N. 158 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 luglio 2017

Ordinanza  del  12  luglio  2017  del   Consiglio   superiore   della
magistratura - Sezione disciplinare nel procedimento disciplinare  E.
F.. 
 
Ordinamento giudiziario - Disciplina degli illeciti disciplinari  dei
  magistrati - Previsione  della  sanzione  della  rimozione  per  il
  magistrato, condannato in sede disciplinare, per i  fatti  previsti
  dall'art. 3, comma 1, lett. e), del decreto legislativo 23 febbraio
  2006, n. 109. 
- Decreto legislativo 23 febbraio  2006,  n.  109  (Disciplina  degli
  illeciti disciplinari dei magistrati,  delle  relative  sanzioni  e
  della procedura per la loro applicabilita', nonche' modifica  della
  disciplina in tema di incompatibilita',  dispensa  dal  servizio  e
  trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma  dell'articolo  1,
  comma 1, lettera f), della L. 25 luglio 2005,  n.  150),  art.  12,
  comma 5. 
(GU n.46 del 15-11-2017 )
 
                       LA SEZIONE DISCIPLINARE 
             DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA 
 
    composta dai signori: 
        avv. Antonio Leone - componente  eletto  dal  Parlamento  che
presiede in sostituzione del Vice Presidente del Consiglio  superiore
della magistratura - Presidente; 
        avv. Paola Balducci -  componente  eletto  dal  Parlamento  -
relatore; 
        dott.ssa  Maria  Rosaria  San   Giorgio   -   magistrato   di
legittimita' - relatore; 
        dott. Lorenzo Pontecorvo - magistrato di merito - relatore; 
        dott. Nicola Clivio - magistrato di merito - componente; 
        dott. Luca Palamara - magistrato di merito - componente. 
    Ha pronunciato in Camera di Consiglio la seguente  ordinanza  nel
procedimento disciplinare n. 162/2014 R.G. nei confronti del dott. F.
E. (nato a ...  il  ...)  giudice  presso  il  Tribunale  di  Torino,
incolpato: 
        A) dell'illecito disciplinare di cui  all'art.  3,  comma  l,
lett. e), del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109,  perche',
al di fuori dell'esercizio delle funzioni di magistrato della Procura
della Repubblica presso il Tribunale di Milano, a partire  dal  marzo
2009 - epoca del suo trasferimento presso tale ufficio - e fino al 30
novembre 2011, otteneva  agevolazioni  da  C.  C.,  sottoposto  dalla
stessa Procura della Repubblica a procedimento penale per il reato di
associazione per delinquere, conclusosi  con  sentenza  di  condanna,
divenuta definitiva, della Corte d'appello di Milano  del  20  aprile
2012. 
    Il C. infatti, nel menzionato arco temporale, concedeva al  dott.
E. l'uso gratuito dell'attico ammobiliato sito in Milano, via ...  n.
..., per cui la locataria societa' D. C. s.r.l. - riconducibile  allo
stesso C. - corrispondeva il canone annuo di complessivi € 32.000,00; 
        B) dell'illecito disciplinare di cui  all'art.  3,  comma  1,
lett. a), del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109,  perche',
al di fuori dell'esercizio delle funzioni di cui al capo  A),  avendo
la  societa'  D.  C.  s.r.l.  formulato  disdetta  dal  contratto  di
locazione del menzionato attico con effetto  dal  30  novembre  2011,
usava la qualita' di magistrato e le funzioni  esercitate  presso  la
Procura  di  Milano,  per   continuare   ad   abitare   gratuitamente
l'immobile. 
    Il dott. E., infatti, promettendogli la presentazione di  persone
influenti e capaci di propiziargli occasioni di «business»,  induceva
C. F. - tramite la societa' F. M. s.r.l. al medesimo riconducibile  -
a subentrare nel contratto  di  locazione  dell'attico  che  abitava,
cosi' da potervi permanere gratuitamente (dal 1° dicembre 2011)  fino
al 3l dicembre 2013, allorquando, per disdetta datane dalla  societa'
locataria, il contratto cessava di avere effetto; 
        C, C1, C2, D, D1 (sospesi ai sensi  dell'art.  15,  comma  8,
lett. a) del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109); 
        E) dell'illecito disciplinare di cui all'art. 2 lett. d)  del
decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, perche', nell'esercizio
delle funzioni di  cui  al  capo  A),  poneva  in  essere  una  grave
scorrettezza nei confronti del collega di ufficio dott. M.  A.  e  di
altri magistrati non identificati, in quanto, avendo ricevuto  da  C.
F. prestiti infruttiferi per almeno euro 5.000,00  (condotta  oggetto
del  predetto  capo  D.1),  tacendo   la   situazione   debitoria   e
l'intenzione  di  ricompensarlo  dei   favori   economici   ottenuti,
presentava  loro  il  C.,  chiedendo  in   favore   di   quest'ultimo
l'affidamento di incarichi di consulenza; inoltre,  quanto  al  dott.
A., reiterava insistentemente la richiesta e prospettava  al  collega
la spartizione dei futuri compensi da  liquidare  al  professionista,
condotta quest'ultima che, pur se tenuta con modalita' scherzose, era
comunque idonea ad offenderne la dignita' del magistrato; 
        F) dell'illecito disciplinare di cui  all'art.  3,  comma  1,
lett. a), del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109,  perche',
al di fuori dell'esercizio delle funzioni di cui al capo A), usava la
qualita' di magistrato e le funzioni esercitate presso la Procura  di
Milano,  onde  conseguire  l'ingiusto  vantaggio  del  prestito   per
complessivi settemila euro che - in piu' riprese - otteneva da M.  M.
senza interessi, garanzie e ricognizione per iscritto, oltre che  con
facolta' di determinazione unilaterale del termine di restituzione; 
        G) dell'illecito disciplinare di cui  all'art.  3,  comma  1,
lett. a), del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109,  perche',
al di fuori dell'esercizio delle funzioni di cui al capo A), usava la
qualita' di magistrato e le funzioni esercitate presso la Procura  di
Milano, al fine di conseguire l'ingiusto vantaggio  del  prestito  di
cinquemila euro che otteneva da P. T.  senza  interessi,  garanzie  e
ricognizione per iscritto, nonche'  con  facolta'  di  determinazione
unilaterale del termine di restituzione; 
        H) stralciato al n. 39/16 D con successiva richiesta  di  non
luogo a procedere; 
        I) dell'illecito disciplinare di cui all'art. 2 lett. d)  del
decreto legislativo 23 febbraio 2006,  n.  109,  per  aver  posto  in
essere una grave scorrettezza nei confronti del collega della Procura
di Milano, M. A.,  in  quanto  -  appreso  di  essere  sottoposto  ad
indagini presso la Procura di Brescia - faceva recapitare al medesimo
un appunto manoscritto con cui gli raccomandava di non riferire degli
incarichi di consulenza sollecitatigli in favore del dott. C. («se tu
dovessi essere sentito a Brescia escludi pressioni, da parte mia  per
il commercialista, per favore puoi dire che te l'ho presentato ma non
ti ho mai chiesto di nominarlo tuo C.T. Aiutami per favore»), nonche'
di  concordare  previamente   le   versioni   da   rendere   all'A.G.
(«inventiamoci qualcosa ... potresti concordare una versione con G. e
poi dirmela per quando  saro'  interrogato,  e'  una  cazzata  ma  e'
importante che le versioni coincidano»). 
    In tal modo il dott. E. offendeva la dignita'  professionale  del
collega, in quanto lo istigava a compiere il reato  di  cui  all'art.
371-bis c.p. o comunque a tenere  una  condotta  contrastante  con  i
doveri di cui all'art. 1 del decreto legislativo n. 109 del 2006, nel
corso dell'interrogatorio davanti ai magistrati bresciani fissato per
lo stesso giorno 11 marzo 2014. 
    Notizia circostanziata dei fatti acquisita il 19 agosto 2014. 
 
                        In fatto e in diritto 
 
    l. - Il Procuratore generale presso la  Corte  di  cassazione  ha
esercitato l'azione  disciplinare  nei  confronti  del  dott.  F.  E.
contestando al magistrato diversi addebiti  tra  i  quali  l'illecito
disciplinare di cui all'art.  3,  comma  l,  lett.  e),  del  decreto
legislativo  23  febbraio  2006,  n.  109  perche',   al   di   fuori
dell'esercizio delle  funzioni  di  magistrato  della  Procura  della
Repubblica presso il Tribunale di Milano, a partire dal marzo 2009 --
epoca del suo trasferimento presso  tale  ufficio  -  e  fino  al  30
novembre 2011, otteneva agevolazioni da C.  C.  il  quale  era  stato
sottoposto dalla  stessa  Procura  della  Repubblica  a  procedimento
penale per il reato di associazione  per  delinquere  conclusosi  con
sentenza di condanna emessa dalla Corte d'appello di Milano  in  data
20 aprile 2012 e divenuta definitiva. 
    Il C.  in  particolare,  nel  menzionato  arco  temporale,  aveva
concesso al dott. E. l'uso gratuito dell'attico ammobiliato  sito  in
Milano, via ... n. ..., per cui la locataria societa' D. C. s.r.l.  -
riconducibile allo stesso C. - aveva corrisposto il canone  annuo  di
complessivi € 32.000,00. 
    2. - A norma del richiamato  art.  3,  comma  1,  lett.  e),  del
decreto legislativo n. 109 del 2006 costituisce illecito disciplinare
al di fuori dell'esercizio delle funzioni: l'ottenere, direttamente o
indirettamente, prestiti o agevolazioni da soggetti che il magistrato
sa essere parti o indagati in procedimenti penali o  civili  pendenti
presso l'ufficio giudiziario di appartenenza o presso  altro  ufficio
che si trovi nel distretto di Corte d'appello nel quale  esercita  le
funzioni  giudiziarie,  ovvero  dai  difensori  di  costoro,  nonche'
ottenere, direttamente o indirettamente, prestiti o  agevolazioni,  a
condizioni di eccezionale favore,  da  parti  offese  o  testimoni  o
comunque da soggetti coinvolti in detti procedimenti. 
    La sanzione applicabile per l'illecito di cui all'art.  3,  lett.
e), del decreto legislativo n. 109 del 2006 e'  in  via  obbligatoria
quella della rimozione, ai sensi dell'art. 12, comma 5, dello  stesso
decreto legislativo. 
    2.1. - Tuttavia, l'applicazione automatica di tale sanzione  pone
dubbi di contrasto con l'art. 3 della Costituzione per violazione del
principio di ragionevolezza. La necessaria adozione  di  tale  misura
punitiva appare, infatti, basata su di una presunzione assoluta,  del
tutto svincolata, oltre che  dal  controllo  di  proporzionalita'  da
parte del  giudice  disciplinare,  anche  dalla  verifica  della  sua
concreta congruita'. Appare in particolare vulnerato il principio  di
«proporzione», fondamento della razionalita' che domina il  principio
di uguaglianza - inteso come regola  di  «indispensabile  gradualita'
sanzionatoria», principio enunciato dalla Corte  costituzionale,  che
ha chiarito come esso postuli l'adeguatezza della  sanzione  al  caso
specifico, la quale puo' essere raggiunta solo attraverso la concreta
valutazione  degli  specifici  comportamenti  messi  in  atto   nella
commissione dell'illecito (v. Corte cost., sentt. n. 447 del 1995, n.
197 del 1993, n. 16 del 1991, n. 40 del 1990 e n. 971 del 1988). 
    2.1.1. - Questa Sezione disciplinare e' consapevole del  costante
orientamento  della  giurisprudenza  costituzionale  nel  senso   del
riconoscimento al legislatore ordinario di un'ampia  discrezionalita'
nella  identificazione  delle  condotte  punibili  e  delle  sanzioni
applicabili alle stesse: discrezionalita'  che,  tuttavia,  incontra,
come   dianzi   sottolineato,   il   limite   della   non   manifesta
irragionevolezza, sub specie della giusta proporzione tra sanzione  e
fatto sanzionato. 
    Alla  stregua  di  tale  orientamento,  di   recente   la   Corte
costituzionale, con la  sentenza  n.  236  del  2016,  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 567, secondo comma,  codice
penale (alterazione di stato civile nella formazione di  un  atto  di
nascita mediante false certificazioni,  false  attestazioni  o  altre
falsita')  nella  parte  in  cui  prevede  la  pena  edittale   della
reclusione da un minimo di cinque  a  un  massimo  di  quindici  anni
anziche' da un minimo di tre  ad  un  massimo  di  dieci  anni,  pena
prevista per il piu' grave  reato  di  alterazione  di  stato  civile
mediante sostituzione di neonato. 
    Nella citata pronuncia il giudice delle leggi,  nel  ribadire  la
esclusione della spettanza in capo a se' di valutazioni discrezionali
di dosimetria sanzionatoria  penale,  risultando  queste  tipicamente
demandate  alla  rappresentanza  politica,  chiamata  attraverso   la
riserva di legge sancita nell'art. 25 Cost. a stabilire il  grado  di
reazione  dell'ordinamento  al  cospetto  di  una   lesione   ad   un
determinato bene giuridico, ha chiarito definitivamente  che  laddove
emergano sintomi di manifesta irragionevolezza, per sproporzione,  di
un trattamento sanzionatorio, e' possibile l'intervento  del  giudice
delle leggi attraverso una valutazione da condurre  alla  stregua  di
precisi  punti  di   riferimento   gia'   rinvenibili   nel   sistema
legislativo, idonei a ricondurre a coerenza le scelte gia'  delineate
a  tutela  di   un   determinato   bene   giuridico,   senza   alcuna
sovrapposizione alla discrezionalita' del legislatore. 
    2.1.2. - L'orientamento dell'ordinamento verso la  esclusione  di
sanzioni rigide, avulse da un confacente rapporto di adeguatezza  con
il caso concreto e di coerenza generale, trova applicazione anche  al
procedimento  disciplinare  in  considerazione  delle  ragioni  della
configurazione  dello   stesso   secondo   paradigmi   di   carattere
giurisdizionale, identificabili nella esigenza di tutelare  in  forme
piu' adeguate specifici interessi e situazioni connessi allo  statuto
di indipendenza della magistratura. 
    Del resto, e' proprio con  riferimento  alla  compatibilita'  tra
infrazione  e  prosecuzione  del   rapporto   di   impiego   che   la
giurisprudenza  costituzionale  ha   gia'   affermato,   come   sopra
ricordato, che essa va valutata, senza automatismo alcuno,  graduando
e adeguando la sanzione al caso concreto (cfr.,  ex  plurimis,  Corte
cost., sentt. n. 197 del 1993, n. 16 del 1991, n. 158  e  n.  40  del
1990, n. 971 del 1988, cit.). 
    Ne' assume alcun rilievo in contrario la  considerazione  che  lo
stesso principio sia stato espresso con  particolare  riferimento  ad
ipotesi di sanzione espulsiva applicata  de  iure  quale  conseguenza
automatica, prevista direttamente dalla legge, della condanna in sede
penale  per   determinati   reati,   in   assenza   di   procedimento
disciplinare. Ed infatti, l'impedimento a calibrare  con  gradualita'
ai diversi illeciti la  sanzione  piu'  adeguata  rimane  illegittimo
anche se rilevato nell'ambito di un procedimento disciplinare  e  non
al di fuori di esso. 
    Nemmeno puo' valere a ridimensionare la portata  applicativa  del
principio illustrato la circostanza che la lesione del  principio  di
uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. attraverso il vulnus a quello  di
graduazione e  proporzione  della  sanzione  disciplinare  sia  stato
ravvisato, con la sentenza della  Corte  costituzionale  n.  170  del
2015, nell'automatismo - imposto, con riferimento alle violazioni  di
cui all'art. 2, comma 1, lett. a), del decreto legislativo n. 109 del
2006, dall'art. 13, comma 1, secondo periodo,  dello  stesso  decreto
legislativo, norma pertanto dichiarata costituzionalmente illegittima
in parte qua, con  la  predetta  sentenza  -  della  (sola)  sanzione
accessoria del trasferimento di ufficio. 
    Ed   infatti,   se   tale   disposizione   e'    stata    espunta
dall'ordinamento  in  quanto  privava  irragionevolmente  il  giudice
disciplinare  di  ogni  apprezzamento  discrezionale   in   relazione
all'adeguatezza  della  sanzione  accessoria  del  trasferimento   di
ufficio  alla  consistenza  e  gravita'   delle   svariate   condotte
riconducibili alla previsione  di  cui  all'art.  2,  lett.  a),  del
decreto legislativo n.  109  del  2006,  deve  riconoscersi  che  una
siffatta conclusione costituisce espressione di un principio generale
di necessaria proporzionalita' della sanzione. Il  relativo  giudizio
va rimesso alla  valutazione  del  giudice  al  fine  del  necessario
adattamento della sanzione  stessa  alla  fattispecie  concreta,  per
evitare che comportamenti di diversa offensivita' deontologica  siano
puniti allo stesso modo, con vulnus di quella razionalita' che,  come
chiarito, permea di se' il principio di uguaglianza. 
    Peraltro, secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite della  Corte
di cassazione (v. sentt. n. 23778 del 2013, n. 15399 del  2003),  ove
sia riconosciuta la responsabilita' dell'incolpato, la  scelta  della
sanzione  da  applicare  va  effettuata,  da  parte   della   Sezione
disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, non gia'  in
astratto, ma con specifico riferimento a  tutte  le  circostanze  del
caso concreto; a tal fine devono formare oggetto  di  valutazione  la
gravita' dei fatti in rapporto alla loro portata oggettiva, la natura
e l'intensita' dell'elemento psicologico nel comportamento contestato
unitamente ai motivi che l'hanno ispirato e, infine, la  personalita'
dell'incolpato,  in  relazione,  soprattutto,  alla   sua   pregressa
attivita' professionale e agli eventuali precedenti disciplinari. 
    Tale valutazione deve essere particolarmente approfondita qualora
la scelta si rivolga alla piu'  grave  delle  sanzioni  disciplinari,
quella  espulsiva,  sul  presupposto  che  l'illecito  contestato  al
magistrato sia di  tale  entita'  che  ogni  altra  sanzione  risulti
insufficiente alla  tutela  di  quei  valori  che  la  legge  intende
perseguire. 
    2.2. - In applicazione di tali principi al caso in esame, non  e'
manifestamente infondato il sospetto di contrasto con l'art. 3  della
Costituzione,  per  violazione  del  principio   di   ragionevolezza,
dell'art. 12, comma 5, del decreto legislativo n. 109 del 2006  nella
parte in cui  impone  l'applicazione  della  sanzione  massima  della
rimozione in relazione indiscriminatamente  a  tutte  le  ipotesi  di
agevolazione previste dall'art. 3, lett. e),  dello  stesso  decreto,
senza consentire  al  giudice  disciplinare  alcuna  possibilita'  di
graduazione della sanzione in ragione della  diversa  intensita'  del
disvalore della condotta di volta in  volta  tenuta  dal  magistrato.
Tanto piu' che il concetto di agevolazione  appare  connotato  da  un
notevole grado di genericita' ed elasticita'. 
    Questa Sezione disciplinare  non  ignora  lo  spazio  che,  nella
giurisprudenza costituzionale, trova il principio  alla  stregua  del
quale la peculiarita' e  delicatezza  dei  compiti  affidati  ad  una
particolare categoria di  soggetti,  connessi  alla  salvaguardia  di
diritti   fondamentali   delle   persone   ed   alla   difesa   della
collettivita',  giustifica  una  disciplina   che   ne   valuti   con
particolare rigore la condotta. In  ossequio  a  tale  principio,  la
sentenza n. 112 del 2014 ha dichiarato non fondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 8, primo comma, lett.  c),  del
decreto del Presidente della Repubblica 25 ottobre 1981, n. 737,  che
prevede  la  destituzione  di  diritto  dell'appartenente  ai   ruoli
dell'amministrazione della pubblica sicurezza in caso di applicazione
nei suoi confronti di  una  misura  di  sicurezza  personale  di  cui
all'art. 215 codice penale. 
    E,  tuttavia,  tale  decisione  non  costituisce  un   precedente
utilmente invocabile nel caso di specie, siccome  fondato  su  di  un
giudizio  di  pericolosita'  sociale,  presupposto  dell'applicazione
della misura di cui si tratta,  ostativo  alla  permanenza  di  detto
rapporto di impiego. 
    2.3.  -  Altro  profilo  di   irragionevolezza   del   denunciato
automatismo della sanzione di cui all'art. 12, comma 5,  del  decreto
legislativo n. 109 del 2006 in relazione alla fattispecie di illecito
disciplinare di cui all'art. 3, lett. e),  dello  stesso  decreto  e'
ravvisabile nella comparazione  di  tale  fattispecie  con  le  altre
ipotesi per le quali il citato comma 5 dispone la medesima  sanzione.
Si tratta della interdizione, perpetua  o  temporanea,  dai  pubblici
uffici, in seguito a condanna penale, della condanna a pena detentiva
per delitto non colposo non inferiore ad un anno  la  cui  esecuzione
non sia stata sospesa ai sensi degli artt. 163 e 164 codice penale  o
per  la  quale  sia  intervenuto  provvedimento   di   revoca   della
sospensione ai sensi dell'art. 168 codice penale. 
    Come e' evidente, le ulteriori ipotesi  in  cui  e'  prevista  la
sanzione espulsiva sono collegate alla commissione di  reati,  mentre
le  condotte  riconducibili  alla  nozione  di  agevolazione  di  cui
all'art. 3, lett. e), non presentano necessariamente rilievo penale. 
    2.4. - La previsione in esame appare, infine, irragionevole sotto
un ulteriore profilo, quello del deteriore trattamento, quoad poenam,
della fattispecie di illecito disciplinare di cui si tratta  rispetto
ad altre fattispecie di maggior disvalore deontologico.  Si  pensi  a
quella di cui all'art. 3, lett. a), del decreto  legislativo  n.  109
del 2006, concernente l'uso della qualita' di magistrato per ottenere
vantaggi ingiusti per se' o per altri - che potrebbe  comprendere  in
astratto anche l'ipotesi di cui alla  lettera  e)  -  punita  con  la
sanzione non inferiore alla censura, o alla perdita di anzianita'  se
abituale e grave, nonostante il consapevole sviamento della  funzione
magistratuale insita in tale condotta, che non e',  invece,  elemento
costitutivo della fattispecie in esame; o a quella di cui alla  lett.
b)  dello  stesso  art.  3,  consistente  nel   frequentare   persona
sottoposta a  procedimento  penale  trattato  dal  magistrato  ovvero
nell'intrattenere rapporti consapevoli di affari con tale  persona  o
con persona dichiarata  delinquente  abituale,  professionale  o  per
tendenza, punita con la sanzione minima della perdita di  anzianita'.
Dette soluzioni costituiscono tertia comparationis cui e' ragionevole
uniformare quella all'odierno esame, e fornisce il dato,  rinvenibile
nel sistema legislativo, al quale fare riferimento, come chiarito sub
2.1.1., per eliminate la manifesta irragionevolezza denunciata  senza
che il giudice delle 
    leggi  sovrapponga  la  propria  discrezionalita'  a  quella  del
legislatore. 
    3. - La questione sollevata non puo', ad avviso di questa Sezione
disciplinare,  essere  risolta  nel  senso  auspicato  attraverso  il
ricorso ad una  interpretazione  costituzionalmente  orientata  della
norma denunciata, sul modello del dictum della sentenza  disciplinare
n. 4 del 2010. In quella sentenza, con riferimento ad una fattispecie
cui era applicabile la previgente normativa di cui al  regio  decreto
legislativo 31 maggio 1946, n. 511, caratterizzata  dalla  atipicita'
degli illeciti disciplinari, e che concerneva  la  condanna  in  sede
penale di un  magistrato  alla  pena  di  anni  uno  e  mesi  due  di
reclusione (pena sospesa e non menzione) per il reato di cui all'art.
479 codice penale, il giudice disciplinare ritenne di  non  applicare
la sanzione espulsiva prevista in tali ipotesi dall'art. 29  (effetti
disciplinari  dei  giudicati  penali)  del   citato   regio   decreto
legislativo n. 511, opinando che il rigore  di  tale  disposizione  -
secondo cui «Il magistrato ( ... )  condannato  alla  reclusione  per
delitto non colposo, diversa da quelli previsti dagli  articoli  581,
582 capv., 594 e 612 prima parte del codice penale, e' destituito  di
diritto» - deve intendersi fortemente ridotto con l'entrata in vigore
della legge 7 febbraio 1990 n. 19 («modifiche in tema di circostanze,
sospensione condizionale  della  pena  e  destituzione  dei  pubblici
dipendenti») che, con disposizione generale  (art.  9)  da  ritenersi
applicabile  anche  al  procedimento  disciplinare   dei   magistrati
ordinari, ha stabilito che la sanzione espulsiva puo'  (e  non  deve)
essere  applicata  solo  a  seguito  di  procedimento   disciplinare,
allineando cosi' la normativa disciplinare del pubblico impiego  alle
indicazioni  della  Corte  costituzionale   circa   il   divieto   di
automatismi nella applicazione di sanzioni disciplinari. 
    In detta occasione, sulla base  di  tale  principio,  il  giudice
disciplinare, con decisione  confermata  dalle  Sezioni  Unite  della
Corte di cassazione (sent.  n.  23778  del  2010,  cit.)  -  inflisse
all'incolpato la sanzione disciplinare della  perdita  di  anzianita'
per due anni. 
    Va al riguardo rilevato che tale conclusione  e'  stata  adottata
con riguardo a fattispecie di condanna in sede penale dell'incolpato,
in relazione alla quale si e' posto  il  problema  della  graduazione
della  sanzione  disciplinare  in   ragione   della   necessita'   di
valutazione dell'elemento soggettivo del reato, anche con riferimento
ai profili deontologici. La medesima  soluzione  non  puo'  adottarsi
nella fattispecie in esame. Invero, in un sistema, quale quello  oggi
vigente, caratterizzato, a differenza  di  quello  previgente,  dalla
tipicita' degli illeciti, e delle relative sanzioni, con indicazione,
relativamente ad  alcune  fattispecie,  di  una  particolare  cornice
edittale, la previsione  testuale,  operata  dal  legislatore,  della
rimozione quale conseguenza della affermazione della  responsabilita'
disciplinare per l'illecito di cui all'art. 3, lett. e), del  decreto
legislativo n. 109 del 2006 non puo' trovare rimedio,  ad  avviso  di
questa  Sezione  disciplinare,  se  non  attraverso  l'incidente   di
costituzionalita', operandosi, in caso contrario, una non  consentita
disapplicazione di una norma dal tenore testuale univoco. 
    4. - In punto di rilevanza della questione,  si  osserva  che  il
presente giudizio non puo' essere  definito  indipendentemente  dalla
soluzione della prospettata questione di legittimita' costituzionale. 
    La   delibazione   sulla   sussistenza   della    responsabilita'
dell'incolpato in relazione  alla  piattaforma  probatoria  acquisita
dovrebbe, infatti, comportare  necessariamente  l'applicazione  della
norma sospettata  di  contrasto  con  l'art.  3  della  Costituzione,
apparendo l'unica alternativa ipotizzabile - quella dell'applicazione
dell'art.  3-bis  del  decreto  legislativo  n.  109  del  2006,  con
conseguente  assoluzione  per  scarsa  rilevanza  del  fatto  -   non
percorribile nella specie, quantomeno in ragione del valore economico
dell'agevolazione ottenuta. 
    E  tuttavia  l'automatismo  della  sanzione   non   consente   di
apprezzare se la condotta dello stesso  incolpato  abbia  attinto  la
soglia della massima offensivita', avuto riguardo al diverso  livello
di disvalore  ipotizzabile  in  ragione  del  differente  atteggiarsi
dell'elemento  soggettivo,  considerando  altresi'  che  l'incolpato,
magistrato di prima nomina chiamato a svolgere le  delicate  funzioni
in un importante Ufficio di Procura, aveva un consolidato rapporto di
amicizia con il soggetto che  gli  aveva  garantito  le  agevolazioni
prima ancora di entrare in magistratura. 
 
                               P.Q.M. 
 
    La   Sezione   disciplinare   del   Consiglio   superiore   della
magistratura, letti gli artt. 1, legge n. 1 del 1948 e  23  legge  87
del 1953; 
    Dichiara rilevante nel presente  giudizio  e  non  manifestamente
infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 12 n.
5 del decreto legislativo 23 febbraio 2006,  n.  109  in  riferimento
all'art. 3 Cost. nella parte in cui prevede in  via  obbligatoria  la
sanzione della rimozione per il magistrato che sia  stato  condannato
in sede disciplinare per i fatti previsti dall'art. 3, lett. e),  del
decreto legislativo 23 febbraio 2006 n. 109. 
    Dispone la sospensione del presente giudizio. 
    Ordina la notifica del presente provvedimento anche  nella  parte
motiva alle parti nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri. 
    Dispone altresi', che il presente provvedimento sia comunicato, a
cura della cancelleria della Sezione, al Presidente del Senato  della
Repubblica ed al Presidente della Camera dei deputati. 
        Roma, 19 giugno 2017 
 
                        Il Presidente: Leone 
 
 
                                              Il relatore: Pontecorvo