N. 212 ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 luglio 2016
Ordinanza dell'8 luglio 2016 della Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di Cestari Mauro e altri. Reati e pene - Frode all'IVA - Prescrizione - Obbligo per il giudice, in applicazione dell'art. 325 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea (TFUE), come interpretato dalla Corte di giustizia europea, sentenza 8 settembre 2015, causa C-105/14, Taricco, di disapplicare gli artt. 160, terzo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., anche se dalla disapplicazione, e dal conseguente prolungamento del termine di prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l'imputato. - Legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull'Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunita' europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), art. 2.(GU n.41 del 12-10-2016 )
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Terza Sezione Penale Composta da: Renato Grillo - Presidente; Oronzo De Masi; Enrico Manzon; Aldo Aceto; Giuseppe Riccardi - relatore, ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto da: Cestari Mauro, nato a Rovigo il 17 febbraio 1957; Sbarro Francesco Pasquale, nato a Presicce il 10 aprile 1968; Bertoni Mauro, nato a Ferrara il 2 aprile 1959; Maestri Franco, nato a Copparo (Ferrara) il 21 aprile 1949; Ferraretti Patrizia, nata a Ferrara il 14 luglio 1956; Avverso la sentenza del 26 maggio 2015 della Corte di appello di Bologna. Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; Udita la relazione svolta dal consigliere Giuseppe Riccardi; Udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto procuratore generale Mario Fraticelli, che ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio per Bertoni, ed il rigetto degli altri ricorsi; Uditi i difensori, avv. N. Mazzacuva (per Bertoni), avv. M. La Marra e L. Veronesi (per Maestri), che hanno concluso chiedendo l'accoglimento dei ricorsi. Ritenuto in fatto 1. Con sentenza dell'11 ottobre 2013 il Tribunale di Ferrara condannava Sbarro Francesco Pasquale alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione, Bertoni Mauro alla pena di anni tre, mesi otto e giorni quindici di reclusione, Maestri Franco alla pena di anni tre, mesi sei e giorni quindici di reclusione, Cestari Mauro alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione, Ferraretti Patrizia alla pena di anni uno, mesi sei e giorni quindici di reclusione, per i reati loro rispettivamente ascritti di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di una pluralita' di reati tributari di emissione di fatture per operazioni inesistenti, limitatamente ai primi tre, e per i reati di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti (art. 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000), di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000), di omessa dichiarazione (art. 5 del decreto legislativo n. 74 del 2000), di omesso versamento di IVA (art. 10-ter del decreto legislativo n. 74 del 2000), e di occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10 del decreto legislativo n. 74 del 2000), per tutti. In particolare, Sbarro Francesco Pasquale veniva ritenuto responsabile dei reati di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati fiscali (art. 416 del codice penale, contestato al capo A, commesso fino al 19 giugno 2008), dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti (art. 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000, contestato al capo AQ, commesso il 30 settembre 2008), emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000, contestato ai capi B, C, D, G, H, L, M, P, Q, 5, T, V, AA, AD, AS, AT, AU), omessa dichiarazione (art. 5 del decreto legislativo n. 74 del 2000, contestato al capo Z, AC commesso il 30 dicembre 2008), omesso versamento di IVA (art. 10-ter del decreto legislativo n. 74 del 2000, contestato ai capi L, S, V, AD, O, U), e occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10 del decreto legislativo n. 74 del 2000, contestato ai capi I, N, R, AB). Bertoni Mauro veniva ritenuto responsabile dei reati di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati fiscali (art. 416 del codice penale, contestato al capo A, commesso fino al 19 giugno 2008), emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000, contestato ai capi B, C, D, AS, AT, AU). Maestri Franco veniva ritenuto responsabile dei reati di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati fiscali (art. 416 del codice penale, contestato al capo A, commesso fino al 19 giugno 2008), e di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000, contestato ai capi C, AS, AT). Cestari Mauro veniva ritenuto responsabile dei reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000, contestato ai capi Q, AA), omessa dichiarazione (art. 5 del decreto legislativo n. 74 del 2000, contestato al capo AC commesso il 30 dicembre 2008), e occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10 del decreto legislativo n. 74 del 2000, contestato ai capi R, AB). Ferraretti Patrizia veniva ritenuta responsabile dei reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000, contestato al capo T), e di omesso versamento di IVA (art. 10-ter del decreto legislativo n. 74 del 2000, contestato al capo U). Cestari, Sbarro e Maestri venivano assolti dal reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis del codice penale, contestato, in concorso con altri coimputati, al capo AV). 1.2. Con sentenza del 26 maggio 2015 la Corte di appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza di primo grado, assolveva Bertoni, Maestri e Sbarro dal reato associativo, e dichiarava estinti per prescrizione i reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti di cui ai capi C e AS (limitatamente ai fatti commessi fino al 18 febbraio 2007, e contestati a Sbarro, Maestri e Bertoni), ai capi H e L (contestati a Sbarro), e, riconosciute le attenuanti generiche a Bertoni, Maestri, Cestari e Ferraretti, rideterminava le pene inflitte in: anni 1, mesi 2, giorni 10 per Bertoni; anni 1, giorni 10 per Maestri; anni 2, mesi 7 e giorni 15 per Sbarro; anni 1 e mesi 2 per Cestari; anni 1 e giorni 15 per Ferraretti. 2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per cessazione il difensore di Cestari Mauro, avv. Gianni Ricciuti, deducendo i seguenti motivi di censura, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disposizioni di attuazione del codice di procedura penale. 2.1. Vizio di motivazione: la responsabilita' del Cestari, amministratore della CBS dal 3 ottobre 2007 al 19 giugno 2008 e della SISCO dal 2 maggio 2007, non e' sufficiente a fondarne la responsabilita' per il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti; la CBS era una societa' commerciale gia' operante da molti anni, non creata fittiziamente; la sentenza impugnata non ha poi considerato le dichiarazioni di Sbarro, che ha riferito di non aver coinvolto il Cestari nel meccanismo truffaldino, ne' di averlo remunerato, ma di avergli solo proposto di assumere la carica in virtu' del rapporto di risalente amicizia e fiducia; l'inconsapevolezza del Cestari si desume dal fatto che si limitava ad apporre saltuariamente una firma su un atto pubblico di vendita; del resto, il coinvolgimento di Cestari non emerge neppure dalle numerose intercettazioni telefoniche; anzi, dalla conv. n. 1703 del 23 giugno 2008, captata dopo le perquisizioni, Sbarro dichiara di voler chiarire la posizione di «tutti» quelli che gli chiedevano «chiarimenti», evidentemente perche' non a conoscenza del meccanismo truffaldino; manca, dunque il dolo specifico di evasione, anche nel reato di omessa dichiarazione di cui all'art. 5 del decreto legislativo n. 74 del 2000. 2.2. Vizio di motivazione e violazione di legge in relazione al reato di occultamento di documenti contabili: e' lo stesso Sbarro ad aver dichiarato di aver distrutto la documentazione contabile, e di aver dato disposizione ai «suoi» amministratori, dopo l'intervento della Polizia tributaria, di far sparire la contabilita' residua, avendo contezza diretta dell'esecuzione solo in merito a Buzzoni e ad un altro; inoltre, per la societa' SISCO non risulta documentazione occultata; l'affermazione di responsabilita' violerebbe dunque il principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio. 3. Ricorre per cassazione il difensore di Sbarro Francesco Pasquale, avv. Matteo Murgo, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione alla concreta commisurazione della pena: lamenta che la pena base determinata sul reato ritenuto piu' grave, il capo AS, sia stata individuata in anni 2 e mesi 8 di reclusione, a differenza di quanto determinato per i correi Bertoni e Maestri, la cui pena base e' stata individuata in anni 1 e mesi 6. Il differente trattamento non sarebbe motivato. Inoltre, la sentenza impugnata, pur assolvendo dal reato associativo, e dichiarando prescritti alcuni reati, non motiva in ordine alla censurata eccessivita' della pena base e degli aumenti per la continuazione. Del resto, sebbene Sbarro fosse l'ideatore del delitto di cui al capo AS, i correi Bertoni e Maestri avevano aderito alla volizione criminosa, e, come evidenziato dalla sentenza di 1° grado, solo il primo aveva cooperato nella ricostruzione dei fatti, meritando il riconoscimento delle attenuanti generiche. 4. Ricorre per cassazione il difensore di Bertoni Mauro, avv. Nicola Mazzacuva, deducendo i seguenti motivi. 4.1. Violazione di legge processuale e vizio di motivazione; lamenta che, benche' la Corte di appello abbia riconosciuto che Bertoni non fosse un «responsabile commerciale», ma un mero «addetto alle vendite», privo di potere decisionale e gestionale, nondimeno ha ritenuto tale contributo (consistente nel girare al Maestri la proposta dello Sbarro di vendere veicoli alle sue societa' sanmarinesi) rilevante ai fini del concorso di persone; egli tuttavia non aveva alcuna autonomia nella politica aziendale della Automec, e riceveva solo una gratifica di 100/200 euro da Sbarro per ogni veicolo trattato; in ogni caso, non e' stato operato un vaglio di attendibilita' delle dichiarazioni rese dal coimputato Sbarro. Manca inoltre la consapevolezza del 'sistema' di frode carosello, non ricorrendo elementi dai quali desumere che le modalita' di vendita fossero non gia' un semplice tentativo di vendere un numero maggiore di veicoli, ma un modo per eludere il divieto della casa madre Mercedes di vendere ai c.d. «salonisti»; del resto, egli non partecipava agli incontri della dirigenza della concessionaria, era un mero dipendente, come si evince anche dalle intercettazioni telefoniche; ne' sono sufficienti le dichiarazioni etero accusatorie di Sbarro, le cui chiamate in correita' di Baruzzi, Armani e Giovannini pure non sono state ritenute attendibili. Manca dunque il dolo di evasione necessario per integrare il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti: il cedente, dinanzi alle dichiarazioni di intenti presentate dagli acquirenti, non e' tenuto ad eseguire ulteriori controlli. Inoltre, la sentenza impugnata viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, in quanto, senza trasmettere gli atti al P.M., disconosce il ruolo di responsabile commerciale della Automec contestata, affermando il ruolo di mero dipendente. 4.2. Violazione di legge sostanziale e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del dolo: la consapevolezza di partecipare alla complessiva frode fiscale e' desunta solo dal modico compenso che Sbarro afferma di riconoscere; nel richiamare la sentenza delle Sezioni unite n. 38343 del 2014 sul dolo eventuale, lamenta che l'affermazione del dolo sia fondata su parziali risultanze probatorie e su formule di stile, che dissimulano una carenza di motivazione. 4.3. Violazione di legge processuale e vizio di motivazione in relazione al concorso di persone: la sentenza impugnata, pur ritenendo estranei gli amministratori ed i dirigenti amministrativi della societa', nonche' l'impiegata (Giovannini) che predisponeva le fatture, ha affermato il concorso del Bertoni, senza motivare in ordine al contributo fornito; i reati tributari sono reati propri, 'di mano propria', il cui autore puo' essere solo il titolare della qualifica soggettiva che lo rende destinatario dell'obbligo fiscale; il riconoscimento del concorso di persone nel reato proprio richiedeva l'enucleazione di un contributo causale punibile. 4.4. Violazione di legge processuale in relazione al principio del ne bis in idem: l'Agenzia delle entrate ha definito il relativo procedimento amministrativo mediante irrogazione di sanzioni, rientranti, in ragione del grado di afflittivita' e gravita', nella materia penale; alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (Grande Stevens c. Italia), l'irrogazione di sanzioni tributarie deve ritenersi avere natura sostanzialmente penale, ai sensi dell'art. 4 Protocollo n. 7 della Convenzione EDU, e quindi vige il divieto di un secondo giudizio in ordine ai medesimi fatti (Corte europea dei diritti dell'uomo, Nykanen c. Finlandia, 20 maggio 2014); in ogni caso, chiede che venga proposta questione di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, ai sensi dell'art. 267 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, ovvero, in subordine, questione di costituzionalita' alla Corte costituzionale, per contrasto con l'art. 117 della Costituzione. 4.5. Violazione di legge sostanziale e vizio di motivazione in ordine alla commisurazione della pena, per avere applicato la continuazione non gia' sulla base dei diversi reati di emissione di fatture individuati in relazione al periodo di imposta, bensi' sul capo AS, e sulle diverse societa' utilizzate. 4.6. Violazione di legge sostanziale e vizio di motivazione in ordine alla durata delle pene accessorie: l'art. 12 del decreto legislativo n. 74 del 2000 prevede la durata delle pene accessorie entro una cornice edittale, mentre l'art. 37 del codice penale, sancisce il principio di equivalenza cronologica; la sentenza impugnata non motiva sui parametri adoperati per la determinazione del quantum, ovvero sui criteri individuati dall'art. 37 o su quelli indicati dall'art. 133 del codice penale). 5. Ricorre per cassazione Maestri Franco, per il tramite dei propri difensori avv. Mattia la Marra e Livio Veronesi, deducendo i seguenti motivi. 5.1. Vizio di motivazione: richiamando ampi stralci dei motivi di appello, e della diversa valutazione delle prove proposta, lamenta che la sentenza impugnata non ha motivato in ordine alle doglianze proposte, e, in particolare, alla contraddittoria valutazione degli elementi di riscontro nei confronti dei coimputati Baruzzi e Baruffa, assolti, e Maestri, condannato, pur sulla base delle medesime dichiarazioni etero accusatorie di Sbarro. 5.2. Violazione di legge in relazione al principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio: il quadro probatorio sarebbe contraddittorio, e non risulta il dolo di evasione ne' di compartecipazione del Maestri. 5.3. Chiede l'annullamento senza rinvio per essere i reati a lui ascritti estinti per prescrizione. 6. Ricorre per cassazione Ferraretti Patrizia, per il tramite del proprio difensore avv. Dario Bolognesi, deducendo i seguenti motivi. 6.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al dolo di evasione: l'imputata si e' limitata a rivestire la carica di amministratore di diritto della Global Service s.r.l. solo per tre o quattro mesi, senza occuparsi di contabilita' e della gestione del conti correnti; l'affermazione di responsabilita' sarebbe fondata sul mero dovere di vigilanza e controllo dell'amministratore, senza alcuna motivazione in ordine alle censure proposte in appello; la violazione del dovere di vigilanza puo' essere addebitato a titolo di colpa, non di dolo; del resto, il dolo specifico di evasione richiesto dall'art. 8 non e' compatibile neppure con un dolo eventuale. 6.2. Violazione di legge in relazione alla modifica dell'art. 10-ter del decreto legislativo n. 74 del 2000: con il decreto legislativo n. 158 del 2015 la soglia di punibilita' e' stata elevata a € 250.000,00, e quindi l'omesso versamento IVA per un importo di € 125.978,00 e' divenuto penalmente irrilevante. 6.3. Violazione di legge processuale: con ordinanza del 25 gennaio 2013 il Tribunale di Ferrara rigettava la richiesta di rinvio dell'udienza avanzata ai sensi dell'art. 11, comma 13-quater, decreto-legge n. 174 del 2012, che sanciva la sospensione dei «termini processuali, comportanti prescrizioni e decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione», erroneamente ritenendo che la norma non si applicasse ai procedimenti penali. Considerato in diritto 1. Oggetto della questione di legittimita' costituzionale. E' rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130, che ordina l'esecuzione del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, come modificato dall'art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (Trattato sul funzionamento dell'Unione europea), nella parte che impone di applicare l'art. 325, § 1 e 2, Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, dal quale - nell'interpretazione fornita dalla Corte di giustizia, 8 settembre 2015, causa C - 105/14, Taricco - discende l'obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli articoli 160, comma 3, e 161, comma 2, del codice penale, in presenza delle circostanze indicate nella sentenza europea, allorquando ne derivi la sistematica impunita' delle gravi frodi in materia di IVA, anche se dalla disapplicazione, e dal conseguente prolungamento del termine di prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l'imputato, per contrasta di tale norma con gli articoli 3, 11, 25, comma 2, 27, comma 3, 101, comma 2, della Costituzione. 2. La decisione della Corte di giustizia. La Corte di giustizia Unione europea, Grande sezione, con sentenza emessa l'8 settembre 2015 (causa C - 105/14, Taricco), pronunziandosi sul rinvio pregiudiziale proposto, ai sensi dell'art. 267 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Cuneo con ordinanza del 17 gennaio 2014, in un procedimento penale riguardante reati in materia di imposta sul valore aggiunto (IVA) del tutto analoghi a quelli oggetto del presente procedimento, ed integranti il consueto schema della c.d. «frode carosello», ha statuito: «Una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato come quella stabilita dal combinato disposto dell'art. 160, ultimo comma, del codice penale, come modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, e dell'art. 161 di tale codice - normativa che prevedeva, all'epoca dei fatti di cui al procedimento principale, che l'atto interruttivo verificatosi nell'ambito di procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia di imposta sul valore aggiunto comportasse il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale - e' idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall'art. 325, paragrafi 1 e 2, Trattato sul funzionamento dell'Unione europea nell'ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione piu' lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea, circostanze che spetta al giudice nazionale verificare. Il giudice nazionale e' tenuto a dare piena efficacia all'art. 325, paragrafi 1 e 2, Trattato sul funzionamento dell'Unione europea disapplicando, all'occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dall'art. 325, paragrafi 1 e 2, Trattato sul funzionamento dell'Unione europea.». 2.1. La Corte di Lussemburgo, nel solco del precedente Fransson (Grande sezione, sentenza del 26 febbraio 2013, C-617/10), ha ribadito la propria giurisdizione sulla materia della sanzione delle frodi fiscali, attratta al livello sovranazionale in ragione del possibile impatto finanziario sul bilancio Unione europea di un gettito ridotto a causa dell'inadeguatezza di una disciplina nazionale (§ 38: «La Corte ha in proposito sottolineato che, poiche' le risorse proprie dell'Unione comprendono in particolare, ai sensi dell'art. 2, paragrafo 1, lettera b), della decisione 2007/436, le entrate provenienti dall'applicazione di un'aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo regole dell'Unione, sussiste quindi un nesso diretto tra la riscossione del gettito dell'IVA nell'osservanza del diritto dell'Unione applicabile e la messa a disposizione del bilancio dell'Unione delle corrispondenti risorse IVA, dal momento che qualsiasi lacuna nella riscossione del primo determina potenzialmente una riduzione delle seconde»). Pur sottolineando la liberta' di scelta delle sanzioni applicabili spettante agli Stati membri, che «possono assumere la forma di sanzioni amministrative, di sanzioni penali o di una combinazione delle due, al fine di assicurare la riscossione di tutte le entrate provenienti dall'IVA e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell'Unione conformemente alle disposizioni della direttiva 2006/112 e all'art. 325 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea», la Corte di giustizia ha affermato che «possono tuttavia essere indispensabili sanzioni penali per combattere in modo effettivo e dissuasivo determinate ipotesi di gravi frodi in materia di IVA» (§ 39), in quanto l'art. 2, par. 1, della Convenzione PIF (firmata dagli Stati membri dell'Unione europea a Lussemburgo il 26 luglio 1995) prevede che «gli Stati membri devono prendere le misure necessarie affinche' le condotte che integrano una frode lesiva degli interessi finanziari dell'Unione siano passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno nei casi di frode grave, pene privative della liberta'» (§ 40). Sul fondamento di tale base legale la Corte ha sostenuto che «gli Stati membri devono assicurarsi che casi siffatti di frode grave siano passibili di sanzioni penali dotate, in particolare, di carattere effettivo e dissuasivo. Peraltro, le misure prese a tale riguardo devono essere le stesse che gli Stati membri adottano per combattere i casi di frode di pari gravita' che ledono i loro interessi finanziari» (§ 43). Alla stregua di tale principio, dunque, la Corte ha individuato nel giudice nazionale il destinatario del compito di «verificare alla luce di tutte le circostanze di diritto e di fatto rilevanti, se le disposizioni nazionali applicabili consentano di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo i casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell'Unione» (§ 44). Nel caso dell'ordinamento italiano, non essendo stati sollevati dubbi sul carattere dissuasivo delle sanzioni penali, o sul termine di prescrizione dei reati, bensi' sul prolungamento di tale termine, la Corte di giustizia ha affermato che «Qualora il giudice nazionale dovesse concludere che dall'applicazione delle disposizioni nazionali in materia di interruzione della prescrizione consegue, in un numero considerevole di casi, l'impunita' penale a fronte di fatti costitutivi di una frode grave, perche' tali fatti risulteranno generalmente prescritti prima che la sanzione penale prevista dalla legge possa essere inflitta con decisione giudiziaria definitiva, si dovrebbe constatare che le misure previste dal diritto nazionale per combattere contro la frode e le altre attivita' illegali che ledono gli interessi finanziari dell'Unione non possono essere considerate effettive e dissuasive, il che sarebbe in contrasto con l'art. 325, paragrafo 1, Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, con l'art. 2, paragrafo 1, della Convenzione PIF nonche' con la direttiva 2006/112, in combinato disposto con l'art. 4, paragrafo 3, Trattato sull'Unione europea» (§ 47). Nondimeno, un secondo presupposto di 'illegittimita' comunitaria' viene individuato nella disparita' di trattamento sanzionatorio con i casi di frode lesivi dei soli interessi finanziari della Repubblica italiana, e riscontrato nella differente disciplina complessivamente prevista per il delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi di cui all'art. 291-quater decreto legislativo n. 43 del 1973 (§ 48: «Inoltre, il giudice nazionale dovra' verificare se le disposizioni nazionali di cui trattasi si applichino ai casi di frode in materia di IVA allo stesso modo che ai casi di frode lesivi dei soli interessi finanziari della Repubblica italiana, come richiesto dall'art. 325, paragrafo 2, Trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Cio' non avverrebbe, in particolare, se l'art. 161, secondo comma, del codice penale stabilisse termini di prescrizione piu' lunghi per fatti, di natura e gravita' comparabili, che ledano gli interessi finanziari della Repubblica italiana. Orbene, come osservato dalla Commissione europea nell'udienza dinanzi alla Corte, e con riserva di verifica da parte del giudice nazionale, il diritto nazionale non prevede, in particolare, alcun termine assoluto di prescrizione per quel che riguarda il reato di associazione allo scopo di commettere delitti in materia di accise sui prodotti del tabacco»). La conseguenza che ne fa derivare la Corte di giustizia, nel caso di verifica dell'ineffettivita' sanzionatoria o della disparita' di trattamento rispetto alle frodi lesive degli interessi finanziari nazionali, e' l'obbligo del giudice nazionale di disapplicare direttamente le disposizioni in materia di interruzione della prescrizione, senza la mediazione di una modifica legislativa o di un sindacato di costituzionalita', in virtu' dell'obbligo degli Stati membri di lottare contro attivita' illecite lesive degli interessi finanziari dell'Unione imposti dal diritto primario, ed in particolare dall'art. 325, par. 1 e 2, Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (§ 50), che «pongono a carico degli Stati membri un obbligo di risultato preciso e non accompagnato da alcuna condizione quanto all'applicazione della regola in esse enunciata» (§ 51). In forza del principio del primato del diritto dell'Unione, dunque, la Corte ha affermato l'effetto diretto dell'art. 325 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, che rende ipso iure inapplicabile qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale esistente (§ 52). 3. Rilevanza della questione. La questione di legittimita' che viene rimessa al sindacato di costituzionalita' ha rilevanza nel procedimento in corso, in quanto la sentenza Taricco ha un valore generale e vincola non soltanto il giudice a quo, ma anche tutti i giudici nazionali, nonche' la pubblica amministrazione (ex multis, Corte costituzionale, sentenza 13 luglio 2007, n. 284: «Le statuizioni della Corte di giustizia delle Comunita' europee hanno, al pari delle norme comunitarie direttamente applicabili cui ineriscono, operativita' immediata negli ordinamenti interni»; Corte costituzionale, n. 389/1989; Corte costituzionale, n. 113/1985). La stessa Corte di giustizia, nella sentenza Taricco, ha ribadito che «Qualora il giudice nazionale giungesse alla conclusione che le disposizioni nazionali di cui trattasi non soddisfano gli obblighi del diritto dell'Unione relativi al carattere effettivo e dissuasivo delle misure di lotta contro le frodi all'IVA, detto giudice sarebbe tenuto a garantire la piena efficacia del diritto dell'Unione disapplicando, all'occorrenza, tali disposizioni e neutralizzando quindi la conseguenza rilevata al punto 46 della presente sentenza, senza che debba chiedere o attendere la previa rimozione di dette disposizioni in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale» (§ 49). 3.1. Nel procedimento in oggetto ricorrono le condizioni dalle quali la Corte di giustizia fa discendere l'obbligo di disapplicazione delle norme di cui agli articoli 160, ultimo comma, e 161, comma 2, del codice penale. In particolare, ricorre la prima ipotesi di «illegittimita' comunitaria», per ineffettivita' della complessiva disciplina sanzionatoria delle frodi, non rilevando, nella fattispecie, la seconda ipotesi della disparita' di trattamento sanzionatorio con i casi di frode lesiva dei soli interessi finanziari della Repubblica italiana, e riscontrato nella differente disciplina complessivamente prevista per il delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi di cui all'art. 291-quater, decreto legislativo n. 43 del 1973, in quanto la sentenza della Corte di appello di Bologna ha assolto gli imputati, odierni ricorrenti, dall'imputazione di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati fiscali. I requisiti integranti la prima ipotesi di illegittimita' comunitaria sono: 1) la pendenza di un procedimento penale riguardante «frodi gravi» in materia di imposta sul valore aggiunto; 2) l'ineffettivita' delle sanzioni previste «in un numero considerevole di casi di frode grave» che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea. 3.2. Sotto il primo profilo, nel caso in esame, le imputazioni e la stessa sentenza della Corte di appello impugnata evidenziano che il procedimento penale riguarda frodi gravi in materia di IVA, suscettibili di ledere gli interessi finanziari dell'Unione europea, avendo ad oggetto uno dei piu' diffusi sistemi di frode IVA, nella prassi nota come «frode carosello», e fondata sull'abuso delle agevolazioni normative previste nel caso di cessioni tra i Paesi dell'Unione europea. In particolare, dalle imputazioni e dalla sentenza impugnata emerge che la frode carosello veniva realizzata mediante falsa fatturazione e violazione dell'obbligo fiscale in materia di IVA nel commercio di autoveicoli. Al riguardo, va premesso che per «frode carosello» si intende comunemente un meccanismo fraudolento dell'IVA attuato mediante varie cessioni di beni, in genere provenienti ufficialmente da un Paese dell'Unione europea, al termine del quale l'impresa italiana acquirente detrae l'IVA, nonostante il venditore compiacente non l'abbia versata; a tal fine, in genere viene interposto un soggetto, c.d. «societa' filtro», nell'acquisto di beni tra il reale venditore ed il reale acquirente; quest'ultimo risulta formalmente aver acquistato il bene dalla «societa' filtro», che emette una fattura con IVA, ma omettendo di versarla, mentre l'acquirente si crea una corrispondente detrazione. Secondo la ricostruzione operata dalla sentenza della Corte di appello, la vendita di autovetture da parte della concessionaria Automec s.p.a. avveniva mediante emissione di fattura ad imprese aventi sede all'estero (inizialmente San Marino, poi, in seguito all'introduzione di limitazioni all'importazione di veicoli, Ungheria e Slovenia), e senza applicazione dell'IVA, come cessioni all'esportazione non imponibili ai sensi degli articoli 8 e 71, decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972; veniva tuttavia accertato che le vendite erano in realta' fittizie, perche' le vetture, nel caso di San Marino, venivano immediatamente riportate in Italia, simulando una riesportazione senza versamento di imposta; successivamente, con fittizia interposizione, un formale acquirente (di regola, una societa' c.d. «cartiera») emetteva fattura con IVA, a propria volta, verso altra impresa (di solito, un c.d. «salonista»), che poi collocava sul mercato al dettaglio le vetture con prezzo concorrenziale, perche' «sgravato» dall'onere fiscale, in quanto l'IVA non veniva versata dalla societa' interposta, ed era computata a credito dalla ditta beneficiaria. Nel caso delle vendite alle societa' con sede in Ungheria e Slovenia, invece, il meccanismo, identico, divergeva solo per la circostanza che le vetture non abbandonavano il territorio italiano. Tutte le societa' all'estero che si interponevano nell'acquisto fittizio (Class Rent s.r.l., Gold Car s.r.l., In Auto s.r.l., Auto Skeinet e ACR) erano di fatto gestite da uno degli odierni imputati (Sbarro Francesco Pasquale). La seconda modalita' frodatoria veniva posta in essere mediante le vendite a ditte munite della c.d. «lettera di intenti», sfruttando il meccanismo che autorizzava le vendite in regime di esenzione IVA per gli operatori commerciali dichiaratisi «esportatori abituali»; la concessionaria Automec, dunque, fatturava alla ditta cessionaria in regime di esenzione IVA, senza che questa avesse i requisiti di esportatore abituale; il successivo cessionario (il c.d. «salonista») creava un indebito credito d'imposta ed otteneva la disponibilita' del bene a prezzo inferiore a quello di mercato, con conseguenti vantaggi nella vendita al dettaglio; anche in tal caso, le societa' «cartiere», e falsi esportatori abituali, erano tutte gestite, di fatto, dal medesimo Sbarro Francesco Pasquale. Mutuando lo schema frequente nel settore del commercio automobilistico, il meccanismo frodatorio veniva dunque attuato con l'inserimento di un soggetto fittizio (interposto) che effettuava formalmente l'acquisto intracomunitario per conto dell'effettivo acquirente (interponente); il primo ometteva il versamento dell'imposta dovuta, mentre il secondo fruiva di indebite detrazioni d'imposta derivanti dalle fatture soggettivamente inesistenti emesse dal soggetto interposto. Dalle molteplici imputazioni per il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8, decreto legislativo n. 74/2000) e dalla ricostruzione operata in sentenza emerge, dunque, il meccanismo di frode all'IVA noto con il nome di «frode carosello», realizzato strumentalizzando a fini illeciti la normativa sugli acquisti intracomunitari (che consente al soggetto che acquista da un soggetto comunitario di compensare IVA a debito e IVA in detrazione, salvo applicare l'IVA in occasione della successiva rivendita in ambito nazionale), attraverso l'interposizione di un soggetto che acquisti fittiziamente dal fornitore comunitario e rivenda al reale compratore, cosi' assumendosi l'integrale debito d'imposta. L'effettivo acquirente si trova, in tal modo, ad utilizzare fatture sulle quali e' indicata l'IVA e ad assumere il correlativo diritto alla detrazione; gli importi pari all'IVA, formalmente versata dal reale acquirente all'interposto, non vengono tuttavia corrisposti all'Erario, ma «spartiti» tra i due interessati: di regola, infatti, il soggetto interposto non presenta alcuna dichiarazione (art. 5, decreto legislativo n. 74/2000), ovvero pur presentandola, non provvede al relativo versamento (art. 10-ter, decreto legislativo n. 74/2000). Tale circuito illecito determina un duplice vantaggio per il cliente finale, il quale acquista a un prezzo inferiore rispetto a quello di mercato e matura un indebito credito IVA, scaricando gli obblighi fiscali connessi al proprio debito di imposta sulla «cartiera» nazionale, che non provvedera' mai ad onorare tale debito. 3.3. Tanto premesso, deve ritenersi innanzitutto sussistente il requisito, pur non determinato dalla sentenza Taricco nei suoi esatti confini, della gravita' della frode: dalla lettura delle numerose imputazioni (29, esclusa quella per associazione per delinquere, in ordine alla quale e' stata infine pronunciata sentenza di assoluzione, non impugnata) e della sentenza della Corte di appello di Bologna emerge che il meccanismo frodatorio e' stato attuato mediante emissione di migliaia di fatture per imponibili significativi (aventi ad oggetto autovetture) e che l'omesso versamento IVA ha riguardato - limitandosi alle contestazioni dei reati di cui agli articoli 5 (capo Z, AC) e 10-ter (capi O, U) del decreto legislativo n. 74 del 2000 - la somma di almeno € 1.654.943,32. Una frode che abbia determinato evasioni fiscali per milioni di euro appare senz'altro connotata dal requisito della gravita'. Del resto, ai fini della determinazione della nozione di «gravita'» della frode in ambito sovranazionale, e dunque ai fini della rilevanza della questione di costituzionalita', va considerato il tenore dell'art. 2, par. 1, della Convenzione PIF (pure richiamata dalla sentenza Taricco, al § 6), che prevede: «Ogni Stato membro prende le misure necessarie affinche' le condotte di cui all'art. 1 nonche' la complicita', l'istigazione o il tentativo relativi alle condotte descritte all'art. 1, paragrafo 1, siano passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno, nei casi di frode grave, pene privative della liberta' che possono comportare l'estradizione, rimanendo inteso che dev'essere considerata frode grave qualsiasi frode riguardante un importo minimo da determinare in ciascuno Stato membro. Tale importo minimo non puo' essere superiore a [EUR] 50.000 (...)». 3.4. Va, inoltre, chiarito che nei concetto di «frode» grave, suscettibile di ledere gli interessi finanziari dell'Unione europea, assunto dalla Corte di giustizia quale presupposto per la disapplicazione dei termini massimi di prolungamento della prescrizione, devono ritenersi incluse, nella prospettiva dell'ordinamento penale italiano, non soltanto le fattispecie che contengono il requisito della fraudolenza nella descrizione della norma penale - come nel caso degli articoli 2, 3 e 11, decreto legislativo n. 74/2000 -, ma anche le altre fattispecie che, pur non richiamando espressamente tale connotato della condotta, siano dirette all'evasione dell'IVA. In tal senso milita non soltanto l'osservazione secondo la quale, opinando in senso contrario, si otterrebbe una irragionevole disparita' di trattamento in relazione a condotte comunque poste in essere al medesimo fine illecito, ma, altresi', la considerazione che proprio nelle operazioni fraudolente piu' complesse ed articolate (come le c.d. frodi carosello), e dunque maggiormente insidiose per il bene giuridico tutelato, le singole condotte, astrattamente ascrivibili alla tipicita' di fattispecie penali prive del requisito espresso della fraudolenza - soprattutto a quelle di cui agli articoli 5, 8, 10-ter, decreto legislativo n. 74/2000 -, rappresentano la modalita' truffaldina dell'operazione; sarebbe intrinsecamente irragionevole disapplicare le norme viziate da «illegittimita' comunitaria» in relazione alle sole fattispecie connotate dal requisito espresso della fraudolenza, e non disapplicarle nelle fattispecie - strettamente connesse sotto il profilo fattuale, ed indispensabili per la configurazione del meccanismo frodatorio - non connotate dal medesimo requisito. Ma a corroborare tale principio sovviene, oltre al richiamato profilo di irragionevolezza rilevante sotto il profilo fattuale, un ben piu' pregnante argomento interpretativo, rappresentato dalla definizione di «frode» rilevante nell'ordinamento sovranazionale: al riguardo, gia' l'art. 325 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, richiamato dalla Corte di giustizia dell'Unione europea quale norma di diritto primario fondante l'obbligo di disapplicazione, sancisce che «L'Unione e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attivita' illegali che ledono gli interessi finanziari dell'Unione (...)»; se, dunque, l'art. 325 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea rappresenta la base legale dell'obbligo di disapplicazione sancito dalla Corte di giustizia, esso ha ad oggetto «la frode e le altre attivita' illegali». Del resto, la Corte di giustizia dell'Unione europea ha affermato il principio in discussione con riferimento ad una «frode carosello» nella quale erano contestate, altresi', fattispecie penali prive del requisito espresso della fraudolenza nella descrizione normativa. Inoltre, nella consapevolezza, che dovrebbe essere comune negli ordinamenti occidentali di civil law, che il linguaggio normativo, soprattutto nel diritto penale, delimita gli spazi di liberta', e dunque e' essenziale nell'affermazione (e nelle diverse declinazioni) del principio di legalita', non puo' omettersi che la nozione di «frode» e' specificamente definita dall'art. 1 della Convenzione PIF come «qualsiasi azione od omissione intenzionale relativa (...) all'utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti cui consegua la diminuzione illegittima di risorse del bilancio generale (dell'Unione) o dei bilanci gestiti (dall'Unione) o per conto di ess(a)»; norma che viene richiamata dalla stessa sentenza Taricco a proposito dell'irrilevanza del fatto che l'IVA non venga riscossa direttamente per conto dell'Unione (§ 41). 3.5. Infine, con riferimento al secondo requisito individuato dalla Corte di giustizia per rendere obbligatoria la disapplicazione delle norme sul prolungamento dei termine di prescrizione, ed alla verifica, rimessa al giudice nazionale, di apprezzare l'ineffettivita' delle sanzioni previste «in un numero considerevole di casi di frode grave» che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea, va innanzitutto evidenziata l'estrema indeterminatezza del requisito, probabilmente piu' consono alle differenti esperienze ordinamentali di common law che pure integrano, sovente in maniera significativa, la matrice culturale e giuridica della giurisdizione europea. Al riguardo, premesso che tale requisito sara' oggetto di piu' ampia considerazione nella valutazione di non manifesta infondatezza della questione di costituzionalita', ove si consideri in astratto, ovvero con riferimento all'integralita' dei procedimenti pendenti dinanzi alle autorita' giudiziarie italiane, esso implicherebbe una prognosi di natura statistica che esula dai limiti cognitivi e valutativi del giudice, e anche di questa Corte; a cio' ostando non soltanto l'assenza di dati statistici affidabili, ma soprattutto l'orizzonte conoscitivo del singolo giudice, necessariamente limitato, dal vigente sistema processuale, ai fatti di causa, ovvero i fatti che si riferiscono all'imputazione, alla punibilita' e dai quali dipenda l'applicazione di norme processuali (art. 187 codice di procedura penale) rilevanti nel singolo processo, non gia' nella generalita' degli altri processi. Escluso che possa altresi' risolversi in una prognosi meramente empirica, fondata su soggettivismi di difficile verificabilita' (in senso epistemologico), il requisito del «numero considerevole di casi di frode grave» non puo' che intendersi, ai fini del giudizio di rilevanza della questione di costituzionalita' proposta, in concreto, con riferimento alle fattispecie oggetto del proprio giudizio. Ebbene, alla stregua di tale nozione, deve ritenersi che il requisito ricorra in ragione del numero estremamente significativo di operazioni fraudolente oggetto di contestazione, poste in essere tramite l'interposizione di numerose societa' nazionali ed estere, reiterate nell'arco di circa sei anni (dal 2003 al 2008), con il coinvolgimento di mezzi, uomini e strutture, e comportanti l'evasione dell'IVA per importi considerevoli, superiori al milione e mezzo di euro. 3.6. La rilevanza della questione proposta deriva, dunque, dalla circostanza che i numerosi reati contestati, ove i termini di prescrizione fossero calcolati secondo le norme di cui agli articoli 160 e 161 del codice penale, sarebbero pressoche' tutti estinti per prescrizione. Al riguardo, essendo previste, per i reati fiscali contestati di cui agli articoli 2, 5, 8, 10 e 10-ter, decreto legislativo n. 74 del 2000, pene non superiori ai sei anni di reclusione, il termine ordinario di prescrizione e' pari a sei anni; in caso di atti interruttivi, l'ultimo dei quali, nella specie, costituito dalla sentenza di condanna emessa il 26 maggio 2015 dalla Corte di appello, la prescrizione massima, in assenza di contestazione della recidiva, e' pari a sette anni e sei mesi. Giova soggiungere che il comma 1-bis dell'art. 17 del decreto legislativo n. 74 del 2000, che eleva i termini di prescrizione dei reati previsti dagli articoli da 2 a 10 del medesimo decreto di un terzo, e' stato aggiunto dal decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (convertito in legge 14 settembre 2011, n. 148), con legge successiva alla commissione dei reati contestati; la disposizione e', dunque, inapplicabile alla fattispecie in esame, non soltanto per la natura sostanziale della prescrizione, ma per la stessa previsione della disciplina transitoria contenuta nell'art. 2, comma 36-vicies bis del decreto-legge citato, che prevede che «Le norme di cui al comma 36-vicies semel si applicano ai fatti successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». Pertanto, prescindendo dai reati commessi fino al 18 febbraio 2007, in ordine ai quali la Corte di appello ha gia' dichiarato l'estinzione per prescrizione, e considerando il periodo di sospensione di mesi nove e giorni otto, sarebbe maturata, nella pendenza del presente giudizio di cassazione, la prescrizione dei reati commessi fino al 22 dicembre 2007. Al riguardo, va evidenziato che il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti, previsto dall'art. 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000, si perfeziona nel momento dell'emissione della singola fattura ovvero, ove si abbiano plurimi episodi nel corso del medesimo periodo di imposta, nel momento dell'emissione dell'ultimo di essi (Sez. 3, n. 6264 del 14 gennaio 2010, Ventura, Rv. 246193; Sez. 3, n. 10558 del 6 febbraio 2013, D'Ippoliti, Rv. 254759). Pertanto, dovrebbero considerarsi estinti per prescrizione i reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti contestati ai capi C (52 fatture, l'ultima delle quali emessa il 23 luglio 2007), D (55 fatture, l'ultima emessa il 5 dicembre 2007), H (3 fatture residue, l'ultima emessa il 21 marzo 2007), L (64 fatture residue, l'ultima emessa il 23 luglio 2007), M (11 fatture, l'ultima emessa il 14 settembre 2007), P (22 fatture, l'ultima emessa il 28 settembre 2007), V (14 fatture, l'ultima emessa il 12 settembre 2007), AA (20 fatture, l'ultima emessa l'11 ottobre 2007), AS (40 fatture residue, l'ultima emessa il 3 luglio 2007), AT (13 fatture, l'ultima emessa l'11 dicembre 2007), AU (2 fatture, l'ultima emessa il 21 dicembre 2007). La prescrizione, dunque, estinguerebbe 274 condotte criminose, contestate in continuazione, ovvero la maggior parte degli illeciti oggetto di imputazione; tale dato integra senz'altro, unitamente alle numerose condotte (dal 2003 al 18 febbraio 2007) per le quali e' stata gia' dichiarata la prescrizione, il «numero considerevole di casi di frode grave» che resterebbero impuniti in conseguenza della disciplina sul prolungamento, non oltre un quarto, del termine di prescrizione. 3.6.1. La concreta rilevanza della questione, inoltre, deriva dalla circostanza che, ad eccezione del reato sub H, la cui prescrizione sarebbe maturata il 28 luglio 2015, per tutti gli altri reati la prescrizione sarebbe decorsa successivamente alla pubblicazione della decisione della Corte di giustizia in re Taricco, dell'8 settembre 2015: il termine massimo sarebbe infatti decorso, rispettivamente, il 1° ottobre 2015 per i capi C e L, il 13 febbraio 2016 per il capo 0, il 22 novembre 2015 per il capo M, il 6 dicembre 2015 per il capo P, il 20 novembre 2015 per il capo V, il 19 dicembre 2015 per il capo AA, l'11 settembre 2015 per il capo AS, il 29 marzo 2016 per il capo AU. Al riguardo, infatti, non va omesso che in ordine alla efficacia dell'obbligo di disapplicazione si e' immediatamente registrata una divergenza interpretativa: la sentenza emessa da Sez. 3, n. 2210 del 15 settembre 2015, Pennacchini, Rv. 266121, ha disapplicato gli articoli 160 e 161 del codice penale nei confronti di imputati per i quali i termini di prescrizione erano gia' scaduti prima della decisione della Corte di giustizia dell'8 settembre 2015, sul rilievo che la sentenza Taricco fosse meramente dichiarativa del diritto dell'Unione; anche l'ordinanza n. 339 del 18 settembre 2015 (in Gazzetta Ufficiale n. 2 del 13 gennaio 2016) con la quale la Corte di appello di Milano ha sollevato (simile, ma non coincidente) questione di costituzionalita' ha promosso il giudizio incidentale sul presupposto che quasi tutti i reati in contestazione fossero gia' estinti per prescrizione (§ 4 del Ritenuto in fatto), e dunque, in considerazione del brevissimo lasso di tempo (dieci giorni) dalla pubblicazione della sentenza Taricco, prima dell'8 settembre 2015. Al contrario, nel solco di una autorevole dottrina, ed in coerenza con le conclusioni dell'avvocato generale nella causa Taricco dinanzi alla Corte di giustizia, la Sez. 4 di questa Corte ha ritenuto che i principi affermati dalla sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, Grande sezione, Taricco e altri dell'8 settembre 2015, C-105114, in ordine alla possibilita' di disapplicazione della disciplina della prescrizione prevista dagli articoli 160 e 161 del codice penale se ritenuta idonea a pregiudicare gli obblighi imposti a tutela degli interessi finanziari dell'Unione europea, non si applicano ai fatti gia' prescritti alla data di pubblicazione di tale pronuncia (3 settembre 2015), in tal senso reputando non rilevante la questione di costituzionalita' sollecitata (Sez. 4, n. 7914 del 25 gennaio 2016, Tormenti, Rv. 266078, contenente il refuso in ordine alla data di pubblicazione della sentenza della Corte di giustizia, emessa l'8 settembre 2015). A prescindere, per il momento, dalla condivisibilita' o meno dei due orientamenti richiamati, va al riguardo precisato che nel presente procedimento la rilevanza della questione va ribadita anche qualora dovesse ritenersi maggiormente persuasiva la tesi della non applicabilita' del dictum della Corte di giustizia ai fatti per i quali la prescrizione era gia' maturata prima della sentenza dell'8 settembre 2015, perche' i reati contestati risulterebbero invece estinti per prescrizione successivamente a tale data. Inoltre, la questione proposta appare rilevante perche', a differenza dell'ordinanza di costituzionalita' proposta dalla Corte di appello di Milano, ed in ordine alla quale si e' espressa la dottrina infra richiamata, questa Corte ha ritenuto di sollevare l'incidente di costituzionalita' sotto diversi aspetti, ulteriori rispetto a quello dell'irretroattivita' della legge penale; sotto tali profili, dunque, non rileva l'applicabilita' o meno dei principi affermati dalla sentenza Taricco anche ai reati (non gia' commessi, ma) per i quali il termine di prescrizione era gia' maturato prima dell'8 settembre 2015. 4. Non manifesta infondatezza della questione. Ricorrendo le condizioni indicate dalla Corte di giustizia che fondano l'obbligo, per il giudice nazionale, di disapplicare le norme interne di cui agli articoli 160, ultimo comma, e 161, comma 2, del codice penale, questa Corte dubita della compatibilita' di tale obbligo con una serie di fondamentali principi costituzionali. Va, al riguardo, premesso che l'interpretazione dei requisiti ritenuti dalla Corte di giustizia fondanti l'obbligo di disapplicazione - i concetti di «frode» e di gravita'» della frode, e la ricorrenza dei «numero considerevole di casi» -, lungi dal poter essere ritenuta intrinsecamente contraddittoria, e' necessariamente differente a seconda che venga operata ai fini della valutazione di rilevanza della questione di costituzionalita', ovvero ai fini del giudizio di non manifesta infondatezza. Il carattere indeterminato che, tra l'altro, connota i presupposti applicativi dell'obbligo di disapplicazione, da un lato fonda (almeno una parte delle perplessita' costituzionali che verranno illustrate, dall'altro necessita di essere colmato mediante un'attivita' «ermeneutica» - come si dira', sotto alcuni aspetti esulante dai confini dell'interpretazione -, indispensabile ai fini del giudizio di rilevanza della questione. L'alternativa sarebbe quella, pur autorevolmente sostenuta, della pratica inapplicabilita' dell'obbligo di disapplicazione per indeterminatezza dei presupposti; alternativa, tuttavia, non consentita, sia per la vigenza di un obbligo di fedelta' «comunitaria», sia per l'applicazione gia' operata anche da questa Corte (Sez. 3, n. 2210 del 15 settembre 2015, Pennacchini, Rv. 266121). 4.1. La dottrina dei «controlimiti». Secondo quanto ripetutamente riconosciuto dalla Corte costituzionale, «la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 della Costituzione), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggetta bili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana. Questa Corte, del resto, ha gia' riconosciuto in numerose decisioni come i principi supremi dell'ordinamento costituzionale abbiano una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale, sia quando ha ritenuto che anche le disposizioni del Concordato, le quali godono della particolare "copertura costituzionale" fornita dall'art. 7, comma secondo, della Costituzione, non si sottraggono all'accertamento della loro conformita' ai "principi supremi dell'ordinamento costituzionale" (vedi sentenze numeri 30 del 1971, 12 del 1972, 175 del 1973, 1 del 1977, 18 del 1982), sia quando ha affermato che la legge di esecuzione del Trattato della CEE puo' essere assoggettata al sindacato di questa Corte "in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana" (vedi sentenze numeri 183 del 1973, 170 del 1984)» (Corte costituzionale, n. 1146 del 29 dicembre 1988, § 2.1.). In particolare, nei rapporti tra ordinamento nazionale e ordinamento (all'epoca) comunitario, la Corte costituzionale ha riconosciuto la prevalenza del diritto sovranazionale nelle materie (in passato molto piu' circoscritte) di competenza dell'Unione, in ragione delle limitazioni di sovranita' cui lo Stato italiano ha consentito sulla base dell'art. 11 della Costituzione; nondimeno, proprio nell'ambito di tali rapporti, e' stata sovente ribadita la «garanzia del sindacato giurisdizionale di questa Corte sulla perdurante compatibilita' del Trattato con i predetti principi fondamentali" dell'ordinamento costituzionale o con i 'diritti inalienabili della persona umana» (Corte costituzionale, n. 183 del 27 dicembre 1973, § 9); anche nella sentenza n. 170 del 8 giugno 1984 e' stata ribadita la possibilita' che «la legge di esecuzione del Trattato possa andar soggetta al suo sindacato, in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana», quanto alle disposizioni che «si assumano costituzionalmente illegittime (...) in relazione al sistema o al nucleo essenziale dei suoi principi» (§ 7). La dottrina dei «controlimiti», elaborata come argine rispetto ad eventuali violazioni dei principi fondamentali della Costituzione e dei diritti inviolabili da parte delle fonti degli ordinamenti sovranazionale e internazionale, del diritto concordatario e delle stesse leggi costituzionali e di revisione, e' stata concretamente «azionata» con riferimento al principio - ritenuto, appunto, supremo - del diritto alla tutela giurisdizionale sancito dall'art. 24 della Costituzione, nei rapporti con il diritto concordatario (Corte costituzionale, n. 18 del 2 febbraio 1982, § 5), e, di recente, nel rapporto con l'ordinamento internazionale, a proposito della norma consuetudinaria internazionale sull'immunita' degli Stati dalla giurisdizione per atti jure imperi! (Corte costituzionale, n. 238 del 22 ottobre 2014). In particolare questa seconda sentenza ha, per la prima volta, accolto nella giurisprudenza costituzionale la scelta lessicale di «controlimiti», in tal senso opportunamente evidenziando, come osservato nella dottrina costituzionalistica, l'oggettivita' del 'limite' (non rimovibile neppure da chi lo oppone), a differenza della declinazione soggettiva e relativa insita nell'originaria formula, elaborata da pur autorevolissima dottrina costituzionale, delle «controlimitazioni alle limitazioni di sovranita'»; la sentenza n. 238 del 2014, nell'individuare i «controlimiti» nei «principi qualificanti e irrinunciabili dell'assetto costituzionale dello Stato (...) che sovraintendono alla tutela dei diritti fondamentali della persona» (§ 3.1.), ha ribadito efficacemente la natura dei «principi supremi» ed il sindacato di costituzionalita' ad essa riservato in caso di loro compressione: «Non v'e' dubbio, infatti, ed e' stato confermato a piu' riprese da questa Corte, che i principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un "limite all'ingresso [...] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l'ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l'art. 10, primo comma della Costituzione" (sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001) ed operino quali "controlimiti" all'ingresso delle norme dell'Unione europea (ex plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 232 del 1989, n. 168 del 1991, n. 284 del 2007), oltre che come limiti all'ingresso delle norme di esecuzione dei Patti Lateranensi e del Concordato (sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31 e n. 30 del 1971). Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell'ordinamento costituzionale, per cio' stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (articoli 138 e 139 della Costituzione: cosi' nella sentenza n. 1146 del 1988). In un sistema accentrato di controllo di costituzionalita', e' pacifico che questa verifica di compatibilita' spetta alla sola Corte costituzionale, con esclusione di qualsiasi altro giudice, anche in riferimento alle norme consuetudinarie internazionali. (...) Anche di recente, poi, questa Corte ha ribadito che la verifica di compatibilita' con i principi fondamentali dell'assetto costituzionale e di tutela dei diritti umani e' di sua esclusiva competenza (sentenza n. 284 del 2007); ed ancora, precisamente con riguardo al diritto di accesso alla giustizia (art. 24 della Costituzione), che il rispetto dei diritti fondamentali, cosi' come l'attuazione di principi inderogabili, e' assicurato dalla funzione di garanzia assegnata alla Corte costituzionale (sentenza n. 120 del 2014)» (§ 3.2.). La dottrina dei «controlimiti», dunque, non va intesa come una forma di resistenza degli Stati nazionali ai processi di integrazione sovranazionale e internazionale, ma l'espressione rigorosa della sovranita' popolare, nella sua dimensione irrinunciabile. Vi e', infatti, una corrispondenza biunivoca tra controlimiti e sovranita' popolare, nel senso che se «la sovranita' appartiene al popolo, che fa esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1 della Costituzione), non e' il popolo - privo di soggettivita' internazionale -, ma lo Stato italiano a «consentire (...) alle limitazioni di sovranita'" (art. 11 della Costituzione); i controlimiti rappresentano, dunque, lo strumento costituzionale per esercitare, nelle «forme e nei limiti» della Costituzione, la sovranita' popolare, che puo' essere limitata, ma non ceduta; e le limitazioni non possono compromettere la dimensione dei principi fondamentali della Costituzione, alterando l'identita' costituzionale dell'ordinamento nazionale. Sulla base di tali rilievi vanno, dunque, articolati i dubbi di costituzionalita' che l'obbligo di disapplicazione delle norme sul prolungamento dei termini di prescrizione solleva con riferimento a plurimi parametri costituzionali, ritenuti coessenziali al nucleo dell'identita' costituzionale dell'ordinamenti nazionale. Infatti, oltre al profilo del principio dell'irretroattivita' della legge penale, sul quale si e' soffermata la gia' citata ordinanza della Corte di appello di Milano, nonche' le prime pronunce di legittimita', e la dottrina, a parere di questa Corte la dubbia costituzionalita' dell'obbligo di disapplicazione deriva in maniera significativa dal principio di riserva di legge, e dagli altri principi fondamentali (articoli 3, 11, 27, comma 2, 101, comma 2, della Costituzione) invocati quali parametri di costituzionalita', talmente avvinti al «nucleo essenziale» della legalita' da dover essere assunti in una considerazione sistematica e complessiva, consapevole degli intrecci, e non in una riduttiva prospettiva atomistica e parcellizzata. 4.2. Il principio di irretroattivita' della legge penale (art. 25, comma 2, della Costituzione). La disapplicazione delle norme di cui agli articoli 160, ultimo comma, e 161, comma 2, del codice penale, imposta dall'art. 325 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nell'interpretazione attribuita dalla Corte di giustizia in re Taricco, determinerebbe la retroattivita' in malam partem della normativa nazionale risultante: l'effetto sarebbe, infatti, quello di allungare i tempi della prescrizione anche in relazione a fatti commessi prima della sentenza Taricco. Al riguardo, la Corte di giustizia ha affrontato il problema della potenziale violazione del principio di legalita' in materia penale, giungendo ad una conclusione negativa. Adottando quale parametro di riferimento l'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione (CDFUE) - secondo cui «Nessuno puo' essere condannato per un'azione o un'omissione che, al momento in cui e' stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non puo' essere inflitta una pena piu' grave di quella applicabile al momento in cui il reato e' stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l'applicazione di una pena piu' lieve, occorre applicare quest'ultima» -, che, in forza del successivo art. 52 CDFUE, recepisce il principio del nullum crimen nell'estensione riconosciutagli dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo formatasi sulla corrispondente previsione dell'art. 7 CEDU, la Corte di giustizia dell'Unione europea ha affermato che la materia della prescrizione del reato concerne il profilo processuale delle condizioni di procedibilita' del reato, e dunque non e' coperta dalla garanzia del nullum crimen; in tal senso, infatti, anche l'applicazione del termine di prescrizione a fatti gia' commessi, ma non ancora giudicati in via definitiva, deve ritenersi compatibile con l'art. 7 CEDU, che si limita a garantire che il soggetto non sia punito per un «fatto» o con una «pena» non previsti dalla legge al momento della sua commissione. La sentenza Taricco espressamente afferma: «la disapplicazione delle disposizioni nazionali di cui trattasi avrebbe soltanto per effetto di non abbreviare il termine di prescrizione generale nell'ambito di un procedimento penale pendente, di consentire un effettivo perseguimento dei fatti incriminati nonche' di assicurare, all'occorrenza, la parita' di trattamento tra le sanzioni volte a tutelare, rispettivamente, gli interessi finanziari dell'Unione e quelli della Repubblica italiana. Una disapplicazione del diritto nazionale siffatta non violerebbe i diritti degli imputati, quali garantiti dall'art. 49 della Carta» (§ 55); di conseguenza, «non ne deriverebbe affatto una condanna degli imputati per un'azione o un'omissione che, al momento in cui e' stata commessa, non costituiva un reato punito dal diritto nazionale (vedi, per analogia, sentenza Niselli, C-457/02, EU:C:2004:707, punto 30), ne' l'applicazione di una sanzione che, allo stesso momento, non era prevista da tale diritto. Al contrario, i fatti contestati agli imputati nel procedimento principale integravano, alla data della loro commissione, gli stessi reati ed erano passibili delle stesse sanzioni penali attualmente previste» (§ 56); pertanto, nel richiamare la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo formatasi sulla previsione dell'art. 7 CEDU, «che sancisce diritti corrispondenti a quelli garantiti dall'art. 49 della Carta», sostiene che «la proroga del termine di prescrizione e la sua immediata applicazione non comportano una lesione dei diritti garantiti dall'art. 7 della suddetta Convenzione, dato che tale disposizione non puo' essere interpretata nel senso che osta a un allungamento dei termini di prescrizione quando i fatti addebitati non si siano ancora prescritti» (§ 57). La minore estensione del riconoscimento offerto, nell'ordinamento sovranazionale e nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, al principio di legalita' in materia penale, in quanto limitato alla previsione del fatto e della sanzione, implica, per la Corte di giustizia, che la disciplina della prescrizione venga attratta nel regime processuale, non gia' sostanziale, governato dal principio del tempus regit actum. 4.2.1. La dimensione di valore essenziale dell'identita' costituzionale del principio di irretroattivita' della legge penale sfavorevole, idoneo ad essere «azionato» come «controlimite», appare talmente evidente da far sembrare ultronea qualsiasi argomentazione al riguardo, trattandosi di garanzia posta a fondamento di tutti gli ordinamenti costituzionali democratici. Sia sufficiente, al riguardo, il richiamo delle limpide ed efficaci affermazioni della Corte costituzionale, che, nella sentenza n. 394 del 23 novembre 2006, rammentava; «Il principio di retroattivita' della lex mitior ha una valenza ben diversa, rispetto al principio di irretroattivita' della norma penale sfavorevole. Quest'ultimo si pone come essenziale strumento di garanzia del cittadino contro gli arbitri del legislatore, espressivo dell'esigenza della "calcolabilita'" delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale. Avuto riguardo anche al fondamentale principio di colpevolezza ed alla funzione preventiva della pena, desumibili dall'art. 27 della Costituzione, ognuno dei consociati deve essere posto in grado di adeguarsi liberamente o meno alla legge penale, conoscendo in anticipo - sulla base dell'affidamento nell'ordinamento legale in vigore al momento del fatto - quali conseguenze afflittive potranno scaturire dalla propria decisione (al riguardo, v. sentenza n. 364 del 1988): aspettativa che sarebbe, per contro, manifestamente frustrata qualora il legislatore potesse sottoporre a sanzione criminale un fatto che all'epoca della sua commissione non costituiva reato, o era punito meno severamente. In questa prospettiva, e' dunque incontroverso che il principio de quo trovi diretto riconoscimento nell'art. 25, secondo comma, della Costituzione in tutte le sue espressioni: e, cioe', non soltanto con riferimento all'ipotesi della nuova incriminazione, sulla quale pure la formula costituzionale risulta all'apparenza calibrata; ma anche con riferimento a quella della modifica peggiorativa del trattamento sanzionatorio di un fatto gia' in precedenza penalmente represso. In questi termini, il principio in parola si connota, altresi', come valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali (...) assolutamente inderogabile (...)» (§ 6.4.). 4.2.2. La conclusione alla quale giunge la Corte di giustizia non appare conforme al piu' esteso riconoscimento del principio di legalita' in materia penale nell'ordinamento nazionale, come delineato dalla giurisprudenza costituzionale, e di conseguenza, al principio di irretroattivita' della legge penale. Al riguardo, infatti, cio' che rileva e' che l'obbligo di disapplicazione determinerebbe l'applicazione di una disciplina complessivamente piu' sfavorevole anche ai fatti commessi prima della sentenza Taricco. L'art. 53 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea sancisce il criterio del best standard del livello di protezione nella tutela multilivello dei diritti fondamentali: «Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell'Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l'Unione, la Comunita' o tutti gli Stati membri sono parti contraenti, in particolare la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, e dalle costituzioni degli Stati membri»; ed il precedente art. 49 della Carta di Nizza riconosce proprio il principio di legalita', ed il corollario dell'irretroattivita', tra i diritti fondamentali dell'Unione. Ebbene, pur nella consapevolezza che, nel recente caso Melloni, il piu' elevato standard di tutela garantito dal sistema domestico (spagnolo) e' stato ritenuto recessivo rispetto alla primaute' del diritto eurounitario (CGUE, GS, 26 febbraio 2013, Meloni c. Ministerio Fiscal), la Carta di Nizza afferma che, in caso di asimmetria nella tutela di un diritto fondamentale tra l'ordinamento nazionale e quello europeo, il diritto deve essere riconosciuto e salvaguardato nella sua piu' ampia estensione, secondo il criterio del best standard, rappresentando la tutela europea il livello di protezione minimo (in tal senso, di recente, si e' espresso il Bundesverfassungsgericht, 15 dicembre 2015, R., nella medesima materia, oggetto del caso Melloni, del mandato di arresto europeo, affermando che la protezione dei diritti inalienabili garantiti dalla Costituzione tedesca prevale sull'applicazione della legislazione «comunitaria»). Nel caso in esame, dunque, il principio di irretroattivita' dovrebbe essere garantito nella piu' ampia estensione riconosciuta dall'ordinamento costituzionale italiano, che vi ricomprende tutti i presupposti della punibilita', compresa la prescrizione. 4.2.3. Va, del resto, osservato che la prescrizione rientra nell'ambito dei presupposti e delle condizioni della punibilita', ed in ragione di tale dimensione ne viene affermata la natura sostanziale, con conseguente riconoscimento della garanzia dell'irretroattivita'. Sul punto, giova rammentare che la prescrizione e' configurata nel nostro ordinamento come causa di estinzione del reato, come si evince ad abundantiam dall'inserimento nel relativo Capo I del Titolo VI del codice penale: sebbene la collocazione legislativa delle relative norme non assuma un carattere decisivo, ma sia comunque pregnante - soprattutto ove si pensi al diverso inquadramento del previgente codice Zanardelli del 1889, che qualificava la prescrizione come causa di estinzione dell'azione penale (art. 91) -, la concezione sostanziale si fonda anche sull'interpretazione letterale dell'art. 157 del codice penale («la prescrizione estingue il reato») e sulla possibilita', sancita dall'art. 129 codice di procedura penale, di un accertamento giudiziale, sia pure nei limiti dell'evidenza probatoria, che il fatto non sussiste o non e' preveduto dalla legge come reato o che l'imputato non lo ha commesso, anche allorquando sia maturata la prescrizione; la norma, infatti, induce a ritenere che la prescrizione non incida sull'azione penale, atteso che, non avendo natura processuale, non ha efficacia preclusiva di ogni provvedimento sul merito. Del resto, l'opinione minoritaria che in dottrina, soprattutto in passato, ha sostenuto la natura processuale della prescrizione, ha fondato la propria ricostruzione sulla 'ultrattivita' di alcuni effetti (confisca dei beni, obbligazioni civili) derivanti dal reato, seppur prescritto; la percorribilita' di tale tesi sembrerebbe ancor piu' problematica alla luce dell'orientamento, ancora controverso, espresso in recenti arrêts, anche della giurisprudenza europea (Corte europea dei diritti dell'uomo, 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia), sulla illegittimita' di una misura ablativa senza una definitiva affermazione di responsabilita' penale, in quanto impedita dalla prescrizione. La tesi della natura sostanziale della prescrizione, del resto, gemma dalla stessa concezione della punibilita' quale elemento essenziale del reato: una risalente autorevole dottrina definiva il reato «come l'insieme dei coefficienti necessari al prodursi della conseguenza giuridica della pena», e quindi «mancando uno qualsiasi di questi coefficienti non v'e' possibilita' di questa conseguenza giuridica, non v'e' punibilita': e quindi non v'e' reato». Al riguardo, va evidenziato che tale concezione faceva riferimento, in una impostazione essenzialmente retributiva, alla dimensione normativa della «punibilita' in astratto», non gia' alla dimensione applicativa della pena (come «punibilita' in concreto»). Tuttavia, sebbene l'equazione reato-fatto punibile abbia attenuato il carattere di indefettibilita', a partire dalla legislazione 'premiale' in materia di criminalita' terroristica e mafiosa, in una evoluzione culminata nei recenti interventi legislativi che hanno introdotto paradigmi normativi di non punibilita' del reato (messa alla prova e particolare tenuita' del fatto), sempre piu' corroborando la rappresentazione di una «sequenza infranta», nondimeno l'essenza del reato resta sempre avvinta alla dimensione normativa della punibilita' in astratto del fatto. E, almeno nell'attuale disciplina, la prescrizione, quale causa di estinzione del reato, elide proprio tale dimensione normativa, in quanto presupposto e condizione astratta della punibilita', a differenza dei piu' recenti paradigmi normativi che affidano la non punibilita' del reato a giudizi ex post ed in concreto (sulla particolare tenuita' dell'offesa, nell'art. 131-bis del codice penale, sull'esito positivo della prova, nell'art. 168-ter, comma 2, del codice penale), che presuppongono il perfezionamento di un fatto astrattamente punibile; tant'e' che, nella messa alla prova, il corso della prescrizione del reato - in quanto presupposto astratto della punibilita' - e' sospeso (art. 168-ter, comma 1, del codice penale), e la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sulla esclusione della punibilita' per particolare tenuita' del fatto di cui all'art. 131-bis del codice penale sia perche' diverse sono le conseguenze che scaturiscono dai due istituti, sia perche' il primo di essi estingue il reato, mentre il secondo lascia inalterato l'illecito penale nella sua materialita' storica e giuridica (Sez. 3, n. 27055 del 26 maggio 2015, Sorbara, Rv. 263885). In tal senso, dunque, mentre la causa estintiva della prescrizione puo' ritenersi appartenere alla dimensione della c.d. «meritevolezza di pena» (Strafwürdigkeit, nella terminologia della dottrina d'oltralpe che ha elaborato il concetto), fondante la criminalizzazione del fatto, l'esclusione della punibilita' per la particolare tenuita' del fatto e per l'esito positivo della messa alla prova appartengono, piu' propriamente, alla dimensione del c.d. «bisogno di pena» (Strafbedürfnis). 4.2.4. Nel senso della natura sostanziale, come e' noto, si e' sempre espressa anche la giurisprudenza costituzionale, che nella sentenza n. 393 del 23 novembre 2006, pronunciata a proposito della disciplina transitoria della prescrizione introdotta dalla legge n. 251 del 2005, ha espressamente affermato: «la locuzione "disposizioni piu' favorevoli al reo" si riferisce a tutte quelle norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione del reato (sentenze n. 455 e n. 85 del 1998; ordinanze n. 317 del 2000, n. 288 e n. 51 del 1999, n. 219 del 1997, n. 294 e n. 137 del 1996). Una conclusione, questa, coerente con la natura sostanziale della prescrizione (sentenza n. 275 del 1990) e con l'effetto da essa prodotto, in quanto "il decorso del tempo non si limita ad estinguere l'azione penale, ma elimina la punibilita' in se' e per se', nel senso che costituisce una causa di rinuncia totale dello Stato alla potesta' punitiva" (Cass., Sez. I, 8 maggio 1998, n. 7442). Tale effetto, peraltro, esprime l'"interesse generale di non piu' perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venir meno, o notevolmente attenuato (...) l'allarme della coscienza comune, ed altresi' reso difficile, a volte, l'acquisizione del materiale probatorio" (sentenza n. 202 del 1971; v. anche sentenza n. 254 del 1985; ordinanza n. 337 del 1999)». La natura sostanziale della prescrizione e' stata di recente ribadita anche dalla sentenza 28 maggio 2014, n. 143, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' del raddoppio dei termini di prescrizione per l'incendio colposo (§ 3). Non rileva, ai fini che interessano, la sentenza n. 236 del 2011, richiamata da Sez. 3, n. 2210 del 15 settembre 2015, Pennacchini, Rv. 266121, in quanto la Corte costituzionale, lungi dall'omettere l'attivazione dei controlimiti, ha ribadito che il principio della retroattivita' della lex mitior non riceve la medesima copertura costituzionale dell'art. 25, comma 2, della Costituzione riservata all'irretroattivita' della norma penale sfavorevole, e, vertendo il sindacato sulla disciplina transitoria della prescrizione, ha osservato come il parametro interposto invocato, rappresentato dall'art. 7 CEDU, non fornisse copertura 'convenzionale' alla prescrizione, ritenuta estranea al perimetro del principio di legalita' nella declinazione della giurisprudenza europea. La giurisprudenza granitica della Corte costituzionale, del resto, proprio sul presupposto della natura sostanziale delle norme sulla prescrizione, ha sempre dichiarato l'inammissibilita' delle questioni di legittimita' costituzionale proposte in malam partem, poiche' il principio di riserva di legge impedisce di incidere in peius non soltanto sulla fattispecie incriminatrice e sulla pena, ma altresi' sugli altri presupposti e sulle condizioni della punibilita'; al riguardo, secondo quanto sottolineato da Corte costituzionale n. 324 del 1° agosto 2008, «la costante giurisprudenza di questa Corte che, in piu' occasioni, ha ribadito che il principio della riserva di legge sancito dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione rende inammissibili pronunce il cui effetto possa essere quello di introdurre nuove fattispecie criminose, di estendere quelle esistenti a casi non previsti, o, comunque, "di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti alla punibilita', aspetti fra i quali, indubbiamente, rientrano quelli inerenti la disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi" (sentenza n. 394 del 2006 e ordinanza n. 65 del 2008)». 4.2.5. Non ricorrono i presupposti per una interpretazione costituzionalmente conforme dell'obbligo di disapplicazione individuato dalla Corte di giustizia: al riguardo, non appare persuasiva la tesi, pur autorevolmente sostenuta in dottrina, secondo la quale la disciplina della prescrizione avrebbe natura sostanziale prima dell'esercizio dell'azione penale, assumendo invece natura processuale dopo l'attivazione della pretesa punitiva, con la conseguenza che solo la disciplina dell'interruzione della prescrizione sarebbe attratta nella logica del processo, e dunque sottratta alla garanzia dell'art. 25, comma 2, della Costituzione; in tal senso, l'obbligo di disapplicazione dei termini «ordinari» di interruzione della prescrizione, sancito dalla sentenza Taricco, e comportanti un prolungamento dei termini massimi della causa estintiva, sarebbe governato dal principio tempus regit actum. La tesi esposta, infatti, oltre ad essere contraddetta espressamente dalla giurisprudenza costituzionale gia' richiamata, che ritiene coperti dalla garanzia della riserva di legge tutti gli «aspetti inerenti alla punibilita', (...) fra i quali, indubbiamente, rientrano quelli inerenti la disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi (sentenza n. 394 del 2006 e ordinanza n. 65 del 2008)» (Corte costituzionale, n. 324 del 2008), non appare convincente. Essa e' fondata sulle differenti rationes della prescrizione, che, se prima del processo e' legata al 'tempo dell'oblio', dopo l'esercizio dell'azione penale sarebbe governata da una logica di contenimento dei tempi processuali. Tuttavia, la ratio di un istituto concerne le finalita' perseguite e le esigenze salvaguardate, non sempre coincidendo con fa natura dell'istituto, che va dedotta dalla disciplina positiva adottata, ed interpretata secondo i consueti canoni ermeneutici (in primis, quelli di rilievo costituzionale). La natura giuridica di un istituto, infatti, va desunta dalla conformazione normativa, non gia' dall'individuazione di rationes attribuite, sulla base di precomprensioni legate a soggettive opzioni dell'interprete. Pur non essendo la sede per piu' diffuse considerazioni, il rischio sarebbe altrimenti quello della dissoluzione dei criteri classificatori desunti da parametri normativi, in favore dell'utilizzo interpretativo di comprensive e scarsamente selettive finalita' (asseritamente) perseguite, secondo paradigmi concettuali che, in altro ambito, condussero all'elaborazione della c.d. «concezione metodologica» del bene giuridico, con conseguente neutralizzazione della funzione critica e interpretativa del concetto. Ebbene, salvo quanto gia' evidenziato infra § 4.2.3. in merito alla natura della prescrizione, la dimensione sostanziale o processuale della causa estintiva non puo' prescindere dal profilo assiologico; in tal senso, sebbene nella prassi abbia assunto la funzione di determinare il termine dell'accertamento processuale, in quanto obiettivo (legittimamente) perseguito dall'imputato, da un punto di vista assiologico non si puo' obliterare che la prescrizione rinviene il proprio fondamento nella finalita' rieducativa (secondo alcuni, anche general-preventiva) della pena sancita dall'art. 27, comma 3, della Costituzione, che sarebbe compromessa, nella sua dimensione teleologica, dal decorso del tempo rispetto alla commissione del fatto; anche in tal senso, dunque, il fondamento costituzionale della prescrizione, nella attuale disciplina positiva, connota la natura sostanziale dell'istituto. Ne', del resto, la prescrizione, almeno nella attuale disciplina positiva, puo' essere ritenuta funzionale alla salvaguardia del principio della durata ragionevole del processo, atteso che, come condivisibilmente osservato da autorevole dottrina processualpenalistica, il principio, affermato nell'art. 111 della Costituzione soltanto di recente, e dunque non in grado di fondare 'storicamente' l'istituto, non sembra suscettibile di fondarlo neppure «logicamente», in quanto la conformazione positiva dell'istituto, il cui corso continua a decorrere pure successivamente all'esercizio dell'azione penale, rende la causa estintiva un (legittimo) obiettivo dell'imputato di definizione processuale che determina, al contrario, una significativa dilatazione dei tempi processuali. Sulla base dell'attuale disciplina, come si e' evidenziato, la natura sostanziale della prescrizione non appare suscettibile di essere fondatamente messa in discussione, sulla base del dato normativo e sistematico, confortato dalla comparazione storica e dalla giurisprudenza costituzionale. Qualora il corso della prescrizione venisse invece sospeso con l'esercizio dell'azione penale - come in diversi ordinamenti occidentali, ed in alcune proposte legislative da tempo allo studio degli organi parlamentari nazionale -, dando rilevanza ad un momento processuale, potrebbe fondatamente affermarsene la natura processuale, e, di conseguenza, l'applicazione del principio tempus regit actum: ma questo e' un compito che, nel nostro ordinamento costituzionale, spetta al legislatore. 4.2.6. Peraltro, la distinzione tra disciplina sostanziale della prescrizione e disciplina processuale dell'interruzione della prescrizione appare una fictio insuscettibile di fondare, comunque, un'applicazione di piu' lunghi termini di prescrizione a fatti commessi in precedenza. A prescindere, per il momento, dalla questione della fonte dell'obbligo, sotto il profilo del principio di irretroattivita' della legge penale non rileva che l'aspettativa dell'imputato non riguardi piu' il tempo di commissione del reato, ma, dopo l'esercizio dell'azione penale, il tempo del processo. Infatti, un'aspettativa declinata in tali termini sarebbe da qualificare quale interesse di fatto irrilevante sotto il profilo processuale, e ancor prima costituzionale. Cio' che, al contrario, viene in rilievo e' il diritto dell'imputato a non subire l'applicazione, imprevista, di una disciplina penale complessivamente piu' rigorosa rispetto a quella vigente al momento di commissione del fatto. In questa dimensione si articola il «nucleo essenziale» del principio di irretroattivita' della legge penale, in cui i termini di raffronto devono essere, da un lato, il diritto e, dall'altro, il tempo di commissione del fatto. Seppur ispirata da una lodevole finalita' garantista, la tesi che propone di delimitare gli effetti dell'obbligo di disapplicazione in malam partem imposto dalla sentenza Taricco ai soli reati per i quali la prescrizione non era ancora maturata al momento della pubblicazione della decisione (8 settembre 2015), escludendo quelli per i quali il termine di prescrizione era gia' decorso, appare fondata su un duplice argomento fallace: la natura processuale della prescrizione, che consentirebbe l'applicazione secondo il principio tempus regit actum, e la natura costitutiva della sentenza della Corte di giustizia, assunta a fonte diretta del diritto penale. Pur non essendo la sede per piu' argomentate considerazioni, la sentenza Taricco, come si evidenziera' in prosieguo, non puo' essere assunta, nell'ordinamento nazionale, alla stregua di una legge processuale, la cui entrata in vigore segna il limite temporale di applicazione; e, nell'interpretazione delimitativa degli effetti, addirittura una disciplina transitoria verrebbe surrogata da una argomentazione di carattere interpretativo, in un apogeo della giurisprudenza-fonte. In ogni caso, anche se l'obbligo di disapplicazione in malam partem dovesse ritenersi avere ad oggetto una disciplina processuale, governata dal principio tempus regit actum, va evidenziato che il dispositivo della sentenza Taricco non indica alcuna delimitazione temporale; del resto, anche l'espressione «quando i fatti addebitati non si siano ancora prescritti», contenuta al § 57 della motivazione, appare quantomeno controversa, potendo riferirsi l'esclusione dell'allungamento dei termini di prescrizione ai soli reati per i quali la prescrizione sia stata gia' dichiarata; un riferimento, dunque, che, anche in considerazione dell'oggetto del rinvio pregiudiziale, riguardante un procedimento nel quale i reati non erano gia' prescritti, ne' si sarebbero prescritti in un lasso imminente di tempo, sembra concernere soltanto i «rapporti esauriti». L'eventuale affermazione della natura processuale della prescrizione, del resto, comporterebbe che l'eventuale approvazione della riforma dell'istituto della prescrizione - da tempo all'esame del Parlamento, nella consapevolezza, condivisa anche da questo Collegio, che l'attuale disciplina comporta una serie di insostenibili aporie ed inefficienze per il sistema penale - sarebbe governata dal principio tempus regit actum. 4.3. Irretroattivita' della legge penale, diritto di difesa (art. 24 della Costituzione) e principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione). La violazione del diritto dell'imputato a non subire l'applicazione, imprevista, di una disciplina penale complessivamente piu' rigorosa rispetto a quella vigente al momento di commissione del fatto, inoltre, puo' essere apprezzata sotto un diverso profilo, che coinvolge altresi' la garanzia sancita dall'art. 24 della Costituzione. Sul punto, si e' gia' rilevato che le due ipotesi nelle quali la Corte costituzionale ha fino a questo momento «azionato» i controlimiti hanno riguardato la compressione del diritto di difesa riconosciuto e tutelato dall'art. 24 della Costituzione (cfr. infra § 4.1). Nel caso in esame, un'applicazione retroattiva (ai fatti commessi prima della sentenza Taricco) del prolungamento dei termini massimi di prescrizione comprometterebbe il diritto di difesa dell'imputato, che, legittimamente, e sulla base delle informazioni sui presupposti della punibilita' vigenti al momento della scelta processuale, abbia deciso di non beneficiare dei vantaggi premiali connessi alla scelta dei riti alternativi, e, sulla base dei nuovi presupposti, piu' sfavorevoli, non possa piu' esercitare le facolta' difensive riconosciutegli nella competente scansione procedimentale. Il sostanziale «cambiamento delle regole in corsa» che conseguirebbe all'obbligo di disapplicazione sancito dalla sentenza Taricco, infatti, appare suscettibile di violare non soltanto il «nucleo essenziale» del diritto di difesa, riconosciuto e garantito dall'art. 24 della Costituzione, ma altresi' il principio di uguaglianza, sancito dall'art. 3 della Costituzione, per la disparita' di trattamento con chi, in analoga situazione processuale, e nella consapevolezza dei nuovi presupposti della punibilita' legati al prolungamento dei termini di prescrizione, e' ancora in tempo per esercitare le facolta' difensive connesse alla scelta dei riti alternativi, ed ai conseguenti trattamenti sanzionatori premiali. 4.4. Il principio di riserva di legge (art. 25, comma 2, della Costituzione). Anche in tal caso, la dimensione di valore essenziale dell'identita' costituzionale del principio di riserva assoluta di legge in materia penale, idoneo ad essere «azionato» come «controlimite», appare talmente evidente da far sembrare ultronea qualsiasi argomentazione al riguardo, trattandosi di garanzia posta a fondamento di tutti gli ordinamenti costituzionali democratici. E' pacifico che il principio, fondato su esigenze di garanzia, piu' che di certezza, sia funzionale ad evitare arbitri del potere esecutivo e giudiziario, sul presupposto che soltanto il procedimento legislativo sia lo strumento piu' adeguato a salvaguardare il bene della liberta' personale, compresso dallo strumento penale, tutelando i diritti delle minoranze, e consentendo un controllo delle scelte di criminalizzazione della maggioranza. Al riguardo, la Corte costituzionale, in una sentenza fondamentale sul tema, ha profondamente scandagliato tutti i profili relativi al fondamento, al significato, ed alla funzione del principio di riserva di legge, premettendo che «l'effettivo ambito di comprensione del "generale" principio di legalita' in sede penale non e', almeno di regola, desunto, nella sua ampiezza, dalle sole, peraltro non univoche, formule costituzionali che pur lo enunciano bensi', come e' ormai generalmente ammesso, dalla ratio profonda che le ispira, cosi' la reale comprensione, in ispecie, del principio di riserva di legge penale va principalmente ricavata dal fondamento politico-ideologico, sistematico e teleologico dello stesso principio piuttosto che dalle dichiarazioni costituzionali, necessarie e solenni ma non sempre tecnicamente precise, che lo enunciano; dichiarazioni i cui contenuti e limiti vanno, appunto, ricavati, anche e soprattutto, dai precitati fondamenti e, in particolare, dall'oggettiva, determinante funzione che, nell'intero ramo penale dell'ordinamento statale, la riserva in questione esplica» (Corte costituzionale, n. 467 del 25 ottobre 1989, § 2). Sotto il «profilo storico-ideologico», la Corte ha evidenziato che la riserva di legge penale superava la frammentazione, sostanziale e formale, delle fonti che caratterizzava l'ancien regime, eliminando i vari corpi d'autonomia sociale «a vantaggio dell'unico corpo politico sovrano», affidando «il monopolio della competenza penale (piu' che) alla legge in quanto atto-fonte, (...) all'organo-Parlamento»; «il monopolio penale del legislatore statale e' fondato sul suo essere rappresentativo della societa' tutta, "unita per contratto sociale"» (§ 3). Sotto il profilo «sistematico», si e' evidenziato che «la statualita', a doppio titolo, del diritto penale postula necessariamente il nascere statuale delle incriminazioni penali. Si e' precisato: "a doppio titolo". Ed infatti, statali sono i particolari interessi e valori tutelati dal ramo penale e statale e' il fine perseguito attraverso le incriminazioni: la tutela di tutto l'ordinamento giuridico statale e, cosi', della vita sociale in liberta', uguaglianza e reciproco rispetto dei soggetti» (§ 4). Tale aspetto non puo' che essere sottolineato, e attualizzato, alla luce del nuovo art. 117, comma 2, lettera i), della Costituzione, che riserva alla legislazione esclusiva dello Stato le materie della «giurisdizione e norme processuali» e dell'«ordinamento civile e penale». Connesso alla statualita' del diritto penale e' il profilo della finalita' rieducativa: «Il secondo titolo di "statualita'" del ramo penale attiene ai fini dello stesso ramo. Va notato che la Costituzione disciplina essa stessa parte del settore penale. Tale disciplina, mentre limita la discrezionalita' del legislatore, puntualmente chiarisce quali debbano essere i fini del diritto penale. La disposizione di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione svela apertamente, indicando la teleologia delle pene, l'identita' e le finalita' del diritto penale dalle quali la Carta fondamentale parte nel dettare la normativa attinente alla sede penale. L'art. 27, terzo comma, della Costituzione, riguarda, infatti, le sanzioni propriamente penali: e queste, nell'essere particolarmente caratterizzate, sono implicitamente distinte da tutte le altre sanzioni (...) non solo la Costituzione ben "conosce" il ramo penale ma che nettamente lo "distingue" dagli altri rami, sottolineando del medesimo esigenze e fini, che attengono alla comunita' tutta, alla tutela dell'intero ordinamento statale" (§ 4). Infine, "Il terzo profilo, forse il piu' rilevante, dal quale va esaminata la riserva di legge penale ex art. 25, secondo comma, della Costituzione e' quello della sua funzionalita'. Il principio per il quale unica fonte del diritto penale e' la legge va chiarito non tanto nella sua generale ratio di garanzia quanto, e particolarmente, nell'oggetto della medesima. Per vero, e' stato gia' adeguatamente posto in luce che ratio della riserva di legge penale e la tutela della liberta' e dei beni fondamentali dei singoli soggetti, anche se e' stato sottolineato soprattutto l'aspetto negativo della riserva stessa, e cioe' l'esclusione di possibili arbitri da parte di altri poteri dello Stato»; il «significato positivo del principio di riserva di legge penale», dunque, risiede nella riserva al legislatore statale delle scelte di criminalizzazione, rispettando «criteri sostanziali di scelta e (...) precise direttive di politica criminale», tra i quali la finalita' rieducativa della pena, i principi di sussidiarieta', proporzionalita' e frammentarieta' dell'intervento penale (§ 5). In maniera altrettanto significativa, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 230 del 12 ottobre 2012, sulla irrevocabilita' del giudicato penale in caso di mutamento giurisprudenziale in bonam partem, e con riferimento al parametro interposto della «legalita' convenzionale», ha ribadito il carattere fondamentale del principio di riserva di legge nella declinazione riconosciuta dall'art. 25, comma 2, della Costituzione: «L'altra affermazione - che riflette, per contro, un orientamento della Corte europea da tempo consolidato - e' quella in virtu' della quale la nozione di "diritto" ("law"), utilizzata nella norma della Convenzione, deve considerarsi comprensiva tanto del diritto di produzione legislativa che del diritto di formazione giurisprudenziale. Tale lettura "sostanziale", e non gia' "formale", del concetto di "legalita' penale", se pure stimolata dalla necessita' di tenere conto dei diversi sistemi giuridici degli Stati parte - posto che il riferimento alla sola legge di origine parlamentare avrebbe limitato la tutela derivante dalla Convenzione rispetto agli ordinamenti di common law - e' stata ritenuta valevole dalla Corte europea anche in rapporto agli ordinamenti di civil law, alla luce del rilevante apporto che pure in essi la giurisprudenza fornisce all'individuazione dell'esatta portata e all'evoluzione del diritto penale (tra le altre, sentenze 8 dicembre 2009, Previti contro Italia; Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; 20 gennaio 2009, Sud Fondi s.r.l. ed altri contro Italia; Grande Camera, 24 aprile 1990, Kruslin contro Francia). Proprio tale seconda affermazione dimostra, peraltro, come, nell'interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo, il principio convenzionale di legalita' penale risulti meno comprensivo di quello accolto nella Costituzione italiana (e, in generale, negli ordinamenti continentali). Ad esso resta, infatti, estraneo principio - di centrale rilevanza, per converso, nell'assetto interno - della riserva di legge, nell'accezione recepita dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione; principio che, secondo quanto reiteratamente puntualizzato da questa Corte, demanda il potere di formazione in materia penale - in quanto incidente sui diritti fondamentali dell'individuo, e segnatamente sulla liberta' personale - all'istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza politica: vale a dire al Parlamento, eletto a suffragio universale dall'intera collettivita' nazionale (sentenze n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), il quale esprime, altresi', le sue determinazioni all'esito di un procedimento - quello legislativo - che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione». In tal senso, dunque, la minore estensione della «legalita' convenzionale» rispetto alla «legalita' costituzionale» «preclude una meccanica trasposizione nell'ordinamento interno della postulata equiparazione tra legge scritta e diritto di produzione giurisprudenziale». 4.4.1. Il principio di riserva di legge statale in materia penale implica, dunque, che il fondamento ed i presupposti della responsabilita' penale, compresa la dimensione della punibilita', siano previsti esclusivamente dalla legge statale; nozione nella quale, come si e' visto, non rientra il piu' ampio concetto di «law» 1, comprensivo anche del diritto giurisprudenziale (pur nella piu' ampia dimensione sovranazionale) (Corte costituzionale, n. 230 del 2012). L'obbligo di disapplicazione delle norme sull'interruzione della prescrizione, discendente dalla sentenza della Corte di giustizia in re Taricco, viene mediata nell'ordinamento penale nazionale per il tramite della teoria degli effetti diretti; nondimeno, la fonte dell'obbligo, e degli effetti penali in malam partem, resta la sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, che, sebbene deputata in via esclusiva a garantire l'interpretazione del diritto dell'Unione, e' un organo giurisdizionale privo di legittimazione politica, che non puo' esprimere scelte di criminalizzazione nell'ordinamento nazionale. La conseguenza sarebbe l'irreversibile mutazione genetica della riserva di legge nella differente riserva di diritto; con il conseguente dissolvimento delle garanzie legate, storicamente e istituzionalmente, al monopolio legislativo del diritto penale. Pur non rientrando nei limiti di sindacabilita' della Corte costituzionale, concernendo il profilo, spettante agli organi sovranazionali, dell'interpretazione ed applicazione del diritto dell'Unione, va nondimeno rilevato, per la diretta incidenza sui principio costituzionale della riserva di legge, che la sentenza Taricco travalica i confini della competenza riconosciuta dal Trattato alle istituzioni dell'Unione. Innanzitutto, la Corte di giustizia individua la «base legale» per la tutela penale degli interessi finanziari dell'Unione europea nell'art. 325 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, che, come si evince dalla collocazione e dal tenore, non e' una norma penale; l'art. 325 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, infatti, e' una disposizione sulla produzione delle leggi, rivolta agli Stati membri, a carico dei quali pone un obbligo di risultato preciso, come si evince dal comma 2, secondo cui «Gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari». Da tale disposizione, e dal complessivo quadro istituzionale dell'Unione, deriva che l'eventuale inadeguatezza della tutela penale apprestata da un ordinamento nazionale potrebbe essere sanzionata con una procedura di inadempimento dello Stato membro (art. 258 e seguenti, Trattato sul funzionamento dell'Unione europea), non gia' con l'affermazione di un obbligo di disapplicazione con effetti penali in malam partem rivolto ai giudici nazionali; oppure l'Unione avrebbe la possibilita', alternativa, di esercitare i poteri conferiti dall'art. 83 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, mediante adozione di direttive, previo inserimento della materia delle frodi nell'ambito delle competenze penali indirette dell'Unione. E qui si coglie l'ulteriore aspetto di travalicamento dei limiti - che, come si rilevera' in seguito, incide sul rispetto dell'art. 11 della Costituzione -, in quanto il Trattato sull'Unione europea riconosce alle istituzioni «eurounitarie», nell'ambito di quelle «limitazioni di sovranita'» consentite dall'art. 11 della Costituzione, competenza penale soltanto indiretta, prevedendo l'adozione di direttive in alcune sfere di criminalita' caratterizzate da una dimensione transnazionale; in tal senso, l'art. 83 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea prevede che «Il Parlamento europeo e il consiglio, deliberando mediante direttive secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalita' particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessita' di combatterli su basi comuni»; e tra tali «materie» non rientrano, allo stato, le frodi agli interessi finanziari dell'Unione, essendo previste le seguenti «sfere di criminalita'»; «terrorismo, tratta degli esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traffico illecito di stupefacenti, traffico illecito di armi, riciclaggio di denaro, corruzione, contraffazione di mezzi di pagamento, criminalita' informatica e criminalita' organizzata». L'assunzione dell'art. 325 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea quale «base legale» per la tutela penale di interessi finanziari dell'Unione europea, dunque, oltre ad eccedere la natura programmatica della disposizione, finisce per attribuire una competenza penale diretta all'Unione, al di fuori degli stessi limiti istituzionali previsti dal Trattato. 4.5. Il principio di tassativita' e determinatezza (art. 25, comma 2, della Costituzione). La ratio garantista e la funzione del principio di riserva di legge sarebbero elusi anche in considerazione di un ulteriore profilo, rilevante anche nella dimensione del principio di tassativita' della norma penale. Invero, come si e' in precedenza evidenziato, la Corte di giustizia individua i presupposti dell'obbligo di disapplicazione delle norme sull'interruzione della prescrizione in concetti vaghi ed indeterminati, quali «la frode e le altre attivita' illegali che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea» ed il «numero considerevole di casi di frode grave» che dovrebbe essere oggetto di accertamento giudiziale. L'indeterminatezza dei concetti, che comporta una elusione sostanziale della stessa riserva di legge, e' stata gia' apprezzata in precedenza, ai diversi fini della valutazione di rilevanza della questione di costituzionalita'. Sotto un primo profilo, si e' evidenziato che la nozione di «frode grave» e' rimessa alla valutazione del giudice, in assenza di parametri normativi univoci e direttamente applicabili; del resto, la stessa individuazione della soglia di € 50.000,00 quale indice di «gravita'» della frode, in quanto indicata dalla Convenzione PIF, e' incompatibile con le soglie di rilevanza penale (non di gravita') indicate in alcuni reati tributari - comunemente commessi in esecuzione delle operazioni fraudolente -, quali l'omessa dichiarazione (l'art. 5 decreto legislativo n. 74/2000 indica la soglia di rilevanza penale in € 50.000,00), l'omesso versamento di IVA (l'art. 10-ter indica la soglia in € 250.000,00). Anche la delimitazione dell'ambito di operativita' dell'obbligo di disapplicazione, riconosciuto dalla Corte di giustizia a «la frode e le altre attivita' illegali che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea», resta del tutto affidata al giudice, non essendo specificate le fattispecie incriminatrici per le quali dovrebbe valere l'obbligo di disapplicazione; la stessa interpretazione proposta da questa Corte, ai diversi fini della valutazione della rilevanza della questione di costituzionalita', nella prospettiva dell'ordinamento sovranazionale, e' stata fondata su disposizioni, come si e' evidenziato, «programmatiche», come l'art. 325 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, che scontano un grado di indeterminatezza insuscettibile di applicazione automatica, e sulla fattispecie concreta posta a fondamento del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in re Taricco; in altri termini, l'art. 325 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea non e' una regola suscettibile di applicazione giudiziale automatica, ma, al piu', una regola sulla produzione di norme, diretta all'Unione europea e agli Stati membri; in ambito giurisdizionale, invece, puo' essere assunta non gia' come regola, che risponde alla logica del «tutto o niente», bensi' come principio, che risponde alle diverse logiche del bilanciamento di interessi. Altrettanto eccentrico, rispetto ai principi costituzionali che governano la materia penale, risulta il tentativo - operato ai fini della valutazione di rilevanza della questione - di delimitare l'ambito di operativita' della «norma di derivazione giudiziale» sull'obbligo di disapplicazione sulla base della fattispecie concreta decisa dalla fonte del diritto (la «frode carosello» oggetto del rinvio pregiudiziale del Tribunale di Cuneo); opzione ermeneutica, si' imposta dall'obbligo di fedelta' «comunitaria» e dalla necessita' di valutare la rilevanza della questione di costituzionalita', ma che comunque comporta una totale inversione dei canoni costituzionali dell'interpretazione nel nostro ordinamento, fondati sulla astratta delimitazione del diritto, e sulla successiva operazione di ascrizione del fatto alla fattispecie astratta; al contrario, per delimitare l'ambito di operativita' dell'obbligo di disapplicazione si dovrebbe procedere dal fatto oggetto del giudizio della Corte di giustizia per giungere al diritto; una prospettiva inedita per gli ordinamenti di civil law, che richiama in maniera piuttosto evidente le declinazioni della c.d. judge-made law tipica degli ordinamenti di common law. Resta, dunque, l'oggettiva indeterminatezza dell'ambito di operativita' dell'obbligo di disapplicazione, non essendo disposto, in maniera precisa, se esso operi soltanto con riferimento ai reati tributari con condotta fraudolenta (articoli 2, 3 e 11 decreto legislativo n. 74/2000), o anche con riferimento ai reati tributari che non descrivono una fraudolenza della condotta (articoli 4, 5, 8, 10, 10-bis, 10-ter, 10-quater decreto legislativo n. 74/2000), ovvero anche con riferimento ad altri reati potenzialmente offensivi degli interessi finanziari dell'Unione europea (tra i quali l'art. 640-bis del codice penale sovente contestato nei procedimenti penali per le c.d. «frodi carosello»). Infine, il terzo requisito che fonda, nell'interpretazione della Corte di giustizia, l'obbligo di disapplicazione e' costituito dalla valutazione, rimessa al giudice nazionale, di apprezzare l'ineffettivita' delle sanzioni previste «in un numero considerevole di casi di frode grave» che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea. Anche in tal caso va innanzitutto evidenziata l'estrema indeterminatezza del requisito, probabilmente piu' consono alle differenti esperienze di common law che pure integrano, sovente in maniera significativa, la matrice culturale della giurisdizione europea. Al riguardo, come si e' gia' osservato in sede di valutazione della rilevanza della questione di costituzionalita', tale requisito puo' essere considerato in astratto, ovvero con riferimento all'integralita' dei procedimenti pendenti dinanzi alle autorita' giudiziarie italiane; in tal caso, tuttavia, esso implicherebbe una prognosi di natura statistica che esula dai limiti cognitivi e valutativi del giudice, e anche di questa Corte; a cio' ostando non soltanto l'assenza di dati statistici affidabili, ma soprattutto l'orizzonte conoscitivo del singolo giudice, necessariamente limitato, dal vigente sistema processuale, ai fatti di causa, ovvero i fatti che si riferiscono all'imputazione, alla punibilita' e dai quali dipenda l'applicazione di norme processuali (art. 187 del codice di procedura penale) rilevanti nel singolo processo, non gia' nella generalita' degli altri processi. In una seconda ipotesi, il presupposto potrebbe risolversi in una prognosi meramente empirica, del singolo giudice, e dell'«esperienza» soggettivamente espressa; in tal caso, tuttavia, il requisito sarebbe del tutto vago ed indeterminato, in quanto fondato su soggettivismi di difficile verificabilita' (in senso epistemologico). In una terza ipotesi, seguita da questa Corte ai diversi ed esclusivi fini della valutazione della rilevanza della questione, il requisito del «numero considerevole di casi di frode grave» puo' essere inteso in concreto, con riferimento alle fattispecie oggetto del giudizio rimesso al singolo giudice. In tutti i casi, dunque, anche in quest'ultimo, che sembra affidare al giudice una piu' ristretta base cognitiva, la valutazione sul «grado» (statistico, soggettivo, empirico) di ineffettivita' delle previsioni sanzionatorie resta comunque rimessa all'esclusiva decisione del giudice nazionale; e da tale valutazione ne discenderebbe una estensione o meno della punibilita'. Non appare, al riguardo, ridondante sottolineare le differenze tra le categorie logiche dell'«interpretazione», quale attivita' di ricostruzione ed individuazione dei confini astratti della norma applicabile nel rapporto di interazione tra fattispecie astratta e fatto concreto, della «discrezionalita'», relativa alla fase di ricostruzione, individuazione e/o concretizzazione dei concetti c.d. elastici della norma applicabile al caso concreto, e della «valutazione» delle prove, relativa alla fase di accertamento del fatto concreto. Ebbene, nel caso dell'individuazione del «numero considerevole di casi di frode grave», non puo' parlarsi di mera interpretazione, mancando qualsiasi confine astratto della norma, e neppure di discrezionalita', mancando qualsiasi criterio, finalistico o fattuale, di riferimento (come, ad esempio, nel classico caso dell'art. 133 del codice penale); la categoria logica che viene in rilievo, nel caso di specie, e' la «valutazione», come del resto espressamente riconosciuto dalla Corte di giustizia; tuttavia, tranne che nel sindacato di costituzionalita' (nel quale il parametro di giudizio e' la norma sovraordinata), la valutazione ha ad oggetto le prove, non gia' la norma; e quindi se la norma diviene oggetto di valutazione, al di fuori di qualsiasi limite «legale» o di qualsiasi criterio di riferimento, essa assume i contorni non gia' di una «regola di azione», ma di un concetto del tutto elastico, soggetta al totale arbitrio (in senso epistemologico) del giudice, costretto a riempire di contenuto il concetto, ed insuscettibile di orientare «le libere scelte d'azione» del cittadino (Corte costituzionale, n. 364 del 1988): in altri termini, la negazione del principio di tassativita' e di riserva di legge in materia penale. Invero, al di fuori di una incontrollabile valutazione giudiziale, non sono indicati i criteri ed i requisiti per ritenere ineffettive le previsioni sanzionatorie in un «numero considerevole» di casi di frode grave: in una declinazione statistica, peraltro del tutto inverosimile, quale numero di procedimenti (o di reati) definiti con l'estinzione per prescrizione dovrebbe ritenersi sufficiente ad integrare il requisito del «numero considerevole»? ed in una declinazione empirica, nell'ambito di un procedimento avente ad oggetto migliaia di condotte lesive degli interessi finanziari, sarebbe sufficiente l'estinzione di poche decine di reati, magari riguardanti l'evasione di somme estremamente significative, o occorrerebbe l'estinzione di centinaia di reati, seppur riguardanti l'evasione di piu' contenute somme erariali? Le considerazioni espresse e gli interrogativi posti evidenziano che l'assoluta carenza di tassativita' della norma impone al giudice nazionale una valutazione di natura politico-criminale (una Kriminalpolitik im kleinen, secondo la felice definizione «ossimorica» elaborata nella dottrina penalistica d'oltralpe), fisiologicamente riservata, come si e' detto, al legislatore, sulla effettivita' e dissuasivita' della complessiva disciplina normativa rispetto alla tutela degli interessi finanziari dell'Unione europea; «valutazione» che assegna al giudice l'an della punibilita' in concreto dei fatti lesivi degli interessi finanziari dell'Unione europea. 4.6. Il principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione). Tale situazione determina due conseguenze immediate: da un lato, la prescrizione, nel settore delle frodi gravi agli interessi finanziari dell'Unione europea, non avra' piu' i contorni di una disciplina prêt-a-porter, confezionata in serie, ma assumera' i connotati di una disciplina «su misura» del singolo processo, o del singolo imputato, o, addirittura, di gruppi di imputati; evidente, in tal senso, la violazione del fondamentale principio di uguaglianza, sancito dall'art. 3 della Costituzione. Il difetto di determinatezza dei criteri che dovrebbero orientare la disapplicazione, dunque, comporta una violazione del principio di uguaglianza, determinando disparita' di trattamento tra autori dei medesimi reati, a seconda che gli stessi vengano ritenuti, in concreto, e non gia' in astratto, «un numero considerevole di casi di frode grave». La disapplicazione in malam partem sarebbe del tutto «randomizzata», essendo fondata su presupposti e requisiti di incerta determinazione, esulanti dai consueti e fisiologici confini della mera attivita' interpretativa, e ridondanti in vere e proprie valutazioni politico-criminali riservate al potere legislativo. 4.7. Il principio di separazione dei poteri e di sottoposizione del giudice soltanto alla legge (art. 101, comma 2, della Costituzione). Sotto diverso ed ulteriore profilo, infatti, l'affidamento al giudice dell'individuazione dell'oggetto ("frode grave"), dell'ambito di applicabilita' («la frode e le altre attivita' illegali che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea»), e della valutazione di ineffettivita' della disciplina («in un numero considerevole di casi di frode grave»), assegna all'ordine giudiziario un potere normativo riservato al legislatore, che viola, all'evidenza, il principio fondamentale - posto a fondamento dello stesso costituzionalismo moderno, almeno a partire dall'illuminismo - della separazione dei poteri, comportando una sovrapposizione del «giudiziario» al «legislativo», e l'attribuzione alla giurisdizione di una funzione normativa in materia penale patentemente inosservante del precetto che impone che il giudice sia soggetto «soltanto alla legge» (art. 101, comma 2, della Costituzione). Al riguardo, va osservato che la soggezione del giudice «soltanto alla legge» comprende anche le fonti sovranazionali che, in virtu' delle limitazioni di sovranita' consentite con la stipula dei Trattati, integrano il nostro sistema costituzionale delle fonti; e' ormai pacifica l'appartenenza delle «norme» europee all'ordinamento nazionale, al quale il giudice e' soggetto. Tuttavia, la frizione con il principio di separazione dei poteri non deriva, nel caso in esame, dalla «provenienza» europea, o giurisprudenziale (rilevante ai diversi fini della riserva di legge), della norma, bensi' dal contenuto della norma, che rimette direttamente al giudice la valutazione di adeguatezza di una disciplina penale ai fini di prevenzione; in altri termini, al giudice viene affidata una valutazione di natura politico-criminale, relativa all'efficacia general-preventiva della complessiva disciplina penale a tutela degli interessi finanziari dell'Unione europea, che, in base al principio della divisione dei poteri, non puo' che competere al legislatore, nazionale o anche - nei limiti e con le forme, come si e' evidenziato, soltanto indirette, previste dal Trattato sul funzionamento dell'Unione europea - «eurounitario». Come e' stato opportunamente evidenziato in dottrina, ove l'effetto disapplicativo in malam partem, connesso a valutazioni politico-criminali di carattere general-preventivo, «una sorta di opposto in malam partem del giudizio di offensivita'», fosse stato previsto da una norma penale interna, non sarebbe stato ritenuto conforme ai principi di tassativita', di riserva di legge e, strettamente connesso, di divisione dei poteri. 4.8. Il principio della finalita' rieducativa della pena (art. 27, comma 3, della Costituzione). 4.8.1. L'obbligo di disapplicazione delle norme sull'interruzione della prescrizione, con il conseguente prolungamento dei termini, viene affermato dalla Corte di giustizia con riferimento esclusivo ai «casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea». La disciplina, derogatoria rispetto a quella generale, rinviene dunque la propria ratio nella tutela degli interessi finanziari dell'Unione europea, che fonderebbe una maggiore estensione della punibilita' delle «frodi gravi» per la salvaguardia dell'interesse alla percezione dei tributi in ambito «comunitario». Tuttavia, il prolungamento dei termini di prescrizione, e quindi della punibilita', in ragione della tutela degli interessi finanziari dell'Unione europea, comporta una funzionalizzazione della pena eccentrica rispetto al teleologismo costituzionale: la pena non tende piu' alla rieducazione del condannato, secondo quanto previsto dall'art. 27, comma 3, della Costituzione, ma diviene strumento di tutela degli interessi finanziari dell'Unione. In tal modo, si registra una inversione della concezione personalistica sottesa alla Costituzione, con una strumentalizzazione dell'individuo-persona che, da «fine» della sanzione penale, ne diviene «mezzo»: la visione personalistica sottesa alla funzione rieducativa della pena affermata dalla Costituzione soccombe alla visione patrimonialistica e finanziaria sottesa alla tutela degli interessi finanziari dell'Unione. Tuttavia, nella dimensione costituzionale, gli interessi finanziari non possono assurgere a fine della sanzione penale, restando del tutto estranei agli scopi special-preventivi assegnati dalla Carta del 1948 alla pena. Ne' potrebbe fondatamente obiettarsi che gli interessi finanziari dell'Unione sono un legittimo bene giuridico suscettibile di tutela, che, in tal modo, si incorrerebbe in una inversione metodologica: invero, e' pacifico che gli interessi finanziari dell'Unione europea (e qualsiasi interesse patrimoniale ritenuto meritevole di tutela da parte del legislatore) fondano la tutela penale apprestata con le relative fattispecie incriminatrici a salvaguardia dell'interesse alla percezione dei tributi (anche «comunitari»); ma l'assetto della punibilita' non puo' essere modificato, mediante prolungamento dei termini di prescrizione, consentendo l'applicazione della sanzione penale all'esclusivo fine di tutelare gli interessi finanziari, anziche' al fine di tendere alla risocializzazione del condannato. Riprendendo la distinzione concettuale richiamata infra § 4.2.2., gli interessi finanziari possono fondare, e fondano, la c.d. «meritevolezza di pena» (Strafwürdigkeit, nella terminologia della dottrina d'oltralpe che ha elaborato il concetto), la scelta relativa alla astratta criminalizzazione del fatto, ma non possono assumere rilievo nella dimensione del c.d. «bisogno di pena» (Strafbedürfnis). Allorquando in tale dimensione vengano in rilievo considerazioni politico-criminali - quali quelle relative alla salvaguardia degli interessi finanziari dell'Unione europea -, e non per restringere, bensi' per estendere la punibilita', la sanzione penale diviene strumento della politica-criminale, e non piu' strumento di tendenziale risocializzazione della persona. 4.8.2. Va, al riguardo, richiamata la giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha valorizzato il principio di rieducazione sul piano della struttura del reato (con la celebre sentenza n. 364 del 1988), e sul piano della dimensione teleologica della pena, mediante l'affermazione dell'immanenza della finalita' rieducativa alla fase dell'astratta previsione normativa, della concreta commisurazione, e dell'esecuzione. Merita, sul punto, rammentare quanto limpidamente chiarito dalla Corte costituzionale, nella sentenza 2 luglio 1990, n. 313: «In verita', incidendo la pena sui diritti di chi vi e' sottoposto, non puo' negarsi che, indipendentemente da una considerazione retributiva, essa abbia necessariamente anche caratteri in qualche misura afflittivi. Cosi' come e' vero che alla sua natura ineriscano caratteri di difesa sociale, e anche di prevenzione generale per quella certa intimidazione che esercita sul calcolo utilitaristico di colui che delinque. Ma, per una parte (afflittivita', retributivita'), si tratta di profili che riflettono quelle condizioni minime, senza le quali la pena cesserebbe di essere tale. Per altra parte, poi (reintegrazione, intimidazione, difesa sociale), si tratta bensi' di valori che hanno un fondamento costituzionale, ma non tale da autorizzare il pregiudizio della finalita' rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell'istituto della pena. Se la finalizzazione venisse orientata verso quei diversi caratteri, anziche' al principio rieducativo, si correrebbe il rischio di strumentalizzare l'individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilita' e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l'esemplarita' della sanzione. E' per questo che, in uno Stato evoluto, la finalita' rieducativa non puo' essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stesse della pena. L'esperienza successiva ha, infatti, dimostrato che la necessita' costituzionale che la pena debba «tendere» a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualita' essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue. Cio' che il verbo «tendere» vuole significare e' soltanto la presa d'atto della divaricazione che nella prassi puo' verificarsi tra quella finalita' e l'adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione: com'e' dimostrato dall'istituto che fa corrispondere benefici di decurtazione della pena ogniqualvolta, e nei limiti temporali, in cui quell'adesione concretamente si manifesti (liberazione anticipata). Se la finalita' rieducativa venisse limitata alla fase esecutiva, rischierebbe grave compromissione ogniqualvolta specie e durata della sanzione non fossero state calibrate (ne' in sede normativa ne' in quella applicativa) alle necessita' rieducative del soggetto. La Corte ha gia' avvertito tutto questo quando non ha esitato a valorizzare il principio addirittura sul piano della struttura del fatto di reato (cfr. sentenza n. 364 del 1988). Dev'essere, dunque, esplicitamente ribadito che il precetto di cui al terzo comma dell'art. 27 della Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli dell'esecuzione e della sorveglianza, nonche' per le stesse autorita' penitenziarie. Del resto, si tratta di un principio che, seppure variamente profilato, e' ormai da tempo diventato patrimonio della cultura giuridica europea, particolarmente per il suo collegamento con il «principio di proporzione» fra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, ed offesa, dall'altra. Principio che la Corte di giustizia della Comunita' europea ha accolto in tutta la sua ampiezza, al punto da estenderlo all'illecito amministrativo (cfr. sentenze 20 febbraio 1979, n. 122/1978 e 21 giugno 1979, n. 240/1978, in Racc. Giur. C.E.E. 1979, 677 e 2137). Tanto piu', quindi, esso deve trovare larga applicazione all'interno di un ordinamento come il nostro, che ne ha fatto un punto cardine della funzione costituzionale della pena» (§ 8). Se, pertanto, la finalita' rieducativa costituisce uno degli scopi della pena gia' nella fase della astratta previsione normativa, non puo' essere del tutto obliterata per la salvaguardia degli interessi finanziari che, impropriamente, assumono rilievo nella dimensione del c.d. «bisogno di pena». La conseguenza di una tale sovrapposizione di piani, infatti, sarebbe una strumentalizzazione dell'individuo per conseguire finalita' di politica criminale, espressione di mere esigenze di prevenzione generale. 4.9. I principi di ragionevolezza (art. 3 della Costituzione) e della finalita' rieducativa della pena (art. 27, comma 3, della Costituzione). Sotto diverso ed ulteriore profilo, va sottolineato che il fondamento della prescrizione e' stato individuato, dalla dottrina prevalente e dalla stessa giurisprudenza costituzionale, nella funzione special- e general-preventiva della pena; il decorso del tempo dal reato affievolirebbe le esigenze di prevenzione, sia sotto il profilo dell'allarme sociale, sia sotto il profilo dell'attitudine rieducativa di una pena che verrebbe applicata nei confronti di una persona potenzialmente 'diversa', che potrebbe, in ipotesi, essersi nel frattempo integrata e, magari, riappropriata del valore precedentemente offeso. La Corte costituzionale, con la sentenza 28 maggio 2014, n. 143, con la quale ha dichiarato l'illegittimita' del raddoppio dei termini di prescrizione per l'incendio colposo, ha significativamente evidenziato: «Sebbene possa proiettarsi anche sul piano processuale - concorrendo, in specie, a realizzare la garanzia della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, della Costituzione) - la prescrizione costituisce, nell'attuale configurazione, un istituto di natura sostanziale (ex plurimis, sentenze n. 324 del 2008 e n. 393 del 2006), la cui ratio si collega preminentemente, da un lato, all'"interesse generale di non piu' perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venir meno, o notevolmente attenuato [...] l'allarme della coscienza comune" (sentenze n. 393 del 2006 e n. 202 del 1971, ordinanza n. 337 del 1999); dall'altro, «al "diritto all'oblio» dei cittadini, quando il reato non sia cosi' grave da escludere tale tutela» (sentenza n. 23 del 2013). Le evidenziate finalita' si riflettono puntualmente nella tradizionale scelta di correlare alla gravita' del reato il tempo necessario a prescrivere, ancorandolo al livello quantitativo della sanzione, indice del suo maggiore o minor disvalore nella coscienza sociale. Siffatta correlazione, cui gia' si ispirava la scansione dei termini prescrizionali per «classi di reati» originariamente adottata dal codice penale del 1930, e' divenuta ancor piu' stretta a seguito della legge n. 251 del 2005, la quale - come gia' ricordato - ha identificato nella durata massima della pena edittale di ciascun reato il tempo sufficiente a decretare, in via presuntiva, il disinteresse sociale per la repressione del fatto criminoso. Al legislatore non e' certamente inibito introdurre deroghe alla regola generale di computo dallo stesso posta, non potendo in essa scorgersi un «momento necessario di attuazione - o di salvaguardia - dei principi costituzionali» (sentenza n. 455 del 1998, ordinanza n. 288 del 1999). Nell'esercizio della sua discrezionalita', il legislatore puo' pertanto stabilire termini di prescrizione piu' brevi o piu' lunghi di quelli ordinari in rapporto a determinate ipotesi criminose, sulla base di valutazioni correlate alle specifiche caratteristiche degli illeciti considerati e alla ponderazione complessiva degli interessi coinvolti. Soluzioni di segno estensivo possono essere giustificate, in specie, sia dal particolare allarme sociale generato da alcuni tipi di reato, il quale comporti una «resistenza all'oblio» nella coscienza comune piu' che proporzionale all'energia della risposta sanzionatoria; sia dalla speciale complessita' delle indagini richieste per il loro accertamento e dalla laboriosita' della verifica dell'ipotesi accusatoria in sede processuale, cui corrisponde un fisiologico allungamento dei tempi necessari per pervenire alla sentenza definitiva. La discrezionalita' legislativa in materia deve essere pur sempre esercitata, tuttavia, nel rispetto del principio di ragionevolezza e in modo tale da non determinare ingiustificabili sperequazioni di trattamento tra fattispecie omogenee». La giurisprudenza costituzionale richiamata appare particolarmente significativa: nell'evidenziare la connessione tra prescrizione e funzione rieducativa della pena - che potrebbe essere compromessa da una disciplina della causa estintiva che, per i soli reati a tutela di interessi finanziari dell'Unione europea, preveda un prolungamento dei termini suscettibile di integrare una sostanziale «imprescrittibilita'» -, afferma che entrambi gli elementi, di natura general- e special-preventiva, sono strettamente collegati alla gravita' del reato, come altresi' dimostrato dall'ancoraggio legislativo del termine prescrizionale alla pena massima prevista in astratto per il reato; nondimeno, ammette che il legislatore dispone di una ampia discrezionalita' nello stabilire termini prescrizionali derogatori rispetto alla mera gravita' dei reati; tuttavia, delimita il perimetro di legittimita' dell'esercizio di tale discrezionalita', individuando nel particolare allarme sociale di alcuni reati, ovvero nella particolare difficolta' di indagine e di accertamento processuale, che incida in maniera rilevante sulla durata media del processo, le ragioni che possono fondare la previsione di piu' ampi termini di prescrizione. Ebbene, nel caso dell'obbligo di disapplicazione sancito dalla Corte di giustizia, di prolungamento dei termini di prescrizione riguarderebbe non gia' «alcuni tipi di reato», ma soltanto i reati che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea. In altri termini, il prolungamento dei termini non coinvolgerebbe tutte le fattispecie astratte di dichiarazione fraudolenta, omessa dichiarazione, emissione di fatture per operazioni inesistenti, ecc., previste dagli articoli 2, 5 e 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000, bensi' soltanto le fattispecie concrete che «ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea»; non e' il «tipo di reato» che viene assunto a discrimen del differente trattamento, ragionevole in virtu' del maggior allarme sociale o della complessita' dell'accertamento, ma il «tipo di fatto», in quanto offensivo degli interessi finanziari dell'Unione europea. Tale conseguenza comporta una violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 della Costituzione), in quanto determina «ingiustificabili sperequazioni di trattamento tra fattispecie omogenee»: la stessa fattispecie, in ipotesi di dichiarazione fraudolenta, ove lesiva degli interessi finanziari dell'Unione europea, sarebbe sottoposta ad un prolungamento dei termini di prescrizione; ove risulti lesiva di interessi finanziari «domestici», sarebbe disciplinata dagli ordinari termini di prescrizione. La medesima tipologia di fattispecie astratta, del resto, esclude che la sperequazione di trattamento possa essere giustificata da un maggior allarme sociale ovvero da una maggior complessita' di accertamento. 4.10. Il principio del rispetto dei controlimiti alle limitazioni di sovranita' (art. 11 della Costituzione). Come si e' gia' evidenziato infra § 4.1, la dottrina dei «controlimiti» non va intesa come una forma di resistenza degli Stati nazionali ai processi di integrazione sovranazionale e internazionale, ma l'espressione rigorosa della sovranita' popolare, nella sua dimensione irrinunciabile. Come lucidamente osservato nella dottrina costituzionalistica, vi e' infatti una corrispondenza biunivoca tra controlimiti e sovranita' popolare, nel senso che se «la sovranita' appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1 della Costituzione), non e' il popolo - privo di soggettivita' internazionale -, ma lo Stato italiano a «consentire (...) alle limitazioni di sovranita'» (art. 11 della Costituzione); i controlimiti rappresentano, dunque, lo strumento costituzionale per esercitare, nelle «forme e nei limiti» della Costituzione, la sovranita' popolare, che puo' essere limitata, ma non ceduta; e le limitazioni non possono compromettere la dimensione dei principi fondamentali della Costituzione, alterando l'identita' costituzionale dell'ordinamento nazionale. Peraltro, i «controlimiti» assumono rilevanza sia in negativo, nella prospettiva nazionale (ai sensi dell'art. 11 della Costituzione) e nella prospettiva eurounitaria (ai sensi dell'art. 4.2 Trattato sull'Unione europea, e, per alcuni principi, anche ai sensi dell'art. 6.3 Trattato sull'Unione europea), sia in positivo, quali riflessi dei limiti alle attribuzioni dell'Unione imposti dagli stessi Trattati (articoli 83, 258 e 325 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea). 4.10.1. Nella consapevolezza che l'identificazione dei principi supremi dell'ordinamento costituzionale italiano non possa derivare da un ragionamento di carattere assiomatico, i parametri costituzionali invocati - irretroattivita' della norma penale, riserva di legge, tassativita', diritto di difesa, finalita' rieducativa della pena, uguaglianza, ragionevolezza, divisione dei poteri - appaiono a questa Corte principi che connotano in termini imprescindibili l'identita' costituzionale del nostro ordinamento; principi la cui erosione, conseguente agli effetti derivanti dalla sentenza della Corte di giustizia in re Taricco, segnerebbe il limite di non riconoscibilita' dell'ordine costituzionale. In tal senso, va evidenziato che il profilo dei «controlimiti» e' legato non soltanto all'individuazione ed alla salvaguardia del principi supremi, ma altresi' alle limitazioni di sovranita' consentite dall'art. 11 della Costituzione. Ebbene, le limitazioni di sovranita', oltre a non poter tracimare in vere e proprie cessioni di sovranita', intanto sono costituzionalmente legittime, in quanto siano adottate «nelle forme e nei limiti» previsti dalle fonti che le consentono. Al riguardo, il Trattato sull'Unione europea, stipulato dall'Italia, e fonte delle «limitazioni di sovranita'» consentite ai sensi dell'art. 11 della Costituzione, prevede, all'art. 4.2: «l'Unione rispetta l'uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identita' nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali. Rispetta le funzioni essenziali dello Stato, in particolare le funzioni di salvaguardia dell'integrita' territoriale, di mantenimento dell'ordine pubblico e di tutela della sicurezza nazionale. In particolare, la sicurezza nazionale resta di esclusiva competenza di ciascuno Stato membro». I parametri costituzionali invocati, come si e' gia' osservato, connotano in termini imprescindibili l'identita' costituzionale del nostro ordinamento, essendo «insiti» nella struttura fondamentale dello Stato italiano. Ma gli stessi parametri possono essere considerati altresi' quali principi generali della stessa Unione europea, in quanto comuni - i principi della divisione dei poteri, dell'uguaglianza, dell'irretroattivita' della legge penale, del diritto di difesa - alle tradizioni costituzionali degli Stati membri, e percio' insuscettibili di compromissione da parte delle stesse Istituzioni europee. In tal senso, l'art. 6.3 Trattato sull'Unione europea sancisce: «I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali». Ebbene, la consistenza di principi supremi dei parametri invocati, che, a parere di questa Corte, vengono compromessi dall'obbligo di disapplicazione sancito della sentenza della Corte di giustizia in re Taricco, dovrebbe attrarli nella sfera di intangibilita' propria dei «principi generali» della stessa Unione europea (art. 6.3 Trattato sull'Unione europea); peraltro, se l'estensione dei diritti fondamentali garantiti dall'art. 6.3 Trattato sull'Unione europea e' circoscritta ai principi costituzionali risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri - i principi della divisione dei poteri, dell'uguaglianza, dell'irretroattivita' della legge penale, del diritto di difesa -, la salvaguardia degli altri principi supremi invocati quali controlimiti - riserva di legge, finalita' rieducativa della pena, tassativita' - e' garantita in modo maggiormente pregnante dall'art. 4.2 Trattato sull'Unione europea. L'art. 4.2, infatti, nell'affermare che l'Unione rispetta l'«identita' nazionale» degli Stati membri insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, garantisce, a sua volta, l'intangibilita' dei c.d. «controlimiti», dei principi supremi che connotano l'identita' costituzionale di un ordinamento nazionale. Ne' potrebbe fondatamente obiettarsi che l'art. 4.2. Trattato sull'Unione europea avrebbe 'comunitarizzato' i controlimiti, incorporandoli nel diritto eurounitario, e trasformandoli da controlimiti esterni in semplici limiti interni all'ordinamento dell'Unione europea; come osservato nella dottrina costituzionalistica, una tale interpretazione, infatti, snaturerebbe la funzione stessa dei controlimiti, neutralizzandone i contenuti, in quanto la gestione ed il rispetto dei controlimiti sarebbe affidato all'ordinamento (in tal caso, 'eurounitario') nei cui confronti essi vengono opposti; in tal senso, la norma del Trattato sarebbe costituzionalmente illegittima per contrasto con il metaprincipio supremo della intangibilita' dei principi supremi. Resta, dunque, integra l'esclusivita' della competenza dell'ordinamento costituzionale nazionale ad affermare i caratteri ed il contenuto della propria identita' nazionale, nelle forme e nei modi previsti dalla Costituzione. Cio' che l'art. 4.2 Trattato sull'Unione europea aggiunge e' la garanzia che le stesse Istituzioni eurounitarie sono tenute a rispettare l'identita' costituzionale degli Stati membri; e dunque, in caso di violazione di tale limite, l'ordinamento nazionale che registrasse un mancato rispetto della propria identita' costituzionale sarebbe, da un lato, legittimata (ai sensi del Trattato sull'Unione), e, dall'altro, obbligata (ai sensi della Costituzione interna), ad opporre i «controlimiti» alla penetrazione del diritto sovranazionale ritenuto irriducibilmente incompatibile con i principi supremi della propria Costituzione. Lungi dall'innescare pretese 'guerre' tra Corti, o tra ordinamenti, dunque, l'opposizione dei «controlimiti» non e' altro che una fisiologica actio finium regundorum tra ordinamento nazionale e ordinamento sovranazionale, nel complesso e multifattoriale processo di integrazione europea, alla stregua delle norme costituzionali (art. 11 della Costituzione) e internazionali (art. 4.2 Trattato sull'Unione europea) che ne regolano l'evoluzione, delimitando - finche' si tratti di Unione, e non di fusione, di ordinamenti - le rispettive attribuzioni. 4.10.2. Sotto tale profilo, dei limiti alle competenze dell'Unione, pur non rientrando nel perimetro di sindacabilita' della Corte costituzionale, concernendo il profilo, spettante agli organi sovranazionali, dell'interpretazione ed applicazione del diritto dell'Unione, va nondimeno rilevato che la sentenza Taricco travalica i confini delle attribuzioni riconosciute dal Trattato alle istituzioni dell'Unione. Invero, come gia' osservato supra § 4.4.1. nella diversa prospettiva del principio di riserva di legge statale, la Corte di giustizia individua la «base legale» per la tutela penale degli interessi finanziari dell'Unione europea nell'art. 325 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, che, come si evince dalla collocazione e dal tenore, non e' una norma penale; l'art. 325 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, infatti, e' una disposizione sulla produzione delle leggi, rivolta agli Stati membri, a carico dei quali pone un obbligo di risultato preciso, come si evince dal comma 2, secondo cui «Gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari». Da tale disposizione, e dal complessivo quadro istituzionale dell'Unione, deriva che l'eventuale inadeguatezza della tutela penale apprestata da un ordinamento nazionale potrebbe essere sanzionata con una procedura di inadempimento dello Stato membro (art. 258 e seguenti, Trattato sul funzionamento dell'Unione europea), non gia' con l'affermazione di un obbligo di disapplicazione con effetti penali in malam partem rivolto ai giudici nazionali; oppure l'Unione avrebbe la possibilita', alternativa, di esercitare i poteri conferiti dall'art. 83 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, mediante adozione di direttive, previo inserimento della materia delle frodi nell'ambito delle competenze penali indirette dell'Unione. E qui si coglie l'ulteriore profilo di travalicarnento dei limiti - che, come si e' evidenziato, incide sul rispetto dell'art. 11 della Costituzione -, in quanto il Trattato dell'Unione europea riconosce alle istituzioni 'eurounitarie', nell'ambito di quelle «limitazioni di sovranita'» consentite dall'art. 11 della Costituzione, competenza penale soltanto indiretta, prevedendo l'adozione di direttive in alcune sfere di criminalita' caratterizzate da una dimensione transnazionale; in tal senso, l'art. 83 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea prevede che «Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante direttive secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalita' particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessita' di combatterli su basi comuni»; e tra tali 'materie' non rientrano, allo stato, le frodi agli interessi finanziari dell'Unione, essendo previste le seguenti 'sfere di criminalita': «terrorismo, tratta degli esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traffico illecito di stupefacenti, traffico illecito di armi, riciclaggio di denaro, corruzione, contraffazione di mezzi di pagamento, criminalita' informatica e criminalita' organizzata». L'assunzione dell'art. 325 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea quale «base legale» per la tutela penale di interessi finanziari dell'Unione europea, dunque, oltre ad eccedere la natura programmatica della disposizione, finisce per attribuire una competenza penale diretta all'Unione, al di fuori degli stessi limiti istituzionali previsti dal Trattato. 5. Alla stregua delle considerazioni che precedono, dunque, va proposta la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130, che ordina l'esecuzione del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, come modificato dall'art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (Trattato sul funzionamento dell'Unione europea), nella parte in cui impone di applicare l'art. 325, § 1 e 2, Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, dal quale - nell'interpretazione fornita dalla Corte di giustizia, 8 settembre 2015, causa C - 105/14, Taricco - discende l'obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli articoli 160, comma 3, e 161, comma 2, del codice penale, in presenza delle circostanze indicate nella sentenza europea, allorquando ne derivi la sistematica impunita' delle gravi frodi in materia di IVA, anche se dalla disapplicazione, e dal conseguente prolungamento del termine di prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l'imputato, per contrasto di tale norma con i parametri di cui agli articoli 3, 11, 25, comma 2, 27, comma 3, 101, comma 2, della Costituzione.
P. Q. M. Letto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87. Solleva la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130, che ordina l'esecuzione del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, come modificato dall'art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (Trattato sul funzionamento dell'Unione europea), nella parte che impone di applicare l'art. 325, § 1 e 2, Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, dalla quale - nell'interpretazione fornita dalla Corte di giustizia, 8 settembre 2015, causa C - 105/14, Taricco - discende l'obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli articoli 160, comma 3, e 161, comma 2, codice penale, in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, allorquando ne derivi la sistematica impunita' delle gravi frodi in materia di IVA, anche se dalla disapplicazione, e dal conseguente prolungamento del termine di prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l'imputato, per contrasto di tale norma con gli articoli 3, 11, 25, comma 2, 27, comma 3, 101, comma 2, della Costituzione. Sospende il giudizio in corso, ed i relativi termini di prescrizione, fino alla definizione del giudizio incidentale di legittimita' costituzionale. Manda la Cancelleria per gli adempimenti di rito, disponendo che gli atti siano immediatamente trasmessi alla Corte costituzionale, e che l'ordinanza sia notificata alle parti ed al pubblico ministero, nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri, e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso in Roma il 30 marzo 2016. Il Presidente: Grillo Il consigliere estensore: Riccardi