N. 371 ORDINANZA (Atto di promovimento) 1 marzo 2002

Ordinanza  emessa il 1 marzo 2002 dal tribunale - sez. per il riesame
di Palermo sulla richiesta proposta da Coniglio Maria

Processo  penale - Misure cautelari - Custodia cautelare in carcere -
  Obbligatorieta'  in  caso  di  precedenti  penali  per  evasione  -
  Possibilita'  per  il  giudice di concedere la misura degli arresti
  domiciliari qualora ritenga siffatta misura adeguata a prevenire la
  reiterazione  del  reato e proporzionata all'entita' dello stesso -
  Esclusione  -  Lamentata  automaticita'  della  misura  cautelare -
  Irragionevolezza    -   Incidenza   sul   principio   di   garanzia
  giurisdizionale  per  le misure incidenti sulla liberta' personale,
  nonche' sul principio di tutela della salute.
- Cod. proc. pen., art. 284, comma 5-bis.
- Costituzione, artt. 3, 13 e 32.
(GU n.35 del 4-9-2002 )
                            IL TRIBUNALE

    Vista   la  richiesta  di  riesame  proposta  dall'avv.  Giuseppe
Inzerillo  nell'interesse  di  Coniglio  Maria  nata  a Palermo il 12
settembre  1975; avverso l'ordinanza emessa dal Tribunale di Palermo,
sez.  III  penale,  in  composizione  monocratica in data 13 febbraio
2002;
    Udito il relatore all'udienza camerale del 20 febbraio 2002;
    Sciogliendo la riserva assunta all'esito della discussione;
    Ritenuta la propria competenza territoriale ex art. 309, comma 7,
c.p.p.;
    Esaminati gli atti ritualmente inviati dall'a.g. procedente;
    Ritenuta l'ammissibilita' del gravame;
    Ha pronunciato la seguente ordinanza
    1. -  Con ordinanza del 13 febbraio 2002 il Tribunale di Palermo,
sez.  III  penale (in composizione monocratica), ha applicato a Maria
Coniglio  la  misura cautelare personale della custodia in carcere in
presenza  di  gravi  indizi  di  colpevolezza  del  delitto  di furto
aggravato,  e  dell'esigenza  cautelare  del pericolo di reiterazione
criminosa specifica.
    Quanto  alla  scelta  della  misura  da applicare, la custodia in
carcere  e'  stata  ritenuta  l'unica idonea a presidiare l'anzidetta
esigenza,  pur  a fronte della richiesta difensiva (formulata in sede
di  convalida dell'arresto in flagranza) di concessione degli arresti
domiciliari, considerato che i precedenti penali dell'imputata per il
delitto   di   evasione   assumono  carattere  impeditivo,  ai  sensi
dell'art. 284,   comma   5-bis,   cod.   proc.  pen.,  rispetto  alla
concessione della meno afflittiva misura della custodia domiciliare.
    Avverso  tale  ordinanza  il  difensore dell'imputata ha proposto
richiesta  di riesame a questo tribunale, ai sensi dell'art. 309 cod.
proc.  pen.,  chiedendo  la caducazione e in subordine la riforma del
provvedimento gravato.
    Il   difensore   non   contesta,   nei  motivi  di  impugnazione,
l'esistenza  del  fumus  commissi  delicti  a  carico  della  propria
assistita  per il reato contestatole, ne' pone questione alcuna circa
la  sussistenza  del periculum libertatis ritenuto dal primo giudice,
ma  deduce  unicamente la violazione dei principi di proporzionalita'
ed  adeguatezza  nella  scelta  della  misura, sanciti dall'art. 275,
commi  primo  e  secondo,  del  codice  di  rito  penale,  nonche' il
contrasto  tra  la  disposizione posta a fondamento della motivazione
della  scelta  della  misura  carceraria  (art. 284, comma 5-bis cod.
proc.  pen.),  e  gli articoli 3 e 101 della Costituzione, atteso che
"l'automatismo      derivante      dall'obbligatoria     applicazione
dell'art. 284, comma 5-bis, c.p.p., che non consente al giudice della
cautela  di  concedere  gli  arresti  domiciliari,  ancorche' ritenga
siffatta  misura  adeguata  a  prevenire la reiterazione del reato e,
comunque,  proporzionata all'entita' del fatto commesso, obbligandolo
ad  infliggere  la custodia cautelare in carcere al solo ricorrere di
precedenti  penali  per  il  reato di evasione, costituisce un vulnus
alla   liberta'   di  apprezzamento  del  giudice  dei  requisiti  di
proporzionalita' ed adeguatezza, individuati dall'art. 276 c.p.p., in
palese  contrasto  con  i principi costituzionali degli artt. 3 e 101
Cost." (pag. 3 della richiesta di riesame).
    Deduce  inoltre  la  difesa che "la mancata adozione di un regime
cautelare modulato in ragione delle esigenze di salute dell'imputata,
tossicodipendente ed affetta da H.I.V., ponendosi in contrasto con il
dettato di cui all'art. 32 Cost., subordina la tutela delle stesse ad
interessi  certamente subvalenti ed estranei al fatto che di volta in
volta   viene  in  considerazione,  essendo  ugualmente  precluso  al
giudice,  quand'anche ritenesse le condizioni di salute dell'imputato
incompatibili con lo stato di detenzione, l'adozione del regime degli
arresti domiciliari se l'imputato e' stato condannato nel quinquennio
precedente  per  il  reato  di  evasione"  (pag. 4 della richiesta di
riesame).
    2. - Osserva  preliminarmente  il  collegio  che,  nonostante  la
specificita'   dei  richiamati  motivi  di  impugnazione,  la  natura
totalmente   devolutiva  del  giudizio  di  riesame,  il  cui  ambito
cognitorio  non  e'  delimitato  dai  motivi  di  gravame,  impone al
collegio,  tanto ai fini dell'emissione di un provvedimento decisorio
definitivo  del giudizio, che in punto di valutazione della rilevanza
delle  prospettate  questioni  di  legittimita'  costituzionale,  una
verifica  della  sussistenza dei presupposti per l'applicazione della
misura di cautela di cui si chiede la revoca.
    Quanto  al  fumus commissi delicti, appare preclusiva rispetto ad
un  sindacato  nel  merito da parte di questo tribunale l'intervenuta
sentenza  di applicazione della pena di mesi quattro di reclusione ed
euro  duecento  di  multa,  pronunziata ex art. 444 cod. proc. pen. a
carico  dell'imputata  per  il  fatto costituente titolo di reato nel
procedimento cautelare de quo
    La Corte costituzionale, con la sentenza 15 marzo 1996, n. 71, ha
infatti  dichiarato  la parziale illegittimita' degli artt. 309 e 310
c.p.p.,  nella  parte  in  cui  non  consentono  la rivalutazione dei
sufficienti  indizi  di colpevolezza dopo il rinvio a giudizio, ma ha
comunque  fatto salva la preclusione derivante dall'intervento di una
sentenza di condanna.
    Nella  sentenza  n. 6825  del  4 dicembre 1997 - 28 gennaio 1998,
Vincenti,  la  I  sezione  della Corte di cassazione ha ulteriormente
precisato   che   "In   tema   di   misure  cautelari  personali,  la
rivalutazione   del   quadro   indiziario  e  consentita  anche  dopo
l'emissione  del  decreto  che  dispone il giudizio, ma non piu' dopo
l'intervento  di  una  decisione  assorbente  sul  merito  emessa dal
giudice  della cognizione, con la quale non potrebbe confliggere, per
evidenti   ragioni   di  certezza  e  di  razionalita'  del  sistema,
l'apprezzamento,  eventualmente diverso, del giudice del procedimento
incidentale de libertate.
    Non  pare  dubbio  al collegio che la sentenza di applicazione di
pena  su  richiesta,  ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen., abbia -
sotto  il profilo in esame - la medesima efficacia preclusiva: sia in
forza  dell'espressa  equiparazione  normativa  di  cui all'art. 445,
primo  comma, ultima parte, cod. proc. pen., che non risulta derogata
nel  caso  di  specie;  sia  -  sotto  il  profilo  sostanziale  - in
considerazione  della natura della delibazione rimessa al giudice che
applica  la  pena,  il  cui  onere  motivatorio,  pur strutturato "in
negativo",  non  puo' prescindere dalle "prove della responsabilita'"
(Corte costituzionale, sentenza 26 giugno 1990, n. 313), tanto che si
spinge alla valutazione della congruita' della pena proposta rispetto
ad  un fatto di reato la cui sussistenza e' evidentemente presupposto
implicito di tale valutazione di congruita'.
    Pertanto,  alla luce degli indicati principi di diritto affermati
dalla  giurisprudenza,  nel  presente  giudizio  di riesame una nuova
valutazione  del  fumus  commissi  delicti  e'  -  prima  ancora  che
incontestata  nel  merito  -  preclusa  in  rito dall'emissione della
sentenza conclusiva del primo grado del giudizio di merito.
    3. - Sul  piano dei pericula libertatis va anzitutto rilevato che
i  plurimi  precedenti  penali  -  anche  specifici  -  dell'imputata
consentono  di condividere il giudizio prognostico ritenuto dal primo
giudice,  nel senso dell'esistenza di un concreto ed attuale pericolo
che  l'odierna  richiedente commetta delitti della stessa specie, ove
non fosse a misura cautelare personale coercitiva.
    4. - Il  successivo  passaggio  del sindacato di questo tribunale
riguarda  la  (congruita'  della)  scelta  della misura applicata dal
primo giudice.
    Osserva   il   collegio  come  la  motivazione,  sul  punto,  del
provvedimento gravato, risulti dalla integrazione autografa, da parte
dell'estensore,  di un modulo prestampato di ordinanza applicativa di
misure  di  cautela  personale; in particolare il primo giudice, dopo
aver  cancellato  la  parte  di  motivazione (predisposta nel modulo)
relativa alla riscontrata proporzionalita' della misura carceraria al
fatto  ed  alla  pena,  ha  aggiunto  di  proprio  pugno  il richiamo
all'effetto  preclusivo,  rispetto  alla  concessione  degli  arresti
domiciliari, del citato art. 284, comma 5-bis, cod. proc. pen.
    Secondo  le  tradizionali  regole  ermeneutiche,  l'indicato dato
testuale  e'  espressivo della convinzione del primo giudice circa la
sproporzione  tra  la misura della custodia in carcere ed il reato di
furto  punito  con  una  pena  di  quattro  mesi  di reclusione (che'
altrimenti   l'estensore   non   avrebbe   cancellato   la  contraria
affermazione  gia' predisposta nel modulo utilizzato per la redazione
del  provvedimento),  e  ciononostante  della necessita' di applicare
detta  misura,  evidentemente  sproporzionata  per eccesso, stante la
inapplicabilita' della meno afflittiva misura di custodia domiciliare
per effetto del precedente per evasione.
    Al  di la' della ricostruzione delle ragioni del giudizio posto a
fondamento  del provvedimento gravato, comunque propedeutica rispetto
al  sindacato sulla congruita' dello stesso, questo collegio ritiene,
nel merito, di esprimere valutazioni di identico tenore.
    La ravvisata esigenza specialpreventiva, infatti, ben puo' essere
tutelata  con la misura degli arresti domiciliari, che se in assoluto
puo'  apparire  eccessiva  per  prevenire il reato di furto, nel caso
concreto  e'  invece  l'unica  idonea,  giacche' i plurimi precedenti
penali  dell'imputata  per il medesimo reato (furto) denotano come il
rilevato  pericolo  sia  di  tale  intensita'  da  non  poter  essere
adeguatamente fronteggiato con obblighi non custodiali.
    Se,  pero',  misure meno afflittive appaiono inidonee a prevenire
il periculum, la piu' afflittiva misura applicata (custodia cautelare
in  carcere),  certamente  idonea,  e' sproporzionata per eccesso sia
rispetto  alla  gravita'  del fatto accertato, sia rispetto alla pena
per esso applicata.
    Cionondimeno,  questo  tribunale  non puo' procedere alla riforma
del  provvedimento  impugnato,  nel  senso  della  sostituzione della
misura   della   custodia   in   carcere  con  quella  degli  arresti
domiciliari,   che  alla  luce  di  quanto  esposto  sarebbe  imposta
dall'art. 275,  secondo  comma, cod. proc. pen., essendo tale opzione
preclusa  dalla  medesima  disposizione  che  ha  vincolato  il primo
giudice   all'applicazione  di  una  misura  ritenuta  (dallo  stesso
giudice) non proporzionata.
    5. - L'alternativa    all'applicazione    di   una   disposizione
legislativa concretamente lesiva del principio di proporzionalita' e'
data   dallo   scrutinio   della  legittimita'  costituzionale  della
disposizione medesima.
    Ritiene  pertanto  il  collegio  che la questione di legittimita'
costituzionale   prospettata  dalla  difesa  non  sia  manifestamente
infondata, ancorche' vada diversamente individuato il parametro.
    La disposizione della cui legittimita' costituzionale si dubita -
art. 284, comma 5-bis, cod. proc. pen. - e' stata inserita nel codice
di rito penale dal decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (convertito
nella  legge  19  gennaio  2001,  n. 4),  ed e' stata successivamente
modificata dall'art. 5 dalla legge 26 marzo 2001, n. 4.
    In  sede  di  commento a tale ultima modifica, che ha prodotto il
testo  attualmente  vigente,  la  dottrina  aveva  rilevato  come  il
legislatore  avesse codificato, nelle forme del meccanismo presuntivo
iuris  et  de  iure,  una  valutazione di inidoneita' cautelare della
misura  degli  arresti  domiciliari per ipotesi che la giurisprudenza
aveva   gia'  ritenuto  rilevanti  ai  fini  dell'applicazione  della
custodia  domiciliare  in  luogo  di quella carceraria, giudicando la
condotta di evasione un elemento inequivocabilmente sintomatico della
pericolosita' dell'imputato nella prospettiva del rispetto volontario
degli obblighi connessi a detta misura.
    L'attuale  formulazione della disposizione, caratterizzandosi per
l'aggiunta  al  testo originario dell'avverbio "comunque", non lascia
spazio ad una interpretazione in qualche modo tesa a salvaguardare un
pur   minimo   spazio  di  valutazione  discrezionale  che,  in  sede
giurisdizionale   (e  dunque,  avuto  riguardo  al  fatto  concreto),
consenta   di   superare   in  qualche  modo  la  rigida  presunzione
legislativa  (cio'  che  impedisce  a  questo collegio di operare una
esegesi  della  disposizione  medesima  compatibile  con  il  dettato
costituzionale,   si   da   evitare   di   sollevare  l'incidente  di
costituzionalita).
    La  stessa  dottrina  rilevava  altresi  come il riferimento alla
precedente   condanna   per   evasione   riportata   nel  quinquennio
dall'imputato,   quale   fatto   legittimante   l'operativita'  della
richiamata    presunzione    assoluta,    non    fosse   accompagnato
dall'indicazione   del  carattere  della  sentenza  di  condanna,  se
definitiva  o meno: con la conseguenza, nel primo caso, che qui viene
in  considerazione  (essendo  stata applicata all'imputata la pena di
mesi due e giorni ventisette, e poi - in continuazione - di ulteriori
giorni  sei, di reclusione per due episodi avvenuti lo stesso giorno,
con   sentenze   ormai  definitive),  di  ancorare  una  prognosi  di
inadeguatezza  presunta  ad  un  fatto  verosimilmente  risalente  e,
dunque,  in  concreto  privo  di utilita' - anzi, fuorviante, per una
valutazione della idoneita' attuale della misura.
    6.  -  Ciononostante,  il  collegio  non  ritiene  di condividere
l'assunto  difensivo  incentrato  sulla  pretesa violazione, ad opera
della  disposizione  in  esame, della disposizione costituzionale che
garantirebbe il principio del libero convincimento del giudice.
    Il  legislatore,  infatti,  ben  puo',  nell'esercizio  della sua
discrezionalita',  porre al giudice canoni legali di valutazione piu'
o  meno  intensi, senza che cio' implichi di per se una lesione delle
prerogative   costituzionali   della   giurisdizione   (rectius:  del
principio del libero convincimento del giudice).
    Si  pensi,  nella  materia  in  esame, alla presunzione legale di
esclusiva  adeguatezza della custodia in carcere posta dall'art. 275,
terzo  comma,  del  codice  di rito, in relazione ad alcuni specifici
titoli  di  reato  (delimitazione  che,  come  meglio  si  dira',  ha
l'effetto  di consentire a tale presunzione di dettare una disciplina
che comunque operi all'interno di un rapporto di proporzionalita' tra
misura   da   applicare   e  fatto  costituente  il  presupposto  per
l'applicazione della stessa).
    Il  limite e' pero' dato dall'esigenza che il vincolo legale alla
valutazione  che  si  compie  in  sede  giurisdizionale sia confome a
ragionevolezza:   nozione,   quest'ultima,   intesa   sia  nella  suo
significato  di  proporzionalita' delle scelte conseguenti, che sotto
il   profilo   della   attitudine   a   provocare  una  irragionevole
parificazione di situazioni differenti.
    Per  tale  ragione  ritiene  il  collegio  che il parametro della
questione  in esame debba essere individuato negli artt. 3 e 13 della
Costituzione, sotto un duplice profilo.
    7. - In  primo  luogo,  quanto alla disciplina costituzionale dei
limiti  legalmente opponibili all'esercizio della liberta' personale,
la  disposizione  in esame, determinando l'applicazione di una misura
di cautela personale coercitiva sproporzionata rispetto alla gravita'
della  condotta  ed  al  suo  trattamento sanzionatorio, comporta una
compressione della liberta' personale dell'imputato (sotto il profilo
del  grado  di  afflittivita'  della  misura  e, dunque, del grado di
privazione dello status libertatis) non bilanciata da una ragionevole
giustificazione.
    In  particolare,  non delimitando in alcun modo i titoli di reato
sottoponibili   al  regime  presuntivo,  si  finisce  coll'equiparare
irragionevolmente    (il   trattamento   giuridico   di)   situazioni
profondamente diverse.
    Si  noti  che  l'odierna imputata, condannata a pena detentiva di
quattro mesi per furto, soggiace al medesimo regime, sotto il profilo
della  scelta della misura da applicare, previsto per gli indagati ed
imputati del delitto di partecipazione ad associazione per delinquere
di tipo mafioso.
    Invero,   pur   nella   diversita'   strutturale  delle  relative
disposizioni  (l'art. 275,  terzo  comma,  pone  una  presunzione  di
adeguatezza   della   custodia   cautelare  in  carcere  che  esclude
l'applicabilita'  di  altre misure; la disposizione in esame pone una
presunzione  assoluta  di inadeguatezza degli arresti domicliari), la
circostanza  che  nel secondo caso manchi del tutto una delimitazione
dei  reati  cui applicare lo speciale regime presuntivo, determina la
sottoposizione  al  medesimo  risultato  (l'applicazione della misura
carceraria)  pur in presenza di presupposti sostanziali, afferenti la
gravita' del fatto e l'entita' della pena, assai diversi.
    Se  si  ha  riguardo  alla strumentalita' della misura di cautela
rispetto al contenuto della decisione di merito (e, dunque, alla pena
ritenuta  in  sentenza,  a  sua  volta  espressiva della gravita' del
fatto),  emerge l'irragionevolezza della compressione cautelare dello
status   libertatis   del   tutto   svincolata   da   un   legame  di
proporzionalita' con la gravita' del fatto e con l'entita' della pena
prevista od irrogata per il fatto medesimo.
    Il  rapporto  di  proporzionalita'  deve  infatti  correre tra la
misura  cautelare  ed  il  fatto  costituente  oggetto  del  giudizio
cautelato:  non  gia',  dunque,  tra la forma di coercizione ed altro
fatto  di reato, estraneo all'oggetto del giudizio di cognizione e di
quello   incidentale   de  libertate,  ed  evocato  unicamente  quale
parametro di una valutazione prognostica (presuntiva).
    Si   noti,  poi,  che  la  disposizione  in  esame  non  preclude
l'applicazione  di  misure  meno  afflittive,  ne'  di  quella - piu'
afflittiva - carceraria.
    La conseguenza di siffatta formulazione e' dunque che, in un caso
come  quello  in  esame,  il  giudice  e'  costretto  a scegliere fra
l'applicazione di una misura idonea, ma sproporzionata (come ha fatto
il  primo giudice nel provvedimento gravato), e l'applicazione di una
misura  inidonea,  ma proporzionata (come avverrebbe se, per superare
il   divieto   legale,  si  applicassero  all'imputata  obblighi  non
custodiali:  soluzione che la dottrina ammette, pur se apparentemente
preclusa  dalla collocazione sistematica della disposizione in esame,
come  unica  interpretazione  possibile  per salvare la gia' precaria
ragionevolezza della disposizione medesima).
    In   entrambi   i   casi,   la   preclusione  di  (una  decisione
giurisdizionale  conseguente ad) un bilanciamento in concreto conduce
ad   una   soluzione  irragionevole,  che  necessariamente  sacrifica
(inevitabilmente  ed  inutilmente)  uno  dei valori in conflitto, che
invece  potrebbero  essere  entrambi bilanciati ove si consentisse al
giudice  di  decidere  la  misura  applicabile  secondo  gli ordinari
parametri  legali  di  proporzionalita'  e  di adeguatezza (art. 275,
commi primo e secondo, cod. proc. pen.).
    La   causa   di   un   siffatto   limite,   insuperabile  in  via
interpretativa,  risiede nel fatto che al giudice e' negata la delega
di  bilanciamento in concreto, normalmente rimessa - a garanzia della
ragionevolezza  della  disciplina - al soggetto chiamato ad applicare
la  legge, sia egli il giudice (Corte costituzionale, sentenza n. 100
del   1981)   o  l'amministrazione  (Corte  costituzionale,  sentenza
n. 388/1992).
    L'impossibilita',  per  il  legislatore, di disciplinare tutte le
mutevoli  situazioni di fatto e di graduare in astratto e in anticipo
le  "limitazioni poste all'esercizio dei diritti", e' un'affermazione
contenuta  in  una  giurisprudenza  costituzionale (sentenze 2/1956 e
121/1957)  definita  "storica"  dalla  dottrina, che ha pure rilevato
come   il   limite   intrinseco  alla  "condizione  esistenziale  del
legislatore",  rappresentato  dalla  "non  raggiungibile varieta' del
concreto"  (sentenza  644/1988), non puo' non riflettersi sul modo di
operare  del  giudizio  di legittimita': non si tratta di sovvertire,
nel  merito,  la  relazione  posta  dal legislatore tra gli interessi
antagonisti,  ma  piuttosto  di sostituire la regola legale censurata
con  una diversa regola (non creativa di un diverso ordine di valori,
ma)   attributiva   della   competenza  -  altrimenti  esclusa  dalla
presunzione - ad attuare la legge.
    Come  ha  osservato la dottrina, il percorso della giurisprudenza
costituzionale  in tema di bilanciamento "in concreto" o "differito",
quale   garanzia   di   ragionevolezza,   oscilla   tra  sentenze  di
accoglimento,   e  decisioni  contenenti  letture  adeguatrici  delle
disposizioni censurate.
    Nel caso in esame la perentorieta' del dato testuale, conseguente
anche   al  rafforzamento  in  tal  senso  operato  dalla  richiamata
modifica,   non   lascia  alcuno  spazio  ad  una  soluzione  in  via
interpretativa  dell'irragionevole  stallo  cui  conduce la rigidita'
della presunzione legale.
    La  Corte  costituzionale  ha  del resto censurato, proprio sotto
l'indicato  profilo  della irragionevolezza dell'automatismo legale -
ancorche'  in  relazione  al  (parzialmente) diverso parametro che in
quel  caso  veniva  in  considerazione  -, l'analoga disposizione che
sanciva  la  sospensione  automatica  della detenzione domiciliare in
conseguenza  di  una  semplice  denunzia  per  il reato di evasione a
carico dell'imputato, senza che il magistrato di sorveglianza potesse
delibare  la  fondatezza  della  denunzia medesima, e - soprattutto -
senza   che   potesse   bilanciare   le   esigenze  connesse  a  tale
sopravvenienza rispetto a quelle poste a fondamento della concessione
del  beneficio,  di  natura  "umanitaria  ed  assistenziale", nonche'
rispetto  alle  condizioni  di  salute (parametro che, come si dira',
viene   in  considerazione  anche  in  questo  caso)  del  condannato
(sentenza 173 del 1997).
    8. -   Da altra angolazione (costituente, peraltro, un differente
aspetto  del  medesimo  problema),  puo'  affermarsi  che  non appare
rispettata, dalla disposizione in esame, la garanzia della riserva di
giurisdizione in materia di privazione della liberta' personale.
    Il significato di tale riserva non e', infatti, unicamente quello
di   escludere   l'intervento  di  altri  poteri  dello  Stato  dalla
competenza  ad  emettere  provvedimenti  restrittivi  della  liberta'
personale,  ma  e'  altresi'  quello di assicurare che nella concreta
applicazione  della  disciplina legislativa che regola le restrizioni
dello   status   libertatis   si   compia  una  valutazione  relativa
all'accertamento   della   effettiva   sussistenza   dei  presupposti
legittimanti le restrizioni medesime.
    Cosi' come, da autorevole dottrina, la riserva di amministrazione
e'  configurata come riserva di procedimento amministrativo, e dunque
come    necessita'    che    determinati    atti    siano   preceduti
dall'acquisizione    di    fatti    ed    interessi    (essendo    la
procedimentalizzazione,  cosi'  intesa,  garanzia  di  ragionevolezza
dell'agire del pubblico potere), allo stesso modo puo' affermarsi che
la  riserva  di giurisdizione, specie in materia di restrizioni della
liberta'  personale,  non  possa  e non debba essere intesa come mera
riserva di competenza formale ad emettere provvedimenti dal contenuto
predeterminato  per legge, senza possibilita' alcuna di riempire tale
contenuto attraverso una valutazione concreta e sostanziale dei fatti
e  degli  interessi,  dovendo essere piuttosto intesa come riserva di
procedimento  giurisdizionale, nel quale il giudice possa acquisire i
fatti  e  gli  interessi  rilevanti  per  la decisione, eventualmente
orientata - ma non rigidamente prederminata - da parametri legali.
    Gia'  nella  sentenza  n. 11  del  1956  la  Corte costituzionale
chiariva che il provvedimento dell'autorita' giudiziaria - in materia
di  riserva di giurisdizione ex art. 13, secondo comma, Cost. - ha la
funzione  di  indicare le ragioni che legittimano la privazione della
liberta' personale: ragioni che non puo' indicare un giudice che, pur
riconoscendo  che  non  v'e'  motivo reale e concreto per disporre la
massima  forma  di  restrizione, sia tuttavia obbligato dalla legge a
disporla (come ha fatto nel caso in esame il primo giudice).
    Che  la  garanzia  della  riserva  di  giurisdizione  copra anche
l'adozione   di   provvedimenti   che   comportino   una  sostanziale
modificazione  nel  grado  di privazione della liberta' personale (e,
dunque,  nel  caso  in esame, nella scelta della misura coercitiva da
applicare), e' chiaramente affermato dalla sentenza n. 349 del 1993.
    La  violazione  della riserva di giurisdizione costituisce dunque
il  secondo  profilo  della questione, incentrata sulla irragionevole
compressione  della  liberta' personale per effetto della presunzione
legale assoluta posta dalla disposizione in esame.
    9. - Infine,  appare  non manifestamente infondato pure il dubbio
di  costituzionalita'  relativo  al parametro costituito dall'art. 32
della Costituzione.
    In  dottrina  si e' rilevato come la disposizione censurata lasci
insoluto  il  problema  del  rapporto  tra  la  presunzione legale di
inadeguatezza   degli   arresti  domiciliari  ed  il  trattamento  da
riservare  alle  categorie di soggetti di cui all'art. 275, commi 4 e
4-bis  cod.  proc.  pen., fra i quali le persone affette da A.I.D.S.,
cui  non puo' essere applicata (salvo, anche qui, un bilanciamento in
concreto con esigenze cautelari di eccezionale rilevanza) la custodia
cautelare in carcere.
    Orbene,  essendo  il  citato  art. 275  disposizione di carattere
generale  in  materia  di scelta delle misure cautelari da applicare,
non  pare  che  si  possano configurare come norme speciali (rispetto
all'art. 284, comma 5-bis) le disposizioni in esso contenute a tutela
della  salute  di alcune categorie di persone: con la conseguenza che
la presunzione legale in esame dovrebbe assumere valore assoluto - in
quanto  non derogata da norme speciali - anche nell'ipotesi in cui il
divieto   di   arresti   domiciliari   da   essa  stabilito  comporti
l'applicazione  della  misura  carceraria  a  chi e' in condizione di
salute  incompatibili  con  il  regime  detentivo, senza che peraltro
sussistano esigenze di cautela (che il giudice non puo' evidentemente
apprezzare) tali da imporre tale sacrificio.
    Del  resto,  ubi lex voluit, dixit: l'art. 276, comma 1-bis, cod.
proc. pen., in tema di applicazione della custodia in carcere in caso
di  trasgressione delle prescrizioni inerenti gli arresti domicliari,
spezza  l'automatismo  dell'analoga  presunzione  legale  (introdotta
anch'essa  dal d.l. n. 341/2000) proprio per le categorie di soggetti
di cui all'art. 275, comma 4-bis.
    E',  questo, oltre che un argomento per escludere l'esistenza nel
caso  in  esame  di  una disposizione speciale a tutela della salute,
anche un evidente, ulteriore profilo di disparita' di trattamento fra
situazioni  assolutamente  identiche, atteso che un bilanciamento fra
esigenze  di cautela (del processo e) della collettivita' ed esigenze
di  salute dell'imputato e' possibile ove questi abbia effettivamente
trasgredito le prescrizioni inerenti gli arresti domicliari (in altre
parole:  sia evaso), ma non anche quando si valuti (preventivamente e
presuntivamente)  che  egli  potra' in futuro trasgredirle per essere
stato   in   precedenza   (e  nell'ambito  di  diverso  procedimento)
condannato  per evasione: dunque il bilanciamento con il diritto alla
salute  e'  possibile  nel caso di trasgressione accertata, ma non in
quello   (in  cui  meno  forte  e'  l'esigenza  sottesa  alla  tutela
dell'interesse antagonista) di trasgressione presunta.
    Orbene,  risulta  dagli  atti che in sede di udienza di convalida
dell'arresto  la  difesa ha prodotto certificazione medica a sostegno
dell'affermazione  relativa  alle condizioni di salute dell'imputata,
affetta da sindrome da H.I.V.
    Il  collegio  non puo' tuttavia vagliare la compatibilita' tra le
condizioni  di salute dell'imputata ed il regime carcerario, ne' puo'
valutare  il  grado  delle  esigenze  di  cautela  in  un  ottica  di
bilanciamento  con  le  esigenze di salute della predetta, essendogli
preclusi   entrambi   i   piani   d'indagine  dall'assolutezza  della
formulazione della disposizione censurata.
    10. - Cio'  detto  in  relazione al requisito della non manifesta
infondatezza  della  questione,  in  punto  di  rilevanza  si e' gia'
chiarito   come  la  disposizione  censurata  abbia,  nella  concreta
fattispecie    in    esame,    efficacia    direttamente   impeditiva
dell'applicazione  della  misura  cautelare degli arresti domicliari,
ritenuta  da questo collegio idonea a tutelare le esigenze di cautela
ravvisate  e  proporzionata  al fatto di reato per cui si procede (ed
alla pena per esso applicata).
    L'applicazione  di  tale disposizione e' pertanto imprescindibile
nel  presente  giudizio,  non  potendosi  applicare  una  misura meno
afflittiva  perche' - come gia' osservato - priva del requisito della
idoneita'  (essendo inadeguata per difetto), ne' potendosi confermare
quella  piu' afflittiva della custodia in carcere, sproporzionata per
eccesso.
    Analogamente,   il  presupposto  della  rilevanza  si  pone  pure
rispetto  alla  (documentata)  presenza  di  una  delle condizioni di
salute  tutelate dalla disposizione generale di cui all'art. 275 cod.
proc.  pen.,  ma  non  considerate  dalla  disposizione in esame, che
preclude  un  bilanciamento  delle  esigenze  di  cautela  con quelle
(documentate)  connesse  alla  tutela della salute dell'imputata, con
conseguente violazione dell'art. 32 della Costituzione.
    11. - Occorre  pero'  porsi  il problema della rilevanza anche in
una prospettiva diacronica, legata all'efficacia della misura in atto
applicata al tempo della decisione della questione.
    Detta  misura  potrebbe  infatti,  nelle  more  del  giudizio  di
costituzionalita',  perdere efficacia o perche' modificata o revocata
dall'a.g.  procedente,  o  per  effetto proprio della sospensione del
procedimento di riesame conseguente alla instaurazione dell'incidente
di costituzionalita'.
    Puo'  anzi  affermarsi con ragionevole sicurezza che allorche' la
questione  dovesse  essere  decisa  nel  merito,  l'imputata  non  si
trovera' piu' in regime di custodia cautelare.
    In  questo  senso  milita  anzitutto  il  rilievo  che il termine
massimo previsto in relazione al titolo di reato ritenuto in sentenza
e' considerevolmente inferiore alla media della durata dei giudizi di
legittimita' costituzionale in via incidentale.
    D'altra  parte,  come  si  e'  detto,  l'a.g. procedente potrebbe
dichiarare inefficace l'ordinanza applicativa della misura carceraria
per  effetto  del decorso del termine ex art. 309, commi 9 e 10, cod.
proc. pen.
    La  giurisprudenza  di  legittimita'  e' infatti divisa, circa la
sorte  della  misura  di  cautela  in  atto,  fra un orientamento che
intende la sospensione del procedimento conseguente alla proposizione
di un giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale come
riferita  anche  al  termine  di cui all'art. 309, commi 9 e 10, cod.
proc.  pen.  (Cass.,  sez. I, 3 giugno - 3 luglio 1992, Gelli; Cass.,
sez. VI, 5 giugno - 7 luglio 1992, Ribatti; Cass., sez. I, 15 ottobre
-  3 dicembre 1993, Dona'; Cass., sez. I, 17 maggio - 16 giugno 1994,
Prina),  ed  un indirizzo secondo cui la sospensione del procedimento
per  la  proposizione di una questione di legittimita' costituzionale
non  e'  idonea  ad  impedire  la  decorrenza  dei  termini perentori
previsti dal citato art. 309, con la conseguenza che va dichiarata la
perdita di efficacia della misura applicata allo scadere del suddetto
termine,  in  assenza  di  una  tempestiva  decisione  sul merito del
riesame (Cass., sez. I, 18 ottobre - 19 novembre 1993, Mamone; Cass.,
sez.  II,  14  febbraio - 10 aprile 1996, Abruzzese; Cass., sez. I, 4
aprile  -  23  maggio  1996,  De  Fino; Cass., sez. I, 4 aprile 1996,
Zoffreo, non massimata).
    Ove invece si aderisse al (relativamente) piu' risalente - e piu'
rigoroso  (per  la  tutela  delle  esigenze  specialpreventive  della
collettivita) - orientamento che estende al termine di (in) efficacia
della   misura   di   cautela   gravata  la  sospensione  conseguente
all'incidente   di   costituzionalita',   le  cose  non  muterebbero,
considerato  che  la  durata media dei tempi di quest'ultimo giudizio
e',  come  detto,  comunque  superiore  al  termine massimo di durata
previsto in relazione al commesso reato.
    Nello  specifico  caso  in  esame,  poi, essendo stata l'indagata
condannata  a pena detentiva pari a mesi quattro di reclusione, e non
potendo  la  misura  di cautela personale avere durata maggiore della
pena  irrogata,  la  rilevanza  verrebbe  comunque  meno  (ove non si
considerasse     l'interesse     ulteriore,     parimenti    tutelato
dall'impugnazione  de  libertate,  di cui si sta per dire) nelle more
del   giudizio   di  costituzionalita',  che  difficilmente  potrebbe
concludersi  nei  quattro mesi dall'applicazione della misura, con la
conseguenza  che  anche  ove  si  sospendesse il termine ex art. 309,
commi  9  e 10, cod. proc. pen., lo stato detentivo verrebbe comunque
meno prima del giudizio di costituzionalita' della norma censurata.
    Occorre  allora  interrogarsi  circa l'interesse dell'imputata al
giudizio  di  riesame  (nel  quale  dovra' applicarsi la disposizione
censurata),  e sulla conseguente rilevanza perdurante della questione
sollevata,   pur   a   seguito   della  (eventuale)  declaratoria  di
inefficacia  della  misura  applicata, per effetto della proposizione
del  giudizio  incidentale di legittimita' costituzionale, ovvero per
scadenza del termine massimo, da parte dell'A.G. procedente.
    Secondo un primo indirizzo giurisprudenziale, la regola "espressa
dall'art. 568  c.p.p.,  applicabile,  per  il suo carattere generale,
anche   al   regime   delle  impugnazioni  avverso  provvedimenti  de
libertate, implica che solo un interesse pratico, concreto ed attuale
della  parte  impugnante  e'  idoneo  a  legittimare  la richiesta di
riesame  di  una  misura  cautelare  personale,  con  la  inevitabile
conseguenza  che  e'  da  ritenere insussistente l'interesse predetto
quando  la  misura  stessa,  per  scadenza  del  termine o per revoca
successiva,  abbia  perduto la sua efficacia, venendo, in tal caso, a
mancare  l'attualita'  dell'interesse, che e' cosa diversa dalla mera
possibilita',  futura  ed  eventuale,  che  la parte impugnante possa
invocare,  in  altra  sede,  la  riparazione per ingiusta detenzione"
(Cass.  sez.  V,  29  novembre 1994 - 10 gennaio 1995, Di Vita; nello
stesso  senso Cass., sez. VI, 20 settembre 1995 - 13 ottobre 1995, Di
Benedetto).
    Si  sostiene poi, da un punto di vista di teoria generale, che un
interesse    di    carattere    meta-processuale    alla    pronunzia
giurisdizionale  (nella  misura in cui l'impugnazione miri ad evitare
conseguenze extrapenali pregiudizievoli ovvero ad assicurarsi effetti
extrapenali  piu'  favorevoli),  fondato sul principio di unitarieta'
dell'ordinamento giuridico (Cass., sez. VI, 30 marzo 1995 - 17 giugno
1995,  Stella), in tanto puo' rivestire giuridica rilevanza in quanto
abbia  ad  oggetto il giudizio di merito, essendo quello cautelare un
giudizio  incidentale  strutturalmente  condizionato  dalla  clausola
rebus  sic  stantibus,  oltreche'  da  una cognizione necessariamente
sommaria,  dal  quale  non puo' derivare quell'efficacia di giudicato
necessaria  affinche'  il  richiamato  principio  possa  operare,  ma
unicamente  un giudicato endoprocedimentale del tutto irrilevante sul
piano extraprocessuale.
    Tuttavia, va rilevato il superamento, ad opera della piu' recente
giurisprudenza  di  legittimita', dell'orientamento giurisprudenziale
poc'anzi  richiamato, e la conseguente affermazione che in materia di
misure  cautelari personali coercitive l'interesse dell'indagato alla
riparazione  per  ingiusta  detenzione legittima il riconoscimento in
capo   al   medesimo  di  una  posizione  soggettiva,  giuridicamente
tutelata,  al gravame avverso il provvedimento applicativo, anche ove
gli  effetti di questo siano cessati, quando si deduca la sussistenza
delle condizioni generali di applicabilita' della misura (Cass., sez.
VI,  25  gennaio  -  11  febbraio  1999,  Carelli; Cass., sez. VI, 23
febbraio27 aprile 1999, Tacchini; Cass., sez. IV, 15 dicembre 1999-22
gennaio 2000, Girardi).
    Ovviamente,  l'interesse  ad  una  simile  pronunzia non puo' che
investire  anche  il  profilo della scelta della misura (custodiale o
meno)  applicata,  essendo  il  grado  di  afflittivita' della misura
direttamente  proporzionale  alla  corrispondente  compressione dello
status libertatis.
    D'altra parte, e' evidente che, ove si riconoscesse - per effetto
dell'abrogazione  della  norma  censurata  -  l'esistenza  del potere
discrezionale  del  giudice di applicare una misura levior rispetto a
quella  della custodia domiciliare, in quanto piu' adeguata ab initio
al  caso  concreto  nonche'  meglio proporzionalita' al fatto ed alla
pena,  si  ammetterebbe - in considerazione della natura del giudizio
di  riesame  che  la  meno afflittiva misura (non custodiale) avrebbe
dovuto essere applicata gia' dal primo giudice.
    Non  essendo  quello  della permanenza in vinculis il metro della
rilevanza,  bensi'  quello  dell'interesse  ad  una  decisione  sulla
sussistenza ab initio delle condizioni di applicabilita' della misura
di   cautela   (non   ultima,   quella   dell'adeguatezza   e   della
proporzionalita'  incidente sulla scelta della misura medesima), deve
concludersi  per  la  rilevanza della questione anche a seguito della
declaratoria  di  inefficacia  della  custodia  cautelare  in carcere
conseguente  -  direttamente  od  indirettamente  - alla proposizione
della questione di legittimita' costituzionale.
    Diversamente   argomentando,   peraltro,  mai  una  questione  di
legittimita' costituzionale, relativa ad una disposizione regolante i
presupposti  di  applicabilita'  delle  misure  di cautela personale,
potrebbe  essere  sollevata  - per difetto strutturale di rilevanza -
nell'ambito di un giudizio di riesame.
    Si verificherebbe, in altre parole, un fenomeno di sottrazione al
controllo  di  costituzionalita'  analogo  a  quello  riscontrato  in
materia di norme penali di favore: "Norme sicuramente applicabili nel
giudizio  a  quo,  in  ordine  alle  quali  si  producessero dubbi di
legittimita'  costituzionale, non ritenuti dal giudice manifestamente
infondati,  rischierebbero di sfuggire ad ogni sindacato della Corte,
non essendo mai pregiudiziale la loro impugnazione; e la Corte stessa
verrebbe in tal senso privata - quanto meno nei giudizi instaurati in
via  incidentale  -  di ogni strumento atto a garantire la preminenza
della  Costituzione  sulla  legislazione  statale  ordinaria"  (Corte
costituzionale, sentenza 148 del 1983).
    Sussistono  pertanto  le  condizioni  per  sollevare, nei termini
indicati,  la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 284,
comma  5-bis  del  codice  di  procedura  penale,  in  relazione agli
artt. 3, 13 e 32 della Costituzione.
    12. - Quanto  alle  statuizioni  relative  allo status libertatis
dell'imputata,  nessuna  decisione  deve  essere  allo stato presa da
questo  collegio,  atteso  che,  come gia' osservato, spetta all'A.G.
procedente  valutare  la  sussistenza  o  meno  delle  condizioni  di
validita'  e  di  efficacia  del titolo cautelare, anche in relazione
all'eventuale  inefficacia  conseguente  dalla mancata decisione, nel
merito,  del riesame entro il termine di dieci giorni dalla ricezione
degli   atti,   a   causa   della   proposizione   dell'incidente  di
costituzionalita' (Cass., SS.UU., 17 aprile 1996, Vernengo)
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Solleva    la    questione    di    legittimita'   costituzionale
dell'art. 284,  comma  5-bis  del  codice  di  procedura  penale,  in
relazione agli artt. 3, 13 e 32 della Costituzione;
    Dispone  la  sospensione del procedimento e la trasmissione degli
atti alla Corte costituzionale;
    Mantiene  ferma  a  carico  di Coniglio Maria la misura cautelare
della custodia in carcere;
    Ordina  che  a  cura  della cancelleria la presente ordinanza sia
notificata  all'imputata,  al  difensore  e  al  pubblico  ministero,
nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri, e che venga altresi
comunicata  al  Presidente  della Camera dei deputati e al Presidente
del Senato della Repubblica.
    Cosi'  deciso  in  Palermo,  nella  camera  di  consiglio  del 20
febbraio 2002.
         Il Presidente facente funzioni-estensore: Tulumello

                            IL TRIBUNALE

    Vista   la  richiesta  di  riesame  proposta  dall'avv.  Giuseppe
Inzerillo  nell'interesse  di  Coniglio  Maria,  nata a Palermo il 12
settembre 1975, avverso l'ordinanza emessa dal Tribunale di Palermo -
III  sezione penale, in composizione monocratica, in data 13 febbraio
2002;
    Udito il relatore all'udienza camerale del 20 febbraio 2002;
    Sciogliendo la riserva assunta all'esito della discussione;
    Ritenuta la propria competenza territoriale ex art. 309, comma 7,
c.p.p.;
    Esaminati gli atti ritualmente inviati dall'a.g. procedente;
    Ritenuta l'ammissibilita' del gravame;
    Ha pronunciato il seguente dispositivo:
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Solleva  la  questione  di  legittimita' costituzionale dell'art.
284,  comma  5-bis  del codice di procedura penale, in relazione agli
artt. 3, 13 e 32 della Costituzione;
    Dispone  la  sospensione del procedimento e la trasmissione degli
atti alla Corte costituzionale;
    Mantiene  ferma  a  carico  di Coniglio Maria la misura cautelare
della custodia in carcere;
    Ordina  che  a  cura  della cancelleria la presente ordinanza sia
notificata  all'imputata,  al  difensore  e  al  pubblico  ministero,
nonche'  al  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  e  che venga
altresi'  comunicata  al  Presidente  della  Camera dei deputati e al
Presidente del Senato della Repubblica.
    Cosi'  deciso  in  Palermo,  nella  camera  di  consiglio  del 20
febbraio 2002.;
         Il Presidente facente funzioni-estensore: Tulumello
02C0821