  da  nullita'  il
provvedimento disciplinare adottato a carico degli autoferrotranvieri
in violazione della procedura prevista dall'art. 53  dell'Allegato  A
al r.d.  n.  148  del  1931,  e  in  presenza  di  una  nullita'  non
espressamente prevista  dalla  legge  sarebbe  preclusa  l'attrazione
nell'ambito applicativo dell'art. 2, comma 1, del d.lgs.  n.  23  del
2015; dubita, tuttavia, della  legittimita'  costituzionale  di  tale
norma, in riferimento all'art. 76  Cost.,  denunciando  un  vizio  di
eccesso di delega rispetto al disposto di cui all'art.  1,  comma  7,
lettera c), della legge n. 183 del 2014. 
    1.2.- In particolare, la Corte rimettente censura la norma  nella
parte  in  cui,  nell'individuare  il  regime  sanzionatorio  per   i
licenziamenti nulli, limita  la  tutela  reintegratoria  ai  casi  di
nullita' «espressamente  previsti  dalla  legge»,  in  cio'  violando
l'art. 76 Cost., per contrasto con l'art. 1,  comma  7,  lettera  c),
della legge n. 183 del 2014 che, demandando al Governo la previsione,
per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele
crescenti, dispone la limitazione del «diritto alla reintegrazione ai
licenziamenti nulli e discriminatori e a  specifiche  fattispecie  di
licenziamento  disciplinare  ingiustificato»,  senza  una   ulteriore
limitazione ai casi di nullita' "espressamente" prevista. 
    2.- In via preliminare, va ribadito quanto affermato,  in  ordine
all'inammissibilita' dell'intervento del terzo, nell'ordinanza di cui
e' stata data lettura in udienza, allegata alla presente pronuncia. 
    L'intervento di T. spa e' inammissibile in quanto  fondato  sulla
semplice analogia della sua posizione sostanziale; detta societa' non
e', pertanto,  portatrice  di  un  interesse  specifico  direttamente
riconducibile all'oggetto del giudizio principale, che  ne  legittimi
l'intervento nel giudizio incidentale di legittimita'  costituzionale
(ex plurimis, sentenze n. 130 del 2023 e n. 106 del  2019;  ordinanza
n. 191 del 2021). 
    3.- La questione,  come  prospettata,  non  presenta  profili  di
inammissibilita'. 
    3.1.- Quanto alla rilevanza, gli elementi descrittivi  in  merito
al  procedimento  principale  e  le  argomentazioni  a  sostegno  del
presupposto interpretativo risultano sufficienti, al metro della loro
non implausibilita', a suffragare l'applicabilita'  ratione  temporis
della disposizione censurata (ex plurimis, sentenze n. 160 e  n.  139
del 2023, n. 192 del 2022, n. 152 e n. 59 del 2021 e n. 85 del 2020).
In particolare, la Corte rimettente ha dato atto che il licenziamento
e' stato intimato ad un autoferrotranviere, assunto dopo il  7  marzo
2015, e percio' ricadente  nell'ambito  della  disciplina  posta  dal
d.lgs. n. 23 del 2015, all'esito di  un  procedimento  viziato  dalla
violazione dell'art. 53, settimo e ottavo comma, dell'Allegato  A  al
r.d. n. 148 del 1931, perche' adottato dal datore di lavoro  anziche'
dal Consiglio di disciplina (CdD), sebbene il lavoratore avesse fatto
tempestiva richiesta dell'intervento di tale  organo  terzo  dopo  il
provvedimento di «opinamento». 
    3.2.- In merito alla  nullita'  del  provvedimento  impugnato  e'
sufficiente  dare  conto  del  diritto  vivente  secondo  cui,  nella
perdurante vigenza della  disposizione  che  prevede  i  Consigli  di
disciplina «per la generalita' delle aziende di trasporto» (Corte  di
cassazione, sezione lavoro, sentenze 17 giugno 2015, n.  12490  e  16
gennaio 2017, n. 855; ordinanza 14 maggio 2019, n. 12770),  nel  caso
in cui il dipendente autoferrotranviario, a  seguito  dell'opinamento
di  destituzione,  abbia  invocato  la  pronuncia  del  CdD,   rimane
irrilevante il fatto che gli enti competenti non  abbiano  esercitato
il potere di  nomina  dei  componenti  di  quell'organo  -  posto  il
persistente vigore  delle  disposizioni  dettate  dal  regio  decreto
indicato  in  materia  disciplinare  quale  disciplina   maggiormente
garantista rispetto a quella prevista dallo statuto dei lavoratori. 
    Il giudice a quo ha ribadito che la richiesta di  intervento  del
CdD, oltre a costituire un  momento  di  ulteriore  garanzia  per  il
lavoratore, determina la mancanza di legittimazione all'esercizio del
potere di recesso in capo al datore di lavoro e il suo  trasferimento
ad un organo collegiale  esterno  e  terzo.  La  violazione  di  tale
disposizione, che si e' ritenuto avere natura inderogabile, in quanto
costituisce una prescrizione di validita' dell'atto (e  non  gia'  di
comportamento) e  si  fonda  su  un  evidente  scopo  di  tutela  del
lavoratore  dipendente,  determina   la   nullita'   della   sanzione
disciplinare, la quale rientra  nella  categoria  delle  nullita'  di
protezione, dovendo annoverarsi  il  citato  art.  53  tra  le  norme
imperative di cui all'art. 1418, primo comma, cod. civ.  (da  ultimo,
Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanze 7 marzo 2023, n. 6765;
6 marzo 2023, n. 6555 e 9 novembre 2021, n. 32681). 
    Questa stessa Corte  ha  ritenuto  tuttora  vigente  la  speciale
disciplina dei licenziamenti del personale delle ferrovie, tranvie  e
linee di navigazione interna in regime di concessione posta dal  r.d.
n. 148 del 1931 (sentenza n. 188 del 2020). 
    In presenza di  una  costante  e  consolidata  giurisprudenza  di
legittimita', tanto piu' quando sia attinente ad  un  presupposto  di
rilevanza della questione e non gia' direttamente  alla  disposizione
censurata, la norma espressa dal diritto vivente e' assunta come tale
da  questa  Corte  senza  che  rilevino  eventuali  dubbi  in  ordine
all'esattezza dell'interpretazione. 
    Occorre  quindi  muovere  dal  presupposto   che   nel   giudizio
principale ricorre, secondo il diritto vivente,  una  fattispecie  di
licenziamento nullo per violazione di norme imperative (art. 53 e  54
citati), senza che in esse sia prevista "espressamente"  la  nullita'
dell'atto (il licenziamento) come conseguenza di tale violazione. 
    Non emerge - e non rileva -  invece  la  complessa  ricostruzione
normativa che ha condotto alla formazione di questo diritto vivente e
che ha visto ripetuti interventi delle Sezioni unite della  Corte  di
cassazione (Corte di cassazione, sezioni unite  civili,  sentenze  13
gennaio 2005, n. 460 e 27 luglio 2016, n. 15540). 
    3.3.- Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte rimettente
ha diffusamente motivato in ordine alle ragioni per le quali,  a  suo
giudizio, la norma censurata sia suscettibile del sollevato dubbio di
legittimita' costituzionale; chiara anche, nel petitum dell'ordinanza
di  rimessione,  l'indicazione  sul  tipo  di  intervento  richiesto,
limitato alla  caducazione  dell'avverbio  "espressamente",  dal  cui
inserimento nella disposizione censurata sarebbe  derivato  l'eccesso
di delega. 
    4.- Preliminarmente all'esame del  merito  giova  richiamare,  in
sintesi, il quadro normativo di riferimento, in  cui  si  colloca  la
tutela   rappresentata   dalla    reintegrazione    del    lavoratore
illegittimamente  licenziato,  la  cui  area   di   applicazione   ai
lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 e' stata limitata dalla
disposizione   censurata   nella    misura    in    cui    l'avverbio
"espressamente",  in  essa  presente,  ha   operato   una   selezione
restrittiva delle ipotesi di licenziamento nullo. 
    Tale tutela fortemente innovativa, introdotta - condizionatamente
al ricorrere di un livello occupazionale minimo del datore di  lavoro
- dall'art. 18  dello  statuto  lavoratori,  ha  avuto  una  fase  di
iniziale espansione. 
    Questa Corte, a proposito del licenziamento disciplinare del 1982
intimato senza la tutela  dell'apposita  procedura,  ha  riconosciuto
forza espansiva alle disposizioni contenute nell'art. 18 della  legge
n. 300 del 1970 ritenendole  suscettibili  di  assicurare  la  tutela
reale del posto di lavoro anche nei casi  in  cui  l'invalidita'  del
licenziamento non  dipendeva  da  una  delle  ragioni  specificamente
risultanti dal combinato disposto dello stesso art. 18 e dell'art.  4
della  legge  15  luglio  1966,  n.  604  (Norme  sui   licenziamenti
individuali) (sentenza n. 204 del 1982; successivamente, sentenza  n.
17 del 1987). 
    La riforma del 1990  (legge  11  maggio  1990,  n.  108,  recante
«Disciplina dei licenziamenti individuali») ha consolidato l'ampiezza
della  tutela  reintegratoria   nei   confronti   dei   licenziamenti
illegittimi: sia nulli, sia discriminatori,  sia  ingiustificati  (in
quanto privi di giusta causa o di giustificato motivo). 
    Successivamente, il regime della tutela reintegratoria  ha  visto
via via ridursi l'ampiezza del suo ambito applicativo. 
    4.1.- Il punto di svolta e' rappresentato dalla legge  28  giugno
2012, n. 92 (Disposizioni in  materia  di  riforma  del  mercato  del
lavoro in una prospettiva di crescita), che ha  novellato  l'art.  18
statuto  lavoratori,  differenziando  plurimi   regimi   di   tutela,
reintegratoria  e  indennitaria,  nei  confronti  del   licenziamento
individuale  illegittimo,  cosi'   superando   l'iniziale   carattere
unitario della tutela reintegratoria per i licenziamenti  individuali
e collettivi. 
    Fermo  restando  il   tradizionale   limite   occupazionale,   il
legislatore del  2012  ha  ritenuto  di  riservare  la  tutela  della
reintegrazione ai licenziamenti la cui illegittimita' e'  conseguenza
di una violazione, in senso lato, "piu' grave",  prevedendo  per  gli
altri una compensazione  indennitaria.  Si  e'  cosi'  introdotto  un
criterio di graduazione  e  di  differenziazione  che  ha  modificato
radicalmente  la  logica  precedente   della   reintegrazione   quale
conseguenza  unica  del  licenziamento  illegittimo   nelle   realta'
occupazionali non piccole. 
    Successivamente, «in un contesto riformatore finanche piu'  ampio
che  ha  toccato  plurimi  aspetti  della  materia  del  lavoro   (il
cosiddetto Jobs Act: legge n. 183 del  2014),  a  questa  disciplina,
novellata nel 2012,  si  e'  affiancata  -  senza  sostituirla  -  la
regolamentazione di quello che, nelle intenzioni del legislatore, era
un  nuovo  tipo  di  contratto  di   lavoro   subordinato   a   tempo
indeterminato - cosiddetto a tutele crescenti - che si  sovrappone  a
quello ordinario precedente» (sentenza n. 7 del 2024). 
    Pertanto, in attuazione della legge delega n. 183  del  2014,  il
d.lgs. n. 23 del 2015 ha stabilito un distinto regime di tutela,  nel
caso di licenziamento illegittimo, per i lavoratori  assunti  con  il
contratto di lavoro a tutele  crescenti,  quindi  necessariamente  in
data successiva alla sua entrata in vigore (7 marzo 2015). 
    Senza entrare nel dettaglio di questa disciplina, si  ha  che  la
tutela reintegratoria e' stata ulteriormente ridimensionata nel  caso
di licenziamento per mancanza  di  giusta  causa  o  di  giustificato
motivo  soggettivo  ed  e'  del  tutto  eliminata   in   ipotesi   di
licenziamento "economico", ossia per giustificato motivo oggettivo  o
collettivo (ancora sentenza n.  7  del  2024).  Pero',  in  linea  di
continuita' con la legge n. 92 del 2012,  anche  il  legislatore  del
2015  ha  mantenuto,  ai  fini   dell'applicabilita'   della   tutela
reintegratoria,   la   distinta   previsione    del    «licenziamento
discriminatorio,  nullo  e  intimato  in  forma  orale»,  secondo  la
ripartizione chiaramente enunciata  nella  rubrica  dell'art.  2  del
decreto legislativo stesso. 
    4.2.- In  particolare,  il  licenziamento  discriminatorio  -  in
quanto tale nullo - e' stato inizialmente previsto dall'art. 4  della
legge n. 604 del 1966, come quello «determinato da ragioni  di  credo
politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e  dalla
partecipazione ad attivita' sindacali [...]  indipendentemente  dalla
motivazione adottata». 
    In seguito la legge n. 108 del 1990 ha  esteso  tale  fattispecie
stabilendo  (all'art.  3)  che  «[i]l  licenziamento  determinato  da
ragioni discriminatorie ai  sensi  dell'articolo  4  della  legge  15
luglio 1966, n. 604, e dall'articolo 15 della legge 20  maggio  1970,
n. 300, come modificato dall'articolo 13 della legge 9 dicembre 1977,
n. 903, e'  nullo  indipendentemente  dalla  motivazione  adottata  e
comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal  datore
di lavoro, le conseguenze previste dall'articolo 18  della  legge  20
maggio 1970, n. 300,  come  modificato  dalla  presente  legge.  Tali
disposizioni si applicano anche ai dirigenti». 
    4.3.- La fattispecie del licenziamento discriminatorio  e  quella
parallela del licenziamento privo di giusta causa o  di  giustificato
motivo (artt. 1 e 3 della legge 15 n. 604 del 1966) non hanno, pero',
schermato del tutto quella del licenziamento nullo sia  in  specifici
casi stabiliti dalla legge (come nelle  ipotesi  di  licenziamento  a
causa di matrimonio o in periodo di gravidanza e puerperio),  sia  in
generale  per  contrarieta'  a  norme  imperative  in  ragione  della
previsione dell'art. 1418, primo comma, cod.  civ.,  che  opera  come
clausola di chiusura «salvo che la legge disponga diversamente». 
    La giurisprudenza di legittimita' (Corte di  cassazione,  sezioni
unite civili, sentenze 22 maggio 2018, n. 12568 e 29 marzo  1980,  n.
2072) ha ritenuto che il  licenziamento  intimato  per  il  perdurare
delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del
superamento  del  periodo   massimo   di   comporto   fissato   dalla
contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equita',
sia nullo per violazione della norma imperativa di cui all'art. 2110,
secondo comma, cod. civ. «in combinata lettura con l'art. 1418 stesso
codice». 
    Quando in passato si e' formato  un  diritto  vivente  (Corte  di
cassazione, sezioni unite civili, sentenza 21 agosto 1990,  n.  8535)
secondo cui, nonostante l'esplicito divieto di licenziamento intimato
alla lavoratrice  durante  il  periodo  di  gravidanza  e  puerperio,
originariamente stabilito dall'art. 2 della legge 30  dicembre  1971,
n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), il recesso datoriale doveva
ritenersi meramente inefficace in ragione della mancanza  (all'epoca)
di una espressa previsione di nullita' del recesso, questa  Corte  ha
dichiarato l'illegittimita' costituzionale di tale disposizione nella
parte in cui prevedeva la temporanea inefficacia anziche' la nullita'
del licenziamento (sentenza n. 61 del 1991). 
    Parimenti la giurisprudenza di legittimita' (Corte di cassazione,
sezione lavoro, sentenza 26 novembre 2015, n. 24157) ha ritenuto, con
riferimento al lavoro pubblico  contrattualizzato,  che  la  garanzia
procedimentale  posta  dall'art.  55-bis,  comma   4,   del   decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165  (Norme  generali  sull'ordinamento
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni  pubbliche)  integri
una norma imperativa, la cui violazione  e'  causa  di  nullita'  del
licenziamento, mancando una legge  che  disponga  diversamente  (art.
1418,  primo  comma,  cod.  civ.).  Solo  successivamente,  la  piena
operativita'  dell'art.  1418,  primo  comma,  cod.  civ.  e'   stata
(parzialmente) derogata  dall'art.  13,  comma  1,  lettera  f),  del
decreto legislativo 25 maggio  2017,  n.  75,  recante  «Modifiche  e
integrazioni al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165,  ai  sensi
degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b),  c),  d)  ed
e), e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l),  m),  n),  o),
q), r), s) e z), della legge 7 agosto 2015, n.  124,  in  materia  di
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche», che ha aggiunto il
comma 9-ter all'art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001;  disposizione
questa che ora stabilisce che  la  violazione  dei  termini  e  delle
disposizioni   sul   procedimento    disciplinare    non    determina
l'invalidita' degli atti e della sanzione irrogata,  sempre  che  non
risulti  irrimediabilmente  compromesso  il  diritto  di  difesa  del
dipendente, sicche' - ha poi ritenuto la giurisprudenza (Cass.,  sez.
lavoro, sentenza n. 33619 del 2022)  -  il  carattere  imperativo  di
questa disciplina non e' piu' da solo idoneo a determinare,  ex  art.
1418, primo comma, cod. civ., la  nullita'  della  sanzione,  proprio
perche' «la legge dispon[e] diversamente». 
    4.4.- Il  licenziamento  nullo,  come  fattispecie  di  carattere
generale, si rinviene, declinato in  termini  maggiormente  puntuali,
nella legge n. 92 del 2012, la quale, novellando  l'art.  18  statuto
lavoratori, l'ha collocato in cima alla piramide della gravita' delle
violazioni che comportano la illegittimita'  del  recesso  datoriale,
raggruppandole nella disciplina unitaria di cui ai primi tre commi di
tale disposizione. 
    Vi sono elencate le ipotesi di: licenziamento discriminatorio, ai
sensi dell'art. 3 della legge n. 108 del 1990; licenziamento intimato
in concomitanza col matrimonio, ai sensi  dell'art.  35  del  decreto
legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice  delle  pari  opportunita'
tra uomo e donna, a norma dell'articolo 6  della  legge  28  novembre
2005,  n.  246);  licenziamento  legato   alla   genitorialita',   in
violazione dei divieti di licenziamento di cui all'art. 54, commi  1,
6, 7 e 9, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo  unico
delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno  della
maternita' e della paternita', a norma dell'articolo 15 della legge 8
marzo 2000, n. 53), e  successive  modificazioni;  licenziamento  per
motivo illecito determinante, ai  sensi  dell'art.  1345  cod.  civ.;
licenziamento inefficace intimato in forma orale. 
    Infine, con una norma di chiusura, e' prevista ogni altra ipotesi
di licenziamento «riconducibile ad altri casi  di  nullita'  previsti
dalla legge». 
    4.5.- Nel contesto riformatore del d.lgs.  n.  23  del  2015,  la
disciplina del licenziamento nullo e' regolata dall'art. 2, che  gia'
nella rubrica  tiene  distinti  il  licenziamento  discriminatorio  e
quello nullo, e che nel suo comma 1 stabilisce: «Il giudice,  con  la
pronuncia con la quale dichiara la nullita' del licenziamento perche'
discriminatorio a norma dell'articolo 15 della legge 20 maggio  1970,
n. 300, e successive modificazioni, ovvero perche' riconducibile agli
altri casi di nullita' espressamente previsti dalla legge, ordina  al
datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la  reintegrazione
del lavoratore nel posto  di  lavoro,  indipendentemente  dal  motivo
formalmente addotto». 
    La fattispecie unitaria, ampia e onnicomprensiva di cui  all'art.
18 statuto lavoratori, come novellato dalla legge n. 92 del 2012,  in
tal modo si sdoppia: da un  lato,  il  licenziamento  "espressamente"
nullo; dall'altro, il licenziamento nullo,  ma  senza  l'espressa  (e
quindi testuale) previsione della nullita'. 
    4.6.- Da questa  normativa,  progressivamente  mutata  nel  corso
degli   anni,   emerge   che   la   fattispecie   del   licenziamento
discriminatorio e quella del licenziamento nullo  sono  state  tenute
distinte, sicche' non puo' seguirsi l'ipotesi interpretativa avanzata
dall'Avvocatura  dello  Stato,  secondo   cui   il   riferimento   al
"licenziamento nullo e discriminatorio"  costituirebbe  un'endiadi  e
starebbe   a   significare   un'unica   fattispecie:    quella    del
"licenziamento nullo perche' discriminatorio". Del  resto,  anche  il
legislatore delegato (delega esercitata con il d.lgs. n. 23 del 2015)
ha tenuto distinte le fattispecie, prevedendo  sia  il  licenziamento
discriminatorio,  sia  quello  nullo,  pur   limitando   quest'ultimo
all'ipotesi in cui  ricorra  anche  l'espressa  (e  quindi  testuale)
previsione della nullita' come conseguenza della violazione di  norme
imperative. 
    Ne'  la  fattispecie  generale  del   licenziamento   nullo   per
violazione di norme imperative e' revocata in dubbio dalla  possibile
previsione, rientrante nella  discrezionalita'  del  legislatore,  di
specifiche  ipotesi  di  nullita'  di  protezione  conseguenti   alla
violazione  di  prescrizioni  procedimentali  di  garanzia   per   il
lavoratore, sottratte al regime della tutela reintegratoria in quanto
integranti ipotesi in cui «la legge dispon[e] diversamente» (ex  art.
1418, primo comma, cod. civ.). Tale e', in particolare, la violazione
della procedura di cui all'art. 7 statuto lavoratori  nel  regime  di
tutela sia della legge n. 92 del 2012, sia del d.lgs. n. 23 del 2015.
Piu'  recentemente,  tale  e'  stata  qualificata,  a  seguito  delle
modifiche introdotte dal d.lgs. n. 75 del 2017, anche  la  violazione
dei  termini  e  delle  disposizioni  sul  procedimento  disciplinare
previste dagli articoli da 55 a 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001.
Invece - secondo il diritto vivente sopra richiamato  -  non  risulta
una norma di legge che disponga diversamente quanto  alla  violazione
degli artt. 53 e 54 dell'Allegato A al r.d. n. 148 del 1931, ritenute
norme imperative tuttora vigenti e rilevanti nel giudizio a quo. 
    5.- Tanto premesso, la questione  oggetto  di  scrutinio  investe
l'avverbio «espressamente», contenuto nella disposizione censurata  e
non gia' nel criterio direttivo della  legge  di  delega,  e  la  sua
funzione selettiva rispetto alle nullita' cui troverebbe applicazione
la disciplina della reintegrazione. La  Corte  rimettente  parte  dal
presupposto interpretativo che tale inserimento  escluda  dall'ambito
applicativo della norma  censurata  tutte  le  ipotesi  in  cui,  pur
ricorrendo la violazione di una norma imperativa, la nullita' non sia
testualmente prevista come conseguenza della stessa. 
    Tale interpretazione va condivisa: il  carattere  espresso  della
nullita' non puo' significare altro che la disposizione che  sancisce
- o dalla quale puo' farsi derivare -  un  divieto  di  licenziamento
deve anche prevedere,  come  conseguenza  della  sua  violazione,  la
sanzione  della  nullita';  cio'  che  avviene  nelle   ipotesi   del
licenziamento intimato in concomitanza col matrimonio o in violazione
dei divieti di licenziamento in materia di tutela  e  sostegno  della
maternita' e della paternita', ma non in una serie di  altre  ipotesi
in cui opera solo la  violazione  del  divieto  posto  da  una  norma
imperativa  ex  art.  1418,  primo  comma,  cod.  civ.,  in   assenza
dell'espressa  previsione  della  nullita'.  Il  licenziamento  resta
nullo, ma non e' soggetto alla  tutela  reintegratoria  dell'art.  2,
comma 1, censurato dal giudice a quo. 
    In giurisprudenza (ex  plurimis,  Corte  di  cassazione,  sezioni
unite civili, sentenza 15 marzo 2022,  n.  8472)  e  in  dottrina  si
distingue tra nullita' testuali (quelle che  prevedono  espressamente
la sanzione della nullita', quale conseguenza della violazione di una
norma imperativa) e nullita' virtuali (quelle che, pur in mancanza di
tal espressa previsione, derivano comunque dalla contrarieta' a norme
imperative ai sensi del primo comma dell'art. 1418 cod.  civ.  «salvo
che  la  legge  disponga  diversamente»).  Queste  ultime  richiedono
all'interprete di accertare se il legislatore, con la prescrizione di
norme  imperative,  abbia  anche   inteso   far   discendere,   dalla
contrarieta' dell'atto negoziale ad esse, la sua nullita'. 
    In questo sistema di nullita', testuali e virtuali, si iscrive la
disposizione censurata, nella quale quindi l'avverbio "espressamente"
assume un peso particolare perche' svolge una funzione  selettiva  di
limitazione alle nullita' testuali con esclusione di quelle virtuali. 
    Del resto, una diversa lettura della norma in senso inclusivo  di
tutte le nullita' previste dalla legge, pur sostenuta  da  una  parte
della    dottrina,    renderebbe    inutiliter    datum    l'avverbio
"espressamente"; si  tratterebbe  di  un'inammissibile  interpretatio
abrogans. 
    6.- La questione - sollevata in riferimento all'art. 76  Cost.  -
e' fondata. 
    6.1.- Secondo il criterio direttivo fissato dall'art. 1, comma 7,
della legge n. 183 del 2014 «il Governo e' delegato ad  adottare,  su
proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, entro sei
mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o piu'
decreti  legislativi,  di  cui  uno   recante   un   testo   organico
semplificato delle discipline  delle  tipologie  contrattuali  e  dei
rapporti di lavoro», «[a]llo scopo di rafforzare le  opportunita'  di
ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di
occupazione, nonche' di riordinare i contratti di lavoro vigenti  per
renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze  del  contesto
occupazionale e produttivo e di rendere piu'  efficiente  l'attivita'
ispettiva». 
    In particolare, la lettera c) del medesimo  comma  consentiva  la
«previsione,  per  le  nuove  assunzioni,  del  contratto   a   tempo
indeterminato a  tutele  crescenti  in  relazione  all'anzianita'  di
servizio, escludendo per i licenziamenti  economici  la  possibilita'
della reintegrazione del lavoratore nel posto di  lavoro,  prevedendo
un  indennizzo  economico  certo  e  crescente  con  l'anzianita'  di
servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai  licenziamenti
nulli e discriminatori e a specifiche  fattispecie  di  licenziamento
disciplinare ingiustificato, nonche'  prevedendo  termini  certi  per
l'impugnazione del licenziamento». 
    Il criterio direttivo, nella  parte  che  rileva  ai  fini  della
presente questione, segna i confini della tutela  reintegratoria  del
lavoratore nel posto di lavoro in caso di  licenziamento  illegittimo
delineando, in negativo, un ambito di esclusione, che vede la  tutela
solo  indennitaria  per  i  licenziamenti  economici  che   risultino
illegittimi,  e,  in   positivo,   uno   di   inclusione,   riservato
distintamente ai licenziamenti nulli e  discriminatori  e  ad  alcune
specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato. 
    6.2.- L'eccesso di delega denunciato dal giudice a quo investe la
limitazione  (contenuta  nella  norma  censurata)  del  diritto  alla
reintegrazione  ai  soli  licenziamenti  viziati  da   una   nullita'
«espressamente» prevista; l'effetto di neutralizzazione di  tutte  le
nullita'  diverse  da   quelle   testuali,   prodotto   dall'avverbio
censurato, non trova rispondenza -  secondo  la  Corte  rimettente  -
nella legge di delega e ne viola il criterio direttivo nella parte in
cui esso prescrive la tutela reintegratoria in caso di  licenziamento
nullo  tout  court,  al  pari  del  licenziamento  discriminatorio  e
diversamente dal licenziamento disciplinare, per il quale  invece  il
legislatore delegato avrebbe dovuto individuare specifiche ipotesi di
tutela reintegratoria ed altre di tutela indennitaria (cio'  che  poi
ha fatto nei commi 1 e 2 dell'art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015). 
    7.- La sollevata questione di legittimita' costituzionale  chiama
in causa, quindi, i limiti  della  delegazione  legislativa,  la  cui
possibilita' e' si' prevista in  Costituzione,  ma  come  deroga  del
canone  opposto  secondo  cui,  in  generale,  «[l]'esercizio   della
funzione legislativa non puo' essere delegato al Governo» (art. 76) e
«[i]l Governo non  puo',  senza  delegazione  delle  Camere,  emanare
decreti che abbiano  valore  di  legge  ordinaria»  (art.  77,  primo
comma); cio' in coerenza con il precetto costituzionale  che  assegna
alle  due  Camere,  collettivamente,   l'esercizio   della   funzione
legislativa  (art.  70)  e  con  il  tradizionale   principio   della
separazione dei poteri (principio "ordinamentale": sentenza n. 98 del
2023). 
    Ma le Camere stesse, nel  rispetto  della  procedura  normale  di
esame e approvazione diretta (art. 72, quarto comma, Cost.),  possono
prevedere una delegazione legislativa entro limiti ben  precisi:  per
un «tempo limitato» e sempre che ricorrano due condizioni: a)  devono
essere determinati i «principi e criteri direttivi»; b) devono essere
definiti gli «oggetti» (art. 76 Cost.). 
    Di queste condizioni la  giurisprudenza  costituzionale  ha  dato
un'interpretazione flessibile, consapevole dell'esistenza di  settori
dell'ordinamento  che,  per  la  complessita'  dei  rapporti   e   la
tecnicita' e interconnessione delle regole, mal  si  prestano  ad  un
esame  ed   approvazione   diretta   delle   Camere.   L'area   della
codificazione e' quella elettiva  della  delegazione  legislativa  ad
ampio spettro ed infatti a seguito di  legge  di  delega  sono  stati
approvati vari codici. 
    In questi casi i principi e  criteri  direttivi  della  legge  di
delega tracciano gli obiettivi ed esprimono le linee di  fondo  delle
scelte del legislatore  delegante.  Ampi  quindi  sono  il  potere  e
l'«attivita' di "riempimento"  normativo»  conferiti  al  legislatore
delegato (sentenza n. 166 del 2023).  Ricorrente  e'  l'affermazione,
nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui «la  previsione  di
cui  all'art.  76  Cost.  non  osta  all'emanazione,  da  parte   del
legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo
e un completamento delle scelte espresse dal  legislatore  delegante,
dovendosi escludere che la funzione del primo  sia  limitata  ad  una
mera scansione  linguistica  di  previsioni  stabilite  dal  secondo»
(sentenze n. 133 del 2021 e n. 212 del 2018). 
    Ampia e' spesso anche la delega al Governo ad adottare uno o piu'
decreti legislativi al fine di adeguare il quadro normativo nazionale
alle disposizioni europee (sentenza n. 260 del 2021). 
    Ma, all'opposto, la legge di delega  puo'  contenere  principi  e
criteri direttivi molto puntuali e specifici, di tal che il potere di
riempimento del legislatore  delegato  si  riduce  notevolmente  fino
talora a restringersi quasi ad un'opera di sostanziale trasposizione,
in disposizioni di legge, di regole gia'  contenute  nella  legge  di
delega (come nella fattispecie di cui alla sentenza n. 166 del  2023,
che ha affermato che la legge di  delega  puo'  anche  contenere  una
«norma compiuta, integrativa non piu', e non solo, di un principio  o
criterio direttivo, ma di una vera e propria regula iuris [che] nella
sua portata vale a ridurre, in  modo  corrispondente,  i  margini  di
discrezionalita'  ed  il  cosiddetto  potere   di   riempimento   del
legislatore delegato»). 
    Parimenti la verifica che la normativa delegata si sia  contenuta
nel limite degli «oggetti» fissati dalla legge di delega dipende  dal
grado, piu' o meno circoscritto, della loro definizione, che potrebbe
anche essere assai puntuale. 
    In tali evenienze lo scrutinio di questa Corte, nel verificare la
conformita' ai «principi e  criteri  direttivi»  e  il  rispetto  dei
limiti degli «oggetti» della delega, e' molto stretto. 
    In definitiva, la delega legislativa «puo'  essere  piu'  o  meno
ampia, in relazione al grado  di  specificita'  dei  criteri  fissati
nella legge delega» (sentenza n. 142 del 2020; nello stesso senso, ex
plurimis, sentenze n. 170 del 2019; n. 198 e n. 182 del 2018). 
    Nella giurisprudenza recente  di  questa  Corte  un  criterio  di
delega molto puntuale e' stato ritenuto  violato  -  con  conseguente
pronuncia   di   illegittimita'   costituzionale   della    censurata
disposizione del decreto legislativo - in  materia  di  dispensa  dal
servizio dei magistrati onorari (sentenza n. 166 del 2023), di omessi
versamenti di ritenute dovute sulla base della dichiarazione  annuale
del sostituto d'imposta (sentenza n. 175 del 2022) e  di  utilizzo  o
somministrazione di farmaci o di altre sostanze al fine  di  alterare
le prestazioni agonistiche degli atleti (sentenza n. 105 del 2022). 
    8.- Tenendo conto, quindi, del grado di specificita' dei principi
e criteri direttivi e della maggiore o minore  ampiezza  dell'oggetto
della delega, la loro interpretazione deve  muovere,  innanzi  tutto,
dalla  "lettera"   del   testo   normativo,   a   cui   si   affianca
l'interpretazione sistematica sulla base della ratio  legis,  che  e'
quella che emerge dal contesto complessivo della legge  di  delega  e
dalle finalita' che essa persegue (sentenza n. 7 del 2024). 
    Il controllo sul superamento dei  limiti  posti  dalla  legge  di
delega va, infatti, operato  partendo  dal  dato  letterale  per  poi
procedere ad una indagine sistematica e teleologica per verificare se
l'attivita' del legislatore delegato, nell'esercizio del  margine  di
discrezionalita' che  gli  compete  nell'attuazione  della  legge  di
delega, si sia inserito  in  modo  coerente  nel  complessivo  quadro
normativo, rispettando la ratio della norma  delegante  (sentenze  n.
250 e n. 59 del 2016; n. 146 e n. 98 del 2015; n.  119  del  2013)  e
mantenendosi comunque nell'alveo delle scelte di fondo operate  dalla
stessa (sentenza n. 278 del 2016). 
    E' infatti costante l'affermazione secondo cui «per  valutare  se
il  legislatore  abbia  ecceduto  [i]  margini  di  discrezionalita',
occorre individuare la ratio della delega per verificare se la  norma
delegata sia stata con questa coerente» (sentenza n. 153 del 2014  e,
nello stesso senso, tra le altre, sentenze n. 175 del 2022; n. 231  e
n. 174 del 2021; n. 184 del 2013; n. 272 del 2012 e n. 230 del  2010;
inoltre, con riferimento alla materia penale,  sentenza  n.  105  del
2022). 
    Tra l'elemento letterale e quello  funzionale-teleologico  esiste
un rapporto inversamente proporzionale: meno preciso e univoco e'  il
primo, piu' rilevante risulta il secondo. 
    La  verifica  di  conformita'  della  norma  delegata  a   quella
delegante richiede lo svolgimento di un duplice processo  ermeneutico
che, condotto  in  parallelo,  tocca,  da  una  parte,  la  legge  di
delegazione e, dall'altra, le disposizioni  emanate  dal  legislatore
delegato, da interpretare nel significato compatibile con  la  delega
stessa. 
    In sintesi, per definire il contenuto di questa, si  deve  tenere
conto del complessivo contesto normativo  in  cui  si  inseriscono  i
principi e criteri direttivi della legge di delega e delle  finalita'
che la ispirano; cio' che non solo rappresenta la base  e  il  limite
delle norme delegate, ma offre anche criteri di interpretazione della
loro portata (ex plurimis, sentenze n. 166 del 2023; n. 133 del 2021;
n. 84 del 2017; n. 250 del 2016; n. 194 del 2015 e n. 153 del 2014). 
    9.- Ed allora, muovendo innanzi tutto dall'interpretazione  della
legge di delega, rileva che nella  "lettera"  dell'indicato  criterio
direttivo   manchi   del   tutto   la   distinzione   tra    nullita'
«espressamente» previste e nullita' conseguenti si'  alla  violazione
di  norme  imperative,  ma  senza  l'espressa  loro  previsione  come
conseguenza  di  tale  violazione.  Il  prescritto  mantenimento  del
diritto alla  reintegrazione  e'  contemplato  per  i  «licenziamenti
nulli» tout court, laddove una eventuale distinzione, inedita -  come
si e' visto sopra nel richiamare il quadro normativo di riferimento -
rispetto alla disciplina previgente  dei  licenziamenti  individuali,
avrebbe richiesto una previsione (questa si') espressa. 
    In secondo luogo, il senso letterale  dell'espressione  contenuta
nell'art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 risulta ancora piu'
univoco se posto in correlazione  con  la  successiva  limitazione  a
«specifiche fattispecie» riferita  esclusivamente  al  «licenziamento
disciplinare  ingiustificato»;  quindi  il  criterio   direttivo   ha
previsto  si'  una  distinzione,  ma  solo   per   il   licenziamento
disciplinare (per giustificato motivo soggettivo). Se il  legislatore
delegante avesse voluto una qualche distinzione anche tra le nullita'
l'avrebbe parimenti prevista, come per il licenziamento disciplinare. 
    La distinzione tra nullita' espresse  e  nullita'  che  tali  non
sono, non e', dunque, riconducibile al criterio di delega  nella  sua
portata testuale. 
    10.- Considerazioni convergenti sovvengono  anche  dal  punto  di
vista dell'interpretazione sistematica: la limitazione alla  nullita'
testuale appare eccentrica rispetto  all'impianto  della  delega  che
mira ad introdurre per le «nuove assunzioni» una disciplina  generale
dei licenziamenti di lavoratori assunti  dopo  il  7  marzo  2015,  a
copertura integrale per tutte le ipotesi di invalidita'. 
    Per i contratti a tutele crescenti la legge delega prevede da  un
lato  la  possibilita'  di  escludere   la   reintegrazione   per   i
licenziamenti  economici  e  dall'altro   quella   di   limitare   la
reintegrazione ai licenziamenti nulli, discriminatori e a  specifiche
ipotesi di licenziamenti disciplinari  ingiustificati;  tale  assetto
risulta adeguato rispetto all'obiettivo del legislatore,  nell'ottica
di ricomprendere nella nuova disciplina tutta la possibile  casistica
di licenziamenti illegittimi,  con  una  netta  demarcazione  tra  le
ipotesi di nullita', sempre meritevoli della piu' grave  sanzione  in
forma specifica, e quelle di  illegittimita'  sanzionate  in  termini
esclusivamente monetari. 
    10.1.- Al contrario, il legislatore delegato, con la  limitazione
dell'ambito applicativo dell'art. 2, comma 1, del d.lgs.  n.  23  del
2015 ai licenziamenti  per  i  quali  la  nullita'  e'  espressamente
prevista, ha dettato una disciplina la cui incompletezza conferma  la
sua incoerenza rispetto al disegno del legislatore delegante. 
    Sono rimasti privi di  regime  sanzionatorio  le  fattispecie  di
licenziamenti nulli privi  della  espressa  (e  testuale)  previsione
della nullita', i quali per un verso, non avendo natura  "economica",
non possono rientrare tra quelli per i quali la reintegra puo' essere
esclusa,  ma,  per  altro  verso,  in  ragione   della   disposizione
censurata, non appartengono a quelli per i  quali  questa  tutela  va
mantenuta, senza che ad essi  possa  alternativamente  applicarsi  la
tutela indennitaria, di cui al successivo art.  3,  che  riguarda  le
diverse fattispecie dei licenziamenti privi di  giustificato  motivo,
soggettivo e oggettivo, o dell'art. 4, che opera in relazione ai soli
vizi formali e procedurali riconducibili al requisito di  motivazione
di cui all'art. 2, comma secondo, della legge n. 604 del 1966 o  alla
procedura di cui all'art. 7 statuto lavoratori. 
    Secondo il criterio direttivo, il legislatore delegato non poteva
procedere ad alcuna "specificazione"  nell'ambito  della  fattispecie
del licenziamento nullo. Invece ha distinto le  ipotesi  di  nullita'
espressa  rispetto  a  quelle  di  nullita'  non  espressa,  ma,  nel
contemplare la tutela reintegratoria per le prime,  nulla  ha  invece
previsto per le seconde. Laddove il  legislatore  delegato  e'  stato
facoltizzato  a  distinguere,  individuando  specifiche  ipotesi   di
licenziamento disciplinare,  lo  ha  fatto  prevedendo  due  distinti
regimi di tutela: quella  reintegratoria  dell'art.  3,  comma  2,  e
quella indennitaria dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del  2015.
Invece, in caso di licenziamento nullo perche' in violazione  di  una
norma imperativa, che pero' non  preveda  espressamente  la  nullita'
dell'atto, manca l'individuazione della tutela per questa fattispecie
esclusa dal regime della reintegrazione. 
    Oltre al caso oggetto del giudizio principale, tra  le  ulteriori
ipotesi  in  cui  manca  un'espressa   previsione   della   nullita',
significative sono quelle del licenziamento in  periodo  di  comporto
per  malattia  (in  violazione  dell'art.  2110   cod.   civ.);   del
licenziamento per motivo illecito  ex  art.  1345  cod.  civ.,  quale
quello ritorsivo del dipendente (il  cosiddetto  whistleblower),  che
segnala illeciti  commessi  dal  datore  di  lavoro  (art.  2,  comma
2-quater, della legge 30 novembre 2017, n. 179, recante «Disposizioni
per la tutela degli autori di segnalazioni di reati  o  irregolarita'
di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro
pubblico o privato»); del licenziamento intimato  in  violazione  del
"blocco" dei licenziamenti economici durante il periodo emergenziale,
disposto dall'art. 46 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18  (Misure
di potenziamento del  Servizio  sanitario  nazionale  e  di  sostegno
economico per famiglie, lavoratori e imprese  connesse  all'emergenza
epidemiologica da COVID-19),  convertito,  con  modificazioni,  nella
legge 24 aprile 2020, n. 27, e successive proroghe; del licenziamento
intimato in contrasto con l'art. 4, comma 1, della  legge  12  giugno
1990, n. 146  (Norme  sull'esercizio  del  diritto  di  sciopero  nei
servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia  dei  diritti  della
persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di
garanzia  dell'attuazione  della   legge);   del   licenziamento   in
violazione del diritto alla conservazione del posto di  cui  all'art.
124, comma 1, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309  (Testo  unico  delle
leggi  in  materia  di  disciplina  degli  stupefacenti  e   sostanze
psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati  di
tossicodipendenza). 
    Piu' in generale, anche fuori dalle  tematiche  giuslavoristiche,
la giurisprudenza di legittimita' (Corte di cassazione, sezioni unite
civili, sentenze 15 marzo 2022, n. 8472 e 12 dicembre 2014, n. 26242)
ha individuato i caratteri della violazione di norme  imperative  che
si riconducono al medesimo regime sanzionatorio della nullita'. 
    10.2.- Non e' senza rilievo, infine, l'inedito ribaltamento della
regola civilistica  dell'art.  1418,  primo  comma,  cod.  civ.,  che
prevede  la  nullita'  come  sanzione  della  violazione   di   norme
imperative e la esclude qualora si rinvenga una  legge  che  disponga
diversamente; qui  la  previsione  "diversa"  serve,  all'opposto,  a
derogare  alla  nullita'  che  consegue  alla  violazione  di   norme
imperative. 
    10.3.- In sintesi, l'eccesso di delega per violazione  del  sopra
richiamato  criterio  direttivo  trova  riscontro  sia   nell'univoca
"lettera"  di   quest'ultimo,   che   ammette   distinzioni   per   i
licenziamenti disciplinari,  ma  non  anche  per  quelli  nulli,  sia
nell'interpretazione sistematica per  la  contraddittorieta'  di  una
distinzione  che  non  si  accompagni,   diversamente   che   per   i
licenziamenti  disciplinari,  alla  previsione  del  tipo  di  tutela
applicabile alla fattispecie esclusa dal regime della reintegrazione. 
    11.-  Conclusivamente,  si   deve   dichiarare   l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 2, comma 1,  del  d.lgs.  n.  23  del  2015,
limitatamente alla parola «espressamente». 
    Per effetto di tale pronuncia il regime del  licenziamento  nullo
e' lo stesso, sia che nella disposizione imperativa  violata  ricorra
anche l'espressa (e testuale) sanzione della nullita', sia  che  cio'
non  sia  espressamente  previsto,  pur  rinvenendosi  il   carattere
imperativo della prescrizione violata e comunque «salvo che la  legge
disponga  diversamente».  Occorre,   pero',   pur   sempre   che   la
disposizione imperativa rechi, in modo espresso o no, un  divieto  di
licenziamento al ricorrere di determinati presupposti. 
    12.- Va, infine, ribadito che «[s]petta alla responsabilita'  del
legislatore, anche alla luce  delle  indicazioni  enunciate  in  piu'
occasioni da questa Corte,  ricomporre  secondo  linee  coerenti  una
normativa di importanza essenziale, che  vede  concorrere  discipline
eterogenee,  frutto  dell'avvicendarsi  di  interventi   frammentari»
(sentenza n. 150 del 2020).