N. 58 SENTENZA 7 febbraio - 23 marzo 2018
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Industria - Stabilimenti di interesse strategico nazionale - Provvedimento di sequestro giudiziario riferito ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori - Condizioni e limiti alla prosecuzione dell'attivita' di impresa. - Decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92 (Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonche' per l'esercizio dell'attivita' d'impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), art. 3; legge 6 agosto 2015, n. 132 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83, recante misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria), artt. 1, comma 2, e 21-octies. -(GU n.13 del 28-3-2018 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente:Giorgio LATTANZI; Giudici :Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO,
ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92 (Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonche' per l'esercizio dell'attivita' d'impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto nel procedimento penale a carico di S. R. e altri, con ordinanza del 14 luglio 2015, iscritta al n. 67 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell'anno 2017. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 7 febbraio 2018 il Giudice relatore Marta Cartabia. Ritenuto in fatto 1.- Con ordinanza del 14 luglio 2015 (r. o. n. 67 del 2017), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92 (Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonche' per l'esercizio dell'attivita' d'impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 32, primo comma, 35, primo comma, 41, secondo comma, e 112 della Costituzione. 1.1.- Il rimettente ha precisato di essere investito della decisione sull'istanza, depositata nella segreteria del Pubblico ministero del medesimo Tribunale e da questi trasmessa all'ufficio del giudice per le indagini preliminari, avanzata dalla difesa di ILVA spa in amministrazione straordinaria (d'ora innanzi: ILVA), affinche' venisse data attuazione al citato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015 in riferimento al sequestro preventivo dell'altoforno denominato "Afo2" presso lo stabilimento di Taranto della societa'. 1.2.- Si procedeva, infatti, a carico di R. S. e altri dirigenti e tecnici in servizio presso tale stabilimento, in relazione ai reati di cui agli artt. 110 e 437, commi 1 e 2, del codice penale - per avere, in concorso, omesso di predisporre cautele volte a prevenire la proiezione di materiale incandescente e strumentazioni idonee a garantire l'incolumita' dei lavoratori, da cui e' derivato l'infortunio mortale di un operaio - e agli artt. 113 e 589 cod. pen., per avere determinato la morte del predetto operaio mediante le omissioni di cui sopra. Nella fase delle indagini preliminari, il pubblico ministero ha disposto, con decreto del 18 giugno 2015, il sequestro preventivo d'urgenza, senza facolta' d'uso, del citato altoforno, ravvisando le esigenze cautelari di cui all'art. 321, commi 1 e 2, del codice di procedura penale. Con ordinanza del 29 giugno 2015, il rimettente ha convalidato il decreto del pubblico ministero e ha disposto il sequestro preventivo dello stesso impianto, senza facolta' d'uso. E' quindi intervenuto l'impugnato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015, la cui rubrica recita: «Misure urgenti per l'esercizio dell'attivita' di impresa di stabilimenti oggetto di sequestro giudiziario». Il comma 1 prevede che «[a]l fine di garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuita' dell'attivita' produttiva, di salvaguardia dell'occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell'ambiente salubre, nonche' delle finalita' di giustizia, l'esercizio dell'attivita' di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale non e' impedito dal provvedimento di sequestro [...] quando lo stesso si riferisca ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori», specificando che cio' era gia' previsto dall'articolo 1, comma 4, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231. Il comma 2 aggiunge che «[t]enuto conto della rilevanza degli interessi in comparazione, nell'ipotesi di cui al comma 1, l'attivita' d'impresa non puo' protrarsi per un periodo di tempo superiore a 12 mesi dall'adozione del provvedimento di sequestro». Il successivo comma 3 stabilisce poi che «[p]er la prosecuzione dell'attivita' degli stabilimenti di cui al comma 1, senza soluzione di continuita', l'impresa deve predisporre, nel termine perentorio di 30 giorni dall'adozione del provvedimento di sequestro, un piano recante misure e attivita' aggiuntive, anche di tipo provvisorio, per la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, riferite all'impianto oggetto del provvedimento di sequestro», aggiungendo che «[l]'avvenuta predisposizione del piano e' comunicata all'autorita' giudiziaria procedente». Il comma 4 dispone, inoltre, che «[i]l piano e' trasmesso al Comando provinciale dei Vigili del fuoco, agli uffici della ASL e dell'INAIL competenti per territorio per le rispettive attivita' di vigilanza e controllo, che devono garantire un costante monitoraggio delle aree di produzione oggetto di sequestro, anche mediante lo svolgimento di ispezioni dirette a verificare l'attuazione delle misure ed attivita' aggiuntive previste nel piano», ulteriormente precisando che «[l]e amministrazioni provvedono alle attivita' previste dal presente comma nell'ambito delle competenze istituzionalmente attribuite, con le risorse previste a legislazione vigente». Infine, il comma 5, contiene una disposizione transitoria, in base alla quale «[l]e disposizioni del presente articolo si applicano anche ai provvedimenti di sequestro gia' adottati alla data di entrata in vigore del presente decreto e i termini di cui ai commi 2 e 3 decorrono dalla medesima data». 1.3.- I difensori di ILVA hanno chiesto al pubblico ministero di dare attuazione al citato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015, il quale, nella loro interpretazione, dispone una sospensione ex lege dell'esecuzione del vincolo reale, rispetto alla quale il provvedimento dell'autorita' giudiziaria competente - individuata nel pubblico ministero in quanto organo che si deve occupare dei profili esecutivi del sequestro preventivo - assumerebbe mero valore dichiarativo. 1.4.- Il pubblico ministero ha trasmesso gli atti per la decisione al giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale, esprimendo parere contrario all'accoglimento dell'istanza. In particolare, la pubblica accusa ha ritenuto che il citato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015 non potesse caducare il provvedimento di sequestro in atto, in quanto altrimenti si sarebbe realizzata un'ingerenza del potere legislativo nelle prerogative di quello giudiziario. Inoltre, il provvedimento di sequestro di uno degli altoforni non avrebbe compromesso l'intera attivita' di impresa, con la conseguenza che la disposizione in esame - la quale e' dichiaratamente volta allo scopo di garantire la continuita' dell'esercizio dell'attivita' di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale - non sarebbe stata applicabile alla specie. L'organo competente a decidere sarebbe stato, dunque, il giudice delle indagini preliminari, quale organo che aveva emesso il provvedimento di sequestro sulla cui «sostanza» la disposizione legislativa avrebbe inciso. In via subordinata, lo stesso pubblico ministero ha chiesto di sollevare questione di legittimita' costituzionale del citato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015. 1.5.- Il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto di essere competente a decidere sull'istanza. Secondo il rimettente, infatti, la disposizione in esame avrebbe sottoposto il sequestro a una condizione sospensiva negativa di efficacia - realizzata dalla mancata predisposizione, da parte dell'impresa, di un piano di intervento entro trenta giorni dal provvedimento - e a un termine dilatorio eventuale, cosi' da stabilire la durata massima dell'esercizio dell'attivita' d'impresa per un periodo di dodici mesi in pendenza del vincolo cautelare. Ricostruita in tal modo la portata della disposizione, il giudice a quo ha ritenuto che essa attenga all'esecutivita' del titolo, sulla quale e' competente a decidere, ai sensi dell'art. 665, comma 1, cod. proc. pen., il giudice che lo ha deliberato. Secondo il giudice per le indagini preliminari, inoltre, si sarebbe dovuto procedere nelle forme dell'incidente di esecuzione, adottando la procedura semplificata di cui all'art. 667, comma 4, cod. proc. pen., applicabile analogicamente (e a maggior ragione) ai casi, come quello di specie, in cui occorra decidere sull'efficacia del sequestro, anziche' sulla confisca e sulla restituzione delle cose sequestrate. 1.6.- Il rimettente ha poi ritenuto che il citato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015 sia applicabile alla specie sottoposta al suo giudizio. Infatti, pur considerando che la lettura proposta dal pubblico ministero «non si presenta affatto peregrina», anche in considerazione di «una tecnica normativa impropria (determinata probabilmente dalla fretta)», cio' nondimeno la disposizione avrebbe dovuto ritenersi applicabile anche ai casi in cui, come nella specie, «le misure cautelari attingano, nel concreto, non l'intero stabilimento, bensi' soltanto singoli impianti, e non comportino necessariamente l'interruzione dell'attivita' d'impresa»: cio' in quanto nei commi 3 e 4 del medesimo art. 3 ci si riferisce rispettivamente all'«impianto oggetto del provvedimento» e ad «aree di produzione oggetto di sequestro». Inoltre, il richiamo alla precedente normativa, riguardante la prosecuzione dell'attivita' negli impianti dello stabilimento ILVA, renderebbe inequivoca l'applicabilita' del citato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015 anche al sequestro di singoli impianti. 1.7.- Considerata percio' la rilevanza - e pur nella consapevolezza che, nelle more della decisione della Corte costituzionale, sarebbero stati adottati probabili interventi emendativi della disciplina censurata - il giudice a quo ha ritenuto suo dovere investire il giudice delle leggi dei dubbi, non manifestamente infondati, di legittimita' costituzionale del citato art. 3, del quale egli avrebbe dovuto fare applicazione «qui e ora» per decidere sull'istanza difensiva sopra descritta. Il rimettente, infatti, ritiene che la disposizione censurata presenti profonde differenze rispetto alla precedente disciplina di cui agli artt. 1 e 3 del d.l. n. 207 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 231 del 2012, considerata non affetta da illegittimita' costituzionale dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 85 del 2013, per la presenza di «specifici contrappesi normativi», mancanti nella specie ora in esame, e costituiti dalla subordinazione della prosecuzione dell'attivita' d'impresa all'osservanza dell'autorizzazione integrata ambientale e dalla predisposizione di una precisa procedura di monitoraggio. Sarebbe percio' assente nella disciplina in esame un ragionevole punto di bilanciamento tra i diversi interessi costituzionali coinvolti e da cio' conseguirebbe l'illegittimita' costituzionale dell'impugnato art. 3. 1.8.- In particolare, secondo il giudice a quo, sarebbe violato l'art. 2 Cost., in quanto la norma impugnata, consentendo l'esercizio dell'attivita' d'impresa, pur in presenza di impianti pericolosi per la vita o l'incolumita' umana (come attestato dalla tragica vicenda dell'operaio deceduto), comprometterebbe diritti fondamentali della persona definiti «inviolabili» dalla Carta costituzionale. 1.9.- Il rimettente ritiene che non sia stato rispettato neanche l'art. 3 Cost., in quanto la disposizione in giudizio riserva alle imprese di interesse strategico nazionale un ingiustificato privilegio nell'adeguamento agli standard di sicurezza rispetto agli altri operatori economici, finendo altresi' per esporre i lavoratori di tali aziende a fattori di rischio piu' elevato, cosi' violando, sotto entrambi i profili, il principio costituzionale di eguaglianza. 1.10.- Il giudice a quo ravvisa, poi, una violazione degli artt. 4 e 35, primo comma, Cost., in quanto il diritto al lavoro presuppone condizioni di sicurezza nell'esecuzione della prestazione, che la normativa censurata compromette. 1.11.- Sarebbe inciso anche l'art. 32, primo comma, Cost., in quanto la disciplina in esame mette in pericolo la stessa vita e incolumita' individuale del cittadino-lavoratore, compromettendone il diritto alla salute nella sua forma estrema, senza operare alcun ragionevole bilanciamento con altri diritti. 1.12.- Il rimettente ritiene inoltre violato l'art. 41, secondo comma, Cost., in quanto la prosecuzione dell'attivita' in un impianto pericoloso e mortale, in presenza di un progetto unilateralmente predisposto dall'azienda interessata e non sindacabile o controllabile da altri, non rispetta il principio costituzionale che esige che l'attivita' economica privata si svolga in modo da non recare danno alla sicurezza, alla liberta' e alla dignita' umana. 1.13.- Infine, il giudice a quo ritiene pregiudicato il principio di obbligatorieta' dell'azione penale di cui all'art. 112 Cost., che deve ritenersi operante non solo nel potere-dovere di repressione dei reati, ma anche in quello di prevenzione dei medesimi, che si esplica anche nell'adozione di misure cautelari reali di carattere preventivo. La disciplina censurata, in assenza di qualsiasi punto di equilibrio, comprometterebbe irragionevolmente, e percio' illegittimamente, tale «potesta' costituzionale», consentendo il perpetuarsi di una situazione penalmente rilevante quanto meno ai sensi dell'art. 437 cod. pen. e, in caso di incidenti, degli artt. 589 e 590 cod. pen. 1.14.- Manifestamente infondato viene invece considerato il dubbio di legittimita' costituzionale dedotto dal pubblico ministero per violazione dell'art. 3 in relazione all'art. 77, secondo comma, Cost.: il rimettente, infatti, ritiene sussistenti nella specie le ragioni che devono sostenere la decretazione d'urgenza. 2.- Nelle more della scadenza del termine per la conversione del d.l. n. 92 del 2015, l'art. 1, comma 2, della legge 6 agosto 2015, n. 132 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83, recante misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria) ha abrogato il censurato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015, prevedendo, peraltro, che restino validi gli atti e i provvedimenti adottati e che siano fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base della disposizione abrogata. Il testo della disposizione abrogata e' stato riprodotto, tuttavia, nell'art. 21-octies della medesima legge n. 132 del 2015. 3.- Con atto depositato il 6 giugno 2017 e' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate. Ad avviso dell'Avvocatura generale l'abrogazione della disposizione censurata determinerebbe l'inammissibilita' delle questioni per «sopravvenuta carenza di interesse». Nel merito si evidenzia come il nuovo art. 21-octies della legge n. 132 del 2015 consenta la prosecuzione dell'attivita' produttiva per un periodo massimo di 12 mesi dall'adozione del provvedimento di sequestro e a condizione che entro trenta giorni sia predisposto un piano contenente misure aggiuntive, anche di natura provvisoria, per la tutela della sicurezza dei lavoratori sull'impianto oggetto di cautela reale. Il suddetto piano deve essere comunicato all'autorita' giudiziaria e al Comando provinciale dei Vigili del fuoco, agli uffici dell'ASL e dell'INAIL competenti per territorio per le rispettive attivita' di vigilanza e di controllo. La difesa erariale osserva, sulla base di quanto si evince dalla relazione di accompagnamento alla legge di conversione del d.l. n. 83 del 2015, che la disciplina di cui all'art. 21-octies si pone in linea di continuita' con l'art. 1, comma 4, del d.l. n. 207 del 2012, ed e' volta a salvaguardare i livelli di occupazione compatibilmente con la tutela dell'ambiente e della salute dei lavoratori. La disposizione censurata, pertanto, godrebbe della medesima copertura costituzionale gia' riconosciuta alla precedente disciplina dalla sentenza n. 85 del 2013 della Corte costituzionale. Ne deriverebbe, in conclusione, la non fondatezza delle questioni sollevate. Considerato in diritto 1.- Con ordinanza del 14 luglio 2015 (r. o. n. 67 del 2017), trasmessa a questa Corte con le formalita' richieste il successivo 7 febbraio 2017, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92 (Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonche' per l'esercizio dell'attivita' d'impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale). L'art. 3 impugnato prevede, al comma 1, che: «[a]l fine di garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuita' dell'attivita' produttiva, di salvaguardia dell'occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell'ambiente salubre, nonche' delle finalita' di giustizia, l'esercizio dell'attivita' di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale non e' impedito dal provvedimento di sequestro, come gia' previsto dall'articolo 1, comma 4, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231, quando lo stesso si riferisca ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori»; al comma 2 che: «[t]enuto conto della rilevanza degli interessi in comparazione, nell'ipotesi di cui al comma 1, l'attivita' d'impresa non puo' protrarsi per un periodo di tempo superiore a 12 mesi dall'adozione del provvedimento di sequestro»; al comma 3 che: «[p]er la prosecuzione dell'attivita' degli stabilimenti di cui al comma 1, senza soluzione di continuita', l'impresa deve predisporre, nel termine perentorio di 30 giorni dall'adozione del provvedimento di sequestro, un piano recante misure e attivita' aggiuntive, anche di tipo provvisorio, per la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, riferite all'impianto oggetto del provvedimento di sequestro. L'avvenuta predisposizione del piano e' comunicata all'autorita' giudiziaria procedente»; al comma 4 che: «[i]l piano e' trasmesso al Comando provinciale dei Vigili del fuoco, agli uffici della ASL e dell'INAIL competenti per territorio per le rispettive attivita' di vigilanza e controllo, che devono garantire un costante monitoraggio delle aree di produzione oggetto di sequestro, anche mediante lo svolgimento di ispezioni dirette a verificare l'attuazione delle misure ed attivita' aggiuntive previste nel piano. Le amministrazioni provvedono alle attivita' previste dal presente comma nell'ambito delle competenze istituzionalmente attribuite, con le risorse previste a legislazione vigente»; al comma 5 che: «[l]e disposizioni del presente articolo si applicano anche ai provvedimenti di sequestro gia' adottati alla data di entrata in vigore del presente decreto e i termini di cui ai commi 2 e 3 decorrono dalla medesima data». Il giudice a quo ritiene che la diposizione impugnata violi una pluralita' di parametri costituzionali e, segnatamente, gli artt. 2, 3, 4, 32, primo comma, 35, primo comma, 41, secondo comma, e 112 della Costituzione. Piu' precisamente, l'art. 2 Cost. sarebbe violato in quanto la norma impugnata consentirebbe l'esercizio dell'attivita' d'impresa pur in presenza di impianti pericolosi per la vita o l'incolumita' umana, e cosi' comprometterebbe diritti fondamentali della persona definiti «inviolabili» dalla stessa Carta costituzionale. Non sarebbe rispettato il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., in quanto il legislatore riserverebbe alle imprese di interesse strategico nazionale un ingiustificato privilegio nell'adeguamento agli standard di sicurezza rispetto agli altri operatori economici, esponendo altresi' i lavoratori di tali aziende a fattori di rischio piu' elevato. Sarebbero violati anche gli artt. 4 e 35, primo comma, Cost., in quanto il diritto al lavoro presuppone condizioni di sicurezza nell'esecuzione della prestazione, che la normativa censurata non assicurerebbe. Anche l'art. 32, primo comma, Cost., sarebbe inciso, in quanto la disciplina in esame metterebbe in pericolo la vita e l'incolumita' individuale del cittadino-lavoratore, senza operare alcun ragionevole bilanciamento con altri diritti coinvolti. Ancora, la prosecuzione dell'attivita' d'impresa in un impianto che espone i lavoratori a pericolo di vita, consentita dalla disposizione impugnata alla sola condizione che l'azienda predisponga un progetto per la messa in sicurezza delle aree interessate, non rispetterebbe il principio costituzionale di cui all'art. 41 Cost., che esige che l'attivita' economica privata si svolga in modo da non recare danno alla sicurezza, alla liberta' e alla dignita' umana. Infine, la prosecuzione dell'attivita' di impresa determinerebbe il perpetuarsi di una situazione penalmente rilevante - quanto meno ai sensi dell'art. 437 del codice penale e, in caso di incidenti, degli artt. 589 e 590 cod. pen. - compromettendo cosi' il principio di obbligatorieta' dell'azione penale di cui all'art. 112 Cost., che deve ritenersi operante non solo nel potere-dovere di repressione dei reati, ma anche in quello di prevenzione dei medesimi, quale si esplica nell'adozione di misure cautelari reali di carattere preventivo. 2.- In via preliminare occorre osservare che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, e' intervenuto nel giudizio e ha eccepito l'inammissibilita' delle questioni sollevate per «sopravvenuta carenza di interesse», determinata dall'abrogazione della disposizione censurata. 2.1.- Per valutare l'eccezione di inammissibilita' occorre ricostruire l'anomalo intreccio di interventi normativi che ha interessato la disposizione oggetto del presente giudizio. A tal proposito si deve in primo luogo osservare che, prima della scadenza del termine per la conversione del decreto-legge n. 92 del 2015, contenente la disposizione in esame, e' sopraggiunta la legge 6 agosto 2015, n. 132 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83, recante misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria), che e' legge di conversione di altro decreto-legge: con una prima disposizione (art. 1, comma 2), essa ha abrogato il censurato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015 e contestualmente previsto una clausola di salvezza per gli effetti giuridici nel frattempo prodottisi; nello stesso tempo, con l'art. 21-octies, ha reintrodotto la previsione abrogata, nella sua letterale identita'. Dunque, la legge n. 132 del 2015 ha formalmente abrogato e simultaneamente salvaguardato e riprodotto il precetto normativo contenuto nell'impugnato art. 3 del decreto-legge n. 92 del 2015. La norma introdotta dalla disposizione impugnata ha, pertanto, continuato ininterrottamente a esplicare effetti nell'ordinamento, dalla entrata in vigore del decreto-legge impugnato fino ad oggi, assicurando una copertura legislativa al protrarsi dell'attivita' d'impresa nello stabilimento ILVA di Taranto, compresa quella dell'altoforno, nonostante l'intervenuto sequestro. 2.2.- Non e', quindi, fondata l'eccezione di inammissibilita' prospettata dall'Avvocatura generale dello Stato per sopravvenuta carenza di interesse, dato che la norma oggetto del presente giudizio e' rimasta nell'ordinamento senza variazioni di contenuto e senza soluzione di continuita', pur sotto la specie di diversi precetti legislativi concatenati fra loro. Questa Corte ha gia' affermato che «la norma contenuta in un atto avente forza di legge vigente al momento in cui l'esistenza della norma stessa e' rilevante ai fini di una utile investitura della Corte, ma non piu' in vigore nel momento in cui essa rende la sua pronunzia, continua ad essere oggetto dello scrutinio alla Corte stessa demandato quando quella medesima norma permanga tuttora nell'ordinamento - con riferimento allo stesso spazio temporale rilevante per il giudizio - perche' riprodotta nella sua espressione testuale o comunque nella sua identita' precettiva essenziale, da altra disposizione successiva» (sentenza n. 84 del 1996). In tale occasione, la Corte ha inteso sottolineare «la funzione servente e strumentale della disposizione rispetto alla norma», specificando che «e' la immutata persistenza di quest'ultima nell'ordinamento ad assicurare la perdurante ammissibilita' del giudizio di costituzionalita'» (sentenza n. 84 del 1996). Nel caso ora in esame, la tecnica normativa - a seguito della quale, dopo che e' stata sollevata questione di legittimita' costituzionale, e' stata solo apparentemente abrogata la disposizione contenente la norma in giudizio (la quale, infatti, ricompariva in un'altra disposizione del medesimo atto legislativo) e sono stati fatti salvi gli effetti pregressi prima ancora che scadesse il termine per la conversione del decreto-legge originario che la conteneva - reca pregiudizio alla chiarezza delle leggi e alla intelligibilita' dell'ordinamento, in conseguenza dell'uso del tutto anomalo della legge di conversione. Ai fini della valutazione sull'ammissibilita' della questione sollevata deve osservarsi che l'effetto finale e' stato quello di assicurare, pur nel succedersi delle disposizioni, una piena continuita' normativa della disciplina oggetto dei dubbi di legittimita' costituzionale. Pertanto, in una tale evenienza, il susseguirsi delle disposizioni non fa venir meno la perdurante rilevanza della questione di legittimita' costituzionale sollevata e non ne pregiudica l'esame nel merito da parte di questa Corte. Diversamente, si consentirebbe al legislatore di dilazionare, ostacolare o addirittura impedire il giudizio di questa Corte, in contrasto con il principio di economia dei giudizi (sent. 84 del 1996) e a scapito della pienezza, tempestivita' ed effettivita' del sindacato di costituzionalita' delle leggi, compromettendo in modo inaccettabile la tutela di diritti fondamentali, specie se connessi, come nel caso in esame, alla tutela della vita. 2.3.- Posto che, come affermato dalla medesima sentenza n. 84 del 1996 (e da ultimo ribadito dalla sentenza n. 44 del 2018), la Corte costituzionale «giudica su norme, ma pronuncia su disposizioni», occorre ora chiarire quali siano le disposizioni sulle quali si riverberano gli esiti del sindacato di costituzionalita', alla luce della particolare sequenza di interventi legislativi che hanno riguardato la norma in giudizio. Sotto questo profilo, il caso odierno si differenzia da quello giudicato con la citata sentenza n. 84 del 1996. Allora la Corte ritenne che la questione potesse essere «trasferita», seppure «in senso figurato», sulla disposizione che veicolava gli effetti della norma nell'ordinamento al momento del giudizio. All'epoca si trattava di un caso di reiterazione di decreti-legge dopo la scadenza del termine per la conversione, con salvezza degli effetti pregressi, secondo una prassi che sarebbe stata di li' a poco censurata dalla Corte stessa con sentenza n. 360 del 1996. Pertanto, con la sentenza n. 84 del 1996, la Corte si pronuncio' sulla disposizione che sanava gli effetti del decreto-legge non convertito. Nel caso che questa Corte e' chiamata oggi a giudicare, invece, la disposizione originaria e' stata solo apparentemente abrogata prima della scadenza del termine di conversione, con una disposizione che contemporaneamente faceva altresi' salvi gli effetti giuridici nel frattempo prodottisi e, dunque, prima che l'originario decreto-legge impugnato decadesse con effetti retroattivi divenendo inapplicabile nel giudizio a quo. Inoltre, diversamente da altri casi, la norma in apparenza abrogata, in realta', e' stata nel contempo trasfusa in altra disposizione di quella medesima legge che ne disponeva l'abrogazione. L'iter seguito dal legislatore e' dunque tortuoso e del tutto anomalo: non si tratta, infatti, ne' di una semplice mancata conversione, ne' di una reale abrogazione e neppure di una abrogazione con successiva diversa regolamentazione. Nella specie, sotto l'apparenza di una abrogazione, la successione di disposizioni legislative dissimula (attraverso un uso improprio della legge di conversione) una effettiva continuita' di contenuti normativi che, traendo origine dalla disposizione iniziale "abrogata", permangono grazie alla sanatoria e si protraggono nel tempo in virtu' dell'articolo che li riproduce. In tale quadro normativo, la norma oggetto del giudizio vive nell'ordinamento in forza di una inscindibile combinazione di disposizioni strettamente interconnesse tra loro. Pertanto, il giudizio di costituzionalita' non potra' che investire tutte le disposizioni considerate in combinazione tra loro: vale a dire l'art. 3 del decreto-legge n. 92 del 2015 e gli artt. 1, comma 2, e 21-octies della legge n. 132 del 2015. 3.- Nel merito la questione e' fondata. 3.1.- La disposizione impugnata prevede che «l'esercizio dell'attivita' di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale non e' impedito dal provvedimento di sequestro [...] quando lo stesso di riferisca ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori» (art. 3, comma 1). Essa e' stata adottata al dichiarato fine di «garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuita' dell'attivita' produttiva, di salvaguardia dell'occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell'ambiente salubre, nonche' delle finalita' di giustizia» (art. 3, comma 1) e intende porsi in linea di continuita' con la precedente normativa in materia di esercizio dell'attivita' di impresa in stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale, contenuta nel decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231. Tale normativa, esplicitamente richiamata nell'incipit della disposizione in esame, e' stata oggetto della decisione di questa Corte n. 85 del 2013 ed e' alla luce dei principi ivi stabiliti che la odierna questione di legittimita' costituzionale deve essere esaminata. In tale pronuncia questa Corte ha affermato che «e' considerata lecita la continuazione dell'attivita' produttiva di aziende sottoposte a sequestro, a condizione che vengano osservate [...] le regole che limitano, circoscrivono e indirizzano la prosecuzione dell'attivita' stessa» secondo un percorso di risanamento - delineato nella specie dalla nuova autorizzazione integrata ambientale - ispirato al bilanciamento tra tutti i beni e i diritti costituzionalmente protetti, tra cui il diritto alla salute, il diritto all'ambiente salubre e il diritto al lavoro. Non puo' infatti ritenersi astrattamente precluso al legislatore di intervenire per salvaguardare la continuita' produttiva in settori strategici per l'economia nazionale e per garantire i correlati livelli di occupazione, prevedendo che sequestri preventivi disposti dall'autorita' giudiziaria nel corso di processi penali non impediscano la prosecuzione dell'attivita' d'impresa; ma cio' puo' farsi solo attraverso un ragionevole ed equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali in gioco. Per essere tale, il bilanciamento deve essere condotto senza consentire «l'illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe "tiranno" nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignita' della persona» (sent. n. 85 del 2013). Il bilanciamento deve, percio', rispondere a criteri di proporzionalita' e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire ne' la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, ne' il sacrificio totale di alcuno di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati (sentenze n. 63 del 2016 e n. 264 del 2012). Nel caso allora in giudizio, questa Corte, con la citata sentenza n. 85 del 2013, rigetto' la questione di legittimita' costituzionale, ritenendo che il legislatore avesse effettuato un ragionevole e proporzionato bilanciamento predisponendo la disciplina di cui al citato art. 1, comma 4, del decreto-legge n. 207 del 2012. In quella ipotesi, infatti, la prosecuzione dell'attivita' d'impresa era condizionata all'osservanza di specifici limiti, disposti in provvedimenti amministrativi relativi all'autorizzazione integrata ambientale, e assistita dalla garanzia di una specifica disciplina di controllo e sanzionatoria. 3.2.- Nel caso oggi portato all'esame di questa Corte, invece, il legislatore non ha rispettato l'esigenza di bilanciare in modo ragionevole e proporzionato tutti gli interessi costituzionali rilevanti, incorrendo in un vizio di illegittimita' costituzionale per non aver tenuto in adeguata considerazione le esigenze di tutela della salute, sicurezza e incolumita' dei lavoratori, a fronte di situazioni che espongono questi ultimi a rischio della stessa vita. Infatti, nella normativa in giudizio, la prosecuzione dell'attivita' d'impresa e' subordinata esclusivamente alla predisposizione unilaterale di un "piano" ad opera della stessa parte privata colpita dal sequestro dell'autorita' giudiziaria, senza alcuna forma di partecipazione di altri soggetti pubblici o privati. Il legislatore concede un termine di trenta giorni per la predisposizione del piano, il quale peraltro puo' anche essere provvisorio: dunque, manca del tutto la richiesta di misure immediate e tempestive atte a rimuovere prontamente la situazione di pericolo per l'incolumita' dei lavoratori. Tale mancanza e' tanto piu' grave in considerazione del fatto che durante la pendenza del termine e' espressamente consentita la prosecuzione dell'attivita' d'impresa "senza soluzione di continuita'", sicche' anche gli impianti sottoposti a sequestro preventivo possono continuare ad operare senza modifiche in attesa della predisposizione del piano e, quindi, senza che neppure il piano sia adottato. L'unico limite temporale effettivo e' posto al comma 2, che stabilisce che l'attivita' di impresa non puo' protrarsi per un periodo di tempo superiore a dodici mesi dall'adozione del provvedimento di sequestro. Quanto al contenuto, il piano deve recare «misure e attivita' aggiuntive, anche di tipo provvisorio», non meglio definite, neppure attraverso un rinvio, che pure sarebbe stato possibile, alla legislazione in materia di sicurezza sul lavoro. Il mancato riferimento a specifiche disposizioni delle leggi in materia di sicurezza sul lavoro o ad altri modelli organizzativi e di prevenzione lascia sfornito l'ordinamento di qualsiasi concreta ed effettiva possibilita' di reazione per le violazioni che si dovessero perpetrare durante la prosecuzione dell'attivita'. Nella formazione del piano non e' prevista alcuna partecipazione di autorita' pubbliche, le quali devono essere informate solo successivamente. Tale comunicazione assume la forma di una mera comunicazione-notizia, per quanto riguarda l'autorita' giudiziaria procedente (art. 3, comma 3) e si traduce nell'attribuzione di un generico potere di monitoraggio e ispezione per quanto riguarda INAIL, ASL e Vigili del Fuoco; tale potere, peraltro, si limita alla verifica della corrispondenza tra le misure aggiuntive indicate nel piano e quelle in concreto attuate dall'impresa, cosi' da renderne ambigua e indeterminata l'effettiva possibilita' di incidenza (art. 3, comma 4). 3.3.- Considerate queste caratteristiche della norma censurata, appare chiaro che, a differenza di quanto avvenuto nel 2012, il legislatore ha finito col privilegiare in modo eccessivo l'interesse alla prosecuzione dell'attivita' produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35 Cost.). Il sacrificio di tali fondamentali valori tutelati dalla Costituzione porta a ritenere che la normativa impugnata non rispetti i limiti che la Costituzione impone all'attivita' d'impresa la quale, ai sensi dell'art. 41 Cost., si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana. Rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l'incolumita' e la vita dei lavoratori costituisce infatti condizione minima e indispensabile perche' l'attivita' produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona. In proposito questa Corte ha del resto gia' avuto occasione di affermare che l'art. 41 Cost. deve essere interpretato nel senso che esso «limita espressamente la tutela dell'iniziativa economica privata quando questa ponga in pericolo la "sicurezza" del lavoratore» (sentenza n. 405 del 1999). Cosi' come e' costante la giurisprudenza costituzionale nel ribadire che anche le norme costituzionali di cui agli artt. 32 e 41 Cost. impongono ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell'integrita' fisica dei lavoratori (sentenza n. 399 del 1996). 4.- Considerato assorbito ogni ulteriore profilo e chiarite quali siano le disposizioni sulle quali si riverberano gli esiti del sindacato di costituzionalita' per le ragioni esposte al precedente punto 2.3, si deve dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 3 del decreto-legge n. 92 del 2015 e degli artt. 1, comma 2, e 21-octies della legge n. 132 del 2015. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92 (Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonche' per l'esercizio dell'attivita' d'impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) e degli artt. 1, comma 2, e 21-octies della legge 6 agosto 2015, n. 132 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83, recante misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria). Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 febbraio 2018. F.to: Giorgio LATTANZI, Presidente Marta CARTABIA, Redattore Roberto MILANA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 23 marzo 2018. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA