N. 347 ORDINANZA 8 - 16 luglio 2002

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Processo  penale - Giudizio abbreviato - Sentenza di condanna che non
  modifichi  il  titolo  del reato - Improponibilita' dell'appello da
  parte   del   pubblico   ministero   -  Prospettata  disparita'  di
  trattamento  dell'imputato  giudicato  con rito abbreviato rispetto
  all'imputato  giudicato  con  rito  ordinario,  con  violazione del
  principio  del  contraddittorio e del potere-dovere di impugnazione
  del  p.m.,  connesso  all'esercizio  dell'azione penale - Questione
  gia' oggetto di giudizio - Manifesta infondatezza.
- Cod. proc. pen., art. 443, comma 3.
- Costituzione, artt. 3, 111 e 112.
(GU n.29 del 24-7-2002 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Cesare RUPERTO;
  Giudici:  Massimo  VARI,  Riccardo  CHIEPPA,  Gustavo  ZAGREBELSKY,
Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA,
Piero  Alberto  CAPOTOSTI,  Annibale  MARINI,  Giovanni  Maria FLICK,
Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA;
ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 443, comma 3,
del  codice  di  procedura  penale,  promosso con ordinanza emessa il
16 ottobre  2001  dalla  Corte  di appello di Milano nel procedimento
penale  a  carico  di A. G. ed altri, iscritta al n. 955 del registro
ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 1, 1a serie speciale, dell'anno 2002.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio dell'8 maggio 2002 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto  che con ordinanza emessa il 16 ottobre 2001 la Corte di
appello  di  Milano  ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111 e
112  della  Costituzione,  questione  di  legittimita' costituzionale
dell'art. 443,  comma 3, del codice di procedura penale, in forza del
quale  il  pubblico  ministero  non  puo'  proporre appello contro le
sentenze  di  condanna emesse a seguito di giudizio abbreviato, salvo
si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato;
        che  il  giudice a quo premette, in punto di fatto, di essere
investito  dell'appello  proposto  dal pubblico ministero avverso una
sentenza   pronunciata   in  esito  a  giudizio  abbreviato:  appello
riguardante  -  oltre  ai  capi  di  assoluzione  -  anche  quelli di
condanna,  rispetto  ai quali l'appellante aveva contestato la misura
della   pena  inflitta,  eccependo  in  pari  tempo  l'illegittimita'
costituzionale   della   limitazione   alle   proprie   facolta'   di
impugnazione sancita dall'art. 443, comma 3, cod. proc. pen;
        che, ad avviso del rimettente, la non appellabilita' da parte
del pubblico ministero delle sentenze di condanna emesse a seguito di
giudizio  abbreviato  risultava  in  effetti giustificabile allorche'
alla  parte pubblica era attribuito il potere di permettere o meno lo
svolgimento   del  processo  con  il  rito  speciale,  in  quanto  la
preclusione  dell'impugnazione veniva sostanzialmente a dipendere dal
suo consenso;
        che  la  situazione  sarebbe, peraltro, radicalmente mutata a
seguito  dell'entrata  in vigore, da un lato, della legge 16 dicembre
1999,  n. 479,  che,  modificando  l'art. 438  cod.  proc.  pen.,  ha
eliminato  il presupposto del consenso del pubblico ministero ai fini
dell'accesso  al  giudizio  abbreviato;  e,  dall'altro,  della legge
costituzionale  23 novembre  1999,  n. 2,  che, novellando l'art. 111
Cost., ha solennemente sancito il principio per cui "ogni processo si
svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita'";
        che,  a  fronte  di  tale  mutamento del quadro normativo, la
disposizione  impugnata  si porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost.,
in quanto determinerebbe una disparita' di trattamento fra l'imputato
che   chiede  il  giudizio  abbreviato  -  facendo  cosi'  "decadere"
automaticamente  il pubblico ministero dalla facolta' di appellare la
sentenza  di  condanna  - e l'imputato nel giudizio ordinario: posto,
infatti,  che  la  determinazione della pena e' frutto di valutazione
ampiamente  discrezionale,  non  sempre  censurabile  con ricorso per
cassazione, l'esclusione dell'appello del pubblico ministero potrebbe
consentire  in  pratica all'imputato, nel primo caso, "di beneficiare
di pene non adeguate";
        che  siffatta  disparita'  di trattamento non potrebbe essere
d'altro   canto   giustificata   da   finalita'  premiali,  volte  ad
incentivare  il  ricorso  al rito alternativo, essendo tale obiettivo
gia' assicurato dalla prevista riduzione della pena di un terzo e non
potendo  il  "premio"  consistere, comunque, "nel diritto di ottenere
pene non adeguate ed erroneamente determinate";
        che  sarebbe  violato,  altresi', l'art. 111 Cost., nel testo
novellato  dalla citata legge costituzionale n. 2 del 1999, in quanto
il  principio  del  contraddittorio  in  condizioni  di  parita'  non
potrebbe non riguardare anche il potere di impugnazione;
        che  risulterebbe  compromesso,  da ultimo, l'art. 112 Cost.,
giacche'  il  pubblico ministero verrebbe ingiustificatamente privato
del  potere-dovere,  connesso  all'esercizio obbligatorio dell'azione
penale,   di   ottenere   la   condanna  dell'imputato  ad  una  pena
proporzionata  al fatto concreto, allorche' ritenga inadeguata quella
inflitta dal giudice di prime cure;
        che  nel  giudizio  di  costituzionalita'  e'  intervenuto il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  il  quale ha chiesto che la
questione sia dichiarata manifestamente infondata.
    Considerato  che  questa  Corte  ha  gia'  scrutinato,  con esito
positivo,  la  compatibilita'  della  disposizione  impugnata  con il
principio  enunciato  dall'attuale  secondo comma dell'art. 111 della
Costituzione,  inserito  dalla legge costituzionale 23 novembre 1999,
n. 2 (cfr. ordinanza n. 421 del 2001);
        che,  al  riguardo,  questa  Corte ha chiarito come la citata
norma  costituzionale - nel conferire veste autonoma ad un principio,
quale  quello  di  parita' delle parti, pacificamente gia' insito nel
pregresso  sistema dei valori costituzionali - non abbia inciso sulla
validita'  dell'affermazione,  cui  si  e'  costantemente ispirata la
giurisprudenza della Corte stessa, in forza della quale "il principio
di   parita'   tra  accusa  e  difesa  non  comporta  necessariamente
l'identita'  tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli
dell'imputato",  potendo  una  disparita'  di  trattamento  risultare
giustificata,  "nei  limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare
posizione  istituzionale  del  pubblico ministero, sia dalla funzione
allo   stesso  affidata,  sia  da  esigenze  connesse  alla  corretta
amministrazione della giustizia";
        che per quanto attiene, in particolare, al limite all'appello
della  parte  pubblica  oggetto  di  censura, esso continua a trovare
giustificazione - come per il passato - nell'obiettivo primario della
rapida  e  completa  definizione dei processi svoltisi in primo grado
con  il  rito  abbreviato:  rito  che  -  sia  pure, oggi, per scelta
esclusiva  dell'imputato  -  implica una decisione fondata, in primis
sul   materiale  probatorio  raccolto  dalla  parte  che  subisce  la
limitazione denunciata, fuori delle garanzie del contraddittorio;
        che siffatta ratio vale evidentemente a giustificare anche la
disparita'   di   trattamento   tra  l'imputato  giudicato  con  rito
abbreviato  e  l'imputato giudicato con rito ordinario, escludendo la
violazione dell'art. 3 Cost. denunciata dall'odierno rimettente;
        che per quel che concerne, infine, la supposta compromissione
dell'art. 112  Cost.,  questa Corte ha ribadito - anche con specifico
riferimento alla previsione normativa sottoposta a scrutinio - che il
potere   di  impugnazione  del  pubblico  ministero  non  costituisce
estrinsecazione   necessaria   dei   poteri   inerenti  all'esercizio
dell'azione penale (cfr. la citata ordinanza n. 421 del 2001);
        che,   pertanto,   la   questione   deve   essere  dichiarata
manifestamente infondata.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara   la   manifesta   infondatezza   della   questione   di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 443,  comma  3, del codice di
procedura  penale,  sollevata, in riferimento agli artt. 3, 111 e 112
della  Costituzione, dalla Corte di appello di Milano con l'ordinanza
in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'8 luglio 2002.
                       Il Presidente: Ruperto
                         Il redattore: Flick
                       Il cancelliere:Di Paola
    Depositata in cancelleria il 16 luglio 2002.
               Il direttore della cancelleria:Di Paola
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