N. 266 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 marzo 2006

Ordinanza  emessa  il  30 marzo 2006 dalla Corte di appello di Napoli
nel procedimento penale a carico di Guidetti Giovanni Carlo

Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il
  pubblico  ministero  di  proporre  appello  contro  le  sentenze di
  proscioglimento  anche  nei  casi  diversi  da quello solo previsto
  dall'art. 593,  comma 2  -  Preclusione - Disparita' di trattamento
  tra  parte  pubblica  e parte privata - Violazione del principio di
  ragionevolezza  -  Contrasto  con  il  principio  della ragionevole
  durata del processo.
- Codice  di  procedura  penale,  art. 593,  commi 1  e  2, nel testo
  modificato dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46.
- Costituzione, artt. 3 e 111, comma secondo.
(GU n.35 del 30-8-2006 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Riunita  in  camera di consiglio nel procedimento penale a carico
di: Guidetti Giovanni Carlo.

                              F a t t o

  e  D i r i t t o     Con sentenza del 19 febbraio 2004 il Tribunale
di  S. Maria  Capua Vetere - in composizione monocratica - dichiarava
non  doversi  procedere nei confronti di Giovanni Carlo Giudetti, per
intervenuta  prescrizione,  per  il  delitto di cui all'art. 648 c.p.
«perche',  al  fine  di procurarsi un ingiusto profitto, acquistava o
comunque  riceveva l'assegno bancario n. 0372653359 di lire 4.000.000
la  cui  provenienza  furtiva  gli era nota. In Castelvolturno, (CE),
epoca precedente al 21 ottobre 1991».
    Ha  proposto  appello il Procuratore della Repubblica presso quel
tribunale  denunciando erronea applicazione delle norme relative alla
sospensione  della  prescrizione  per  effetto  del  rinvio dovuto ad
impedimento dell'imputato o del suo difensore.
    Nel  corso dell'udienza odierna il p.g. ha sollevato eccezione di
illegittimita'   costituzionale   dell'art. 593   c.p.p.  cosi'  come
modificato dall'art. 1, comma 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 e
dell'art. 11 della stessa legge.
    Osserva  la corte che la questione di legittimita' costituzionale
e' certamente rilevante poiche', se essa fosse ritenuta fondata dalla
Corte  costituzionale,  il  venir  meno  delle  due  norme denunciate
determinerebbe  il ripristino della situazione precedente, e cioe' la
pendenza di un appello del pubblico ministero nel processo in esame.
    Pertanto,   l'indagine  dev'essere  concentrata  sulla  eventuale
manifesta infondatezza dell'eccezione.
    A  tal  fine,  giova  premettere  che - come e' noto - il secondo
comma  dell'art. 111 della Costituzione, introdotto dall'art. 1 delle
legge  costituzionale  23 novembre  1999,  n. 2,  prescrive che «Ogni
processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di
parita',  davanti  a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura
la ragionevole durata».
    Orbene,  nel  valutare  la  portata di questa norma ai fini della
verifica  sulla  legittimita'  della  non-previsione  di  un generale
potere  del  p.m.  di  impugnare le sentenze di condanna emesse in un
giudizio  abbreviato,  la  Corte costituzionale ha affermato che essa
non  ha  fatto  altro  che conferire «veste autonoma ad un principio,
quale  quello  di  parita' delle parti, pacificamente gia' insito nel
pregresso sistema dei valori costituzionali», e quindi non ha «inciso
sulla  validita' dell'affermazione, cui si' e' costantemente ispirata
la precedente giurisprudenza di questa corte, in forza della quale il
principio di parita' fra accusa e difesa non comporta necessariamente
l'identita'  tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli
dell'imputato:  infatti  una disparita' di trattamento puo' risultare
giustificata,  nei  limiti  della ragionevolezza, sia dalla peculiare
posizione  istituzionale  del  pubblico ministero, sia dalla funzione
allo   stesso  affidata,  sia  da  esigenze  connesse  alla  corretta
amministrazione  della giustizia (8 e 234 del 1994, 432 del 1992, 363
del 1991 e 426 del 1998)».
    Rileva questa corte che, anzitutto, oggi non e' dato piu' parlare
di  «parita'  fra  accusa  e  difesa» in quanto - in piena attuazione
della  direttiva  n. 37  dell'art. 2  della  legge  16 febbraio 1987,
n. 81,  di  delega  al  Governo  per l'emanazione del nuovo codice di
procedura  penale  -  al  p.m. e' stato devoluto il potere-dovere «di
compiere  indagini  in  funzione  dell'esercizio dell'azione penale e
dell'accertamento  di  fatti  specifici,  ivi  compresi  gli elementi
favorevoli  all'imputato».  Di  conseguenza, la funzione del pubblico
ministero  non  e'  limitata al compito di «accusare», ma e' estesa a
quello  (piu'  ampio  e piu' consono alla definizione tradizionale di
publicum  ministerium),  di  perseguire  l'accertamento della verita'
storica oltre a vigilare sulla «osservanza delle leggi e sulla pronta
e   rapida  amministrazione  della  giustizia»,  di  cui  all'art. 73
dell'Ordinamento Giudiziario.
    Non  dev'essere,  poi,  sottovalutata  la  solenne  e  categorica
affermazione   del   principio   di   parita'  delle  parti,  sancito
dall'art. 111  Cost.,  dal  momento  che  -  proprio in un sistema di
valori  costituzionali  che  sostanzialmente gia' lo garantiva - essa
non puo' rimanere ne' senza significato ne' senza effetti.
    Cio'  non  postula  - naturalmente - un dissenso sui limiti della
concreta  realizzazione del medesimo nella dialettica processuale, ma
impone  -  ad  avviso di questo Collegio - una verifica piu' rigorosa
della  legittimita' di qualsiasi norma che su di esso possa incidere,
condotta   anzitutto   alla  luce  della  «ragionevolezza»  che  deve
caratterizzare ciascuna manifestazione di volonta' del legislatore, e
quindi  dei  tre criteri indicati dalla Corte costituzionale e teste'
riportati  (peculiare  posizione  istituzionale del p.m., funzioni ad
esso  affidate  ed  esigenze connesse con la corretta amministrazione
della giustizia).
    Orbene,  bisogna  subito  riconoscere che l'abolizione del potere
del  p.m.  di proporre appello avverso la sentenze di proscioglimento
determina  una  disparita'  di trattamento fra parte pubblica e parte
privata   non   potendo   indurre   in  diverso  avviso  l'estensione
all'imputato  della medesima preclusone. Infatti, il raffronto non va
eseguito   fra   la  facolta'  del  p.m.  di  impugnare  sentenze  di
proscioglimento   e  quella  analoga  dell'imputato,  bensi'  fra  la
possibilita'  di  ciascuna  parte di chiedere al giudice superiore un
nuovo  esame  di  una  sentenza  difforme  dalle proprie richieste, e
quindi la facolta' dell'imputato di appellare le sentenze di condanna
e quella, speculare, del p.m. di impugnare quelle di proscioglimento,
che comprendono le assoluzioni.
    Cosi'  impostato  il  problema,  appare  piu' che giustificato il
dubbio  sulla  legittimita' costituzionale di una norma - come quella
in  esame  -  che  abolisce quasi completamente l'appello del poiche'
essa  limita  inspiegabilmente il potere di una delle parti - ed anzi
proprio  di  quella  che  e'  portatrice  di un interesse obiettivo -
pacificamente  esercitato  da piu' di un secolo e basato sulla palese
esigenza  di  ottenere una nuova valutazione delle prove esaminate da
un  giudice  monocratico  (spesso  onorario),  da parte di un giudice
collegiale, formato da persone dotate di maggiore esperienza.
    Vero  e'  che  -  come  ha  chiarito la Corte costituzionale - il
diritto   di   appello   non   e'   presidiato   da  alcuna  garanzia
costituzionale,   ma  cio'  significa  soltanto  che  il  legislatore
potrebbe  -  nell'esercizio  del  suo  potere discrezionale - abolire
completamente    l'istituto    dell'appello,    ma    non   convalida
l'eliminazione di esso in danno di una sola fra le parti.
    Si tratta - a ben guardare - di una disposizione di legge che non
trova  adeguata  spiegazione  in  nessuno  dei  tre  parametri  sopra
indicati.  Non  in quello della posizione istituzionale del p.m., che
non  ostacola,  ed anzi postula, la facolta' del medesimo di chiedere
un  controllo  sulla  conformita'  di  una decisione assolutoria alle
emergenze  processuali.  Non  nella funzione propria del p.m., specie
dopo  l'avvenuta  realizzazione  della  citata  direttiva n. 37 della
legge-delega  del  1987.  Non  in  esigenze  connesse con la corretta
amministrazione  della  giustizia  poiche'  -  come ha evidenziato la
stessa  Corte  costituzionale  -  «fine  primario  ed ineludibile del
processo  penale  non  puo'  che  rimanere quello della ricerca della
verita»  (sent.  n. 255  del 1992) in un ordinamento, come il nostro,
improntato al principio di legalita', al quale non sono consone norme
metodologiche che ostacolino - in modo irragionevole - il processo di
accertamento  del  fatto  storico necessario per garantire una giusta
decisione (Corte cost., sent. n. 255 del 1992).
    In  argomento, giova porre in rilievo che - come ha correttamente
osservato il p.g. presso questa corte - a fronte della posizione piu'
volte  assunta  dalla Corte costituzionale in occasione del vaglio di
legittimita'  delle  norme  sull'appello incidentale del p.m. avverso
sentenze  emesse  in  seguito  a  giudizio  abbreviato, la situazione
appare  addirittura  capovolta. Infatti, il giudice delle leggi aveva
piu'  volte  sottolineato  che,  in  quel  tipo  di procedimento, una
sentenza  di  condanna  realizzava, comunque, la pretesa punitiva del
p.m.  Oggi,  invece,  la  parte pubblica puo' - di regola - impugnare
solo  le  sentenze  di  condanna  che non ritenga idonee a soddisfare
pienamente  tale  pretesa,  mentre  non  puo'  piu'  adire un giudice
superiore  allorche' una sentenza di assoluzione abbia - a suo avviso
- del tutto eluso, erroneamente, tale pretesa.
    E  questo  costituisce  incontestabilmente,  il  piu' vistoso dei
profili  di  irragionevolezza  identificabili  nella  norma in esame,
poiche'  contiene  una palese incoerenza gia' all'interno della nuova
disciplina delle impugnazioni.
    Altra  fonte  di  dubbi  sulla  legittimita' costituzionale della
disposizione  in  esame  risiede  nella constatazione che essa appare
inconciliabile  con  il  principio di ragionevole durata del processo
(art. 111  Cost.)  poiche'  il  nuovo  sistema  -  che consente nuove
ipotesi  del  ricorso per cassazione finalizzato al rinvio al giudice
di  primo grado - puo' anche dar luogo ad un processo che si articola
in ben cinque gradi di giurisdizione.
    Inoltre, il disposto del «novellato» art. 606 c.p.p. - che appare
diretta  ed  inevitabile  conseguenza  dell'abolizione  quasi  totale
dell'appello  di  p.m.  -  non  si  sottrae  a censure per violazione
dell'art. 97  Cost.  poiche'  esso  postula  un  grave  turbamento di
carattere  strettamente  «organizzativo»  dell'attivita'  della Corte
suprema,  attualmente competente a riesaminare le sentenze solo sotto
l'aspetto  della  violazione  di  legge  o  della  grave  carenza  di
motivazione  che emerga dal testo delle medesime, ed oggi obbligata a
rivalutare  il  contenuto di determinati atti, e quindi ad esercitare
un controllo di merito.
    Ne'  vanno  sottaciuti  i  seri dubbi di legittimita' della norma
transitoria  in  base  alla  quale  la  nuova disciplina deve trovare
applicazione  anche  ai  processi  in  corso  in  fase di appello. In
realta'  non  si  vede  quali siano le ragioni di assoluta urgenza in
vista  delle  quali - a differenza di quanto avvenuto in occasione di
precedenti  riforme  - sia stato ritenuto doveroso «ghigliottinare» i
poteri  di  impugnazione  del  p.m.  in  contrasto con il principio -
sempre  osservato - per il quale tempus regit actum il quale impediva
di negare ammissibilita' ex post a gravami gia' ritualmente esperiti.
Essa  comporta  anche  l'impossibilita' della parte pubblica di tener
fermo  il proprio appello perfino nei casi previsti dal (nuovo) comma
2  dell'art. 593  c.p.p.,  il che - come ha rilevato qualche autore -
potrebbe essere considerato addirittura paradossale.
    Non  possono  essere  condivisi,  infine,  i rilievi del p.g. sui
profili    di   illegittimita'   delle   norme   in   questione   per
incompatibilita'    con    l'art. 112   Cost.,   poiche'   la   Corte
costituzionale  ha piu' volte ribadito che «il potere di impugnazione
del pubblico ministero non costituisce una estrinsecazione necessaria
dei  poteri inerenti all'esercizio dell'azione penale» (V. per tutte:
ord. n. 165 del 2003).
    Tutte  le  esposte  ragioni  inducono  questo Collegio a ritenere
rilevante    e    non   manifestamente   infondata   l'accezione   di
illegittimita' costituzione sollevata dal p.g. in udienza.
                              P. Q. M.
    Dichiara  rilevante  nel  presente  giudizio e non manifestamente
infondata  la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593,
comma 1  e  2  c.p.p.,  nel  testo modificato dall'art. 1 della legge
n. 46 del 20 febbraio 2006, in riferimento agli artt. 3 e 111 secondo
comma  Cost.,  nella parte in cui non consente l'appello del pubblico
ministero  contro  le  sentenze  di  proscioglimento,  anche nei casi
diversi da quello solo previsto dal secondo comma.
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla  Corte
costituzionale. Sospende il presente processo.
    Ordina  che, a cura della cancelleria, l'ordinanza sia notificata
all'imputato  contumace,  al  Presidente del Consiglio dei ministri e
comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
    Letta in pubblica udienza, alla presenza del procuratore generale
e del difensore dell'imputato.
        Napoli, addi' 30 marzo 2006
                   Il presidente estensore: Maffei
06C0697