N. 293 SENTENZA 11 - 17 luglio 2000

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Stampa  -  Reati  commessi  a  mezzo  della  stampa - Pubblicazioni a
contenuto  impressionante o raccapricciante, atte a turbare il comune
sentimento  della  morale  -  Lamentata,  indebita, limitazione della
liberta'  di stampa nonche' violazione del principio di eguaglianza e
di  ragionevolezza  e  del principio di tassativita' e determinatezza
delle fattispecie penali - Non fondatezza della questione.
- Legge 8 febbraio 1948, n. 47, art. 15.
- Costituzione, artt. 2, 3, 21, sesto comma, e 25.
(GU n.31 del 26-7-2000 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Cesare MIRABELLI;
  Giudici:  Francesco  GUIZZI,  Fernando  SANTOSUOSSO,  Massimo VARI,
Cesare RUPERTO, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA,
Carlo  MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto
CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK;
ha pronunciato la seguente


                              Sentenza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 15 della legge
8  febbraio  1948,  n. 47  (Disposizioni  sulla stampa), promosso con
ordinanza  emessa  il  17 febbraio 1999 dalla Corte di cassazione nel
procedimento  penale  a  carico  di  Corvi Luigi e altri, iscritta al
n. 275  del  registro  ordinanze  1999  e  pubblicata  nella Gazzetta
Ufficiale  della  Repubblica  n. 20,  prima serie speciale, dell'anno
1999.
    Visti  gli  atti  di  costituzione  di  Corvi  Luigi e di La Cava
Cristina  nonche'  l'atto  di intervento del Presidente del Consiglio
dei Ministri;
    Udito nell'udienza pubblica del 4 aprile 2000 il giudice relatore
Francesco Guizzi;
    Uditi  gli avvocati Paola Balducci e Caterina Malavenda per Corvi
Luigi,  Franco  Coppi  e  Caterina  Malavenda  per La Cava Cristina e
l'Avvocato  dello Stato Paolo di Tarsia di Belmonte per il Presidente
del Consiglio dei Ministri.

                          Ritenuto in fatto


    1. - A  seguito della pubblicazione sul settimanale "Visto" delle
fotografie  scattate  dalla  polizia  giudiziaria  in occasione della
scoperta  del  cadavere  di A.F.dT. venivano incriminati C.V., L.C. e
M.M. per i delitti di ricettazione, pubblicazione di immagini coperte
da  segreto  e di fotografie impressionanti e raccapriccianti, atte a
turbare il comune sentimento della morale.
    Assolti  nei due gradi di merito dalle prime due imputazioni, gli
imputati  proponevano  ricorso  per  cassazione in ordine alla terza,
deducendo diversi motivi, fra i quali l'illegittimita' costituzionale
della  norma  incriminatrice,  l'art. 15 della legge 8 febbraio 1948,
n. 47  (Disposizioni  sulla  stampa), si' che il Collegio giudicante,
aderendo   alla   eccezione,   sollevava  questione  di  legittimita'
costituzionale   in   riferimento   agli   artt. 21,  25  e  3  della
Costituzione.

    2. - Osserva  il  rimettente  che  l'art. 15  della  legge  sulla
stampa,  richiamando  le  sanzioni stabilite dall'art. 528 del codice
penale,  punisce  come  reato  la fattispecie degli "stampati i quali
descrivano   o   illustrino,   con   particolari   impressionanti   o
raccapriccianti,  avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto
immaginari,  in  modo  da  poter  turbare  il comune sentimento della
morale  o  l'ordine  familiare o da poter provocare il diffondersi di
suicidi o delitti".
    Tre  sono  gli elementi della condotta previsti: la descrizione o
l'illustrazione  di avvenimenti, anche immaginari, su stampati; l'uso
di  particolari impressionanti o raccapriccianti; le modalita' idonee
a  turbare  la  morale  corrente  o l'ordine delle famiglie, ovvero a
favorire il diffondersi dei suicidi o dei delitti.
    La  questione  sarebbe  rilevante  ai  fini  del  decidere  e non
manifestamente infondata.
    La  genericita'  e l'indeterminatezza della norma incriminatrice,
nella parte in cui utilizza il parametro del "comune sentimento della
morale"   quale  requisito  del  fatto,  violerebbe  l'art. 25  della
Costituzione.  La  condotta punibile - osserva il giudice a quo - non
dovrebbe  essere  rimessa  a  valutazioni soggettive, variabili e non
definibili    a   priori   ma   legata   a   previsioni   legislative
sufficientemente determinate. Significativamente, la Corte di appello
avrebbe convenuto con tale censura, almeno nella parte riguardante il
richiamo  al "comune sentimento della morale"; tuttavia ha creduto di
superare  il  problema,  proponendo  una lettura della incriminazione
tale  da  ovviare  alla  genericita'  della previsione: la violazione
della  morale  comune verrebbe in considerazione solo quando essa sia
cosi' marcata da destare la sensazione o il raccapriccio.
    Il   Collegio  rimettente  ritiene  pero'  non  appagante  questa
interpretazione,  atteso  che  la  genericita'  del  riferimento alla
morale, priva di oggettivita' giuridica, sarebbe verificabile proprio
in  base  allo  scarso  numero  di precedenti esistente, di contro al
profluvio  di immagini impressionanti o raccapriccianti che sarebbero
sotto i nostri occhi.
    Il  giudice  a quo ipotizza altresi' la lesione dell'art. 3 della
Costituzione,  perche'  -  rispetto  a  tutti  coloro  che diffondono
immagini  o  notizie  a  mezzo  stampa  -  verrebbero  assoggettati a
sanzione  soltanto  gli autori o i responsabili di immagini o notizie
ritenute impressionanti o raccapriccianti.
    Infine,   l'indebita   estensione   del   divieto  costituzionale
concernente  le  sole pubblicazioni contrarie al buon costume, fino a
ricomprendere  -  con  la  norma  incriminatrice  -  le pubblicazioni
contrarie  alla  morale comune, costituirebbe violazione dell'art 21,
sesto  comma,  della  Costituzione,  dal  momento che si introduce un
concetto   piu'   ampio   di   quello   vietato   dalla  disposizione
costituzionale,  quindi  restrittivo  della liberta' ivi stabilita. E
anche  a  voler  ritenere  come  aventi  un  analogo contenuto le due
espressioni,  la  fattispecie  risulterebbe  comunque  indeterminata,
ricandendo nella prima delle doglianze.

    3. - Si sono costituite le parti private chiedendo l'accoglimento
della questione.
    La  difesa  concorda con la censura del rimettente e, in ispecie,
con  quella  riguardante la violazione dei principi di tassativita' e
determinatezza  della  fattispecie  penale, palesandosi assolutamente
vago  il  turbamento  della  "morale  comune"  quale  requisito della
condotta.  In  particolare  si  osserva  che  la  morale sarebbe cosa
diversa  rispetto  all'impressione  o al raccapriccio suscitati dalle
immagini  censurate. Attraverso la locuzione usata ("in modo da poter
turbare  il comune sentimento della morale o l'ordine familiare"), il
legislatore  avrebbe  inteso  porre  un  limite  alla  tutela penale,
stabilendo  che  non  ogni  immagine impressionante o raccapricciante
verrebbe  ad  assumere,  secondo  la  diversa  opinione  del  giudice
dell'appello,  una  rilevanza penale. Aderendo alle valutazioni della
Corte  di  cassazione,  la  difesa  delle parti private respinge tale
interpretazione  ("segno  di un chiaro disagio ermeneutico") e giunge
alla  conclusione  che  essa  si  risolverebbe  in  una interpretatio
abrogans  poiche'  la  morale comune scadrebbe di rilievo e finirebbe
col  coincidere  con  un altro elemento della condotta. Al contrario,
costruita senza evento, essendo soddisfatta dal semplice pericolo, la
fattispecie  determinerebbe  l'impossibilita' di restringere il campo
applicativo,   cosi'   determinando   la   violazione   della  regola
costituzionale.
    Si  tratterebbe  di una situazione simile a quella gia' esaminata
da questa Corte nello scrutinio del delitto di plagio, conclusosi con
una  declaratoria di illegittimita' della disposizione incriminatrice
per  essere  tale reato accertabile soltanto attraverso " i parametri
culturali  propri del giudicante" (sentenza n. 96 del 1981). E' vero,
proseguono  le  difese,  che  per  le  questioni di costituzionalita'
sollevate  in  riferimento  all'art. 25  della  Costituzione la Corte
costituzionale  ha dichiarato la non fondatezza di quelle concernenti
le  fattispecie  penali,  all'apparenza indeterminate, che consentono
pero'  una  interpretazione  univoca a seguito dell'individuazione di
principi  certi  e  determinati  da  parte  della  giurisprudenza  di
legittimita'  (sentenze  nn. 31 del 1995 e 122 del 1993), ma nel caso
di  specie  cio'  non  sarebbe  possibile  per  l'esiguo numero delle
pronunce.    Ne'    una   lettura   della   disposizione   in   senso
costituzionalmente  adeguato  potrebbe dare certezza e definizione al
concetto    di    "morale   comune"   contenuto   nella   fattispecie
incriminatrice.

    4.  -  E'  intervenuto  il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato  e  difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso
per  l'infondatezza  della  questione,  sostenendo  che  il ricorso a
locuzioni  proprie  del  linguaggio  e  dell'intelligenza  comuni  e'
consentito  -  come  si  rileva dalla giurisprudenza costituzionale -
perche'  spetterebbe  al  giudice  dare a esse un contenuto concreto.
Tale   compito  sarebbe  dunque  assolto  dalla  giurisprudenza,  che
potrebbe   rinvenire   ragioni  giustificative  dell'elasticita'  del
contenuto   normativo  nei  mutamenti  connessi  ai  diversi  momenti
storici. L'art. 15 della legge sulla stampa sarebbe infatti diretto a
tutelare  non  solo  la  comune morale, ma anche l'ordine familiare e
l'ordine pubblico.
    Perche'   il   fatto   si   configuri   come  reato  occorre  che
l'espressione  narrativa o visiva sia palesemente suggestiva e denoti
"un'insensibilita'   morale  dell'autore".  La  norma  incriminatrice
richiederebbe,  cioe',  un  quid  pluris: l'idoneita' del documento a
destare sensazione o raccapriccio, il che basterebbe a scongiurare la
pretesa violazione dei parametri costituzionali invocati.

    5. - In una memoria successiva i difensori delle parti costituite
hanno insistito nella richiesta di una declaratoria di illegittimita'
costituzionale  della disposizione denunciata, rilevando, da un lato,
la   frequente   circolazione  di  immagini  "forti",  potenzialmente
qualificabili  come  raccapriccianti o impressionanti e, dall' altro,
il profondo mutarsi della sensibilita' collettiva.
    La  Corte  dovrebbe  quindi  censurare l'art. 15 in esame, per la
"sopravvenuta  irragionevolezza",  analogamente  a  quanto  affermato
nelle sentenze nn. 370 del 1996 e 519 del 1995.

                       Considerato in diritto


    1. - Viene  all'esame della Corte, con riferimento agli artt. 25,
21  e 3 della Costituzione, la questione di legittimita' dell'art. 15
della  legge  8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), che
sanziona  penalmente,  ai  sensi  dell'art. 528  del  codice  penale,
l'utilizzazione  di  "stampati  i  quali descrivano o illustrino, con
particolari  impressionanti  o raccapriccianti, avvenimenti realmente
verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il
comune  sentimento  della  morale  e  l'ordine  familiare  o da poter
provocare  il  diffondersi  di  suicidi  o  delitti". Esso lederebbe,
infatti,   il   principio  di  tassativita'  e  determinatezza  delle
fattispecie  penali,  quello della liberta' di stampa e i principi di
ragionevolezza   e   uguaglianza,   perche'   non  offrirebbe  idoneo
fondamento  giustificativo  alla  punizione  di coloro che diffondono
siffatte immagini.

    2. - L'art. 15 della legge n. 47 del 1948 dispone che si applichi
l'art. 528  del  codice  penale  ai fatti riguardanti gli "stampati i
quali  descrivano  o  illustrino,  con  particolari  impressionanti o
raccapriccianti,  avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto
immaginari".
    La  previsione  penale  esige,  come  elemento  della fattispecie
legale,  che tali stampati siano formati in modo "da poter turbare il
comune  sentimento  della  morale  o  l'ordine  familiare  o da poter
provocare  il diffondersi di suicidi o delitti". Essa e' all'esame di
questa  Corte  per  indeterminatezza,  violazione  del  principio  di
uguaglianza  e  indebita  limitazione  della  liberta'  di stampa, ma
soltanto  nella parte in cui dispone che questi stampati siano idonei
a "turbare il comune sentimento della morale".

    3. - La questione non e' fondata.
    Con riguardo all'art. 21, sesto comma, della Costituzione, questa
Corte  non  puo'  non  ricordare  che  tale articolo - nel vietare le
pubblicazioni  contrarie  al  buon  costume  -  demanda alla legge la
predisposizione  di  meccanismi  e strumenti adeguati a prevenire e a
reprimere le violazioni del precetto costituzionale.
    L'art. 15  della  legge  sulla  stampa  del 1948, esteso anche al
sistema  radiotelevisivo  pubblico  e  privato dall'art. 30, comma 2,
della  legge  6 agosto 1990, n. 223, non intende andare al di la' del
tenore  letterale  della  formula  quando vieta gli stampati idonei a
"turbare  il  comune  sentimento  della  morale".  Vale  a  dire, non
soltanto  cio' che e' comune alle diverse morali del nostro tempo, ma
anche  alla  pluralita'  delle  concezioni etiche che convivono nella
societa'  contemporanea. Tale contenuto minimo altro non e' se non il
rispetto  della  persona  umana,  valore  che  anima  l'art. 2  della
Costituzione,   alla   luce   del   quale   va  letta  la  previsione
incriminatrice denunciata.
    Solo  quando  la soglia dell'attenzione della comunita' civile e'
colpita  negativamente,  e  offesa,  dalle pubblicazioni di scritti o
immagini  con  particolari  impressionanti  o raccapriccianti, lesivi
della   dignita'   di   ogni  essere  umano,  e  percio'  avvertibili
dall'intera  collettivita',  scatta la reazione dell'ordinamento. E a
spiegare  e  a dar ragione dell'uso prudente dello strumento punitivo
e' proprio la necessita' di un'attenta valutazione dei fatti da parte
dei  differenti organi giudiziari, che non possono ignorare il valore
cardine della liberta' di manifestazione del pensiero. Non per questo
la  liberta'  di  pensiero  e'  tale  da  inficiare la norma sotto il
profilo  della  legittimita'  costituzionale,  poiche'  essa  e'  qui
concepita come presidio del bene fondamentale della dignita' umana.

    4. - Cosi' intesa la figura delittuosa, si possono superare anche
le residue censure.
    La   descrizione   dell'elemento   materiale   del   fatto-reato,
indubbiamente  caratterizzato  dal  riferimento  a concetti elastici,
trova nella tutela della dignita' umana il suo limite, si' che appare
escluso  il  pericolo  di  arbitrarie  dilatazioni della fattispecie,
risultando   quindi   infondate   le   censure   di   genericita'   e
indeterminatezza.
    Quello  della  dignita'  della  persona umana e', infatti, valore
costituzionale  che  permea  di se' il diritto positivo e deve dunque
incidere  sull'interpretazione  di quella parte della disposizione in
esame  che  evoca  il  comune  sentimento  della morale. Nella stessa
chiave  interpretativa  si  dissolvono  i  dubbi sul fondamento della
previsione  incriminatrice. Onde non v'e' lesione degli artt. 3, 21 e
25 della Costituzione.
                          Per questi motivi

                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara  non fondata la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 15  della  legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla
stampa),  sollevata,  in riferimento agli artt. 3, 21, sesto comma, e
25 della Costituzione, con l'ordinanza in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta l'11 luglio 2000.
                      Il Presidente: Mirabelli
                        Il redattore: Guizzi
                      Il cancelliere: Fruscella
    Depositata in cancelleria il 17 luglio 2000.
              Il direttore della cancelleria: Fruscella
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