N. 212 ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 luglio 2016

Ordinanza  dell'8  luglio  2016  della  Corte   di   cassazione   nel
procedimento penale a carico di Cestari Mauro e altri. 
 
Reati e pene - Frode all'IVA - Prescrizione - Obbligo per il giudice,
  in  applicazione  dell'art.  325  del  Trattato  sul  Funzionamento
  dell'Unione  europea  (TFUE),  come  interpretato  dalla  Corte  di
  giustizia europea,  sentenza  8  settembre  2015,  causa  C-105/14,
  Taricco, di disapplicare gli artt. 160, terzo comma, e 161, secondo
  comma, cod. pen., anche se dalla disapplicazione, e dal conseguente
  prolungamento  del  termine  di  prescrizione,  discendano  effetti
  sfavorevoli per l'imputato. 
- Legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di
  Lisbona che modifica il Trattato sull'Unione europea e il  Trattato
  che istituisce la Comunita' europea e  alcuni  atti  connessi,  con
  atto finale, protocolli e dichiarazioni,  fatto  a  Lisbona  il  13
  dicembre 2007), art. 2. 
(GU n.41 del 12-10-2016 )
 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                        Terza Sezione Penale 
 
    Composta da: 
        Renato Grillo - Presidente; 
        Oronzo De Masi; 
        Enrico Manzon; 
        Aldo Aceto; 
        Giuseppe Riccardi - relatore, 
ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto da: 
        Cestari Mauro, nato a Rovigo il 17 febbraio 1957; 
        Sbarro Francesco Pasquale, nato a Presicce il 10 aprile 1968; 
        Bertoni Mauro, nato a Ferrara il 2 aprile 1959; 
        Maestri Franco, nato a Copparo (Ferrara) il 21 aprile 1949; 
        Ferraretti Patrizia, nata a Ferrara il 14 luglio 1956; 
    Avverso la sentenza del 26 maggio 2015 della Corte di appello  di
Bologna. 
    Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; 
    Udita la relazione svolta dal consigliere Giuseppe Riccardi; 
    Udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto procuratore
generale Mario Fraticelli, che ha concluso  chiedendo  l'annullamento
con rinvio per Bertoni, ed il rigetto degli altri ricorsi; 
    Uditi i difensori, avv. N. Mazzacuva (per Bertoni),  avv.  M.  La
Marra e L. Veronesi  (per  Maestri),  che  hanno  concluso  chiedendo
l'accoglimento dei ricorsi. 
 
                         Ritenuto in fatto  
 
    1. Con sentenza dell'11 ottobre  2013  il  Tribunale  di  Ferrara
condannava Sbarro Francesco Pasquale alla pena di anni tre e mesi sei
di reclusione, Bertoni Mauro alla pena  di  anni  tre,  mesi  otto  e
giorni quindici di reclusione, Maestri Franco alla pena di anni  tre,
mesi sei e giorni quindici di reclusione, Cestari Mauro alla pena  di
anni uno e mesi otto di reclusione, Ferraretti Patrizia alla pena  di
anni uno, mesi sei e giorni quindici di reclusione, per i reati  loro
rispettivamente ascritti di associazione per  delinquere  finalizzata
alla commissione di una pluralita' di reati tributari di emissione di
fatture per operazioni inesistenti, limitatamente ai primi tre, e per
i reati di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per
operazioni inesistenti (art. 2 del  decreto  legislativo  n.  74  del
2000), di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 del
decreto legislativo n. 74 del 2000), di omessa dichiarazione (art.  5
del decreto legislativo n. 74 del 2000), di omesso versamento di  IVA
(art.  10-ter  del  decreto  legislativo  n.  74  del  2000),  e   di
occultamento o  distruzione  di  documenti  contabili  (art.  10  del
decreto legislativo n. 74 del 2000), per tutti. 
    In  particolare,  Sbarro  Francesco  Pasquale   veniva   ritenuto
responsabile dei reati di  associazione  per  delinquere  finalizzata
alla commissione di  reati  fiscali  (art.  416  del  codice  penale,
contestato al capo A, commesso fino al 19 giugno 2008), dichiarazione
fraudolenta mediante utilizzo di fatture per  operazioni  inesistenti
(art. 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000,  contestato  al  capo
AQ,  commesso  il  30  settembre  2008),  emissione  di  fatture  per
operazioni inesistenti (art. 8 del  decreto  legislativo  n.  74  del
2000, contestato ai capi B, C, D, G, H, L, M, P, Q, 5, T, V, AA,  AD,
AS, AT, AU), omessa dichiarazione (art. 5 del decreto legislativo  n.
74 del 2000, contestato al capo Z, AC commesso il 30 dicembre  2008),
omesso versamento di IVA (art. 10-ter del decreto legislativo  n.  74
del 2000, contestato ai capi L, S, V, AD, O,  U),  e  occultamento  o
distruzione di documenti contabili (art. 10 del  decreto  legislativo
n. 74 del 2000, contestato ai capi I, N, R, AB). 
    Bertoni  Mauro  veniva  ritenuto  responsabile   dei   reati   di
associazione per delinquere finalizzata  alla  commissione  di  reati
fiscali (art. 416 del codice penale, contestato al capo  A,  commesso
fino  al  19  giugno  2008),  emissione  di  fatture  per  operazioni
inesistenti  (art.  8  del  decreto  legislativo  n.  74  del   2000,
contestato ai capi B, C, D, AS, AT, AU). 
    Maestri  Franco  veniva  ritenuto  responsabile  dei   reati   di
associazione per delinquere finalizzata  alla  commissione  di  reati
fiscali (art. 416 del codice penale, contestato al capo  A,  commesso
fino al 19 giugno 2008), e di emissione  di  fatture  per  operazioni
inesistenti  (art.  8  del  decreto  legislativo  n.  74  del   2000,
contestato ai capi C, AS, AT). 
    Cestari Mauro veniva ritenuto responsabile dei reati di emissione
di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 del decreto legislativo
n. 74 del 2000, contestato ai capi Q, AA), omessa dichiarazione (art.
5 del decreto legislativo n. 74  del  2000,  contestato  al  capo  AC
commesso il 30  dicembre  2008),  e  occultamento  o  distruzione  di
documenti contabili (art. 10 del decreto legislativo n. 74 del  2000,
contestato ai capi R, AB). 
    Ferraretti Patrizia veniva ritenuta  responsabile  dei  reati  di
emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8  del  decreto
legislativo n. 74 del 2000,  contestato  al  capo  T),  e  di  omesso
versamento di IVA (art. 10-ter del  decreto  legislativo  n.  74  del
2000, contestato al capo U). 
    Cestari, Sbarro e Maestri venivano assolti dal  reato  di  truffa
aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art.  640-bis
del codice penale, contestato, in concorso con altri  coimputati,  al
capo AV). 
    1.2. Con sentenza del 26 maggio  2015  la  Corte  di  appello  di
Bologna, in parziale riforma della sentenza di primo grado, assolveva
Bertoni, Maestri e Sbarro dal reato associativo, e dichiarava estinti
per prescrizione i reati  di  emissione  di  fatture  per  operazioni
inesistenti di cui ai capi C e AS (limitatamente  ai  fatti  commessi
fino al 18 febbraio 2007, e contestati a Sbarro, Maestri e  Bertoni),
ai capi H e L (contestati a Sbarro), e,  riconosciute  le  attenuanti
generiche a Bertoni, Maestri, Cestari e Ferraretti, rideterminava  le
pene inflitte in: anni 1, mesi 2, giorni  10  per  Bertoni;  anni  1,
giorni 10 per Maestri; anni 2, mesi 7 e giorni 15 per Sbarro; anni  1
e mesi 2 per Cestari; anni 1 e giorni 15 per Ferraretti. 
    2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per  cessazione
il difensore di Cestari Mauro,  avv.  Gianni  Ricciuti,  deducendo  i
seguenti  motivi  di  censura,  di  seguito  enunciati   nei   limiti
strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disposizioni di
attuazione del codice di procedura penale. 
    2.1.  Vizio  di  motivazione:  la  responsabilita'  del  Cestari,
amministratore della CBS dal 3 ottobre 2007 al 19 giugno 2008 e della
SISCO  dal  2  maggio  2007,  non  e'  sufficiente  a   fondarne   la
responsabilita' per il reato di emissione di fatture  per  operazioni
inesistenti; la CBS era una societa'  commerciale  gia'  operante  da
molti anni, non creata fittiziamente; la sentenza  impugnata  non  ha
poi considerato le dichiarazioni di Sbarro, che ha  riferito  di  non
aver coinvolto il Cestari nel meccanismo truffaldino, ne'  di  averlo
remunerato, ma di avergli solo proposto  di  assumere  la  carica  in
virtu'   del   rapporto   di   risalente    amicizia    e    fiducia;
l'inconsapevolezza del Cestari si desume dal fatto che si limitava ad
apporre saltuariamente una firma su un atto pubblico di vendita;  del
resto, il coinvolgimento di Cestari non emerge neppure dalle numerose
intercettazioni telefoniche; anzi, dalla conv. n. 1703 del 23  giugno
2008,  captata  dopo  le  perquisizioni,  Sbarro  dichiara  di  voler
chiarire  la  posizione  di  «tutti»  quelli   che   gli   chiedevano
«chiarimenti», evidentemente perche' non a conoscenza del  meccanismo
truffaldino; manca, dunque il dolo specifico di evasione,  anche  nel
reato  di  omessa  dichiarazione  di  cui  all'art.  5  del   decreto
legislativo n. 74 del 2000. 
    2.2. Vizio di motivazione e violazione di legge in  relazione  al
reato di occultamento di documenti contabili: e' lo stesso Sbarro  ad
aver dichiarato di aver distrutto la documentazione contabile,  e  di
aver dato disposizione ai «suoi»  amministratori,  dopo  l'intervento
della Polizia tributaria, di far  sparire  la  contabilita'  residua,
avendo contezza diretta dell'esecuzione solo in merito a Buzzoni e ad
un altro; inoltre, per la societa' SISCO non  risulta  documentazione
occultata; l'affermazione di  responsabilita'  violerebbe  dunque  il
principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio. 
    3. Ricorre  per  cassazione  il  difensore  di  Sbarro  Francesco
Pasquale, avv. Matteo Murgo, deducendo violazione di legge e vizio di
motivazione, in relazione alla concreta  commisurazione  della  pena:
lamenta che la pena base determinata sul reato ritenuto  piu'  grave,
il capo AS, sia stata individuata in anni 2 e mesi 8 di reclusione, a
differenza di quanto determinato per i correi Bertoni e  Maestri,  la
cui pena base e' stata individuata in anni 1 e mesi 6. Il  differente
trattamento non sarebbe motivato. Inoltre, la sentenza impugnata, pur
assolvendo dal reato associativo,  e  dichiarando  prescritti  alcuni
reati, non motiva in ordine alla censurata  eccessivita'  della  pena
base e degli aumenti per la continuazione. Del resto, sebbene  Sbarro
fosse l'ideatore del delitto di cui al capo AS, i  correi  Bertoni  e
Maestri avevano aderito alla volizione criminosa, e, come evidenziato
dalla sentenza di 1° grado,  solo  il  primo  aveva  cooperato  nella
ricostruzione dei fatti, meritando il riconoscimento delle attenuanti
generiche. 
    4. Ricorre per cassazione il difensore  di  Bertoni  Mauro,  avv.
Nicola Mazzacuva, deducendo i seguenti motivi. 
    4.1. Violazione di legge  processuale  e  vizio  di  motivazione;
lamenta che, benche' la  Corte  di  appello  abbia  riconosciuto  che
Bertoni non fosse un «responsabile commerciale», ma un mero  «addetto
alle vendite», privo di potere decisionale e gestionale, nondimeno ha
ritenuto tale  contributo  (consistente  nel  girare  al  Maestri  la
proposta  dello  Sbarro  di  vendere  veicoli   alle   sue   societa'
sanmarinesi) rilevante ai fini del concorso di persone; egli tuttavia
non aveva alcuna autonomia nella politica aziendale della Automec,  e
riceveva solo una gratifica  di  100/200  euro  da  Sbarro  per  ogni
veicolo trattato; in ogni caso, non e' stato  operato  un  vaglio  di
attendibilita' delle dichiarazioni rese dal coimputato Sbarro.  Manca
inoltre la consapevolezza  del  'sistema'  di  frode  carosello,  non
ricorrendo elementi dai quali desumere che le  modalita'  di  vendita
fossero non gia' un semplice tentativo di vendere un numero  maggiore
di veicoli, ma un modo  per  eludere  il  divieto  della  casa  madre
Mercedes  di  vendere  ai  c.d.  «salonisti»;  del  resto,  egli  non
partecipava agli incontri della dirigenza della  concessionaria,  era
un mero  dipendente,  come  si  evince  anche  dalle  intercettazioni
telefoniche; ne' sono sufficienti le dichiarazioni etero  accusatorie
di Sbarro,  le  cui  chiamate  in  correita'  di  Baruzzi,  Armani  e
Giovannini pure non sono state ritenute attendibili. Manca dunque  il
dolo di evasione necessario per integrare il reato  di  emissione  di
fatture  per  operazioni  inesistenti:  il  cedente,   dinanzi   alle
dichiarazioni di intenti presentate dagli acquirenti, non  e'  tenuto
ad eseguire ulteriori controlli. Inoltre, la sentenza impugnata viola
il principio di correlazione tra accusa e sentenza, in quanto,  senza
trasmettere gli atti al P.M., disconosce  il  ruolo  di  responsabile
commerciale della Automec contestata, affermando  il  ruolo  di  mero
dipendente. 
    4.2. Violazione di legge sostanziale e vizio  di  motivazione  in
ordine alla sussistenza del dolo: la  consapevolezza  di  partecipare
alla complessiva frode fiscale e' desunta solo  dal  modico  compenso
che Sbarro afferma di riconoscere; nel richiamare la  sentenza  delle
Sezioni unite n. 38343 del  2014  sul  dolo  eventuale,  lamenta  che
l'affermazione del dolo sia fondata su parziali risultanze probatorie
e su formule di stile, che dissimulano una carenza di motivazione. 
    4.3. Violazione di legge processuale e vizio  di  motivazione  in
relazione  al  concorso  di  persone:  la  sentenza  impugnata,   pur
ritenendo estranei gli amministratori ed i  dirigenti  amministrativi
della societa', nonche' l'impiegata (Giovannini) che predisponeva  le
fatture, ha affermato il concorso  del  Bertoni,  senza  motivare  in
ordine al contributo fornito; i reati tributari  sono  reati  propri,
'di mano propria', il cui autore puo' essere solo il  titolare  della
qualifica soggettiva che lo rende destinatario dell'obbligo  fiscale;
il  riconoscimento  del  concorso  di  persone  nel   reato   proprio
richiedeva l'enucleazione di un contributo causale punibile. 
    4.4. Violazione di legge processuale in  relazione  al  principio
del ne bis in idem: l'Agenzia delle entrate ha definito  il  relativo
procedimento  amministrativo  mediante   irrogazione   di   sanzioni,
rientranti, in ragione del grado di afflittivita' e  gravita',  nella
materia penale; alla luce della giurisprudenza  della  Corte  europea
dei diritti dell'uomo (Grande Stevens c.  Italia),  l'irrogazione  di
sanzioni  tributarie  deve  ritenersi  avere  natura  sostanzialmente
penale, ai sensi dell'art. 4 Protocollo n. 7 della Convenzione EDU, e
quindi vige il divieto di un secondo giudizio in ordine  ai  medesimi
fatti (Corte europea dei diritti dell'uomo, Nykanen c. Finlandia,  20
maggio 2014); in ogni caso, chiede che venga  proposta  questione  di
rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, ai  sensi  dell'art.
267  Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione  europea,  ovvero,  in
subordine, questione di costituzionalita' alla Corte  costituzionale,
per contrasto con l'art. 117 della Costituzione. 
    4.5. Violazione di legge sostanziale e vizio  di  motivazione  in
ordine  alla  commisurazione  della  pena,  per  avere  applicato  la
continuazione non gia' sulla base dei diversi reati di  emissione  di
fatture individuati in relazione al periodo di  imposta,  bensi'  sul
capo AS, e sulle diverse societa' utilizzate. 
    4.6. Violazione di legge sostanziale e vizio  di  motivazione  in
ordine alla durata delle  pene  accessorie:  l'art.  12  del  decreto
legislativo n. 74 del 2000 prevede la durata  delle  pene  accessorie
entro una cornice edittale,  mentre  l'art.  37  del  codice  penale,
sancisce  il  principio  di  equivalenza  cronologica;  la   sentenza
impugnata non motiva sui parametri adoperati  per  la  determinazione
del quantum, ovvero sui criteri individuati dall'art. 37 o su  quelli
indicati dall'art. 133 del codice penale). 
    5. Ricorre per cassazione Maestri  Franco,  per  il  tramite  dei
propri difensori avv. Mattia la Marra e Livio Veronesi,  deducendo  i
seguenti motivi. 
    5.1. Vizio di motivazione: richiamando ampi stralci dei motivi di
appello, e della diversa valutazione delle  prove  proposta,  lamenta
che la sentenza impugnata non ha motivato in  ordine  alle  doglianze
proposte, e, in particolare, alla contraddittoria  valutazione  degli
elementi di riscontro nei confronti dei coimputati Baruzzi e Baruffa,
assolti,  e  Maestri,  condannato,  pur  sulla  base  delle  medesime
dichiarazioni etero accusatorie di Sbarro. 
    5.2. Violazione di legge in  relazione  al  principio  dell'oltre
ogni   ragionevole   dubbio:    il    quadro    probatorio    sarebbe
contraddittorio,  e  non  risulta  il  dolo  di   evasione   ne'   di
compartecipazione del Maestri. 
    5.3. Chiede l'annullamento senza rinvio per essere i reati a  lui
ascritti estinti per prescrizione. 
    6. Ricorre per cassazione Ferraretti Patrizia, per il tramite del
proprio difensore avv. Dario Bolognesi, deducendo i seguenti motivi. 
    6.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in  relazione  al
dolo di evasione: l'imputata si e' limitata a rivestire la carica  di
amministratore di diritto della Global Service s.r.l. solo per tre  o
quattro mesi, senza occuparsi di contabilita' e  della  gestione  del
conti correnti; l'affermazione di responsabilita' sarebbe fondata sul
mero dovere  di  vigilanza  e  controllo  dell'amministratore,  senza
alcuna motivazione in ordine alle censure  proposte  in  appello;  la
violazione del dovere di vigilanza puo' essere addebitato a titolo di
colpa, non  di  dolo;  del  resto,  il  dolo  specifico  di  evasione
richiesto  dall'art.  8  non  e'  compatibile  neppure  con  un  dolo
eventuale. 
    6.2. Violazione di legge in  relazione  alla  modifica  dell'art.
10-ter del decreto  legislativo  n.  74  del  2000:  con  il  decreto
legislativo n. 158 del 2015 la soglia di punibilita' e' stata elevata
a € 250.000,00, e quindi l'omesso versamento IVA per un importo di  €
125.978,00 e' divenuto penalmente irrilevante. 
    6.3. Violazione  di  legge  processuale:  con  ordinanza  del  25
gennaio 2013 il Tribunale di Ferrara rigettava la richiesta di rinvio
dell'udienza  avanzata  ai  sensi  dell'art.  11,  comma   13-quater,
decreto-legge n.  174  del  2012,  che  sanciva  la  sospensione  dei
«termini  processuali,  comportanti  prescrizioni  e   decadenze   da
qualsiasi diritto, azione ed eccezione», erroneamente  ritenendo  che
la norma non si applicasse ai procedimenti penali. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. Oggetto della questione di legittimita' costituzionale. 
    E' rilevante e  non  manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 2 della legge 2 agosto 2008, n.
130,  che  ordina  l'esecuzione  del   Trattato   sul   funzionamento
dell'Unione europea, come modificato  dall'art.  2  del  Trattato  di
Lisbona del 13 dicembre 2007 (Trattato sul funzionamento  dell'Unione
europea), nella parte che impone di applicare l'art. 325,  § 1  e  2,
Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione  europea,   dal   quale   -
nell'interpretazione fornita dalla Corte di  giustizia,  8  settembre
2015, causa C - 105/14, Taricco - discende l'obbligo per  il  giudice
nazionale di disapplicare gli articoli 160, comma 3, e 161, comma  2,
del codice penale,  in  presenza  delle  circostanze  indicate  nella
sentenza europea, allorquando  ne  derivi  la  sistematica  impunita'
delle gravi frodi in materia di IVA, anche se dalla  disapplicazione,
e  dal  conseguente  prolungamento  del  termine   di   prescrizione,
discendano effetti sfavorevoli per l'imputato, per contrasta di  tale
norma con gli articoli 3, 11, 25, comma 2, 27, comma 3, 101, comma 2,
della Costituzione. 
    2. La decisione della Corte di giustizia. 
    La  Corte  di  giustizia  Unione  europea,  Grande  sezione,  con
sentenza emessa l'8 settembre  2015  (causa  C  -  105/14,  Taricco),
pronunziandosi sul rinvio pregiudiziale proposto, ai sensi  dell'art.
267 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, dal  Giudice  per
le indagini preliminari del Tribunale di Cuneo con ordinanza  del  17
gennaio 2014, in un procedimento penale riguardante reati in  materia
di imposta sul valore aggiunto (IVA)  del  tutto  analoghi  a  quelli
oggetto del presente procedimento, ed integranti il  consueto  schema
della c.d. «frode carosello», ha statuito: «Una  normativa  nazionale
in materia di  prescrizione  del  reato  come  quella  stabilita  dal
combinato disposto dell'art. 160, ultimo comma,  del  codice  penale,
come modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, e dell'art.  161
di tale codice - normativa che prevedeva, all'epoca dei fatti di  cui
al procedimento  principale,  che  l'atto  interruttivo  verificatosi
nell'ambito di procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia
di imposta sul  valore  aggiunto  comportasse  il  prolungamento  del
termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale -
e' idonea a pregiudicare  gli  obblighi  imposti  agli  Stati  membri
dall'art.  325,  paragrafi  1  e  2,   Trattato   sul   funzionamento
dell'Unione europea nell'ipotesi in  cui  detta  normativa  nazionale
impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un  numero
considerevole di  casi  di  frode  grave  che  ledono  gli  interessi
finanziari dell'Unione europea, o in cui preveda, per i casi di frode
che ledono gli interessi finanziari dello Stato  membro  interessato,
termini di prescrizione piu' lunghi di quelli previsti per i casi  di
frode  che  ledono  gli  interessi  finanziari  dell'Unione  europea,
circostanze che spetta al giudice  nazionale  verificare. Il  giudice
nazionale e' tenuto a dare piena efficacia all'art. 325, paragrafi  1
e 2, Trattato sul funzionamento  dell'Unione  europea  disapplicando,
all'occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto  di
impedire allo Stato membro interessato  di  rispettare  gli  obblighi
impostigli dall'art. 325, paragrafi 1 e 2, Trattato sul funzionamento
dell'Unione europea.». 
    2.1. La Corte di Lussemburgo, nel solco del  precedente  Fransson
(Grande  sezione,  sentenza  del  26  febbraio  2013,  C-617/10),  ha
ribadito la propria giurisdizione sulla materia della sanzione  delle
frodi fiscali, attratta al  livello  sovranazionale  in  ragione  del
possibile impatto finanziario  sul  bilancio  Unione  europea  di  un
gettito  ridotto  a  causa  dell'inadeguatezza  di   una   disciplina
nazionale (§ 38: «La Corte ha in proposito sottolineato che,  poiche'
le risorse proprie dell'Unione comprendono in particolare,  ai  sensi
dell'art. 2, paragrafo 1, lettera b), della  decisione  2007/436,  le
entrate provenienti dall'applicazione di  un'aliquota  uniforme  agli
imponibili IVA armonizzati determinati  secondo  regole  dell'Unione,
sussiste quindi un nesso  diretto  tra  la  riscossione  del  gettito
dell'IVA nell'osservanza del diritto  dell'Unione  applicabile  e  la
messa a disposizione del bilancio  dell'Unione  delle  corrispondenti
risorse IVA, dal momento che qualsiasi lacuna nella  riscossione  del
primo determina potenzialmente una riduzione delle seconde»). 
    Pur  sottolineando  la  liberta'   di   scelta   delle   sanzioni
applicabili spettante agli Stati membri,  che  «possono  assumere  la
forma di  sanzioni  amministrative,  di  sanzioni  penali  o  di  una
combinazione delle due, al fine di assicurare la riscossione di tutte
le entrate provenienti dall'IVA e tutelare in tal modo gli  interessi
finanziari  dell'Unione   conformemente   alle   disposizioni   della
direttiva  2006/112  e  all'art.  325  Trattato   sul   funzionamento
dell'Unione europea», la Corte di giustizia ha affermato che «possono
tuttavia essere indispensabili sanzioni penali per combattere in modo
effettivo e dissuasivo determinate ipotesi di gravi frodi in  materia
di IVA» (§ 39), in quanto l'art. 2, par.  1,  della  Convenzione  PIF
(firmata dagli Stati membri dell'Unione europea a Lussemburgo  il  26
luglio 1995) prevede che «gli Stati membri devono prendere le  misure
necessarie affinche' le condotte che integrano una frode lesiva degli
interessi finanziari dell'Unione siano passibili di  sanzioni  penali
effettive, proporzionate e dissuasive  che  comprendano,  almeno  nei
casi di frode grave, pene privative della liberta'» (§ 40). 
    Sul fondamento di tale base legale la Corte ha sostenuto che «gli
Stati membri devono assicurarsi che  casi  siffatti  di  frode  grave
siano  passibili  di  sanzioni  penali  dotate,  in  particolare,  di
carattere effettivo e dissuasivo. Peraltro, le misure  prese  a  tale
riguardo devono essere le stesse che gli Stati  membri  adottano  per
combattere i casi di  frode  di  pari  gravita'  che  ledono  i  loro
interessi finanziari» (§ 43). 
    Alla stregua di tale principio, dunque, la Corte  ha  individuato
nel giudice nazionale il destinatario del compito di «verificare alla
luce di tutte le circostanze di diritto e di fatto rilevanti,  se  le
disposizioni nazionali applicabili consentano di sanzionare  in  modo
effettivo e dissuasivo i casi di frode grave che ledono gli interessi
finanziari dell'Unione» (§ 44). 
    Nel caso dell'ordinamento italiano, non essendo  stati  sollevati
dubbi sul carattere dissuasivo delle sanzioni penali, o  sul  termine
di prescrizione dei reati, bensi' sul prolungamento di tale  termine,
la Corte di giustizia ha affermato che «Qualora il giudice  nazionale
dovesse concludere che dall'applicazione delle disposizioni nazionali
in materia di interruzione della prescrizione consegue, in un  numero
considerevole  di  casi,  l'impunita'  penale  a  fronte   di   fatti
costitutivi di una  frode  grave,  perche'  tali  fatti  risulteranno
generalmente prescritti prima che la sanzione penale  prevista  dalla
legge possa essere inflitta con decisione giudiziaria definitiva,  si
dovrebbe constatare che le misure previste dal diritto nazionale  per
combattere contro la frode e le altre attivita' illegali  che  ledono
gli interessi finanziari dell'Unione non possono  essere  considerate
effettive e dissuasive, il che sarebbe in contrasto con  l'art.  325,
paragrafo 1, Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione  europea,  con
l'art. 2, paragrafo 1, della Convenzione PIF nonche' con la direttiva
2006/112, in combinato disposto con l'art. 4, paragrafo  3,  Trattato
sull'Unione europea» (§ 47). 
    Nondimeno, un secondo presupposto di 'illegittimita' comunitaria'
viene individuato nella disparita' di trattamento sanzionatorio con i
casi di frode lesivi dei soli interessi finanziari  della  Repubblica
italiana, e riscontrato nella differente disciplina  complessivamente
prevista per il delitto di associazione per delinquere finalizzata al
contrabbando  di  tabacchi  di  cui   all'art.   291-quater   decreto
legislativo n. 43 del 1973 (§  48:  «Inoltre,  il  giudice  nazionale
dovra' verificare se le disposizioni nazionali  di  cui  trattasi  si
applichino ai casi di frode in materia di IVA allo stesso modo che ai
casi di frode lesivi dei soli interessi finanziari  della  Repubblica
italiana, come richiesto dall'art. 325,  paragrafo  2,  Trattato  sul
funzionamento  dell'Unione   europea.   Cio'   non   avverrebbe,   in
particolare,  se  l'art.  161,  secondo  comma,  del  codice   penale
stabilisse termini di prescrizione piu' lunghi per fatti, di natura e
gravita' comparabili,  che  ledano  gli  interessi  finanziari  della
Repubblica italiana. Orbene, come osservato dalla Commissione europea
nell'udienza dinanzi alla Corte, e con riserva di verifica  da  parte
del  giudice  nazionale,  il  diritto  nazionale  non   prevede,   in
particolare, alcun termine assoluto  di  prescrizione  per  quel  che
riguarda il reato di associazione allo scopo di commettere delitti in
materia di accise sui prodotti del tabacco»). 
    La conseguenza che ne fa derivare la Corte di giustizia, nel caso
di verifica dell'ineffettivita' sanzionatoria o della  disparita'  di
trattamento rispetto alle frodi  lesive  degli  interessi  finanziari
nazionali,  e'  l'obbligo  del  giudice  nazionale  di   disapplicare
direttamente  le  disposizioni  in  materia  di  interruzione   della
prescrizione, senza la mediazione di una modifica legislativa o di un
sindacato di costituzionalita', in virtu'  dell'obbligo  degli  Stati
membri di lottare contro attivita' illecite  lesive  degli  interessi
finanziari  dell'Unione  imposti  dal   diritto   primario,   ed   in
particolare dall'art. 325, par. 1 e  2,  Trattato  sul  funzionamento
dell'Unione europea (§ 50), che «pongono a carico degli Stati  membri
un  obbligo  di  risultato  preciso  e  non  accompagnato  da  alcuna
condizione quanto all'applicazione della regola in esse enunciata» (§
51). 
    In forza del  principio  del  primato  del  diritto  dell'Unione,
dunque,  la  Corte  ha  affermato  l'effetto  diretto  dell'art.  325
Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, che rende  ipso  iure
inapplicabile qualsiasi disposizione contrastante della  legislazione
nazionale esistente (§ 52). 
    3. Rilevanza della questione. 
    La questione di legittimita' che viene rimessa  al  sindacato  di
costituzionalita' ha rilevanza nel procedimento in corso,  in  quanto
la sentenza Taricco ha un valore generale e vincola non  soltanto  il
giudice a quo,  ma  anche  tutti  i  giudici  nazionali,  nonche'  la
pubblica amministrazione (ex multis, Corte  costituzionale,  sentenza
13 luglio 2007, n. 284: «Le  statuizioni  della  Corte  di  giustizia
delle Comunita'  europee  hanno,  al  pari  delle  norme  comunitarie
direttamente applicabili cui ineriscono, operativita' immediata negli
ordinamenti  interni»;  Corte  costituzionale,  n.  389/1989;   Corte
costituzionale, n. 113/1985). 
    La stessa Corte di giustizia, nella sentenza Taricco, ha ribadito
che «Qualora il giudice nazionale giungesse alla conclusione  che  le
disposizioni nazionali di cui trattasi non  soddisfano  gli  obblighi
del diritto dell'Unione relativi al carattere effettivo e  dissuasivo
delle misure di lotta contro le frodi all'IVA, detto giudice  sarebbe
tenuto  a  garantire  la  piena  efficacia  del  diritto  dell'Unione
disapplicando, all'occorrenza,  tali  disposizioni  e  neutralizzando
quindi la conseguenza rilevata al punto 46 della  presente  sentenza,
senza che debba chiedere o attendere la  previa  rimozione  di  dette
disposizioni  in  via  legislativa   o   mediante   qualsiasi   altro
procedimento costituzionale» (§ 49). 
    3.1. Nel procedimento in oggetto ricorrono  le  condizioni  dalle
quali  la   Corte   di   giustizia   fa   discendere   l'obbligo   di
disapplicazione delle norme di cui agli articoli 160, ultimo comma, e
161, comma 2, del codice penale. 
    In particolare,  ricorre  la  prima  ipotesi  di  «illegittimita'
comunitaria»,  per  ineffettivita'   della   complessiva   disciplina
sanzionatoria delle  frodi,  non  rilevando,  nella  fattispecie,  la
seconda ipotesi della disparita' di trattamento sanzionatorio  con  i
casi di frode lesiva dei soli interessi finanziari  della  Repubblica
italiana, e riscontrato nella differente disciplina  complessivamente
prevista per il delitto di associazione per delinquere finalizzata al
contrabbando  di  tabacchi  di  cui  all'art.   291-quater,   decreto
legislativo n. 43 del 1973, in quanto  la  sentenza  della  Corte  di
appello di Bologna  ha  assolto  gli  imputati,  odierni  ricorrenti,
dall'imputazione di  associazione  per  delinquere  finalizzata  alla
commissione di reati fiscali. 
    I  requisiti  integranti  la  prima  ipotesi  di   illegittimita'
comunitaria  sono:  1)  la  pendenza  di   un   procedimento   penale
riguardante «frodi gravi» in materia di imposta sul valore  aggiunto;
2)  l'ineffettivita'  delle   sanzioni   previste   «in   un   numero
considerevole di casi  di  frode  grave»  che  ledono  gli  interessi
finanziari dell'Unione europea. 
    3.2. Sotto il primo profilo, nel caso in esame, le imputazioni  e
la stessa sentenza della Corte di appello impugnata  evidenziano  che
il procedimento penale  riguarda  frodi  gravi  in  materia  di  IVA,
suscettibili di ledere gli interessi finanziari dell'Unione  europea,
avendo ad oggetto uno dei piu' diffusi sistemi di  frode  IVA,  nella
prassi nota  come  «frode  carosello»,  e  fondata  sull'abuso  delle
agevolazioni normative previste nel caso  di  cessioni  tra  i  Paesi
dell'Unione europea. 
    In particolare, dalle  imputazioni  e  dalla  sentenza  impugnata
emerge che  la  frode  carosello  veniva  realizzata  mediante  falsa
fatturazione e violazione dell'obbligo fiscale in materia di IVA  nel
commercio di autoveicoli. 
    Al riguardo, va premesso che per  «frode  carosello»  si  intende
comunemente un meccanismo fraudolento dell'IVA attuato mediante varie
cessioni di beni, in genere provenienti  ufficialmente  da  un  Paese
dell'Unione  europea,  al  termine  del  quale   l'impresa   italiana
acquirente detrae l'IVA,  nonostante  il  venditore  compiacente  non
l'abbia versata; a tal fine, in genere viene interposto un  soggetto,
c.d. «societa' filtro», nell'acquisto di beni tra il reale  venditore
ed  il  reale  acquirente;  quest'ultimo  risulta  formalmente   aver
acquistato il bene dalla «societa' filtro», che  emette  una  fattura
con IVA, ma omettendo di versarla, mentre l'acquirente  si  crea  una
corrispondente detrazione. 
    Secondo la ricostruzione operata dalla sentenza  della  Corte  di
appello, la vendita di  autovetture  da  parte  della  concessionaria
Automec s.p.a. avveniva mediante  emissione  di  fattura  ad  imprese
aventi sede all'estero (inizialmente  San  Marino,  poi,  in  seguito
all'introduzione di limitazioni all'importazione di veicoli, Ungheria
e  Slovenia),  e   senza   applicazione   dell'IVA,   come   cessioni
all'esportazione non imponibili ai  sensi  degli  articoli  8  e  71,
decreto del Presidente della  Repubblica  n.  633  del  1972;  veniva
tuttavia accertato che le vendite erano in realta' fittizie,  perche'
le vetture, nel caso di San Marino, venivano immediatamente riportate
in Italia, simulando una riesportazione senza versamento di  imposta;
successivamente, con fittizia interposizione, un  formale  acquirente
(di regola, una societa' c.d. «cartiera») emetteva fattura con IVA, a
propria volta, verso altra impresa (di solito, un c.d.  «salonista»),
che poi collocava sul mercato al  dettaglio  le  vetture  con  prezzo
concorrenziale, perche'  «sgravato»  dall'onere  fiscale,  in  quanto
l'IVA non veniva versata dalla societa' interposta, ed era  computata
a credito dalla ditta  beneficiaria.  Nel  caso  delle  vendite  alle
societa' con sede in Ungheria  e  Slovenia,  invece,  il  meccanismo,
identico, divergeva solo  per  la  circostanza  che  le  vetture  non
abbandonavano il territorio italiano. Tutte  le  societa'  all'estero
che si interponevano nell'acquisto fittizio (Class Rent s.r.l.,  Gold
Car s.r.l., In Auto s.r.l.,  Auto  Skeinet  e  ACR)  erano  di  fatto
gestite da uno degli odierni imputati (Sbarro Francesco Pasquale). 
    La seconda modalita' frodatoria veniva posta in  essere  mediante
le vendite a ditte munite della c.d. «lettera di intenti», sfruttando
il meccanismo che autorizzava le vendite in regime di  esenzione  IVA
per gli operatori commerciali dichiaratisi «esportatori abituali»; la
concessionaria Automec, dunque, fatturava alla ditta  cessionaria  in
regime di esenzione IVA, senza  che  questa  avesse  i  requisiti  di
esportatore abituale; il successivo cessionario (il c.d. «salonista»)
creava un indebito credito d'imposta ed  otteneva  la  disponibilita'
del bene a prezzo inferiore a  quello  di  mercato,  con  conseguenti
vantaggi nella vendita al dettaglio; anche in tal caso,  le  societa'
«cartiere», e falsi esportatori abituali,  erano  tutte  gestite,  di
fatto, dal medesimo Sbarro Francesco Pasquale. 
    Mutuando  lo  schema  frequente   nel   settore   del   commercio
automobilistico, il meccanismo frodatorio veniva dunque  attuato  con
l'inserimento di un soggetto  fittizio  (interposto)  che  effettuava
formalmente  l'acquisto  intracomunitario  per  conto  dell'effettivo
acquirente  (interponente);   il   primo   ometteva   il   versamento
dell'imposta dovuta, mentre il secondo fruiva di indebite  detrazioni
d'imposta derivanti dalle fatture soggettivamente inesistenti  emesse
dal soggetto interposto. 
    Dalle molteplici imputazioni per il reato di emissione di fatture
per operazioni inesistenti (art. 8, decreto legislativo n. 74/2000) e
dalla ricostruzione operata in sentenza emerge, dunque, il meccanismo
di frode all'IVA noto con il nome di  «frode  carosello»,  realizzato
strumentalizzando  a  fini  illeciti  la  normativa  sugli   acquisti
intracomunitari (che consente al soggetto che acquista da un soggetto
comunitario di compensare IVA a debito e  IVA  in  detrazione,  salvo
applicare l'IVA in occasione della  successiva  rivendita  in  ambito
nazionale), attraverso l'interposizione di un soggetto  che  acquisti
fittiziamente  dal  fornitore  comunitario   e   rivenda   al   reale
compratore,   cosi'   assumendosi   l'integrale   debito   d'imposta.
L'effettivo acquirente si trova, in tal modo, ad  utilizzare  fatture
sulle quali e' indicata l'IVA e ad assumere  il  correlativo  diritto
alla detrazione; gli importi pari all'IVA,  formalmente  versata  dal
reale acquirente all'interposto,  non  vengono  tuttavia  corrisposti
all'Erario, ma «spartiti» tra i due interessati: di regola,  infatti,
il soggetto interposto non presenta  alcuna  dichiarazione  (art.  5,
decreto  legislativo  n.  74/2000),  ovvero  pur  presentandola,  non
provvede al relativo versamento (art. 10-ter, decreto legislativo  n.
74/2000). Tale circuito illecito determina un duplice  vantaggio  per
il cliente finale, il quale acquista a un prezzo inferiore rispetto a
quello di mercato e matura un indebito credito  IVA,  scaricando  gli
obblighi  fiscali  connessi  al  proprio  debito  di  imposta   sulla
«cartiera» nazionale, che non provvedera' mai ad onorare tale debito. 
    3.3. Tanto premesso, deve ritenersi innanzitutto  sussistente  il
requisito, pur non determinato dalla sentenza Taricco nei suoi esatti
confini, della gravita' della frode:  dalla  lettura  delle  numerose
imputazioni (29, esclusa quella per associazione per  delinquere,  in
ordine  alla  quale  e'  stata   infine   pronunciata   sentenza   di
assoluzione, non impugnata) e della sentenza della Corte  di  appello
di Bologna emerge che  il  meccanismo  frodatorio  e'  stato  attuato
mediante  emissione   di   migliaia   di   fatture   per   imponibili
significativi  (aventi  ad  oggetto  autovetture)  e   che   l'omesso
versamento IVA ha riguardato -  limitandosi  alle  contestazioni  dei
reati di cui agli articoli 5 (capo Z, AC) e 10-ter (capi  O,  U)  del
decreto  legislativo  n.  74  del  2000 -  la   somma   di   almeno €
1.654.943,32. 
    Una frode che abbia determinato evasioni fiscali per  milioni  di
euro appare senz'altro connotata dal requisito della gravita'. 
    Del  resto,  ai  fini  della  determinazione  della  nozione   di
«gravita'» della frode in ambito sovranazionale,  e  dunque  ai  fini
della rilevanza della questione di costituzionalita', va  considerato
il tenore dell'art. 2, par. 1, della Convenzione PIF (pure richiamata
dalla sentenza Taricco, al § 6),  che  prevede:  «Ogni  Stato  membro
prende le misure necessarie affinche' le condotte di cui  all'art.  1
nonche' la complicita', l'istigazione o il  tentativo  relativi  alle
condotte descritte  all'art.  1,  paragrafo  1,  siano  passibili  di
sanzioni   penali   effettive,   proporzionate   e   dissuasive   che
comprendano, almeno, nei casi di frode grave,  pene  privative  della
liberta' che possono comportare l'estradizione, rimanendo inteso  che
dev'essere considerata frode grave  qualsiasi  frode  riguardante  un
importo minimo da determinare in ciascuno Stato membro. Tale  importo
minimo non puo' essere superiore a [EUR] 50.000 (...)». 
    3.4. Va, inoltre, chiarito che nei  concetto  di  «frode»  grave,
suscettibile di ledere gli interessi finanziari dell'Unione  europea,
assunto  dalla  Corte  di  giustizia   quale   presupposto   per   la
disapplicazione  dei   termini   massimi   di   prolungamento   della
prescrizione,   devono   ritenersi   incluse,    nella    prospettiva
dell'ordinamento penale italiano, non  soltanto  le  fattispecie  che
contengono il requisito della  fraudolenza  nella  descrizione  della
norma penale - come nel caso  degli  articoli  2,  3  e  11,  decreto
legislativo n. 74/2000 -, ma anche le altre fattispecie che, pur  non
richiamando  espressamente  tale  connotato  della  condotta,   siano
dirette all'evasione dell'IVA. 
    In tal senso milita non soltanto l'osservazione secondo la quale,
opinando  in  senso  contrario,  si  otterrebbe   una   irragionevole
disparita' di trattamento in relazione a condotte comunque  poste  in
essere al medesimo fine illecito, ma, altresi', la considerazione che
proprio nelle operazioni fraudolente  piu'  complesse  ed  articolate
(come le c.d. frodi carosello), e dunque maggiormente  insidiose  per
il  bene  giuridico  tutelato,  le  singole  condotte,  astrattamente
ascrivibili alla tipicita' di fattispecie penali prive del  requisito
espresso  della  fraudolenza -  soprattutto  a  quelle  di  cui  agli
articoli  5,  8,  10-ter,   decreto   legislativo   n.   74/2000   -,
rappresentano  la  modalita'  truffaldina  dell'operazione;   sarebbe
intrinsecamente  irragionevole  disapplicare  le  norme  viziate   da
«illegittimita'  comunitaria»  in  relazione  alle  sole  fattispecie
connotate  dal  requisito   espresso   della   fraudolenza,   e   non
disapplicarle nelle  fattispecie -  strettamente  connesse  sotto  il
profilo  fattuale,  ed  indispensabili  per  la  configurazione   del
meccanismo frodatorio - non connotate dal medesimo requisito. 
    Ma a corroborare tale principio  sovviene,  oltre  al  richiamato
profilo di irragionevolezza rilevante sotto il profilo  fattuale,  un
ben piu'  pregnante  argomento  interpretativo,  rappresentato  dalla
definizione di «frode» rilevante nell'ordinamento sovranazionale:  al
riguardo, gia' l'art.  325  Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione
europea, richiamato dalla  Corte  di  giustizia  dell'Unione  europea
quale   norma   di   diritto   primario   fondante    l'obbligo    di
disapplicazione, sancisce che «L'Unione e gli Stati membri combattono
contro la  frode  e  le  altre  attivita'  illegali  che  ledono  gli
interessi finanziari  dell'Unione  (...)»;  se,  dunque,  l'art.  325
Trattato sul funzionamento dell'Unione europea  rappresenta  la  base
legale  dell'obbligo  di  disapplicazione  sancito  dalla  Corte   di
giustizia, esso  ha  ad  oggetto  «la  frode  e  le  altre  attivita'
illegali». 
    Del resto, la Corte di giustizia dell'Unione europea ha affermato
il principio in discussione con riferimento ad una «frode  carosello»
nella quale erano contestate, altresi', fattispecie penali prive  del
requisito espresso della fraudolenza nella descrizione normativa. 
    Inoltre, nella consapevolezza, che dovrebbe essere  comune  negli
ordinamenti occidentali di civil law, che  il  linguaggio  normativo,
soprattutto nel diritto penale, delimita gli  spazi  di  liberta',  e
dunque e' essenziale nell'affermazione (e nelle diverse declinazioni)
del principio di legalita', non puo'  omettersi  che  la  nozione  di
«frode» e' specificamente definita dall'art. 1 della Convenzione  PIF
come «qualsiasi  azione  od  omissione  intenzionale  relativa  (...)
all'utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi,
inesatti o incompleti cui  consegua  la  diminuzione  illegittima  di
risorse del bilancio generale (dell'Unione)  o  dei  bilanci  gestiti
(dall'Unione) o per conto di  ess(a)»;  norma  che  viene  richiamata
dalla stessa sentenza Taricco a proposito dell'irrilevanza del  fatto
che l'IVA non venga riscossa direttamente per  conto  dell'Unione  (§
41). 
    3.5. Infine, con riferimento  al  secondo  requisito  individuato
dalla Corte di giustizia per rendere obbligatoria la  disapplicazione
delle norme sul prolungamento dei termine di  prescrizione,  ed  alla
verifica,   rimessa   al    giudice    nazionale,    di    apprezzare
l'ineffettivita' delle sanzioni previste «in un numero  considerevole
di  casi  di  frode  grave»  che  ledono  gli  interessi   finanziari
dell'Unione   europea,   va   innanzitutto   evidenziata    l'estrema
indeterminatezza  del  requisito,  probabilmente  piu'  consono  alle
differenti esperienze ordinamentali di common law che pure integrano,
sovente in maniera significativa, la matrice  culturale  e  giuridica
della giurisdizione europea. 
    Al riguardo, premesso che tale requisito sara'  oggetto  di  piu'
ampia considerazione nella valutazione di non manifesta  infondatezza
della questione di costituzionalita', ove si consideri  in  astratto,
ovvero con riferimento  all'integralita'  dei  procedimenti  pendenti
dinanzi alle autorita' giudiziarie italiane, esso  implicherebbe  una
prognosi di natura  statistica  che  esula  dai  limiti  cognitivi  e
valutativi del giudice, e anche di questa Corte; a cio'  ostando  non
soltanto l'assenza di  dati  statistici  affidabili,  ma  soprattutto
l'orizzonte  conoscitivo   del   singolo   giudice,   necessariamente
limitato, dal vigente sistema processuale, ai fatti di causa,  ovvero
i fatti che si riferiscono all'imputazione, alla  punibilita'  e  dai
quali dipenda l'applicazione di norme processuali (art. 187 codice di
procedura penale) rilevanti nel  singolo  processo,  non  gia'  nella
generalita' degli altri processi. 
    Escluso che possa altresi' risolversi in una  prognosi  meramente
empirica, fondata su soggettivismi di difficile  verificabilita'  (in
senso epistemologico), il requisito del «numero considerevole di casi
di frode grave» non puo' che intendersi,  ai  fini  del  giudizio  di
rilevanza della questione di costituzionalita' proposta, in concreto,
con riferimento alle fattispecie oggetto del proprio giudizio. 
    Ebbene, alla stregua di  tale  nozione,  deve  ritenersi  che  il
requisito ricorra in ragione del numero estremamente significativo di
operazioni fraudolente oggetto  di  contestazione,  poste  in  essere
tramite l'interposizione di numerose societa'  nazionali  ed  estere,
reiterate nell'arco di circa sei anni (dal  2003  al  2008),  con  il
coinvolgimento di mezzi, uomini e strutture, e comportanti l'evasione
dell'IVA per importi considerevoli, superiori al milione e  mezzo  di
euro. 
    3.6. La rilevanza della questione proposta deriva, dunque,  dalla
circostanza che  i  numerosi  reati  contestati,  ove  i  termini  di
prescrizione fossero calcolati secondo le norme di cui agli  articoli
160 e 161 del codice penale, sarebbero pressoche' tutti  estinti  per
prescrizione. 
    Al riguardo, essendo previste, per i reati fiscali contestati  di
cui agli articoli 2, 5, 8, 10 e 10-ter, decreto legislativo n. 74 del
2000, pene non  superiori  ai  sei  anni  di  reclusione, il  termine
ordinario di prescrizione e'  pari  a  sei  anni;  in  caso  di  atti
interruttivi, l'ultimo dei  quali,  nella  specie,  costituito  dalla
sentenza di condanna emessa il 26 maggio 2015 dalla Corte di appello,
la prescrizione massima, in assenza di contestazione della  recidiva,
e' pari a sette anni e sei mesi. 
    Giova soggiungere che il comma 1-bis  dell'art.  17  del  decreto
legislativo n. 74 del 2000, che eleva i termini di  prescrizione  dei
reati previsti dagli articoli da 2 a 10 del medesimo  decreto  di  un
terzo, e' stato aggiunto dal decreto-legge 13  agosto  2011,  n.  138
(convertito in legge 14 settembre 2011, n. 148), con legge successiva
alla commissione dei reati contestati; la  disposizione  e',  dunque,
inapplicabile alla fattispecie in esame, non soltanto per  la  natura
sostanziale della prescrizione, ma per  la  stessa  previsione  della
disciplina transitoria contenuta nell'art.  2,  comma  36-vicies  bis
del decreto-legge citato, che prevede che «Le norme di cui  al  comma
36-vicies semel si applicano ai fatti successivi alla data di entrata
in vigore della legge di conversione del presente decreto». 
    Pertanto, prescindendo dai reati commessi  fino  al  18  febbraio
2007, in ordine ai quali la  Corte  di  appello  ha  gia'  dichiarato
l'estinzione  per  prescrizione,  e  considerando   il   periodo   di
sospensione di mesi nove  e  giorni  otto,  sarebbe  maturata,  nella
pendenza del presente giudizio di  cassazione,  la  prescrizione  dei
reati commessi fino al 22 dicembre 2007. 
    Al riguardo, va  evidenziato  che  il  delitto  di  emissione  di
fatture per operazioni inesistenti, previsto dall'art. 8 del  decreto
legislativo n. 74 del 2000, si perfeziona nel momento  dell'emissione
della singola fattura ovvero, ove  si  abbiano  plurimi  episodi  nel
corso del medesimo periodo di  imposta,  nel  momento  dell'emissione
dell'ultimo di essi (Sez. 3, n. 6264 del 14  gennaio  2010,  Ventura,
Rv. 246193; Sez. 3, n. 10558 del 6  febbraio  2013,  D'Ippoliti,  Rv.
254759). 
    Pertanto, dovrebbero  considerarsi  estinti  per  prescrizione  i
reati di emissione di fatture per operazioni  inesistenti  contestati
ai capi C (52 fatture, l'ultima  delle  quali  emessa  il  23  luglio
2007), D (55 fatture, l'ultima emessa  il  5  dicembre  2007),  H  (3
fatture residue, l'ultima emessa il 21 marzo  2007),  L  (64  fatture
residue, l'ultima emessa il 23 luglio 2007), M (11 fatture,  l'ultima
emessa il 14 settembre 2007), P (22 fatture, l'ultima  emessa  il  28
settembre 2007), V (14  fatture,  l'ultima  emessa  il  12  settembre
2007), AA (20 fatture, l'ultima emessa l'11  ottobre  2007),  AS  (40
fatture residue, l'ultima emessa il 3 luglio 2007), AT  (13  fatture,
l'ultima emessa l'11 dicembre 2007), AU (2 fatture,  l'ultima  emessa
il 21 dicembre 2007). 
    La prescrizione, dunque, estinguerebbe  274  condotte  criminose,
contestate in continuazione, ovvero la maggior parte  degli  illeciti
oggetto di imputazione; tale dato integra senz'altro, unitamente alle
numerose condotte (dal 2003 al 18 febbraio  2007)  per  le  quali  e'
stata gia' dichiarata la prescrizione, il  «numero  considerevole  di
casi di frode grave» che resterebbero impuniti in  conseguenza  della
disciplina sul prolungamento, non oltre un  quarto,  del  termine  di
prescrizione. 
    3.6.1. La concreta rilevanza  della  questione,  inoltre,  deriva
dalla  circostanza  che,  ad  eccezione  del  reato  sub  H,  la  cui
prescrizione sarebbe maturata il 28 luglio 2015, per tutti gli  altri
reati  la   prescrizione   sarebbe   decorsa   successivamente   alla
pubblicazione della decisione della Corte di giustizia in re Taricco,
dell'8 settembre 2015: il termine massimo  sarebbe  infatti  decorso,
rispettivamente, il 1° ottobre 2015 per i capi C e L, il 13  febbraio
2016 per il capo 0, il 22 novembre 2015 per il capo M, il 6  dicembre
2015 per il capo P, il 20 novembre 2015 per il capo V, il 19 dicembre
2015 per il capo AA, l'11 settembre 2015 per il capo AS, il 29  marzo
2016 per il capo AU. 
    Al riguardo, infatti, non va omesso che in ordine alla  efficacia
dell'obbligo di disapplicazione si e' immediatamente  registrata  una
divergenza interpretativa: la sentenza emessa da Sez. 3, n. 2210  del
15 settembre 2015,  Pennacchini,  Rv.  266121,  ha  disapplicato  gli
articoli 160 e 161 del codice penale nei confronti di imputati per  i
quali i termini  di  prescrizione  erano  gia'  scaduti  prima  della
decisione della Corte di giustizia dell'8 settembre 2015, sul rilievo
che la sentenza Taricco  fosse  meramente  dichiarativa  del  diritto
dell'Unione; anche l'ordinanza n.  339  del  18  settembre  2015  (in
Gazzetta Ufficiale n. 2 del 13 gennaio 2016) con la quale la Corte di
appello di Milano ha sollevato (simile, ma non coincidente) questione
di  costituzionalita'  ha  promosso  il  giudizio   incidentale   sul
presupposto che quasi tutti i reati  in  contestazione  fossero  gia'
estinti per prescrizione (§ 4 del Ritenuto in fatto),  e  dunque,  in
considerazione del brevissimo lasso di  tempo  (dieci  giorni)  dalla
pubblicazione della sentenza Taricco, prima dell'8 settembre 2015. 
    Al contrario,  nel  solco  di  una  autorevole  dottrina,  ed  in
coerenza  con  le  conclusioni  dell'avvocato  generale  nella  causa
Taricco dinanzi alla Corte di giustizia, la Sez. 4 di questa Corte ha
ritenuto che i principi  affermati  dalla  sentenza  della  Corte  di
giustizia dell'Unione europea, Grande sezione, Taricco e altri dell'8
settembre  2015,   C-105114,   in   ordine   alla   possibilita'   di
disapplicazione della disciplina della  prescrizione  prevista  dagli
articoli  160  e  161  del  codice  penale  se  ritenuta   idonea   a
pregiudicare gli obblighi imposti a tutela degli interessi finanziari
dell'Unione europea, non si applicano ai fatti gia'  prescritti  alla
data di pubblicazione di tale pronuncia (3 settembre  2015),  in  tal
senso reputando  non  rilevante  la  questione  di  costituzionalita'
sollecitata (Sez. 4, n. 7914  del  25  gennaio  2016,  Tormenti,  Rv.
266078, contenente il refuso in ordine  alla  data  di  pubblicazione
della sentenza della Corte di giustizia, emessa l'8 settembre 2015). 
    A prescindere, per il momento, dalla condivisibilita' o meno  dei
due  orientamenti  richiamati,  va  al  riguardo  precisato  che  nel
presente procedimento la rilevanza della questione va ribadita  anche
qualora dovesse ritenersi maggiormente persuasiva la tesi  della  non
applicabilita' del dictum della Corte di giustizia  ai  fatti  per  i
quali la prescrizione era gia' maturata prima della  sentenza  dell'8
settembre 2015, perche'  i  reati  contestati  risulterebbero  invece
estinti per prescrizione successivamente a tale data. 
    Inoltre,  la  questione  proposta  appare  rilevante  perche',  a
differenza dell'ordinanza di costituzionalita' proposta  dalla  Corte
di appello di Milano, ed in ordine  alla  quale  si  e'  espressa  la
dottrina infra richiamata, questa  Corte  ha  ritenuto  di  sollevare
l'incidente di costituzionalita'  sotto  diversi  aspetti,  ulteriori
rispetto a quello dell'irretroattivita'  della  legge  penale;  sotto
tali profili, dunque, non rileva l'applicabilita' o meno dei principi
affermati dalla sentenza Taricco anche ai reati (non  gia'  commessi,
ma) per i quali il termine di prescrizione era  gia'  maturato  prima
dell'8 settembre 2015. 
    4. Non manifesta infondatezza della questione. 
    Ricorrendo le condizioni indicate dalla Corte  di  giustizia  che
fondano l'obbligo, per il giudice nazionale, di disapplicare le norme
interne di cui agli articoli 160, ultimo comma, e 161, comma  2,  del
codice penale, questa  Corte  dubita  della  compatibilita'  di  tale
obbligo con una serie di fondamentali principi costituzionali. 
    Va, al riguardo, premesso  che  l'interpretazione  dei  requisiti
ritenuti   dalla   Corte   di   giustizia   fondanti   l'obbligo   di
disapplicazione - i concetti di «frode» e di gravita'» della frode, e
la ricorrenza dei «numero considerevole di casi» -, lungi  dal  poter
essere ritenuta intrinsecamente contraddittoria,  e'  necessariamente
differente a seconda che venga operata ai fini della  valutazione  di
rilevanza della questione di costituzionalita', ovvero  ai  fini  del
giudizio di non manifesta infondatezza. 
    Il  carattere  indeterminato  che,   tra   l'altro,   connota   i
presupposti applicativi dell'obbligo di disapplicazione, da  un  lato
fonda  (almeno  una  parte  delle  perplessita'  costituzionali   che
verranno illustrate, dall'altro necessita di essere colmato  mediante
un'attivita' «ermeneutica» - come  si  dira',  sotto  alcuni  aspetti
esulante dai confini dell'interpretazione -, indispensabile  ai  fini
del giudizio di rilevanza della questione. 
    L'alternativa sarebbe quella, pur autorevolmente sostenuta, della
pratica  inapplicabilita'   dell'obbligo   di   disapplicazione   per
indeterminatezza  dei   presupposti;   alternativa,   tuttavia,   non
consentita,  sia  per  la  vigenza  di   un   obbligo   di   fedelta'
«comunitaria», sia per l'applicazione gia' operata  anche  da  questa
Corte (Sez. 3, n.  2210  del  15  settembre  2015,  Pennacchini,  Rv.
266121). 
    4.1. La dottrina dei «controlimiti». 
    Secondo   quanto   ripetutamente   riconosciuto    dalla    Corte
costituzionale, «la Costituzione italiana  contiene  alcuni  principi
supremi che non possono  essere  sovvertiti  o  modificati  nel  loro
contenuto essenziale neppure da leggi di revisione  costituzionale  o
da altre leggi costituzionali. Tali sono  tanto  i  principi  che  la
stessa Costituzione esplicitamente prevede come  limiti  assoluti  al
potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art.
139 della Costituzione), quanto  i  principi  che,  pur  non  essendo
espressamente  menzionati  fra  quelli   non   assoggetta   bili   al
procedimento di revisione  costituzionale,  appartengono  all'essenza
dei valori supremi sui  quali  si  fonda  la  Costituzione  italiana.
Questa Corte, del resto, ha gia' riconosciuto in  numerose  decisioni
come i principi supremi dell'ordinamento costituzionale  abbiano  una
valenza  superiore  rispetto  alle  altre  norme  o  leggi  di  rango
costituzionale, sia quando ha ritenuto che anche le disposizioni  del
Concordato,   le   quali   godono   della   particolare    "copertura
costituzionale"   fornita   dall'art.   7,   comma   secondo,   della
Costituzione,  non  si  sottraggono   all'accertamento   della   loro
conformita' ai  "principi  supremi  dell'ordinamento  costituzionale"
(vedi sentenze numeri 30 del 1971, 12 del 1972, 175 del 1973,  1  del
1977, 18  del  1982),  sia  quando  ha  affermato  che  la  legge  di
esecuzione  del  Trattato  della  CEE  puo'  essere  assoggettata  al
sindacato di questa Corte "in riferimento  ai  principi  fondamentali
del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della
persona umana" (vedi sentenze numeri 183 del  1973,  170  del  1984)»
(Corte costituzionale, n. 1146 del 29 dicembre 1988, § 2.1.). 
    In  particolare,  nei  rapporti  tra  ordinamento   nazionale   e
ordinamento  (all'epoca)  comunitario,  la  Corte  costituzionale  ha
riconosciuto la prevalenza del diritto sovranazionale  nelle  materie
(in passato molto piu' circoscritte) di  competenza  dell'Unione,  in
ragione delle limitazioni di sovranita'  cui  lo  Stato  italiano  ha
consentito sulla base dell'art.  11  della  Costituzione;  nondimeno,
proprio nell'ambito di tali rapporti, e' stata  sovente  ribadita  la
«garanzia  del  sindacato  giurisdizionale  di  questa  Corte   sulla
perdurante  compatibilita'  del  Trattato  con  i  predetti  principi
fondamentali"  dell'ordinamento  costituzionale  o  con  i   'diritti
inalienabili della persona umana» (Corte costituzionale, n.  183  del
27 dicembre 1973, § 9); anche nella sentenza n. 170 del 8 giugno 1984
e' stata ribadita la possibilita' che «la  legge  di  esecuzione  del
Trattato possa andar soggetta al suo  sindacato,  in  riferimento  ai
principi fondamentali del  nostro  ordinamento  costituzionale  e  ai
diritti inalienabili della persona umana», quanto  alle  disposizioni
che «si assumano costituzionalmente illegittime (...) in relazione al
sistema o al nucleo essenziale dei suoi principi» (§ 7). 
    La dottrina dei «controlimiti», elaborata come argine rispetto ad
eventuali violazioni dei principi fondamentali della  Costituzione  e
dei diritti  inviolabili  da  parte  delle  fonti  degli  ordinamenti
sovranazionale e internazionale, del diritto  concordatario  e  delle
stesse leggi costituzionali e di revisione,  e'  stata  concretamente
«azionata»  con  riferimento  al   principio -   ritenuto,   appunto,
supremo - del diritto alla tutela giurisdizionale  sancito  dall'art.
24 della Costituzione, nei  rapporti  con  il  diritto  concordatario
(Corte costituzionale, n. 18  del  2  febbraio  1982,  §  5),  e,  di
recente, nel rapporto con l'ordinamento internazionale,  a  proposito
della norma consuetudinaria internazionale sull'immunita' degli Stati
dalla giurisdizione per atti jure imperi! (Corte  costituzionale,  n.
238 del 22 ottobre 2014). 
    In particolare questa seconda sentenza ha, per  la  prima  volta,
accolto nella giurisprudenza costituzionale la  scelta  lessicale  di
«controlimiti»,  in  tal  senso  opportunamente  evidenziando,   come
osservato  nella  dottrina  costituzionalistica,  l'oggettivita'  del
'limite' (non rimovibile neppure da  chi  lo  oppone),  a  differenza
della  declinazione  soggettiva  e  relativa  insita  nell'originaria
formula, elaborata da pur  autorevolissima  dottrina  costituzionale,
delle «controlimitazioni alle limitazioni di sovranita'»; la sentenza
n. 238 del 2014,  nell'individuare  i  «controlimiti»  nei  «principi
qualificanti e irrinunciabili dell'assetto costituzionale dello Stato
(...) che sovraintendono alla tutela dei diritti  fondamentali  della
persona» (§ 3.1.), ha ribadito efficacemente la natura dei  «principi
supremi» ed il sindacato di costituzionalita' ad  essa  riservato  in
caso di loro compressione: «Non v'e' dubbio,  infatti,  ed  e'  stato
confermato  a  piu'  riprese  da  questa  Corte,   che   i   principi
fondamentali dell'ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili
della persona costituiscano un "limite all'ingresso [...] delle norme
internazionali generalmente  riconosciute  alle  quali  l'ordinamento
giuridico italiano si conforma secondo l'art. 10, primo  comma  della
Costituzione" (sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001)  ed  operino
quali "controlimiti" all'ingresso delle norme dell'Unione europea (ex
plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 232 del 1989,
n. 168 del 1991, n. 284 del 2007), oltre che come limiti all'ingresso
delle   norme   di   esecuzione   dei   Patti   Lateranensi   e   del
Concordato (sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31 e n. 30 del  1971).
Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi  ed
irrinunciabili  dell'ordinamento  costituzionale,  per  cio'   stesso
sottratti anche alla revisione costituzionale  (articoli  138  e  139
della Costituzione: cosi' nella sentenza n. 1146  del  1988).  In  un
sistema accentrato di controllo di costituzionalita', e' pacifico che
questa  verifica   di   compatibilita'   spetta   alla   sola   Corte
costituzionale, con esclusione di qualsiasi altro giudice,  anche  in
riferimento alle norme consuetudinarie internazionali. (...) Anche di
recente,  poi,  questa  Corte  ha  ribadito  che   la   verifica   di
compatibilita'   con    i    principi    fondamentali    dell'assetto
costituzionale e di tutela dei diritti  umani  e'  di  sua  esclusiva
competenza (sentenza n. 284 del 2007); ed  ancora,  precisamente  con
riguardo  al  diritto  di  accesso  alla  giustizia  (art.  24  della
Costituzione), che il rispetto dei diritti fondamentali,  cosi'  come
l'attuazione di principi inderogabili, e' assicurato  dalla  funzione
di garanzia assegnata alla Corte costituzionale (sentenza n. 120  del
2014)» (§ 3.2.). 
    La dottrina dei «controlimiti», dunque, non va  intesa  come  una
forma di resistenza degli Stati nazionali ai processi di integrazione
sovranazionale e  internazionale,  ma  l'espressione  rigorosa  della
sovranita' popolare, nella sua dimensione irrinunciabile. 
    Vi e', infatti, una corrispondenza biunivoca tra  controlimiti  e
sovranita' popolare, nel senso che se «la  sovranita'  appartiene  al
popolo, che fa esercita nelle forme e nei limiti della  Costituzione»
(art.  1  della  Costituzione),  non  e'   il   popolo   - privo   di
soggettivita' internazionale -, ma lo Stato  italiano  a  «consentire
(...) alle limitazioni di sovranita'" (art. 11 della Costituzione); i
controlimiti rappresentano, dunque, lo strumento  costituzionale  per
esercitare,  nelle  «forme  e  nei  limiti»  della  Costituzione,  la
sovranita' popolare, che puo' essere limitata, ma non  ceduta;  e  le
limitazioni non possono  compromettere  la  dimensione  dei  principi
fondamentali della Costituzione, alterando l'identita' costituzionale
dell'ordinamento nazionale. 
    Sulla base di tali rilievi vanno, dunque, articolati i  dubbi  di
costituzionalita' che l'obbligo di disapplicazione  delle  norme  sul
prolungamento dei termini di prescrizione solleva con  riferimento  a
plurimi parametri costituzionali,  ritenuti  coessenziali  al  nucleo
dell'identita' costituzionale dell'ordinamenti nazionale. 
    Infatti, oltre al  profilo  del  principio  dell'irretroattivita'
della legge penale,  sul  quale  si  e'  soffermata  la  gia'  citata
ordinanza della Corte di appello di Milano, nonche' le prime pronunce
di legittimita', e la dottrina, a parere di questa  Corte  la  dubbia
costituzionalita' dell'obbligo di disapplicazione deriva  in  maniera
significativa dal principio  di  riserva  di  legge,  e  dagli  altri
principi fondamentali (articoli 3, 11, 27, comma  2,  101,  comma  2,
della Costituzione) invocati quali  parametri  di  costituzionalita',
talmente avvinti al «nucleo  essenziale»  della  legalita'  da  dover
essere assunti  in  una  considerazione  sistematica  e  complessiva,
consapevole degli  intrecci,  e  non  in  una  riduttiva  prospettiva
atomistica e parcellizzata. 
    4.2. Il principio di irretroattivita' della  legge  penale  (art.
25, comma 2, della Costituzione). 
    La disapplicazione delle norme di cui agli articoli  160,  ultimo
comma, e 161, comma 2,  del  codice  penale,  imposta  dall'art.  325
Trattato sul funzionamento dell'Unione europea,  nell'interpretazione
attribuita dalla Corte di giustizia in re Taricco, determinerebbe  la
retroattivita' in malam partem della normativa nazionale  risultante:
l'effetto  sarebbe,  infatti,  quello  di  allungare  i  tempi  della
prescrizione anche in relazione a fatti commessi prima della sentenza
Taricco. 
    Al riguardo, la Corte di  giustizia  ha  affrontato  il  problema
della potenziale violazione del principio  di  legalita'  in  materia
penale, giungendo ad una conclusione negativa. 
    Adottando quale parametro di riferimento l'art.  49  della  Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione (CDFUE) - secondo  cui  «Nessuno
puo' essere condannato per un'azione o un'omissione che,  al  momento
in cui e' stata commessa, non costituiva  reato  secondo  il  diritto
interno o il  diritto  internazionale.  Parimenti,  non  puo'  essere
inflitta una pena piu' grave di quella applicabile al momento in  cui
il reato e' stato commesso. Se, successivamente alla commissione  del
reato, la legge  prevede  l'applicazione  di  una  pena  piu'  lieve,
occorre applicare quest'ultima» -, che, in forza del successivo  art.
52 CDFUE, recepisce il principio del  nullum  crimen  nell'estensione
riconosciutagli dalla giurisprudenza della Corte europea dei  diritti
dell'uomo formatasi sulla corrispondente previsione dell'art. 7 CEDU,
la Corte di giustizia dell'Unione europea ha affermato che la materia
della prescrizione del reato concerne il  profilo  processuale  delle
condizioni di procedibilita' del reato, e dunque non e' coperta dalla
garanzia  del  nullum  crimen;   in   tal   senso,   infatti,   anche
l'applicazione del termine di prescrizione a fatti gia' commessi,  ma
non ancora giudicati in via definitiva,  deve  ritenersi  compatibile
con l'art. 7 CEDU, che si limita a garantire che il soggetto non  sia
punito per un «fatto» o con una «pena» non previsti  dalla  legge  al
momento della sua commissione. 
    La sentenza Taricco espressamente  afferma:  «la  disapplicazione
delle disposizioni nazionali di cui  trattasi  avrebbe  soltanto  per
effetto  di  non  abbreviare  il  termine  di  prescrizione  generale
nell'ambito di un procedimento  penale  pendente,  di  consentire  un
effettivo perseguimento dei fatti incriminati nonche' di  assicurare,
all'occorrenza, la parita' di trattamento tra  le  sanzioni  volte  a
tutelare, rispettivamente, gli  interessi  finanziari  dell'Unione  e
quelli della Repubblica italiana.  Una  disapplicazione  del  diritto
nazionale siffatta non violerebbe i  diritti  degli  imputati,  quali
garantiti dall'art. 49 della Carta» (§ 55); di conseguenza,  «non  ne
deriverebbe affatto una  condanna  degli  imputati  per  un'azione  o
un'omissione che, al momento in cui e' stata commessa, non costituiva
un reato punito dal diritto nazionale (vedi, per  analogia,  sentenza
Niselli, C-457/02, EU:C:2004:707, punto 30),  ne'  l'applicazione  di
una sanzione che, allo stesso  momento,  non  era  prevista  da  tale
diritto.  Al  contrario,  i  fatti  contestati  agli   imputati   nel
procedimento   principale   integravano,   alla   data   della   loro
commissione,  gli  stessi  reati  ed  erano  passibili  delle  stesse
sanzioni  penali  attualmente  previste»  (§   56);   pertanto,   nel
richiamare  la  giurisprudenza  della  Corte  europea   dei   diritti
dell'uomo formatasi sulla previsione dell'art. 7 CEDU, «che  sancisce
diritti corrispondenti a quelli garantiti dall'art. 49 della  Carta»,
sostiene che «la  proroga  del  termine  di  prescrizione  e  la  sua
immediata  applicazione  non  comportano  una  lesione  dei   diritti
garantiti dall'art. 7  della  suddetta  Convenzione,  dato  che  tale
disposizione non puo' essere interpretata nel senso  che  osta  a  un
allungamento dei termini di prescrizione quando  i  fatti  addebitati
non si siano ancora prescritti» (§ 57). 
    La minore estensione del riconoscimento offerto, nell'ordinamento
sovranazionale e nella giurisprudenza della Corte di  Strasburgo,  al
principio di legalita' in materia penale,  in  quanto  limitato  alla
previsione del fatto e della  sanzione,  implica,  per  la  Corte  di
giustizia, che la disciplina della prescrizione  venga  attratta  nel
regime processuale, non gia' sostanziale, governato dal principio del
tempus regit actum. 
    4.2.1.  La  dimensione  di   valore   essenziale   dell'identita'
costituzionale del principio di irretroattivita' della  legge  penale
sfavorevole, idoneo ad essere «azionato» come «controlimite»,  appare
talmente evidente da far sembrare ultronea  qualsiasi  argomentazione
al riguardo, trattandosi di garanzia posta a fondamento di tutti  gli
ordinamenti costituzionali democratici. 
    Sia sufficiente,  al  riguardo,  il  richiamo  delle  limpide  ed
efficaci affermazioni della Corte costituzionale, che, nella sentenza
n.  394  del  23  novembre  2006,  rammentava;   «Il   principio   di
retroattivita' della lex mitior ha una valenza ben diversa,  rispetto
al principio di  irretroattivita'  della  norma  penale  sfavorevole.
Quest'ultimo si  pone  come  essenziale  strumento  di  garanzia  del
cittadino   contro   gli   arbitri   del   legislatore,    espressivo
dell'esigenza    della     "calcolabilita'"     delle     conseguenze
giuridico-penali della propria condotta, quale condizione  necessaria
per la libera autodeterminazione individuale. Avuto riguardo anche al
fondamentale principio di colpevolezza ed  alla  funzione  preventiva
della pena, desumibili dall'art. 27 della  Costituzione,  ognuno  dei
consociati deve essere posto in grado di adeguarsi liberamente o meno
alla  legge   penale,   conoscendo   in   anticipo   -   sulla   base
dell'affidamento nell'ordinamento legale in  vigore  al  momento  del
fatto - quali conseguenze afflittive potranno scaturire dalla propria
decisione (al riguardo, v. sentenza n. 364 del 1988): aspettativa che
sarebbe, per contro, manifestamente frustrata qualora il  legislatore
potesse sottoporre a sanzione criminale un fatto che all'epoca  della
sua commissione non costituiva reato, o era punito meno  severamente.
In questa prospettiva, e' dunque incontroverso che  il  principio  de
quo trovi diretto riconoscimento nell'art. 25, secondo  comma,  della
Costituzione in tutte le sue espressioni: e, cioe', non soltanto  con
riferimento all'ipotesi della nuova incriminazione, sulla quale  pure
la formula costituzionale risulta all'apparenza calibrata;  ma  anche
con riferimento a quella della modifica peggiorativa del  trattamento
sanzionatorio di un fatto gia' in precedenza penalmente represso.  In
questi termini, il principio in parola  si  connota,  altresi',  come
valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con  altri  valori
costituzionali (...) assolutamente inderogabile (...)» (§ 6.4.). 
    4.2.2. La conclusione alla quale giunge la Corte di giustizia non
appare conforme  al  piu'  esteso  riconoscimento  del  principio  di
legalita'  in  materia  penale   nell'ordinamento   nazionale,   come
delineato dalla giurisprudenza costituzionale, e di  conseguenza,  al
principio di irretroattivita' della legge penale. 
    Al riguardo,  infatti,  cio'  che  rileva  e'  che  l'obbligo  di
disapplicazione  determinerebbe  l'applicazione  di  una   disciplina
complessivamente piu' sfavorevole anche ai fatti commessi prima della
sentenza Taricco. 
    L'art.  53  della  Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'Unione
europea sancisce  il  criterio  del  best  standard  del  livello  di
protezione  nella  tutela  multilivello  dei  diritti   fondamentali:
«Nessuna disposizione della presente Carta deve  essere  interpretata
come limitativa o lesiva  dei  diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal
diritto dell'Unione, dal diritto  internazionale,  dalle  convenzioni
internazionali delle quali l'Unione, la Comunita' o tutti  gli  Stati
membri sono parti contraenti, in particolare la  convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali,  e  dalle  costituzioni  degli  Stati  membri»;  ed  il
precedente  art.  49  della  Carta  di  Nizza  riconosce  proprio  il
principio di legalita', ed il corollario dell'irretroattivita', tra i
diritti fondamentali dell'Unione. 
    Ebbene, pur nella consapevolezza che, nel recente  caso  Melloni,
il piu' elevato standard di tutela garantito  dal  sistema  domestico
(spagnolo) e' stato ritenuto recessivo rispetto  alla  primaute'  del
diritto  eurounitario  (CGUE,  GS,  26  febbraio  2013,   Meloni   c.
Ministerio Fiscal), la  Carta  di  Nizza  afferma  che,  in  caso  di
asimmetria nella tutela di un diritto fondamentale tra  l'ordinamento
nazionale e quello europeo, il diritto  deve  essere  riconosciuto  e
salvaguardato nella sua piu' ampia estensione,  secondo  il  criterio
del best standard, rappresentando la tutela  europea  il  livello  di
protezione minimo (in tal  senso,  di  recente,  si  e'  espresso  il
Bundesverfassungsgericht,  15  dicembre  2015,  R.,  nella   medesima
materia, oggetto del caso Melloni, del mandato  di  arresto  europeo,
affermando che la protezione dei diritti inalienabili garantiti dalla
Costituzione tedesca  prevale  sull'applicazione  della  legislazione
«comunitaria»). 
    Nel caso in  esame,  dunque,  il  principio  di  irretroattivita'
dovrebbe essere garantito nella piu'  ampia  estensione  riconosciuta
dall'ordinamento costituzionale italiano, che vi ricomprende tutti  i
presupposti della punibilita', compresa la prescrizione. 
    4.2.3. Va, del  resto,  osservato  che  la  prescrizione  rientra
nell'ambito dei presupposti e delle condizioni della punibilita',  ed
in  ragione  di  tale  dimensione  ne  viene  affermata   la   natura
sostanziale,   con   conseguente   riconoscimento   della    garanzia
dell'irretroattivita'. 
    Sul punto, giova rammentare che la  prescrizione  e'  configurata
nel nostro ordinamento come causa di estinzione del  reato,  come  si
evince ad abundantiam dall'inserimento nel relativo Capo I del Titolo
VI del codice  penale:  sebbene  la  collocazione  legislativa  delle
relative norme non assuma un  carattere  decisivo,  ma  sia  comunque
pregnante - soprattutto ove si pensi  al  diverso  inquadramento  del
previgente  codice  Zanardelli   del   1889,   che   qualificava   la
prescrizione come causa di estinzione dell'azione penale (art. 91) -,
la  concezione  sostanziale  si  fonda   anche   sull'interpretazione
letterale dell'art. 157 del codice penale («la prescrizione  estingue
il reato») e sulla possibilita',  sancita  dall'art.  129  codice  di
procedura penale, di un accertamento giudiziale, sia pure nei  limiti
dell'evidenza  probatoria,  che  il  fatto  non  sussiste  o  non  e'
preveduto dalla legge come reato o che l'imputato non lo ha commesso,
anche allorquando sia maturata la prescrizione;  la  norma,  infatti,
induce a ritenere che la prescrizione non incida sull'azione  penale,
atteso  che,  non  avendo  natura  processuale,  non   ha   efficacia
preclusiva di ogni provvedimento sul merito. 
    Del resto, l'opinione minoritaria che in dottrina, soprattutto in
passato, ha sostenuto la natura processuale  della  prescrizione,  ha
fondato la  propria  ricostruzione  sulla  'ultrattivita'  di  alcuni
effetti (confisca dei beni, obbligazioni civili) derivanti dal reato,
seppur prescritto; la percorribilita' di tale tesi sembrerebbe  ancor
piu' problematica alla luce  dell'orientamento,  ancora  controverso,
espresso in recenti arrêts, anche della giurisprudenza europea (Corte
europea dei diritti dell'uomo, 29 ottobre 2013, Varvara  c.  Italia),
sulla illegittimita' di una  misura  ablativa  senza  una  definitiva
affermazione di responsabilita'  penale,  in  quanto  impedita  dalla
prescrizione. 
    La tesi della natura sostanziale della prescrizione,  del  resto,
gemma  dalla  stessa  concezione  della  punibilita'  quale  elemento
essenziale del reato: una risalente autorevole dottrina  definiva  il
reato «come l'insieme dei coefficienti necessari  al  prodursi  della
conseguenza giuridica della pena», e quindi «mancando  uno  qualsiasi
di questi coefficienti non v'e' possibilita'  di  questa  conseguenza
giuridica, non v'e' punibilita': e quindi non v'e' reato». 
    Al  riguardo,  va  evidenziato   che   tale   concezione   faceva
riferimento, in una  impostazione  essenzialmente  retributiva,  alla
dimensione normativa della «punibilita' in astratto», non  gia'  alla
dimensione applicativa della pena (come «punibilita' in concreto»). 
    Tuttavia,  sebbene   l'equazione   reato-fatto   punibile   abbia
attenuato  il  carattere  di  indefettibilita',   a   partire   dalla
legislazione 'premiale' in materia  di  criminalita'  terroristica  e
mafiosa,  in  una  evoluzione  culminata   nei   recenti   interventi
legislativi  che  hanno  introdotto  paradigmi   normativi   di   non
punibilita' del reato (messa alla prova e  particolare  tenuita'  del
fatto), sempre piu' corroborando la rappresentazione di una «sequenza
infranta», nondimeno l'essenza del reato resta  sempre  avvinta  alla
dimensione normativa della punibilita' in astratto del fatto. 
    E, almeno nell'attuale disciplina, la prescrizione,  quale  causa
di estinzione del reato, elide proprio tale dimensione normativa,  in
quanto  presupposto  e  condizione  astratta  della  punibilita',   a
differenza dei piu' recenti paradigmi normativi che affidano  la  non
punibilita' del reato  a  giudizi  ex  post  ed  in  concreto  (sulla
particolare  tenuita'  dell'offesa,  nell'art.  131-bis  del   codice
penale, sull'esito positivo della prova, nell'art. 168-ter, comma  2,
del codice penale), che presuppongono il perfezionamento di un  fatto
astrattamente punibile; tant'e' che, nella messa alla prova, il corso
della prescrizione del reato - in quanto presupposto  astratto  della
punibilita' - e' sospeso (art. 168-ter, comma 1, del codice  penale),
e la declaratoria di estinzione del reato  per  prescrizione  prevale
sulla esclusione della punibilita' per particolare tenuita' del fatto
di cui all'art. 131-bis del codice penale sia perche' diverse sono le
conseguenze che scaturiscono dai due istituti, sia perche'  il  primo
di essi estingue  il  reato,  mentre  il  secondo  lascia  inalterato
l'illecito penale nella sua materialita' storica e giuridica (Sez. 3,
n. 27055 del 26 maggio 2015, Sorbara, Rv. 263885). 
    In  tal  senso,  dunque,  mentre   la   causa   estintiva   della
prescrizione puo' ritenersi appartenere alla  dimensione  della  c.d.
«meritevolezza di pena» (Strafwürdigkeit,  nella  terminologia  della
dottrina d'oltralpe  che  ha  elaborato  il  concetto),  fondante  la
criminalizzazione del fatto, l'esclusione della  punibilita'  per  la
particolare tenuita' del fatto e per  l'esito  positivo  della  messa
alla prova appartengono, piu' propriamente, alla dimensione del  c.d.
«bisogno di pena» (Strafbedürfnis). 
    4.2.4. Nel senso della natura sostanziale, come e'  noto,  si  e'
sempre espressa anche la  giurisprudenza  costituzionale,  che  nella
sentenza n. 393 del 23 novembre 2006, pronunciata a  proposito  della
disciplina transitoria della prescrizione introdotta  dalla legge  n.
251 del 2005, ha espressamente affermato: «la locuzione "disposizioni
piu' favorevoli al  reo"  si  riferisce  a  tutte  quelle  norme  che
apportino modifiche in melius  alla  disciplina  di  una  fattispecie
criminosa, ivi comprese quelle che incidono  sulla  prescrizione  del
reato (sentenze n. 455 e n. 85 del 1998; ordinanze n. 317  del  2000,
n. 288 e n. 51 del 1999, n. 219 del 1997, n. 294 e n. 137 del  1996).
Una conclusione, questa, coerente con  la  natura  sostanziale  della
prescrizione (sentenza n. 275 del  1990)  e  con  l'effetto  da  essa
prodotto, in quanto "il decorso del tempo non si limita ad estinguere
l'azione penale, ma elimina la punibilita' in  se'  e  per  se',  nel
senso che costituisce una causa di rinuncia totale dello  Stato  alla
potesta' punitiva" (Cass., Sez. I, 8  maggio  1998,  n.  7442).  Tale
effetto,  peraltro,  esprime  l'"interesse  generale  di   non   piu'
perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso  dopo  la
loro commissione abbia fatto venir  meno,  o  notevolmente  attenuato
(...) l'allarme della coscienza comune, ed altresi' reso difficile, a
volte, l'acquisizione del materiale probatorio" (sentenza n. 202  del
1971; v. anche sentenza n. 254 del 1985; ordinanza n. 337 del 1999)». 
    La natura sostanziale della  prescrizione  e'  stata  di  recente
ribadita anche dalla sentenza 28 maggio 2014, n. 143, con la quale la
Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' del raddoppio dei
termini di prescrizione per l'incendio colposo (§ 3). 
    Non rileva, ai fini che interessano, la sentenza n. 236 del 2011,
richiamata da Sez. 3, n. 2210 del 15 settembre 2015, Pennacchini, Rv.
266121,  in  quanto  la  Corte  costituzionale,  lungi  dall'omettere
l'attivazione dei controlimiti, ha ribadito che  il  principio  della
retroattivita' della lex mitior  non  riceve  la  medesima  copertura
costituzionale dell'art. 25, comma 2,  della  Costituzione  riservata
all'irretroattivita' della norma penale sfavorevole, e,  vertendo  il
sindacato  sulla  disciplina  transitoria  della   prescrizione,   ha
osservato  come  il  parametro  interposto  invocato,   rappresentato
dall'art.  7  CEDU,  non  fornisse  copertura  'convenzionale'   alla
prescrizione,  ritenuta  estranea  al  perimetro  del  principio   di
legalita' nella declinazione della giurisprudenza europea. 
    La  giurisprudenza  granitica  della  Corte  costituzionale,  del
resto, proprio sul presupposto della natura sostanziale  delle  norme
sulla prescrizione, ha  sempre  dichiarato  l'inammissibilita'  delle
questioni di legittimita' costituzionale proposte  in  malam  partem,
poiche' il principio di riserva di legge  impedisce  di  incidere  in
peius non soltanto sulla fattispecie incriminatrice e sulla pena,  ma
altresi'  sugli  altri   presupposti   e   sulle   condizioni   della
punibilita';  al  riguardo,  secondo  quanto  sottolineato  da  Corte
costituzionale n. 324 del 1° agosto 2008, «la costante giurisprudenza
di questa Corte che, in piu' occasioni, ha ribadito che il  principio
della riserva di legge sancito dall'art.  25,  secondo  comma,  della
Costituzione rende inammissibili pronunce il cui effetto possa essere
quello di introdurre nuove fattispecie criminose, di estendere quelle
esistenti a casi non previsti, o, comunque,  "di  incidere  in  peius
sulla risposta punitiva  o  su  aspetti  inerenti  alla  punibilita',
aspetti fra i quali,  indubbiamente,  rientrano  quelli  inerenti  la
disciplina della prescrizione e  dei  relativi  atti  interruttivi  o
sospensivi" (sentenza n. 394 del 2006 e ordinanza n. 65 del 2008)». 
    4.2.5.  Non  ricorrono  i  presupposti  per  una  interpretazione
costituzionalmente   conforme   dell'obbligo    di    disapplicazione
individuato  dalla  Corte  di  giustizia:  al  riguardo,  non  appare
persuasiva la tesi, pur autorevolmente sostenuta in dottrina, secondo
la quale la disciplina della prescrizione avrebbe natura  sostanziale
prima dell'esercizio  dell'azione  penale,  assumendo  invece  natura
processuale  dopo  l'attivazione  della  pretesa  punitiva,  con   la
conseguenza  che   solo   la   disciplina   dell'interruzione   della
prescrizione sarebbe attratta nella logica  del  processo,  e  dunque
sottratta alla garanzia dell'art. 25, comma 2, della Costituzione; in
tal senso, l'obbligo di disapplicazione  dei  termini  «ordinari»  di
interruzione della prescrizione, sancito dalla  sentenza  Taricco,  e
comportanti  un  prolungamento  dei  termini  massimi   della   causa
estintiva, sarebbe governato dal principio tempus regit actum. 
    La  tesi  esposta,  infatti,   oltre   ad   essere   contraddetta
espressamente dalla giurisprudenza  costituzionale  gia'  richiamata,
che ritiene coperti dalla garanzia della riserva di legge  tutti  gli
«aspetti inerenti alla punibilita', (...) fra i quali, indubbiamente,
rientrano quelli inerenti la  disciplina  della  prescrizione  e  dei
relativi atti interruttivi o sospensivi (sentenza n. 394 del  2006  e
ordinanza n. 65 del 2008)» (Corte costituzionale, n. 324  del  2008),
non appare convincente. 
    Essa e' fondata sulle  differenti  rationes  della  prescrizione,
che, se prima del processo e'  legata  al  'tempo  dell'oblio',  dopo
l'esercizio dell'azione penale sarebbe governata  da  una  logica  di
contenimento dei tempi processuali. 
    Tuttavia,  la  ratio  di  un  istituto  concerne   le   finalita'
perseguite e le esigenze salvaguardate, non sempre coincidendo con fa
natura  dell'istituto,  che  va  dedotta  dalla  disciplina  positiva
adottata, ed interpretata secondo i consueti canoni  ermeneutici  (in
primis, quelli di rilievo costituzionale). 
    La natura giuridica di un istituto,  infatti,  va  desunta  dalla
conformazione normativa, non  gia'  dall'individuazione  di  rationes
attribuite, sulla base di precomprensioni legate a soggettive opzioni
dell'interprete. 
    Pur non essendo la  sede  per  piu'  diffuse  considerazioni,  il
rischio sarebbe altrimenti  quello  della  dissoluzione  dei  criteri
classificatori   desunti   da   parametri   normativi,   in    favore
dell'utilizzo interpretativo di comprensive e  scarsamente  selettive
finalita' (asseritamente) perseguite, secondo  paradigmi  concettuali
che,  in  altro  ambito,  condussero  all'elaborazione   della   c.d.
«concezione  metodologica»  del  bene  giuridico,   con   conseguente
neutralizzazione  della  funzione  critica   e   interpretativa   del
concetto. 
    Ebbene, salvo quanto gia' evidenziato infra §  4.2.3.  in  merito
alla  natura  della  prescrizione,  la   dimensione   sostanziale   o
processuale della causa estintiva non puo'  prescindere  dal  profilo
assiologico; in tal senso, sebbene  nella  prassi  abbia  assunto  la
funzione di determinare il termine dell'accertamento processuale,  in
quanto obiettivo (legittimamente)  perseguito  dall'imputato,  da  un
punto di vista assiologico non si puo' obliterare che la prescrizione
rinviene il proprio fondamento nella finalita'  rieducativa  (secondo
alcuni, anche general-preventiva) della pena  sancita  dall'art.  27,
comma 3, della  Costituzione,  che  sarebbe  compromessa,  nella  sua
dimensione  teleologica,  dal  decorso  del   tempo   rispetto   alla
commissione del fatto; anche in  tal  senso,  dunque,  il  fondamento
costituzionale della prescrizione, nella attuale disciplina positiva,
connota la natura sostanziale dell'istituto. 
    Ne', del resto, la prescrizione, almeno nella attuale  disciplina
positiva, puo'  essere  ritenuta  funzionale  alla  salvaguardia  del
principio della durata ragionevole del  processo,  atteso  che,  come
condivisibilmente     osservato      da      autorevole      dottrina
processualpenalistica, il principio, affermato  nell'art.  111  della
Costituzione soltanto di recente, e dunque non in  grado  di  fondare
'storicamente'  l'istituto,  non  sembra  suscettibile  di   fondarlo
neppure  «logicamente»,   in   quanto   la   conformazione   positiva
dell'istituto, il cui corso continua a decorrere pure successivamente
all'esercizio  dell'azione  penale,  rende  la  causa  estintiva   un
(legittimo) obiettivo dell'imputato di  definizione  processuale  che
determina, al contrario,  una  significativa  dilatazione  dei  tempi
processuali. 
    Sulla base dell'attuale disciplina, come si  e'  evidenziato,  la
natura sostanziale della  prescrizione  non  appare  suscettibile  di
essere  fondatamente  messa  in  discussione,  sulla  base  del  dato
normativo e sistematico,  confortato  dalla  comparazione  storica  e
dalla giurisprudenza costituzionale. 
    Qualora il corso della prescrizione venisse  invece  sospeso  con
l'esercizio  dell'azione  penale  -  come  in   diversi   ordinamenti
occidentali, ed in alcune proposte legislative da tempo  allo  studio
degli organi parlamentari nazionale -, dando rilevanza ad un  momento
processuale,   potrebbe   fondatamente   affermarsene    la    natura
processuale, e, di conseguenza, l'applicazione del  principio  tempus
regit actum: ma questo e' un  compito  che,  nel  nostro  ordinamento
costituzionale, spetta al legislatore. 
    4.2.6. Peraltro, la distinzione tra disciplina sostanziale  della
prescrizione  e  disciplina   processuale   dell'interruzione   della
prescrizione appare una fictio insuscettibile di  fondare,  comunque,
un'applicazione di  piu'  lunghi  termini  di  prescrizione  a  fatti
commessi in precedenza. 
    A prescindere,  per  il  momento,  dalla  questione  della  fonte
dell'obbligo, sotto il  profilo  del  principio  di  irretroattivita'
della legge penale non rileva  che  l'aspettativa  dell'imputato  non
riguardi piu' il tempo di commissione del reato, ma, dopo l'esercizio
dell'azione penale, il tempo del  processo.  Infatti,  un'aspettativa
declinata in tali termini sarebbe da qualificare quale  interesse  di
fatto  irrilevante  sotto  il  profilo  processuale,  e  ancor  prima
costituzionale. 
    Cio'  che,  al  contrario,  viene  in  rilievo  e'   il   diritto
dell'imputato  a  non  subire  l'applicazione,  imprevista,  di   una
disciplina penale complessivamente piu' rigorosa  rispetto  a  quella
vigente al momento di commissione del fatto. 
    In questa dimensione  si  articola  il  «nucleo  essenziale»  del
principio di irretroattivita' della legge penale, in cui i termini di
raffronto devono essere, da un lato, il  diritto  e,  dall'altro,  il
tempo di commissione del fatto. 
    Seppur ispirata da una lodevole finalita' garantista, la tesi che
propone di delimitare gli effetti dell'obbligo di disapplicazione  in
malam partem imposto dalla sentenza Taricco ai soli reati per i quali
la  prescrizione  non  era   ancora   maturata   al   momento   della
pubblicazione della decisione (8 settembre 2015),  escludendo  quelli
per i quali il termine  di  prescrizione  era  gia'  decorso,  appare
fondata su un duplice argomento fallace: la natura processuale  della
prescrizione, che consentirebbe l'applicazione secondo  il  principio
tempus regit actum, e la  natura  costitutiva  della  sentenza  della
Corte di giustizia, assunta a fonte diretta del diritto penale. 
    Pur non essendo la sede per piu' argomentate  considerazioni,  la
sentenza Taricco, come si evidenziera' in prosieguo, non puo'  essere
assunta,  nell'ordinamento  nazionale,  alla  stregua  di  una  legge
processuale, la cui entrata in vigore segna il  limite  temporale  di
applicazione; e,  nell'interpretazione  delimitativa  degli  effetti,
addirittura una disciplina  transitoria  verrebbe  surrogata  da  una
argomentazione  di  carattere  interpretativo,  in  un  apogeo  della
giurisprudenza-fonte. 
    In ogni caso, anche se  l'obbligo  di  disapplicazione  in  malam
partem dovesse ritenersi avere ad oggetto una disciplina processuale,
governata dal principio tempus regit actum,  va  evidenziato  che  il
dispositivo della sentenza Taricco non  indica  alcuna  delimitazione
temporale; del resto, anche l'espressione «quando i fatti  addebitati
non si siano ancora prescritti», contenuta al § 57 della motivazione,
appare  quantomeno  controversa,   potendo   riferirsi   l'esclusione
dell'allungamento dei termini di prescrizione ai  soli  reati  per  i
quali la prescrizione sia  stata  gia'  dichiarata;  un  riferimento,
dunque,  che,  anche  in  considerazione  dell'oggetto   del   rinvio
pregiudiziale, riguardante un procedimento  nel  quale  i  reati  non
erano gia' prescritti,  ne'  si  sarebbero  prescritti  in  un  lasso
imminente di tempo, sembra concernere soltanto i «rapporti esauriti». 
    L'eventuale   affermazione   della   natura   processuale   della
prescrizione, del resto, comporterebbe che  l'eventuale  approvazione
della riforma dell'istituto della prescrizione - da  tempo  all'esame
del Parlamento,  nella  consapevolezza,  condivisa  anche  da  questo
Collegio,  che   l'attuale   disciplina   comporta   una   serie   di
insostenibili aporie ed inefficienze per il sistema penale -  sarebbe
governata dal principio tempus regit actum. 
    4.3. Irretroattivita' della legge penale, diritto di difesa (art.
24 della Costituzione) e  principio  di  uguaglianza  (art.  3  della
Costituzione). 
    La  violazione   del   diritto   dell'imputato   a   non   subire
l'applicazione, imprevista, di una disciplina penale complessivamente
piu' rigorosa rispetto a quella vigente al momento di commissione del
fatto, inoltre, puo' essere apprezzata sotto un diverso profilo,  che
coinvolge  altresi'  la   garanzia   sancita   dall'art.   24   della
Costituzione. 
    Sul punto, si e' gia' rilevato che le due ipotesi nelle quali  la
Corte  costituzionale  ha  fino  a  questo   momento   «azionato»   i
controlimiti hanno riguardato la compressione del diritto  di  difesa
riconosciuto e tutelato dall'art. 24 della Costituzione (cfr. infra §
4.1). 
    Nel caso in esame, un'applicazione retroattiva (ai fatti commessi
prima della sentenza Taricco) del prolungamento dei  termini  massimi
di prescrizione comprometterebbe il diritto di difesa  dell'imputato,
che, legittimamente, e sulla base delle informazioni sui  presupposti
della punibilita' vigenti al momento della scelta processuale,  abbia
deciso di non beneficiare dei vantaggi premiali connessi alla  scelta
dei riti alternativi, e,  sulla  base  dei  nuovi  presupposti,  piu'
sfavorevoli,  non  possa  piu'  esercitare  le   facolta'   difensive
riconosciutegli nella competente scansione procedimentale. 
    Il  sostanziale  «cambiamento  delle   regole   in   corsa»   che
conseguirebbe all'obbligo di disapplicazione sancito  dalla  sentenza
Taricco, infatti, appare suscettibile  di  violare  non  soltanto  il
«nucleo essenziale» del diritto di difesa, riconosciuto  e  garantito
dall'art.  24  della  Costituzione,  ma  altresi'  il  principio   di
uguaglianza,  sancito  dall'art.  3  della   Costituzione,   per   la
disparita' di trattamento con chi, in analoga situazione processuale,
e nella consapevolezza dei nuovi presupposti della punibilita' legati
al prolungamento dei termini di prescrizione, e' ancora in tempo  per
esercitare le  facolta'  difensive  connesse  alla  scelta  dei  riti
alternativi, ed ai conseguenti trattamenti sanzionatori premiali. 
    4.4. Il principio di riserva di legge (art. 25,  comma  2,  della
Costituzione). 
    Anche  in  tal  caso,  la   dimensione   di   valore   essenziale
dell'identita' costituzionale del principio di  riserva  assoluta  di
legge  in  materia  penale,  idoneo   ad   essere   «azionato»   come
«controlimite», appare talmente evidente  da  far  sembrare  ultronea
qualsiasi argomentazione al riguardo, trattandosi di garanzia posta a
fondamento di tutti gli ordinamenti costituzionali democratici. 
    E' pacifico che il principio, fondato su  esigenze  di  garanzia,
piu' che di certezza, sia funzionale ad evitare  arbitri  del  potere
esecutivo e giudiziario, sul presupposto che soltanto il procedimento
legislativo sia lo strumento piu' adeguato a  salvaguardare  il  bene
della liberta' personale, compresso dallo strumento penale, tutelando
i diritti delle minoranze, e consentendo un controllo delle scelte di
criminalizzazione della maggioranza. 
    Al  riguardo,  la   Corte   costituzionale,   in   una   sentenza
fondamentale sul tema, ha profondamente scandagliato tutti i  profili
relativi  al  fondamento,  al  significato,  ed  alla  funzione   del
principio di riserva di legge, premettendo che «l'effettivo ambito di
comprensione del "generale" principio di legalita' in sede penale non
e', almeno di  regola,  desunto,  nella  sua  ampiezza,  dalle  sole,
peraltro non univoche, formule costituzionali che  pur  lo  enunciano
bensi', come e' ormai generalmente ammesso, dalla ratio profonda  che
le ispira, cosi' la reale comprensione, in ispecie, del principio  di
riserva di legge penale va  principalmente  ricavata  dal  fondamento
politico-ideologico, sistematico e teleologico dello stesso principio
piuttosto  che  dalle  dichiarazioni  costituzionali,  necessarie   e
solenni  ma  non  sempre  tecnicamente  precise,  che  lo  enunciano;
dichiarazioni i cui contenuti  e  limiti  vanno,  appunto,  ricavati,
anche e soprattutto, dai  precitati  fondamenti  e,  in  particolare,
dall'oggettiva, determinante funzione che,  nell'intero  ramo  penale
dell'ordinamento statale, la riserva  in  questione  esplica»  (Corte
costituzionale, n. 467 del 25 ottobre 1989, § 2). 
    Sotto il «profilo storico-ideologico», la  Corte  ha  evidenziato
che  la  riserva  di  legge  penale   superava   la   frammentazione,
sostanziale  e  formale,  delle  fonti  che  caratterizzava  l'ancien
regime, eliminando i vari  corpi  d'autonomia  sociale  «a  vantaggio
dell'unico corpo politico sovrano»,  affidando  «il  monopolio  della
competenza penale (piu' che) alla legge in quanto  atto-fonte,  (...)
all'organo-Parlamento»;  «il   monopolio   penale   del   legislatore
statale e' fondato sul  suo  essere  rappresentativo  della  societa'
tutta, "unita per contratto sociale"» (§ 3). 
    Sotto  il  profilo  «sistematico»,  si  e'  evidenziato  che  «la
statualita',  a   doppio   titolo,   del   diritto   penale   postula
necessariamente il nascere statuale delle incriminazioni  penali.  Si
e'  precisato:  "a  doppio  titolo".  Ed  infatti,  statali  sono   i
particolari interessi e valori tutelati dal ramo penale e statale  e'
il fine perseguito attraverso le incriminazioni: la tutela  di  tutto
l'ordinamento giuridico statale  e,  cosi',  della  vita  sociale  in
liberta', uguaglianza e reciproco rispetto dei soggetti» (§ 4). 
    Tale aspetto non puo' che essere  sottolineato,  e  attualizzato,
alla  luce  del  nuovo  art.  117,  comma  2,   lettera   i),   della
Costituzione, che riserva alla legislazione esclusiva dello Stato  le
materie della «giurisdizione e norme processuali» e dell'«ordinamento
civile e penale». 
    Connesso alla statualita' del diritto penale e' il profilo  della
finalita' rieducativa: «Il secondo titolo di "statualita'"  del  ramo
penale  attiene  ai  fini  dello  stesso  ramo.  Va  notato  che   la
Costituzione disciplina essa stessa parte del  settore  penale.  Tale
disciplina,  mentre  limita  la  discrezionalita'  del   legislatore,
puntualmente chiarisce  quali  debbano  essere  i  fini  del  diritto
penale. La disposizione  di  cui  all'art.  27,  terzo  comma,  della
Costituzione svela apertamente, indicando la teleologia  delle  pene,
l'identita' e le finalita' del diritto penale dalle  quali  la  Carta
fondamentale parte nel  dettare  la  normativa  attinente  alla  sede
penale.  L'art.  27,  terzo  comma,  della  Costituzione,   riguarda,
infatti, le  sanzioni  propriamente  penali:  e  queste,  nell'essere
particolarmente caratterizzate, sono implicitamente distinte da tutte
le altre sanzioni (...) non solo la  Costituzione  ben  "conosce"  il
ramo penale ma  che  nettamente  lo  "distingue"  dagli  altri  rami,
sottolineando del  medesimo  esigenze  e  fini,  che  attengono  alla
comunita' tutta, alla tutela dell'intero ordinamento statale" (§ 4). 
    Infine, "Il terzo profilo, forse il piu' rilevante, dal quale  va
esaminata la riserva di legge penale ex art. 25, secondo comma, della
Costituzione e' quello della sua funzionalita'. Il principio  per  il
quale unica fonte del diritto penale e'  la  legge  va  chiarito  non
tanto nella sua generale ratio di garanzia quanto, e particolarmente,
nell'oggetto della medesima. Per vero, e'  stato  gia'  adeguatamente
posto in luce che ratio della riserva di legge  penale  e  la  tutela
della liberta' e dei beni fondamentali dei singoli soggetti, anche se
e' stato sottolineato soprattutto l'aspetto  negativo  della  riserva
stessa, e cioe' l'esclusione di possibili arbitri da parte  di  altri
poteri dello  Stato»;  il  «significato  positivo  del  principio  di
riserva  di  legge  penale»,  dunque,  risiede   nella   riserva   al
legislatore statale delle scelte  di  criminalizzazione,  rispettando
«criteri sostanziali di scelta e (...) precise direttive di  politica
criminale», tra i  quali  la  finalita'  rieducativa  della  pena,  i
principi  di  sussidiarieta',  proporzionalita'   e   frammentarieta'
dell'intervento penale (§ 5). 
    In maniera altrettanto significativa,  la  Corte  costituzionale,
con la sentenza n. 230 del 12 ottobre 2012, sulla irrevocabilita' del
giudicato penale in caso  di  mutamento  giurisprudenziale  in  bonam
partem, e con riferimento al parametro  interposto  della  «legalita'
convenzionale», ha ribadito il carattere fondamentale  del  principio
di riserva di legge nella  declinazione  riconosciuta  dall'art.  25,
comma 2, della Costituzione: «L'altra affermazione  -  che  riflette,
per contro, un orientamento della Corte europea da tempo  consolidato
- e' quella in virtu' della quale la nozione  di  "diritto"  ("law"),
utilizzata  nella  norma   della   Convenzione,   deve   considerarsi
comprensiva tanto del  diritto  di  produzione  legislativa  che  del
diritto di formazione giurisprudenziale. Tale lettura  "sostanziale",
e non gia' "formale", del concetto di  "legalita'  penale",  se  pure
stimolata dalla  necessita'  di  tenere  conto  dei  diversi  sistemi
giuridici degli Stati parte - posto  che  il  riferimento  alla  sola
legge di origine parlamentare avrebbe limitato  la  tutela  derivante
dalla Convenzione rispetto agli ordinamenti di common law - e'  stata
ritenuta  valevole  dalla  Corte  europea  anche  in  rapporto   agli
ordinamenti di civil law, alla luce del rilevante apporto che pure in
essi  la  giurisprudenza  fornisce   all'individuazione   dell'esatta
portata e all'evoluzione del diritto penale (tra le altre, sentenze 8
dicembre 2009, Previti contro Italia;  Grande  Camera,  17  settembre
2009, Scoppola contro Italia; 20 gennaio 2009, Sud  Fondi  s.r.l.  ed
altri contro Italia; Grande Camera, 24 aprile  1990,  Kruslin  contro
Francia). Proprio tale seconda affermazione dimostra, peraltro, come,
nell'interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo, il  principio
convenzionale di legalita' penale risulti meno comprensivo di  quello
accolto  nella  Costituzione  italiana   (e,   in   generale,   negli
ordinamenti  continentali).  Ad   esso   resta,   infatti,   estraneo
principio -  di  centrale  rilevanza,  per   converso,   nell'assetto
interno - della riserva di legge, nell'accezione  recepita  dall'art.
25, secondo comma, della Costituzione; principio che, secondo  quanto
reiteratamente puntualizzato da questa Corte, demanda  il  potere  di
formazione in  materia  penale -  in  quanto  incidente  sui  diritti
fondamentali   dell'individuo,   e   segnatamente   sulla    liberta'
personale - all'istituzione che costituisce  la  massima  espressione
della rappresentanza politica: vale a dire al  Parlamento,  eletto  a
suffragio universale dall'intera collettivita' nazionale (sentenze n.
394 del 2006 e n. 487 del 1989), il quale esprime, altresi',  le  sue
determinazioni all'esito di un  procedimento -  quello  legislativo -
che implica un preventivo confronto dialettico  tra  tutte  le  forze
politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia  pure  indirettamente,
con la pubblica opinione». 
    In tal senso,  dunque,  la  minore  estensione  della  «legalita'
convenzionale» rispetto alla «legalita' costituzionale» «preclude una
meccanica  trasposizione  nell'ordinamento  interno  della  postulata
equiparazione   tra   legge   scritta   e   diritto   di   produzione
giurisprudenziale». 
    4.4.1. Il principio di riserva di legge statale in materia penale
implica,  dunque,  che  il  fondamento   ed   i   presupposti   della
responsabilita' penale, compresa  la  dimensione  della  punibilita',
siano previsti esclusivamente  dalla  legge  statale;  nozione  nella
quale, come si e' visto, non rientra il piu' ampio concetto di  «law»
1, comprensivo anche del diritto giurisprudenziale  (pur  nella  piu'
ampia dimensione sovranazionale) (Corte costituzionale,  n.  230  del
2012). 
    L'obbligo di disapplicazione delle norme sull'interruzione  della
prescrizione, discendente dalla sentenza della Corte di giustizia  in
re Taricco, viene mediata nell'ordinamento penale  nazionale  per  il
tramite della teoria  degli  effetti  diretti;  nondimeno,  la  fonte
dell'obbligo, e degli  effetti  penali  in  malam  partem,  resta  la
sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea,  che,  sebbene
deputata in via esclusiva a garantire l'interpretazione  del  diritto
dell'Unione, e' un organo  giurisdizionale  privo  di  legittimazione
politica,  che  non  puo'  esprimere  scelte   di   criminalizzazione
nell'ordinamento nazionale. 
    La conseguenza sarebbe l'irreversibile mutazione  genetica  della
riserva  di  legge  nella  differente  riserva  di  diritto;  con  il
conseguente  dissolvimento  delle  garanzie  legate,  storicamente  e
istituzionalmente, al monopolio legislativo del diritto penale. 
    Pur non rientrando  nei  limiti  di  sindacabilita'  della  Corte
costituzionale,  concernendo  il  profilo,  spettante   agli   organi
sovranazionali,  dell'interpretazione  ed  applicazione  del  diritto
dell'Unione, va nondimeno rilevato,  per  la  diretta  incidenza  sui
principio costituzionale della riserva  di  legge,  che  la  sentenza
Taricco  travalica  i  confini  della  competenza  riconosciuta   dal
Trattato alle istituzioni dell'Unione. 
    Innanzitutto, la Corte di giustizia individua  la  «base  legale»
per la tutela penale degli interessi finanziari  dell'Unione  europea
nell'art. 325 Trattato sul funzionamento  dell'Unione  europea,  che,
come si evince dalla collocazione e dal  tenore,  non  e'  una  norma
penale; l'art. 325 Trattato sul  funzionamento  dell'Unione  europea,
infatti, e' una disposizione sulla produzione  delle  leggi,  rivolta
agli Stati membri, a carico dei quali pone un  obbligo  di  risultato
preciso, come si evince dal comma 2, secondo cui  «Gli  Stati  membri
adottano, per combattere contro  la  frode  che  lede  gli  interessi
finanziari dell'Unione, le stesse misure che adottano per  combattere
contro la frode che lede i loro interessi finanziari». 
    Da tale disposizione,  e  dal  complessivo  quadro  istituzionale
dell'Unione, deriva che l'eventuale inadeguatezza della tutela penale
apprestata da un ordinamento nazionale potrebbe essere sanzionata con
una procedura  di  inadempimento  dello  Stato  membro  (art.  258  e
seguenti, Trattato sul funzionamento dell'Unione europea),  non  gia'
con l'affermazione di  un  obbligo  di  disapplicazione  con  effetti
penali in malam partem rivolto ai giudici nazionali; oppure  l'Unione
avrebbe  la  possibilita',  alternativa,  di  esercitare   i   poteri
conferiti  dall'art.  83  Trattato  sul   funzionamento   dell'Unione
europea, mediante adozione di  direttive,  previo  inserimento  della
materia delle frodi nell'ambito  delle  competenze  penali  indirette
dell'Unione. 
    E qui si coglie l'ulteriore aspetto di travalicamento dei  limiti
- che, come si rilevera' in seguito, incide sul rispetto dell'art. 11
della Costituzione -,  in  quanto  il  Trattato  sull'Unione  europea
riconosce alle  istituzioni  «eurounitarie»,  nell'ambito  di  quelle
«limitazioni   di   sovranita'»   consentite   dall'art.   11   della
Costituzione,  competenza  penale  soltanto   indiretta,   prevedendo
l'adozione   di   direttive   in   alcune   sfere   di   criminalita'
caratterizzate da una dimensione transnazionale; in tal senso, l'art.
83 Trattato sul funzionamento dell'Unione  europea  prevede  che  «Il
Parlamento europeo e il  consiglio,  deliberando  mediante  direttive
secondo la procedura legislativa ordinaria, possono  stabilire  norme
minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in  sfere
di criminalita' particolarmente grave che presentano  una  dimensione
transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni  di  tali
reati o da una particolare necessita' di combatterli su basi comuni»;
e tra tali  «materie»  non  rientrano,  allo  stato,  le  frodi  agli
interessi finanziari dell'Unione, essendo previste le seguenti «sfere
di  criminalita'»;  «terrorismo,  tratta   degli   esseri   umani   e
sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traffico illecito  di
stupefacenti, traffico  illecito  di  armi,  riciclaggio  di  denaro,
corruzione,  contraffazione  di  mezzi  di  pagamento,   criminalita'
informatica e criminalita' organizzata». 
    L'assunzione dell'art. 325 Trattato sul funzionamento dell'Unione
europea quale  «base  legale»  per  la  tutela  penale  di  interessi
finanziari dell'Unione europea, dunque, oltre ad eccedere  la  natura
programmatica  della  disposizione,  finisce   per   attribuire   una
competenza penale diretta all'Unione, al di fuori degli stessi limiti
istituzionali previsti dal Trattato. 
    4.5. Il principio di  tassativita'  e  determinatezza  (art.  25,
comma 2, della Costituzione). 
    La ratio garantista e la funzione del  principio  di  riserva  di
legge  sarebbero  elusi  anche  in  considerazione  di  un  ulteriore
profilo,  rilevante  anche  nella   dimensione   del   principio   di
tassativita' della norma penale. 
    Invero, come  si  e'  in  precedenza  evidenziato,  la  Corte  di
giustizia individua i  presupposti  dell'obbligo  di  disapplicazione
delle norme sull'interruzione della prescrizione in concetti vaghi ed
indeterminati, quali «la frode e  le  altre  attivita'  illegali  che
ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea»  ed  il  «numero
considerevole di casi di frode grave» che dovrebbe essere oggetto  di
accertamento giudiziale. 
    L'indeterminatezza  dei  concetti,  che  comporta  una   elusione
sostanziale della stessa riserva di legge, e' stata  gia'  apprezzata
in precedenza, ai diversi fini della valutazione di  rilevanza  della
questione di costituzionalita'. 
    Sotto un primo profilo, si  e'  evidenziato  che  la  nozione  di
«frode grave» e' rimessa alla valutazione del giudice, in assenza  di
parametri normativi univoci e direttamente applicabili; del resto, la
stessa individuazione della soglia di €  50.000,00  quale  indice  di
«gravita'» della frode, in quanto indicata dalla Convenzione PIF,  e'
incompatibile con le soglie di rilevanza  penale  (non  di  gravita')
indicate  in  alcuni  reati  tributari -  comunemente   commessi   in
esecuzione   delle   operazioni   fraudolente   -,   quali   l'omessa
dichiarazione (l'art. 5 decreto  legislativo  n.  74/2000  indica  la
soglia di rilevanza penale in € 50.000,00),  l'omesso  versamento  di
IVA (l'art. 10-ter indica la soglia in € 250.000,00). 
    Anche la delimitazione dell'ambito di  operativita'  dell'obbligo
di disapplicazione, riconosciuto dalla Corte di giustizia a «la frode
e le altre attivita' illegali che  ledono  gli  interessi  finanziari
dell'Unione europea»,  resta  del  tutto  affidata  al  giudice,  non
essendo  specificate  le  fattispecie  incriminatrici  per  le  quali
dovrebbe   valere   l'obbligo   di   disapplicazione;    la    stessa
interpretazione proposta da  questa  Corte,  ai  diversi  fini  della
valutazione della rilevanza  della  questione  di  costituzionalita',
nella prospettiva dell'ordinamento sovranazionale, e'  stata  fondata
su disposizioni,  come  si  e'  evidenziato,  «programmatiche»,  come
l'art.  325  Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione  europea,  che
scontano un grado di indeterminatezza insuscettibile di  applicazione
automatica, e sulla  fattispecie  concreta  posta  a  fondamento  del
rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in re Taricco; in  altri
termini, l'art. 325 Trattato sul  funzionamento  dell'Unione  europea
non e' una regola suscettibile di applicazione giudiziale automatica,
ma, al piu', una regola sulla produzione di norme, diretta all'Unione
europea e agli Stati membri; in ambito giurisdizionale, invece,  puo'
essere assunta non gia' come regola, che  risponde  alla  logica  del
«tutto o niente», bensi' come principio, che  risponde  alle  diverse
logiche del bilanciamento di interessi. 
    Altrettanto eccentrico, rispetto ai principi  costituzionali  che
governano la materia penale, risulta il tentativo - operato  ai  fini
della valutazione  di  rilevanza  della  questione  -  di  delimitare
l'ambito di operativita'  della  «norma  di  derivazione  giudiziale»
sull'obbligo di disapplicazione sulla base della fattispecie concreta
decisa dalla fonte del diritto  (la  «frode  carosello»  oggetto  del
rinvio pregiudiziale del Tribunale di  Cuneo);  opzione  ermeneutica,
si' imposta dall'obbligo di fedelta' «comunitaria» e dalla necessita'
di valutare la rilevanza della questione di costituzionalita', ma che
comunque comporta una totale  inversione  dei  canoni  costituzionali
dell'interpretazione nel nostro ordinamento, fondati  sulla  astratta
delimitazione  del  diritto,  e  sulla   successiva   operazione   di
ascrizione del fatto alla fattispecie  astratta;  al  contrario,  per
delimitare l'ambito di operativita' dell'obbligo  di  disapplicazione
si dovrebbe procedere dal fatto oggetto del giudizio della  Corte  di
giustizia per giungere al diritto; una prospettiva  inedita  per  gli
ordinamenti di civil law, che richiama in maniera piuttosto  evidente
le declinazioni della c.d. judge-made law tipica degli ordinamenti di
common law. 
    Resta,  dunque,  l'oggettiva  indeterminatezza   dell'ambito   di
operativita' dell'obbligo di disapplicazione, non  essendo  disposto,
in maniera precisa, se esso operi soltanto con riferimento  ai  reati
tributari con condotta  fraudolenta  (articoli  2,  3  e  11  decreto
legislativo n. 74/2000), o anche con riferimento ai  reati  tributari
che non descrivono una fraudolenza della condotta (articoli 4, 5,  8,
10, 10-bis, 10-ter, 10-quater decreto legislativo n. 74/2000), ovvero
anche con riferimento ad altri reati potenzialmente  offensivi  degli
interessi finanziari dell'Unione europea (tra i quali l'art.  640-bis
del codice penale sovente contestato nei procedimenti penali  per  le
c.d. «frodi carosello»). 
    Infine, il terzo requisito che fonda, nell'interpretazione  della
Corte di giustizia, l'obbligo di disapplicazione e' costituito  dalla
valutazione,   rimessa   al   giudice   nazionale,   di    apprezzare
l'ineffettivita' delle sanzioni previste «in un numero  considerevole
di  casi  di  frode  grave»  che  ledono  gli  interessi   finanziari
dell'Unione europea. 
    Anche  in  tal  caso  va   innanzitutto   evidenziata   l'estrema
indeterminatezza  del  requisito,  probabilmente  piu'  consono  alle
differenti esperienze di common law che pure  integrano,  sovente  in
maniera  significativa,  la  matrice  culturale  della  giurisdizione
europea. 
    Al riguardo, come si e' gia' osservato  in  sede  di  valutazione
della rilevanza della questione di costituzionalita', tale  requisito
puo'  essere  considerato  in  astratto,   ovvero   con   riferimento
all'integralita' dei procedimenti  pendenti  dinanzi  alle  autorita'
giudiziarie italiane; in tal caso, tuttavia, esso  implicherebbe  una
prognosi di natura  statistica  che  esula  dai  limiti  cognitivi  e
valutativi del giudice, e anche di questa Corte; a cio'  ostando  non
soltanto l'assenza di  dati  statistici  affidabili,  ma  soprattutto
l'orizzonte  conoscitivo   del   singolo   giudice,   necessariamente
limitato, dal vigente sistema processuale, ai fatti di causa,  ovvero
i fatti che si riferiscono all'imputazione, alla  punibilita'  e  dai
quali dipenda l'applicazione  di  norme  processuali  (art.  187  del
codice di procedura penale) rilevanti nel singolo processo, non  gia'
nella generalita' degli altri processi. 
    In una seconda ipotesi, il presupposto potrebbe risolversi in una
prognosi meramente empirica, del singolo giudice, e dell'«esperienza»
soggettivamente espressa; in tal caso, tuttavia, il requisito sarebbe
del tutto vago ed indeterminato, in quanto fondato  su  soggettivismi
di difficile verificabilita' (in senso epistemologico). 
    In una terza ipotesi, seguita  da  questa  Corte  ai  diversi  ed
esclusivi fini della valutazione della rilevanza della questione,  il
requisito del «numero considerevole di  casi  di  frode  grave»  puo'
essere inteso in concreto, con riferimento alle  fattispecie  oggetto
del giudizio rimesso al singolo giudice. 
    In tutti i  casi,  dunque,  anche  in  quest'ultimo,  che  sembra
affidare al giudice una piu' ristretta base cognitiva, la valutazione
sul «grado»  (statistico,  soggettivo,  empirico)  di  ineffettivita'
delle previsioni sanzionatorie resta comunque  rimessa  all'esclusiva
decisione  del  giudice  nazionale;  e   da   tale   valutazione   ne
discenderebbe una estensione o meno della punibilita'. 
    Non appare, al riguardo, ridondante  sottolineare  le  differenze
tra le categorie logiche dell'«interpretazione», quale  attivita'  di
ricostruzione ed individuazione  dei  confini  astratti  della  norma
applicabile nel rapporto di interazione tra  fattispecie  astratta  e
fatto concreto,  della  «discrezionalita'»,  relativa  alla  fase  di
ricostruzione, individuazione e/o concretizzazione dei concetti  c.d.
elastici  della  norma  applicabile  al  caso   concreto,   e   della
«valutazione» delle prove, relativa alla  fase  di  accertamento  del
fatto concreto. 
    Ebbene, nel caso dell'individuazione del «numero considerevole di
casi di frode grave», non  puo'  parlarsi  di  mera  interpretazione,
mancando  qualsiasi  confine  astratto  della  norma,  e  neppure  di
discrezionalita',  mancando   qualsiasi   criterio,   finalistico   o
fattuale,  di  riferimento  (come,  ad  esempio,  nel  classico  caso
dell'art. 133 del codice penale); la categoria logica  che  viene  in
rilievo, nel caso di specie, e'  la  «valutazione»,  come  del  resto
espressamente riconosciuto dalla Corte di giustizia; tuttavia, tranne
che nel sindacato di costituzionalita' (nel  quale  il  parametro  di
giudizio e' la norma sovraordinata), la valutazione ha ad oggetto  le
prove, non gia' la norma; e quindi se la  norma  diviene  oggetto  di
valutazione, al di fuori di qualsiasi limite «legale» o di  qualsiasi
criterio di riferimento, essa assume  i  contorni  non  gia'  di  una
«regola di azione», ma di un concetto del tutto elastico, soggetta al
totale arbitrio (in senso epistemologico) del  giudice,  costretto  a
riempire di contenuto il concetto, ed insuscettibile di orientare «le
libere scelte d'azione» del cittadino (Corte costituzionale,  n.  364
del  1988):  in  altri  termini,  la  negazione  del   principio   di
tassativita' e di riserva di legge in materia penale. 
    Invero,  al  di  fuori   di   una   incontrollabile   valutazione
giudiziale, non sono indicati i criteri ed i requisiti  per  ritenere
ineffettive le previsioni sanzionatorie in un «numero  considerevole»
di casi di frode grave: in una declinazione statistica, peraltro  del
tutto  inverosimile,  quale  numero  di  procedimenti  (o  di  reati)
definiti  con  l'estinzione  per  prescrizione   dovrebbe   ritenersi
sufficiente ad integrare il requisito del «numero considerevole»?  ed
in una declinazione empirica, nell'ambito di un  procedimento  avente
ad oggetto migliaia di condotte lesive  degli  interessi  finanziari,
sarebbe sufficiente l'estinzione di poche  decine  di  reati,  magari
riguardanti  l'evasione  di  somme  estremamente   significative,   o
occorrerebbe l'estinzione di centinaia di reati,  seppur  riguardanti
l'evasione di piu' contenute somme erariali? 
    Le considerazioni espresse e gli interrogativi posti  evidenziano
che l'assoluta carenza di tassativita' della norma impone al  giudice
nazionale  una  valutazione   di   natura   politico-criminale   (una
Kriminalpolitik   im   kleinen,   secondo   la   felice   definizione
«ossimorica»  elaborata  nella  dottrina   penalistica   d'oltralpe),
fisiologicamente riservata, come si e' detto, al  legislatore,  sulla
effettivita' e dissuasivita' della complessiva  disciplina  normativa
rispetto alla tutela degli interessi finanziari dell'Unione  europea;
«valutazione» che  assegna  al  giudice  l'an  della  punibilita'  in
concreto dei fatti  lesivi  degli  interessi  finanziari  dell'Unione
europea. 
    4.6. Il principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione). 
    Tale situazione determina due conseguenze immediate: da un  lato,
la  prescrizione,  nel  settore  delle  frodi  gravi  agli  interessi
finanziari dell'Unione europea, non avra'  piu'  i  contorni  di  una
disciplina prêt-a-porter,  confezionata  in  serie,  ma  assumera'  i
connotati di una disciplina «su misura» del singolo processo,  o  del
singolo imputato, o, addirittura, di gruppi di imputati; evidente, in
tal senso, la violazione del fondamentale principio  di  uguaglianza,
sancito dall'art. 3 della Costituzione. 
    Il difetto di determinatezza dei criteri che dovrebbero orientare
la disapplicazione, dunque, comporta una violazione del principio  di
uguaglianza, determinando disparita' di trattamento  tra  autori  dei
medesimi reati,  a  seconda  che  gli  stessi  vengano  ritenuti,  in
concreto, e non gia' in astratto, «un numero considerevole di casi di
frode grave». 
    La  disapplicazione   in   malam   partem   sarebbe   del   tutto
«randomizzata», essendo fondata su presupposti e requisiti di incerta
determinazione, esulanti dai consueti  e  fisiologici  confini  della
mera  attivita'  interpretativa,  e  ridondanti  in  vere  e  proprie
valutazioni politico-criminali riservate al potere legislativo. 
    4.7. Il principio di separazione dei poteri e  di  sottoposizione
del  giudice  soltanto  alla  legge  (art.  101,   comma   2,   della
Costituzione). 
    Sotto diverso ed ulteriore  profilo,  infatti,  l'affidamento  al
giudice dell'individuazione dell'oggetto ("frode grave"), dell'ambito
di applicabilita' («la frode e le altre attivita' illegali che ledono
gli interessi finanziari dell'Unione europea»), e  della  valutazione
di ineffettivita' della disciplina («in un  numero  considerevole  di
casi di frode  grave»),  assegna  all'ordine  giudiziario  un  potere
normativo riservato  al  legislatore,  che  viola,  all'evidenza,  il
principio   fondamentale -   posto   a   fondamento   dello    stesso
costituzionalismo moderno, almeno a partire dall'illuminismo -  della
separazione  dei  poteri,   comportando   una   sovrapposizione   del
«giudiziario» al «legislativo», e l'attribuzione  alla  giurisdizione
di una funzione normativa in materia penale patentemente inosservante
del precetto che impone che il giudice sia  soggetto  «soltanto  alla
legge» (art. 101, comma 2, della Costituzione). 
    Al riguardo, va osservato che la soggezione del giudice «soltanto
alla legge» comprende anche le fonti sovranazionali  che,  in  virtu'
delle  limitazioni  di  sovranita'  consentite  con  la  stipula  dei
Trattati, integrano il nostro sistema costituzionale delle fonti;  e'
ormai pacifica l'appartenenza delle «norme»  europee  all'ordinamento
nazionale, al quale il giudice e' soggetto. 
    Tuttavia, la frizione con il principio di separazione dei  poteri
non deriva,  nel  caso  in  esame,  dalla  «provenienza»  europea,  o
giurisprudenziale (rilevante ai diversi fini della riserva di legge),
della  norma,  bensi'  dal  contenuto  della   norma,   che   rimette
direttamente  al  giudice  la  valutazione  di  adeguatezza  di   una
disciplina penale ai  fini  di  prevenzione;  in  altri  termini,  al
giudice viene affidata una valutazione di natura  politico-criminale,
relativa   all'efficacia   general-preventiva    della    complessiva
disciplina penale a tutela  degli  interessi  finanziari  dell'Unione
europea, che, in base al principio della divisione  dei  poteri,  non
puo' che competere al legislatore, nazionale o anche - nei  limiti  e
con le forme, come si e' evidenziato,  soltanto  indirette,  previste
dal Trattato sul funzionamento dell'Unione europea - «eurounitario». 
    Come  e'  stato  opportunamente  evidenziato  in  dottrina,   ove
l'effetto disapplicativo in  malam  partem,  connesso  a  valutazioni
politico-criminali di carattere  general-preventivo,  «una  sorta  di
opposto in malam partem del giudizio di  offensivita'»,  fosse  stato
previsto da una norma penale  interna,  non  sarebbe  stato  ritenuto
conforme  ai  principi  di  tassativita',  di  riserva  di  legge  e,
strettamente connesso, di divisione dei poteri. 
    4.8. Il principio della finalita' rieducativa  della  pena  (art.
27, comma 3, della Costituzione). 
    4.8.1. L'obbligo di disapplicazione delle norme sull'interruzione
della prescrizione, con il  conseguente  prolungamento  dei  termini,
viene affermato dalla Corte di giustizia con riferimento esclusivo ai
«casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari  dell'Unione
europea». 
    La disciplina, derogatoria rispetto a quella  generale,  rinviene
dunque la propria  ratio  nella  tutela  degli  interessi  finanziari
dell'Unione europea, che fonderebbe  una  maggiore  estensione  della
punibilita' delle «frodi gravi» per  la  salvaguardia  dell'interesse
alla percezione dei tributi in ambito «comunitario». 
    Tuttavia, il prolungamento dei termini di prescrizione, e  quindi
della punibilita', in ragione della tutela degli interessi finanziari
dell'Unione  europea,  comporta  una  funzionalizzazione  della  pena
eccentrica rispetto al teleologismo costituzionale: la pena non tende
piu'  alla  rieducazione  del  condannato,  secondo  quanto  previsto
dall'art. 27, comma 3, della Costituzione, ma  diviene  strumento  di
tutela degli interessi finanziari dell'Unione. 
    In  tal  modo,  si  registra  una  inversione  della   concezione
personalistica sottesa alla Costituzione, con una strumentalizzazione
dell'individuo-persona che,  da  «fine»  della  sanzione  penale,  ne
diviene «mezzo»: la  visione  personalistica  sottesa  alla  funzione
rieducativa della pena affermata  dalla  Costituzione  soccombe  alla
visione patrimonialistica e finanziaria  sottesa  alla  tutela  degli
interessi finanziari dell'Unione. 
    Tuttavia,  nella   dimensione   costituzionale,   gli   interessi
finanziari non  possono  assurgere  a  fine  della  sanzione  penale,
restando del tutto estranei agli scopi  special-preventivi  assegnati
dalla Carta del 1948 alla pena. 
    Ne' potrebbe fondatamente obiettarsi che gli interessi finanziari
dell'Unione sono un legittimo bene giuridico suscettibile di  tutela,
che, in tal modo, si incorrerebbe  in  una  inversione  metodologica:
invero, e' pacifico che gli interessi finanziari  dell'Unione europea
(e qualsiasi interesse patrimoniale ritenuto meritevole di tutela  da
parte del legislatore) fondano la tutela  penale  apprestata  con  le
relative fattispecie  incriminatrici  a  salvaguardia  dell'interesse
alla percezione dei tributi (anche «comunitari»); ma l'assetto  della
punibilita' non puo' essere modificato,  mediante  prolungamento  dei
termini di prescrizione, consentendo  l'applicazione  della  sanzione
penale all'esclusivo  fine  di  tutelare  gli  interessi  finanziari,
anziche' al fine di tendere alla risocializzazione del condannato. 
    Riprendendo la distinzione concettuale richiamata infra § 4.2.2.,
gli  interessi  finanziari  possono  fondare,  e  fondano,  la   c.d.
«meritevolezza di pena» (Strafwürdigkeit,  nella  terminologia  della
dottrina d'oltralpe che ha elaborato il concetto), la scelta relativa
alla astratta criminalizzazione del fatto, ma  non  possono  assumere
rilievo nella dimensione del c.d. «bisogno di pena» (Strafbedürfnis). 
    Allorquando in tale dimensione vengano in rilievo  considerazioni
politico-criminali - quali quelle relative  alla  salvaguardia  degli
interessi finanziari dell'Unione europea -, e  non  per  restringere,
bensi' per estendere  la  punibilita',  la  sanzione  penale  diviene
strumento  della  politica-criminale,  e  non   piu'   strumento   di
tendenziale risocializzazione della persona. 
    4.8.2. Va, al riguardo, richiamata la giurisprudenza della  Corte
costituzionale, che ha valorizzato il principio di  rieducazione  sul
piano della struttura del reato (con la celebre sentenza n.  364  del
1988), e sul piano della dimensione teleologica della pena,  mediante
l'affermazione dell'immanenza della finalita' rieducativa  alla  fase
dell'astratta previsione normativa, della concreta commisurazione,  e
dell'esecuzione. 
    Merita, sul punto, rammentare quanto limpidamente chiarito  dalla
Corte costituzionale, nella sentenza  2  luglio  1990,  n.  313:  «In
verita', incidendo la pena sui diritti di chi vi e'  sottoposto,  non
puo'   negarsi   che,   indipendentemente   da   una   considerazione
retributiva, essa abbia necessariamente anche  caratteri  in  qualche
misura afflittivi. Cosi' come e' vero che alla sua natura  ineriscano
caratteri di difesa sociale, e  anche  di  prevenzione  generale  per
quella certa intimidazione che esercita sul calcolo utilitaristico di
colui   che   delinque.   Ma,   per   una    parte    (afflittivita',
retributivita'),  si  tratta  di  profili   che   riflettono   quelle
condizioni minime, senza le quali la pena cesserebbe di essere  tale.
Per altra parte, poi (reintegrazione, intimidazione, difesa sociale),
si tratta bensi' di valori che hanno un fondamento costituzionale, ma
non tale da autorizzare il pregiudizio  della  finalita'  rieducativa
espressamente   consacrata   dalla    Costituzione    nel    contesto
dell'istituto della pena.  Se  la  finalizzazione  venisse  orientata
verso quei diversi caratteri, anziche' al principio  rieducativo,  si
correrebbe  il  rischio  di  strumentalizzare  l'individuo  per  fini
generali  di  politica  criminale   (prevenzione   generale)   o   di
privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di  stabilita'  e
sicurezza  (difesa  sociale),  sacrificando  il  singolo   attraverso
l'esemplarita' della sanzione.  E'  per  questo  che,  in  uno  Stato
evoluto, la finalita' rieducativa non puo' essere  ritenuta  estranea
alla legittimazione e alla funzione stesse della  pena.  L'esperienza
successiva ha, infatti, dimostrato che la  necessita'  costituzionale
che la pena debba «tendere» a rieducare, lungi dal rappresentare  una
mera generica tendenza riferita al solo  trattamento,  indica  invece
proprio una delle qualita' essenziali e generali  che  caratterizzano
la pena nel suo contenuto  ontologico,  e  l'accompagnano  da  quando
nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in  concreto
si estingue.  Cio'  che  il  verbo  «tendere»  vuole  significare  e'
soltanto la presa d'atto della divaricazione che  nella  prassi  puo'
verificarsi  tra  quella  finalita'  e  l'adesione   di   fatto   del
destinatario  al  processo   di   rieducazione:   com'e'   dimostrato
dall'istituto che fa corrispondere  benefici  di  decurtazione  della
pena ogniqualvolta, e nei limiti  temporali,  in  cui  quell'adesione
concretamente si manifesti (liberazione anticipata). Se la  finalita'
rieducativa venisse limitata alla fase esecutiva, rischierebbe  grave
compromissione ogniqualvolta  specie  e  durata  della  sanzione  non
fossero  state  calibrate  (ne'  in  sede  normativa  ne'  in  quella
applicativa) alle necessita' rieducative del soggetto.  La  Corte  ha
gia' avvertito tutto questo quando non ha esitato  a  valorizzare  il
principio addirittura sul piano della struttura del  fatto  di  reato
(cfr. sentenza n. 364 del 1988). Dev'essere,  dunque,  esplicitamente
ribadito che il precetto di cui al terzo  comma  dell'art.  27  della
Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della
cognizione,  oltre   che   per   quelli   dell'esecuzione   e   della
sorveglianza, nonche' per  le  stesse  autorita'  penitenziarie.  Del
resto, si tratta di un principio che, seppure  variamente  profilato,
e' ormai  da  tempo  diventato  patrimonio  della  cultura  giuridica
europea, particolarmente per il suo collegamento con il «principio di
proporzione» fra qualita' e quantita' della sanzione, da  una  parte,
ed offesa, dall'altra. Principio che  la  Corte  di  giustizia  della
Comunita' europea ha accolto in tutta la sua ampiezza,  al  punto  da
estenderlo all'illecito amministrativo  (cfr.  sentenze  20  febbraio
1979, n. 122/1978 e 21 giugno  1979,  n.  240/1978,  in  Racc.  Giur.
C.E.E. 1979, 677 e 2137). Tanto piu', quindi, esso deve trovare larga
applicazione all'interno di un ordinamento come il nostro, che ne  ha
fatto un punto cardine della funzione costituzionale della  pena»  (§
8). 
    Se, pertanto, la  finalita'  rieducativa  costituisce  uno  degli
scopi della pena gia' nella fase della astratta previsione normativa,
non puo' essere  del  tutto  obliterata  per  la  salvaguardia  degli
interessi finanziari  che,  impropriamente,  assumono  rilievo  nella
dimensione del c.d. «bisogno di pena». 
    La conseguenza di una tale  sovrapposizione  di  piani,  infatti,
sarebbe  una  strumentalizzazione   dell'individuo   per   conseguire
finalita' di politica criminale,  espressione  di  mere  esigenze  di
prevenzione generale. 
    4.9. I principi di ragionevolezza (art. 3 della  Costituzione)  e
della finalita' rieducativa della  pena  (art.  27,  comma  3,  della
Costituzione). 
    Sotto diverso  ed  ulteriore  profilo,  va  sottolineato  che  il
fondamento della prescrizione e' stato  individuato,  dalla  dottrina
prevalente  e  dalla  stessa  giurisprudenza  costituzionale,   nella
funzione special- e general-preventiva della  pena;  il  decorso  del
tempo dal reato affievolirebbe le esigenze di prevenzione, sia  sotto
il profilo dell'allarme sociale, sia sotto il profilo dell'attitudine
rieducativa di una pena che verrebbe applicata nei confronti  di  una
persona potenzialmente 'diversa', che potrebbe, in  ipotesi,  essersi
nel  frattempo  integrata  e,  magari,   riappropriata   del   valore
precedentemente offeso. 
    La Corte costituzionale, con la sentenza 28 maggio 2014, n.  143,
con la quale ha dichiarato l'illegittimita' del raddoppio dei termini
di  prescrizione  per  l'incendio  colposo,   ha   significativamente
evidenziato: «Sebbene possa proiettarsi anche sul piano processuale -
concorrendo, in specie, a realizzare la  garanzia  della  ragionevole
durata del processo (art. 111, secondo comma,  della  Costituzione) -
la prescrizione costituisce, nell'attuale configurazione, un istituto
di natura sostanziale (ex plurimis, sentenze n. 324 del 2008 e n. 393
del 2006), la cui ratio  si  collega  preminentemente,  da  un  lato,
all'"interesse generale di non piu' perseguire i  reati  rispetto  ai
quali il lungo tempo decorso dopo la  loro  commissione  abbia  fatto
venir meno, o notevolmente attenuato [...] l'allarme della  coscienza
comune" (sentenze n. 393 del 2006 e n. 202 del 1971, ordinanza n. 337
del 1999); dall'altro, «al "diritto all'oblio» dei cittadini,  quando
il reato non sia cosi' grave da escludere tale tutela»  (sentenza  n.
23 del 2013). Le evidenziate  finalita'  si  riflettono  puntualmente
nella tradizionale scelta di correlare alla  gravita'  del  reato  il
tempo necessario a prescrivere, ancorandolo al  livello  quantitativo
della sanzione, indice del  suo  maggiore  o  minor  disvalore  nella
coscienza sociale. Siffatta correlazione, cui  gia'  si  ispirava  la
scansione  dei  termini  prescrizionali   per   «classi   di   reati»
originariamente adottata dal codice  penale  del  1930,  e'  divenuta
ancor piu' stretta a seguito della legge n. 251 del 2005, la  quale -
come gia' ricordato - ha identificato nella durata massima della pena
edittale di ciascun reato il tempo sufficiente a  decretare,  in  via
presuntiva, il disinteresse sociale  per  la  repressione  del  fatto
criminoso.  Al  legislatore  non  e'  certamente  inibito  introdurre
deroghe alla regola generale  di  computo  dallo  stesso  posta,  non
potendo in essa scorgersi un «momento necessario di attuazione - o di
salvaguardia - dei principi  costituzionali»  (sentenza  n.  455  del
1998,  ordinanza  n.  288  del  1999).   Nell'esercizio   della   sua
discrezionalita', il legislatore puo' pertanto stabilire  termini  di
prescrizione piu' brevi o piu' lunghi di quelli ordinari in  rapporto
a determinate ipotesi criminose, sulla base di valutazioni  correlate
alle specifiche caratteristiche degli  illeciti  considerati  e  alla
ponderazione complessiva  degli  interessi  coinvolti.  Soluzioni  di
segno estensivo possono  essere  giustificate,  in  specie,  sia  dal
particolare allarme sociale generato da  alcuni  tipi  di  reato,  il
quale comporti una «resistenza all'oblio» nella coscienza comune piu'
che proporzionale all'energia della risposta sanzionatoria; sia dalla
speciale  complessita'  delle  indagini   richieste   per   il   loro
accertamento  e  dalla  laboriosita'  della   verifica   dell'ipotesi
accusatoria in  sede  processuale,  cui  corrisponde  un  fisiologico
allungamento  dei  tempi  necessari  per  pervenire   alla   sentenza
definitiva. La discrezionalita' legislativa in  materia  deve  essere
pur sempre  esercitata,  tuttavia,  nel  rispetto  del  principio  di
ragionevolezza e in modo tale  da  non  determinare  ingiustificabili
sperequazioni di trattamento tra fattispecie omogenee». 
    La    giurisprudenza     costituzionale     richiamata     appare
particolarmente significativa: nell'evidenziare  la  connessione  tra
prescrizione e funzione rieducativa della pena - che potrebbe  essere
compromessa da una disciplina della causa estintiva che, per  i  soli
reati a tutela di interessi finanziari dell'Unione  europea,  preveda
un  prolungamento  dei  termini   suscettibile   di   integrare   una
sostanziale  «imprescrittibilita'»  -,  afferma  che   entrambi   gli
elementi, di natura general- e special-preventiva, sono  strettamente
collegati  alla  gravita'  del  reato,   come   altresi'   dimostrato
dall'ancoraggio legislativo  del  termine  prescrizionale  alla  pena
massima prevista in astratto per il reato; nondimeno, ammette che  il
legislatore dispone di una  ampia  discrezionalita'  nello  stabilire
termini prescrizionali derogatori rispetto  alla  mera  gravita'  dei
reati; tuttavia, delimita il perimetro di legittimita' dell'esercizio
di  tale  discrezionalita',  individuando  nel  particolare   allarme
sociale di alcuni reati,  ovvero  nella  particolare  difficolta'  di
indagine  e  di  accertamento  processuale,  che  incida  in  maniera
rilevante sulla durata media del processo,  le  ragioni  che  possono
fondare la previsione di piu' ampi termini di prescrizione. 
    Ebbene, nel caso dell'obbligo di  disapplicazione  sancito  dalla
Corte di giustizia, di  prolungamento  dei  termini  di  prescrizione
riguarderebbe non gia' «alcuni tipi di reato», ma  soltanto  i  reati
che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea. 
    In altri termini, il prolungamento dei termini non coinvolgerebbe
tutte le fattispecie astratte di  dichiarazione  fraudolenta,  omessa
dichiarazione, emissione di fatture per operazioni inesistenti, ecc.,
previste dagli articoli 2, 5 e 8 del decreto legislativo  n.  74  del
2000,  bensi'  soltanto  le  fattispecie  concrete  che  «ledono  gli
interessi finanziari dell'Unione europea»; non e' il «tipo di  reato»
che viene assunto a discrimen del differente trattamento, ragionevole
in  virtu'  del  maggior  allarme  sociale   o   della   complessita'
dell'accertamento, ma il «tipo di fatto», in quanto  offensivo  degli
interessi finanziari dell'Unione europea. 
    Tale  conseguenza  comporta  una  violazione  del  principio   di
ragionevolezza (art.  3  della  Costituzione),  in  quanto  determina
«ingiustificabili  sperequazioni  di  trattamento   tra   fattispecie
omogenee»:  la  stessa  fattispecie,  in  ipotesi  di   dichiarazione
fraudolenta,  ove  lesiva  degli  interessi  finanziari   dell'Unione
europea, sarebbe  sottoposta  ad  un  prolungamento  dei  termini  di
prescrizione; ove risulti lesiva di interessi finanziari «domestici»,
sarebbe disciplinata dagli ordinari termini di prescrizione. 
    La medesima tipologia di fattispecie astratta, del resto, esclude
che la sperequazione di trattamento possa essere giustificata  da  un
maggior  allarme  sociale  ovvero  da  una  maggior  complessita'  di
accertamento. 
    4.10. Il principio del rispetto dei controlimiti alle limitazioni
di sovranita' (art. 11 della Costituzione). 
    Come si  e'  gia'  evidenziato  infra  §  4.1,  la  dottrina  dei
«controlimiti» non va intesa come una forma di resistenza degli Stati
nazionali   ai   processi   di    integrazione    sovranazionale    e
internazionale, ma l'espressione rigorosa della sovranita'  popolare,
nella sua dimensione irrinunciabile. 
    Come lucidamente osservato nella dottrina costituzionalistica, vi
e' infatti una corrispondenza biunivoca tra controlimiti e sovranita'
popolare, nel senso che se «la sovranita' appartiene al  popolo,  che
la esercita nelle forme e nei  limiti  della  Costituzione»  (art.  1
della Costituzione),  non  e'  il  popolo -  privo  di  soggettivita'
internazionale -, ma lo  Stato  italiano  a  «consentire  (...)  alle
limitazioni  di  sovranita'»  (art.   11   della   Costituzione);   i
controlimiti rappresentano, dunque, lo strumento  costituzionale  per
esercitare,  nelle  «forme  e  nei  limiti»  della  Costituzione,  la
sovranita' popolare, che puo' essere limitata, ma non  ceduta;  e  le
limitazioni non possono  compromettere  la  dimensione  dei  principi
fondamentali della Costituzione, alterando l'identita' costituzionale
dell'ordinamento nazionale. 
    Peraltro, i «controlimiti» assumono rilevanza  sia  in  negativo,
nella  prospettiva   nazionale   (ai   sensi   dell'art.   11   della
Costituzione) e nella prospettiva eurounitaria  (ai  sensi  dell'art.
4.2 Trattato sull'Unione europea, e, per alcuni  principi,  anche  ai
sensi dell'art. 6.3 Trattato sull'Unione europea), sia  in  positivo,
quali riflessi dei limiti alle attribuzioni dell'Unione imposti dagli
stessi Trattati (articoli 83, 258 e 325  Trattato  sul  funzionamento
dell'Unione europea). 
    4.10.1. Nella consapevolezza che l'identificazione  dei  principi
supremi dell'ordinamento costituzionale italiano non  possa  derivare
da  un   ragionamento   di   carattere   assiomatico,   i   parametri
costituzionali  invocati  -  irretroattivita'  della  norma   penale,
riserva  di  legge,  tassativita',  diritto  di   difesa,   finalita'
rieducativa della pena, uguaglianza,  ragionevolezza,  divisione  dei
poteri - appaiono a questa Corte principi che  connotano  in  termini
imprescindibili l'identita' costituzionale  del  nostro  ordinamento;
principi la cui erosione, conseguente agli  effetti  derivanti  dalla
sentenza della Corte di giustizia in re Taricco, segnerebbe il limite
di non riconoscibilita' dell'ordine costituzionale. 
    In tal senso, va evidenziato che il profilo dei «controlimiti» e'
legato non  soltanto  all'individuazione  ed  alla  salvaguardia  del
principi  supremi,  ma  altresi'  alle  limitazioni   di   sovranita'
consentite dall'art. 11 della Costituzione. 
    Ebbene, le limitazioni di sovranita', oltre a non poter tracimare
in  vere   e   proprie   cessioni   di   sovranita',   intanto   sono
costituzionalmente legittime, in quanto siano adottate «nelle forme e
nei limiti» previsti dalle fonti che le consentono. 
    Al  riguardo,  il   Trattato   sull'Unione   europea,   stipulato
dall'Italia, e fonte delle «limitazioni di sovranita'» consentite  ai
sensi  dell'art.  11  della  Costituzione,  prevede,  all'art.   4.2:
«l'Unione  rispetta  l'uguaglianza  degli  Stati  membri  davanti  ai
trattati e la loro identita' nazionale insita  nella  loro  struttura
fondamentale, politica e costituzionale, compreso  il  sistema  delle
autonomie locali e regionali. Rispetta le funzioni  essenziali  dello
Stato, in particolare le  funzioni  di  salvaguardia  dell'integrita'
territoriale, di mantenimento dell'ordine pubblico e di tutela  della
sicurezza nazionale. In particolare, la sicurezza nazionale resta  di
esclusiva competenza di ciascuno Stato membro». 
    I parametri costituzionali invocati, come si e'  gia'  osservato,
connotano in termini imprescindibili l'identita'  costituzionale  del
nostro ordinamento, essendo  «insiti»  nella  struttura  fondamentale
dello Stato italiano. 
    Ma gli stessi parametri possono essere considerati altresi' quali
principi generali della stessa Unione europea, in quanto comuni  -  i
principi    della    divisione    dei    poteri,    dell'uguaglianza,
dell'irretroattivita' della legge penale, del  diritto  di  difesa  -
alle  tradizioni  costituzionali  degli  Stati  membri,   e   percio'
insuscettibili di compromissione da parte  delle  stesse  Istituzioni
europee. 
    In tal senso, l'art. 6.3 Trattato sull'Unione  europea  sancisce:
«I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali  e
risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati  membri,
fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali». 
    Ebbene,  la  consistenza  di  principi  supremi   dei   parametri
invocati,  che,  a  parere  di  questa  Corte,  vengono   compromessi
dall'obbligo di disapplicazione sancito della sentenza della Corte di
giustizia  in  re  Taricco,  dovrebbe   attrarli   nella   sfera   di
intangibilita' propria dei «principi generali»  della  stessa  Unione
europea  (art.  6.3  Trattato  sull'Unione  europea);  peraltro,   se
l'estensione  dei  diritti  fondamentali  garantiti   dall'art.   6.3
Trattato   sull'Unione   europea   e'   circoscritta   ai    principi
costituzionali risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli
Stati   membri   -   i   principi   della   divisione   dei   poteri,
dell'uguaglianza,  dell'irretroattivita'  della  legge  penale,   del
diritto di difesa -, la salvaguardia  degli  altri  principi  supremi
invocati quali controlimiti - riserva di legge, finalita' rieducativa
della  pena,  tassativita'  -  e'  garantita  in  modo   maggiormente
pregnante dall'art. 4.2 Trattato sull'Unione europea. 
    L'art.  4.2,  infatti,  nell'affermare  che   l'Unione   rispetta
l'«identita'  nazionale»  degli  Stati  membri  insita   nella   loro
struttura fondamentale, politica e costituzionale, garantisce, a  sua
volta, l'intangibilita' dei c.d. «controlimiti», dei principi supremi
che connotano l'identita' costituzionale di un ordinamento nazionale. 
    Ne' potrebbe fondatamente obiettarsi  che  l'art.  4.2.  Trattato
sull'Unione  europea  avrebbe   'comunitarizzato'   i   controlimiti,
incorporandoli  nel  diritto  eurounitario,   e   trasformandoli   da
controlimiti  esterni  in  semplici  limiti  interni  all'ordinamento
dell'Unione    europea;     come     osservato     nella     dottrina
costituzionalistica, una tale interpretazione, infatti,  snaturerebbe
la funzione stessa dei controlimiti, neutralizzandone i contenuti, in
quanto la gestione ed il rispetto dei controlimiti  sarebbe  affidato
all'ordinamento (in tal caso, 'eurounitario') nei cui confronti  essi
vengono  opposti;  in  tal  senso,  la  norma  del  Trattato  sarebbe
costituzionalmente illegittima per  contrasto  con  il  metaprincipio
supremo della intangibilita' dei principi supremi. 
    Resta,   dunque,   integra   l'esclusivita'   della    competenza
dell'ordinamento costituzionale nazionale ad affermare i caratteri ed
il contenuto della propria identita' nazionale,  nelle  forme  e  nei
modi previsti dalla Costituzione. 
    Cio' che l'art. 4.2 Trattato sull'Unione europea aggiunge  e'  la
garanzia  che  le  stesse  Istituzioni  eurounitarie  sono  tenute  a
rispettare l'identita' costituzionale degli Stati membri;  e  dunque,
in caso di violazione di tale  limite,  l'ordinamento  nazionale  che
registrasse   un   mancato   rispetto   della    propria    identita'
costituzionale  sarebbe,  da  un  lato,  legittimata  (ai  sensi  del
Trattato sull'Unione),  e,  dall'altro,  obbligata  (ai  sensi  della
Costituzione interna), ad opporre i «controlimiti» alla  penetrazione
del diritto sovranazionale  ritenuto  irriducibilmente  incompatibile
con i principi supremi della propria Costituzione. 
    Lungi  dall'innescare  pretese  'guerre'   tra   Corti,   o   tra
ordinamenti, dunque, l'opposizione dei «controlimiti»  non  e'  altro
che una fisiologica actio finium regundorum tra ordinamento nazionale
e  ordinamento  sovranazionale,  nel  complesso   e   multifattoriale
processo  di  integrazione  europea,   alla   stregua   delle   norme
costituzionali (art. 11 della Costituzione)  e  internazionali  (art.
4.2 Trattato  sull'Unione  europea)  che  ne  regolano  l'evoluzione,
delimitando - finche' si tratti di  Unione,  e  non  di  fusione,  di
ordinamenti - le rispettive attribuzioni. 
    4.10.2.  Sotto  tale  profilo,   dei   limiti   alle   competenze
dell'Unione, pur non rientrando nel perimetro di sindacabilita' della
Corte costituzionale, concernendo il profilo, spettante  agli  organi
sovranazionali,  dell'interpretazione  ed  applicazione  del  diritto
dell'Unione, va nondimeno rilevato che la sentenza Taricco  travalica
i  confini  delle  attribuzioni  riconosciute   dal   Trattato   alle
istituzioni dell'Unione. 
    Invero,  come  gia'  osservato  supra  §  4.4.1.  nella   diversa
prospettiva del principio di riserva di legge statale,  la  Corte  di
giustizia individua la «base  legale»  per  la  tutela  penale  degli
interessi finanziari dell'Unione europea nell'art. 325  Trattato  sul
funzionamento  dell'Unione  europea,  che,  come  si   evince   dalla
collocazione e dal tenore,  non  e'  una  norma  penale;  l'art.  325
Trattato sul  funzionamento  dell'Unione  europea,  infatti,  e'  una
disposizione sulla produzione delle leggi, rivolta agli Stati membri,
a carico dei quali pone un obbligo  di  risultato  preciso,  come  si
evince dal comma 2, secondo  cui  «Gli  Stati  membri  adottano,  per
combattere  contro  la  frode  che  lede  gli  interessi   finanziari
dell'Unione, le stesse misure che adottano per combattere  contro  la
frode che lede i loro interessi finanziari». 
    Da tale disposizione,  e  dal  complessivo  quadro  istituzionale
dell'Unione, deriva che l'eventuale inadeguatezza della tutela penale
apprestata da un ordinamento nazionale potrebbe essere sanzionata con
una procedura  di  inadempimento  dello  Stato  membro  (art.  258  e
seguenti, Trattato sul funzionamento dell'Unione europea),  non  gia'
con l'affermazione di  un  obbligo  di  disapplicazione  con  effetti
penali in malam partem rivolto ai giudici nazionali; oppure  l'Unione
avrebbe  la  possibilita',  alternativa,  di  esercitare   i   poteri
conferiti  dall'art.  83  Trattato  sul   funzionamento   dell'Unione
europea, mediante adozione di  direttive,  previo  inserimento  della
materia delle frodi nell'ambito  delle  competenze  penali  indirette
dell'Unione. 
    E qui si coglie l'ulteriore profilo di travalicarnento dei limiti
- che, come si e' evidenziato, incide sul rispetto dell'art. 11 della
Costituzione -, in quanto il Trattato dell'Unione  europea  riconosce
alle istituzioni 'eurounitarie', nell'ambito di  quelle  «limitazioni
di sovranita'» consentite dall'art. 11 della Costituzione, competenza
penale soltanto indiretta,  prevedendo  l'adozione  di  direttive  in
alcune  sfere  di  criminalita'  caratterizzate  da  una   dimensione
transnazionale; in tal senso, l'art. 83  Trattato  sul  funzionamento
dell'Unione  europea  prevede  che  «Il  Parlamento  europeo   e   il
Consiglio,  deliberando  mediante  direttive  secondo  la   procedura
legislativa ordinaria, possono stabilire norme minime  relative  alla
definizione dei reati e  delle  sanzioni  in  sfere  di  criminalita'
particolarmente grave che presentano  una  dimensione  transnazionale
derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o  da  una
particolare necessita' di combatterli su basi  comuni»;  e  tra  tali
'materie'  non  rientrano,  allo  stato,  le  frodi  agli   interessi
finanziari  dell'Unione,  essendo  previste  le  seguenti  'sfere  di
criminalita': «terrorismo, tratta degli esseri umani  e  sfruttamento
sessuale delle donne e dei minori, traffico illecito di stupefacenti,
traffico  illecito  di  armi,  riciclaggio  di  denaro,   corruzione,
contraffazione di mezzi  di  pagamento,  criminalita'  informatica  e
criminalita' organizzata». 
    L'assunzione dell'art. 325 Trattato sul funzionamento dell'Unione
europea quale  «base  legale»  per  la  tutela  penale  di  interessi
finanziari dell'Unione europea, dunque, oltre ad eccedere  la  natura
programmatica  della  disposizione,  finisce   per   attribuire   una
competenza penale diretta all'Unione, al di fuori degli stessi limiti
istituzionali previsti dal Trattato. 
    5. Alla stregua delle considerazioni che  precedono,  dunque,  va
proposta la questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  2
della legge 2 agosto  2008,  n.  130,  che  ordina  l'esecuzione  del
Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione  europea,  come  modificato
dall'art. 2 del Trattato di Lisbona del 13  dicembre  2007  (Trattato
sul funzionamento dell'Unione europea), nella parte in cui impone  di
applicare l'art. 325, § 1 e 2, Trattato sul funzionamento dell'Unione
europea, dal quale -  nell'interpretazione  fornita  dalla  Corte  di
giustizia, 8 settembre 2015, causa C -  105/14,  Taricco  -  discende
l'obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli articoli  160,
comma 3, e 161,  comma  2,  del  codice  penale,  in  presenza  delle
circostanze indicate nella sentenza europea, allorquando ne derivi la
sistematica impunita' delle gravi frodi in materia di IVA,  anche  se
dalla disapplicazione, e dal conseguente prolungamento del termine di
prescrizione, discendano  effetti  sfavorevoli  per  l'imputato,  per
contrasto di tale norma con i parametri di cui agli articoli  3,  11,
25, comma 2, 27, comma 3, 101, comma 2, della Costituzione. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Letto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87. 
    Solleva la questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  2
della legge 2 agosto  2008,  n.  130,  che  ordina  l'esecuzione  del
Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione  europea,  come  modificato
dall'art. 2 del Trattato di Lisbona del 13  dicembre  2007  (Trattato
sul funzionamento dell'Unione europea), nella  parte  che  impone  di
applicare l'art. 325, § 1 e 2, Trattato sul funzionamento dell'Unione
europea, dalla quale - nell'interpretazione fornita  dalla  Corte  di
giustizia, 8 settembre 2015, causa C -  105/14,  Taricco  -  discende
l'obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli articoli  160,
comma 3, e 161, comma 2, codice penale, in presenza delle circostanze
indicate  nella  sentenza,  allorquando  ne  derivi  la   sistematica
impunita' delle gravi  frodi  in  materia  di  IVA,  anche  se  dalla
disapplicazione, e  dal  conseguente  prolungamento  del  termine  di
prescrizione, discendano  effetti  sfavorevoli  per  l'imputato,  per
contrasto di tale norma con gli articoli 3,  11,  25,  comma  2,  27,
comma 3, 101, comma 2, della Costituzione. 
    Sospende  il  giudizio  in  corso,  ed  i  relativi  termini   di
prescrizione, fino  alla  definizione  del  giudizio  incidentale  di
legittimita' costituzionale. 
    Manda la Cancelleria per gli adempimenti di rito, disponendo  che
gli atti siano immediatamente trasmessi alla Corte costituzionale,  e
che l'ordinanza sia notificata alle parti ed al  pubblico  ministero,
nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri, e sia comunicata ai
Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
 
        Cosi' deciso in Roma il 30 marzo 2016. 
 
                        Il Presidente: Grillo 
 
 
                                   Il consigliere estensore: Riccardi