N. 553 ORDINANZA (Atto di promovimento) 26 aprile 2006
Ordinanza emessa il 26 aprile 2006 (pervenuta alla Corte costituzionale il 27 ottobre 2006) dalla Corte di appello di Milano nel procedimento penale a carico di Panacci Albino Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Esclusione, salvo nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, se la nuova prova e' decisiva - Contrasto con il principio di ragionevolezza - Lesione del principio delle parita' delle parti. - Codice di procedura penale, art. 593, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46. - Costituzione, artt. 3 e 111, comma secondo.(GU n.49 del 13-12-2006 )
LA CORTE DI APPELLO Ha pronunziato la seguente ordinanza. In fatto Con sentenza del Tribunale di Como in data 15 ottobre 2005, Panacci Albino e' stato assolto perche' il fatto non sussiste dal reato di cui all'art. 572 c.p., per fatto commesso in Fino Mornasco da febbraio 2001 a 30 marzo 2002. Avverso la sentenza presentava impugnazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Como, chiedendo alla Corte di affermare la penale responsabilita' dell'imputato in ordine all'ascritto reato. All'udienza in data 26 aprile 2006, il Procuratore Generale, facendo propria la memoria del p.m. presso il Tribunale di Como, considerate le modifiche introdotte dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46, all'art. 593, comma 2, c.p.p., eccepiva, con riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 112 della Costituzione, l'illegittimita' costituzionale dell'art. 593 citato, nella parte in cui non consente al pubblico ministero di appellare le sentenze di assoluzione, con la sola eccezione delle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, se la nuova prova e' decisiva; Sentito il difensore dell'imputato; Osserva in diritto la questione di costituzionalita' proposta dal procuratore generale e' rilevante poiche', non essendo state dedotte nuove prove, la Corte di appello dovrebbe dichiarare inammissibile l'impugnazione e dar luogo alla procedure di cui ai commi 3 e 4 dell'art. 10 della legge n. 46/2006. Solo la dichiarazione di incostituzionalita', della norma in esame consentirebbe alla Corte di appello di esaminare i motivi di impugnazione proposti dal procuratore generale, residuando, diversamente, solo la possibilita' che lo stesso procuratore generale, nel termine di quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento di inammissibilita', proponga «ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado» (art. 10 cit., comma 3). La questione non e' manifestamente infondata. In questa sede la valutazione deve essere espressa in tali termini e non deve, invece, accertare la fondatezza della questione di legittimita' costituzionale sollevata, giudizio che la Costituzione attribuisce alla Corte costituzionale, alla quale spetta la decisione sulla legittimita', eventualmente anche alla luce di altri principi di rango costituzionale non considerati da chi ha sollevato la questione (art. 134 della Costituzione e art. 1 della Legge Costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1). Peraltro, la circostanza che, con riferimento alla legge n. 46/2006, risultino gia' rimessi alla Corte costituzionale numerosi rilievi di incostituzionalita' attinenti agli aspetti qui in esame, consente di affrontare gli argomenti al vaglio con opportuna sintesi e tenendo presenti solo gli aspetti considerati rilevanti dalla Corte. L'art. 593 del c.p.p. (come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46) prevede, per l'imputato e per il pubblico ministero la possibilita' di appellare le sentenze di proscioglimento solo se nell'atto di appello sia chiesta l'assunzione di nuove prove, sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, e nelle ipotesi in cui la nuova prova e' decisiva. La parita' di diritti prevista dalla norma a favore del pubblico ministero e dell'imputato e' solo un artificio e il principio della parita' delle parti stabilito dall'art. 111 della Costituzione e' rispettato solo in modo apparente e formale. E', infatti, evidente come sia ben diverso l'interesse delle parti ad appellare contro le sentenze di proscioglimento. La stessa Corte di cassazione, in conformita' della specifica previsione dell'art. 568 c.p.p., ha sempre interpretato in modo restrittivo l'interesse dell'imputato ad impugnare le sentenze di proscioglimento. L'esclusione della possibilita' di proporre appello contro una decisione assolutoria pone in una posizione deteriore il solo pubblico ministero. Infatti, di fronte ad un capo di sentenza di proscioglimento, il p.m. e' totalmente soccombente, mentre l'imputato e' sostanzialmente vincitore, con eccezioni assolutamente marginali. Inoltre, le disposizioni di cui al primo ed al secondo comma dell'art. 593 del c.p.p. (come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46) sono di dubbia legittimita' costituzionale anche sotto il profilo del contrasto con il principio di ragionevolezza, implicito in quello di uguaglianza previsto dall'art. 3 della Costituzione. Infatti, il principio di uguaglianza riguarda il trattamento di casi uguali e trova un limite nella ragionevolezza di disciplinare in modo diverso casi che non sono uguali o che lo sono solo in apparenza. In tal senso, non sembra ragionevole l'abolizione del diritto del pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento, mentre e' mantenuto il diritto dell'imputato di proporre appello contro le sentenza di condanna. E non sembra ragionevole neppure mantenere il diritto del pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di condanna (che accolgono, almeno in parte, le richieste del pubblico ministero) e non prevedere analoga facolta' avverso le sentenze di proscioglimento (che rigettano totalmente le richieste del pubblico ministero). Diversamente, l'art. 593 c.p.p. stabilisce la possibilita' del pubblico ministero e dell'imputato di proporre appello avverso la sentenza di condanna, salvo quanto previsto dagli artt. 443, comma 3, 448, comma 2, 579 e 680. In questo modo, nel processo penale, che e' finalizzato all'accertamento della responsabilita' dell'imputato, l'imputato puo' trovare sostanziale soddisfazione al proprio interesse, mentre il p.m., che agisce a tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge, di fronte ad una sentenza di assoluzione non puo' tutelare quei fini di giustizia che sarebbe chiamato a fare valere. Un'ulteriore incongruenza della nuova legge, come rilevato anche dal Presidente della Repubblica, nel messaggio con cui ha rinviato alle Camere la prima versione della legge, sta nel fatto che il pubblico ministero totalmente soccombente (sentenza di assoluzione) non puo' proporre appello, mentre cio' gli e' consentito quando la sua soccombenza sia solo parziale, avendo ottenuto una condanna diversa da quella richiesta. La parita' tra le parti potrebbe, quindi, ritenersi realizzata solo se il legislatore, con l'obiettivo di una maggiore speditezza processuale, anche se a prezzo della impossibilita' di correggere eventuali errori del giudizio di merito di primo grado, avesse introdotto la non impugnabilita' di tutte le sentenze, di condanna o di proscioglimento, sia da parte del pubblico ministero che dell'imputato. Peraltro, il doppio grado di giudizio di merito non e' espressione di un diritto di rango costituzionale (Corte cost. n. 280/1995; 585/2000). Infatti, la Carta costituzionale garantisce solo la possibilita' di ricorrere in Cassazione per violazione di legge contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla liberta' personale. La rilevata differenza di trattamento per le parti non trova nessuna ragionevole giustificazione nella tutela di altri interessi di rilievo costituzionale, cosi' violando il precetto dell'art. 3 della Costituzione. Infatti, il diritto (terzo comma dell'art. 111 della Cost.) alla rapida definizione del processo potrebbe essere meglio realizzato, senza pregiudicare esclusivamente il potere di appello del p.m., con l'abolizione del grado di appello. La Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (adottata a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificata dall'Italia con la legge 9 aprile 1990, n. 98), nel protocollo addizionale n. 7, garantisce che chi sia stato dichiarato colpevole da un Tribunale ha il diritto di fare esaminare la dichiarazione di colpevolezza da un tribunale della giurisdizione superiore. Tuttavia, il comma 2 dell'art. 2 di tale protocollo recita che «tale diritto puo' essere oggetto di eccezioni per i reati minori, quali sono definiti dalla legge, o quando l'interessato e' stato giudicato in prima istanza da un tribunale della giurisdizione piu' elevata o e' stato dichiarato colpevole e condannato a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento». In sostanza, non risulta legittima una interpretazione che ritenga che il riesame ad opera di un tribunale superiore debba coincidere con un giudizio di merito e non possa, invece, sostanziarsi nella previsione del riesame da parte della Corte di cassazione, come gia' previsto dalla Costituzione italiana. Ne' la rilevata disparita' di trattamento puo' trovare ragionevole giustificazione nel principio, collegato ad esperienze totalmente accusatorie, che un individuo, gia' riconosciuto innocente da un giudice, non puo' essere assoggettato ai patimenti di un ulteriore giudizio per consentire al pubblico ministero di provare, davanti ad un altro giudice, che quello precedente si era sbagliato. L'affermazione che la sentenza di proscioglimento pronunziata dal primo giudice darebbe comunque luogo ad un «ragionevole dubbio» sulla colpevolezza dell'imputato, con conseguente preclusione della sentenza di condanna (art. 533 c.p.p.), e' una semplice petizione di principio, perche' e' vero, invece, che una diversa e piu' adeguata valutazione dei fatti e delle risultanze processuali potrebbe condurre ad una decisione basata su una motivazione non solo logicamente coerente ma anche assolutamente convincente. In conclusione, poiche', sotto i profili sopra menzionati, la questione di legittimita' costituzionale sollevata da procuratore generale non e' manifestamente infondata, deve essere rimessa alla Corte costituzionale per la sua decisione. Conseguentemente, gli atti devono essere trasmessi alla Corte costituzionale ed il presente giudizio deve essere sospeso.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, Dichiara rilevante ai fini della definizione del giudizio e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593, comma 2, c.p.p., come modificato dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46, per violazione degli artt. 3 e 111, comma 2 della Costituzione, nei termini e per i motivi sopra esposti. Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso e i termini di prescrizione dei reati fino all'esito del giudizio di legittimita' costituzionale. Ordina che a cura della Cancelleria la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Milano, addi' 26 aprile 2006 Il Presidente: Ruggiero 06C1109