N. 680 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 giugno 2006

Ordinanza  emessa  il  12  giugno  2006  dalla Commissione tributaria
regionale  della  Toscana  - Firenze sull'appello proposto da Regione
Toscana contro Carta Bruno ed altri

Ambiente  -  Disciplina  legislativa  dei  rifiuti  -  Esenzione  dal
  relativo  regime  delle  terre e rocce da scavo, anche di gallerie,
  destinate   all'effettivo   utilizzo  per  reinterri,  riempimenti,
  rilevati  e  macinati  -  Contrasto  con  la  nozione  di «rifiuto»
  stabilita   dalle   direttive   75/442/CEE  e  91/156/CEE,  secondo
  l'interpretazione  della Corte di giustizia delle Comunita' europee
  - Inosservanza dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario.
- Decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, art. 186.
- Costituzione,  artt. 11 e 117, primo comma; direttive del Consiglio
  75/442/CEE del 15 luglio 1985, e 91/156/CEE del 18 marzo 1991.
(GU n.6 del 7-2-2007 )
                 LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE

    Ha   emesso   la   seguente  ordinanza,  sull'appello  n. 1388/05
depositato  il  10  agosto  2005,  avverso  la sentenza n. 37/17/2004
emessa  dalla  Commissione tributaria provinciale di Firenze proposto
dall'ufficio:  Regione  Toscana  difeso da: Console avv. Vanna contro
Avvocatura regionale Via Cavour n. 18 - 50129 Firenze;
    Controparte:  Carta  Bruno  via  Megalotti 7 - 05018 Orvieto (TR)
difeso   da:  avv.  Giancarlo  Zoppini  avv.  Giuseppe  Pizzonia  via
Crocefisso  12  -  20122  Milano, Cece Massimo via S. Giovannini 35 -
00100  Roma  difeso da: avv. Giancarlo Zoppini avv. Giuseppe Pizzonia
c/o  Studio Pizzonia via G. Nicotera 31 - 00195 Roma, Consorzio Cavet
Ponte  della Boaria 2 - 40065 Pianoro (BO), difeso da: avv. Giancarlo
Zoppini  avv.  Giuseppe  Pizzonia  via  Crocefisso 12 - 20122 Milano,
Gatto  Giuseppe  via  Dandolo  4  -  20122  Milano,  difeso  da: avv.
Giancarlo  Zoppini  avv.  Giuseppe Pizzonia via Crocefisso 12 - 20122
Milano, Longo Michele via Svizzera 22 - 50126 Firenze difeso da: avv.
Giancarlo  Zoppini  avv.  Giuseppe Pizzonia via Crocefisso 12 - 20122
Milano,  Rosina  Bruno via Giardino 4 - 40065 Pianoro (BO) difeso da:
avv.  Giancarlo  Zoppini  avv.  Giuseppe Pizzonia via Crocefisso 12 -
20122  Milano,  Rubegni  Alberto  via  Sacrofanese  km  4/250 - 00050
Sacrofano  (RM)  difeso  da:  avv.  Giancarlo  Zoppini  avv. Giuseppe
Pizzonia via Crocefisso 12 - 20122 Milano, Silva Carlo via Belletti 4
-  23100  Novara  difeso  da:  avv.  Giancarlo  Zoppini avv. Giuseppe
Pizzonia via Crocefisso 12 - 20122 Milano.
    Atti  impugnati:  avv. Rec Trib n. 148 rif. discariche avv applic
sanz  n. 149  rif.  discariche  sanzioni  avv. Rec. Trib. n. 150 rif.
discariche avv. applic. sanz. n. 151 rif. discariche sanzioni.
    Appello  principale  n. 1388/05  proposto  dalla  Regione Toscana
contro la decisione n. 37/17/2004 emessa dalla Commissione tributaria
provinciale     di     Firenze    concernente    recupero    sanzioni
n. 148-149-150-151 rif. Discariche sanzioni.
    Controparti: Carta Bruno - Cece Massimo - Consorzio Cavet - Gatto
Giuseppe  -  Longo  Michele  - Rosina Bruno - Rubegni Alberto - Silva
Carlo.
    Il   Consorzio  Cavet  impugno'  tempestivamente  gli  avvisi  di
accertamento  e  irrogazione  sanzioni  emessi dalla Regione Toscana,
aventi  ad  oggetto  il tributo speciale per il deposito in discarica
dei rifiuti solidi, con riferimento allo smaltimento di terra e rocce
da  scavo  prodotte  in conseguenza dell'attivita' di costruzione del
tratto  Bologna-Firenze  della  linea  ferroviaria di alta velocita',
Milano-Napoli.
    Tali avvisi di accertamento erano i seguenti:
        avviso  di  accertamento  e irrogazione n. 148 del 29 ottobre
2001,  con  il  quale  sulla  base  del  verbale  redatto  in data 12
settembre  2000 dal Corpo di polizia provinciale di Firenze, e' stato
accertato  a  carico  del Consorzio Cavet, gestore della discarica di
inerti  denominata  DT25  Il  Casone,  autorizzata dalla Provincia di
Firenze  con  atto  n. 429  del  4  dicembre  1996,  l'omissione  del
versamento  del tributo speciale per il deposito in discarica, per un
ammontare  di  Lit. 2.505.040.500  oltre interessi, determinato su mc
417.506,75  di  materiale  conferito  dall'ottobre  1998 al settembre
2000;
        avviso  di  accertamento  e irrogazione n. 149 del 29 ottobre
2001,  con  il  quale, con riferimento alle violazioni contestate nel
sopra  citato  verbale  del  Corpo di polizia provinciale di Firenze,
sono  state irrogate le sanzioni amministrative previste dall'art. 16
della  l.r.  60/1996, modificata dall'art. 17 della l.r. n. 37/1999 e
piu'   precisamente:   Lit. 4.824.000.000   per   l'omissione   delle
registrazioni  delle operazioni di conferimento; Lit. 751.512.150 per
l'omissione  del  versamento  del  tributo, e infine Lit. 400.000 per
omessa  presentazione delle dichiarazioni annuali per gli anni 1998 e
1999;
        avviso  di  accertamento  e irrogazione n. 150 del 29 ottobre
2001,  con  il  quale, ancora sulla base del citato verbale, e' stato
accertato  a  carico  del Consorzio Cavet, gestore della discarica di
inerti  denominata  DT6-bis  Marzano,  autorizzata dalla Provincia di
Firenze  con  atto  n. 429  del  4  dicembre  1996,  l'omissione  del
versamento  del tributo speciale per il deposito in discarica, per un
ammontare  di  Lit. 918.000.000  oltre  interessi,  determinato su mc
153.000 di materiale conferito dall'ottobre 1998 al settembre 2000;
        avviso  di  accertamento  e irrogazione n. 151 del 29 ottobre
2001,  con il quale ancora sulla base del citato verbale del Corpo di
polizia   provinciale   di  Firenze,  sono  state  irrogate  sanzioni
amministrative   per   Lit. 1.521.444.000   per   l'omissione   delle
registrazioni  delle operazioni di conferimento; Lit. 275.400.000 per
l'omissione  del  versamento  del  tributo  e infine Lit. 400.000 per
l'omessa  presentazione delle dichiarazioni annuali per gli anni 1998
e 1999.
    I  contribuenti  in  diritto lamentano l'illegittimita' dell'atto
impugnato per insufficiente indicazione delle modalita' relative alla
presentazione  del  ricorso  e cio' nel mancato rispetto dell'art. 12
comma  2 della l.r. della Toscana del 29 luglio 1996, n. 60. Infatti,
negli  atti  impugnati, prima si ricorda che e' consentito ricorso da
trasmettere alla Regione Toscana entro sessanta giorni dalla notifica
e  poi  si afferma che avverso l'avviso di accertamento e irrogazione
delle   sanzioni,   nonche'   dell'iscrizione   a  ruolo  e'  ammessa
l'impugnativa  dinanzi  alle commissioni tributarie. In altre parole,
secondo  i  contribuenti, le modalita' relative alla proposizione del
ricorso  non  sono indicate se non parzialmente e in maniera erronea,
tanto da poter indurre in errore i contribuenti.
    In  particolare  genera confusione l'espressione «trasmesso» dato
che  il  ricorso  alle  commissioni  tributarie  deve essere proposto
mediante  notifica  nelle  forme  indicate  dall'art. 16 commi 2 e 3,
d.lgs. 546.
    Inoltre  il  rinvio effettuato all'art. 3, comma 34, legge 549 e'
errato  dal  momento  che  di  tale  legge, e' l'art. 3, comma 37 che
attribuisce  la  competenza  in  materia  di  tributo speciale per il
deposito in discarica alle commissioni tributarie.
    Non  solo i contribuenti lamentano pure che la pretesa tributaria
e' contra legem in quanto materialmente infondata.
    A  questo riguardo gli stessi contribuenti ricordano la normativa
che  definisce  i rifiuti solidi e di conseguenza il relativo tributo
speciale  per  il  deposito in discarica. Secondo tale normativa, per
«rifiuto  si  intende  qualsiasi  sostanza  od  oggetto  derivante da
attivita'   umana  o  da  cicli  naturali,  abbandonato  o  destinato
all'abbandono».  Addirittura la stessa amministrazione finanziaria ha
chiarito  che  «non  puo'  verificarsi il presupposto del tributo per
rifiuti  effettivamente  destinati  al riutilizzo, compresi i rifiuti
per  ristrutturare  o sistemare la discarica...» (C.M. 24 luglio 1996
n. 190/E).
    I  contribuenti rimandano anche all'interpretazione del Ministero
dell'ambiente  il  quale  stabilisce  che  il tributo e' dovuto, alle
Regioni,  e  da  queste  e' determinato. D'altra parte, la l.r. della
Toscana 29 luglio 1996 n. 60 ha individuato nei rifiuti solidi di cui
all'art. 2  del  d.P.R.  915,  quelli  conferiti in discarica ai fini
dello   stoccaggio  definitivo  e  quelli  smaltiti  in  impianti  di
incenerimento senza recupero di energia.
    Ancora  l'art. 6 del d.lgs. 22 del 5 maggio 1997, dispone che per
rifiuto   e'   da  intendersi  qualsiasi  sostanza  rientrante  nelle
categorie  riportate  nell'allegato  a)  del  decreto e di cui si sia
deciso di disfarsi.
    In seguito il d.lgs. 22 del 5 febbraio 1997 ha subito modifiche e
tra  l'altro  e' stabilito che sono escluse dall'applicazione di tale
decreto  «...le  terre  e  le  rocce da scavo destinate all'effettivo
utilizzo   per  reinterri,  riempimenti,  rilevati  e  macinati,  con
esclusione  di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche
con   concentrazione   di   inquinanti   superiore   ai   limiti   di
accettabilita' stabiliti dalle norme vigenti».
    Infine  la  cosiddetta  «legge obiettivo» ha stabilito che «...le
terre  e  le  rocce  da  scavo,  anche di gallerie, non costituiscono
rifiuti  e  sono,  percio',  escluse  dall'ambito di applicazione del
medesimo decreto legislativo...».
    Pertanto,  secondo  i  contribuenti,  gli  avvisi di accertamento
impugnati  trovano il loro presupposto in verbali non rappresentativi
della  situazione  di fatto e di diritto. Il materiale costituente il
presunto  rifiuto,  proviene  da  scavi  per  la  tratta  ferroviaria
Bologna-Firenze,  non  e'  stato  abbandonato  dal Consorzio Cavet, e
viene  riutilizzato  per  il rimodellamento territoriale nel rispetto
della conferenza dei servizi del 28 luglio 1995.
    D'altra   parte   e'   fatto  inevitabile  e  oggettivo,  che  la
costruzione  di  una  tratta  ferroviaria  implichi lo spostamento di
materiali   da   scavo,  tanto  che,  in  tale  conferenza  e'  stata
appositamente  prevista la creazione di depositi di smarino destinati
a  interventi  di  tutela  e  di recupero ambientale. E tali depositi
rientrano ta le opere di rimodellamento territoriale.
    Ne  consegue che una corretta qualificazione giuridica delle aree
di deposito dello «smarino» impedisce di considerarle come discariche
in senso proprio.
    I  primi  giudici  accolsero  i ricorsi dichiarando compensate le
spese.
    La  Regione  Toscana,  nel  proprio  appello a questa commissione
ricorda preliminarmente lo svolgersi dei fatti e quindi impugnando la
decisione  dei  primi  giudici, in quanto ritenuta errata dal momento
che  prescinde  dal  contesto  normativo  di  cui  ne  e'  dichiarata
l'interpretazione  e  stravolge  il concetto di riutilizzabilita' del
materiale,  nonche'  quello  di atto autorizzatorio necessario per la
riutilizzazione.
    D'altra parte, per l'esame della controversia i primi giudici non
si  sono  posti il problema dell'effettiva destinazione del materiale
reperito presso le discariche, limitandosi ad affermare che i rifiuti
non  sono  pericolosi  dal  momento che i provvedimenti impugnati non
dimostrano   ne'   la   non   riutilizzabilita'   ne'   l'inidoneita'
dell'autorizzazione al loro riuso.
    Per  la  parte  appellante  e'  errato  dover  dimostrare  la non
riutilizzabilita'   del  materiale,  dal  momento  che  e'  rilevante
soltanto  la  sua  classificazione come rifiuto, cosi' come affermato
dalla  Corte  di Giustizia della Comunita' Europea (sentenza 28 marzo
1990).
    In   realta'   e'   a   carico  del  Consorzio  la  dimostrazione
dell'intenzione   di   riutilizzare   il   materiale,  intenzione  da
manifestarsi  espressamente  al  momento  in  cui  ne viene deciso lo
smaltimento  o il recupero (Cassazione penale, sezione 3 del 4 agosto
2000  n. 2419).  E non e' mai stato dimostrato che i siti di deposito
di «smarino» rientrano tra le opere di rimodellamento territoriale.
    Inoltre  nei  riguardi  delle  due  discariche, e soprattutto nei
confronti  di quella denominata «Il Casone», dopo i lavori effettuati
e'   apparsa   evidente   la   necessita'   di   un   intervento   di
«rimodellamento»   in  modo  da  eliminare  i  danni  prodotti  dalla
discarica.
    Non  solo, sussistono anche dubbi che il Cavet sia intenzionato a
rimuovere i materiali depositati.
    In  ogni  caso, non e' stato presentato alcun progetto di opera o
intervento  di  pubblica  utilita'  e  l'unico  progetto approvato e'
quello  presentato  dallo  stesso  Cavet unitamente alla richiesta di
autorizzazione e al rinnovo della stessa.
    Inoltre  la  sentenza  dei primi giudici afferma che il materiale
non costituisce rifiuto speciale pericoloso, basandosi esclusivamente
su dei documenti prodotti dalla parte senza definirne la rilevanza ai
fini della causa. E d'altra parte e' chiaro che la natura dei rifiuti
e  il  rispetto  dei limiti di legge devono essere provati al momento
della   richiesta   dell'autorizzazione   di  riutilizzazione  e  non
successivamente  al  solo  fine  di  sottrarsi all'applicazione delle
norme di legge.
    Comunque  nessuna  prova  in  tal senso e' stata data dai gestori
della  discarica  ed  e'  errata  la valutazione dei primi giudici in
ordine alla attendibilita' dei documenti depositati da Cavet.
    La sentenza inoltre afferma che la Regione Toscana avrebbe dovuto
dimostrare  che  il  Consorzio  stava  in  concreto  realizzando  una
discarica  nell'area  in  questione.  Il  ragionamento  e' affetto da
illogicita'  e  non  puo' essere condiviso dal momento che in effetti
siamo in presenza di una discarica dove il materiale e' depositato in
modo  definitivo.  E  non  ha  rilievo  se  il  materiale  sia o meno
inquinato.
    Non  e' da condividersi neppure la non applicabilita', cosi' come
sostenuto  dai  ricorrenti,  del  d.lgs. n. 36 del 13 gennaio 2003 in
quanto  i  materiali della controversia sarebbero esclusi dall'ambito
di  applicazione  del decreto per sua espressa enunciazione. A questo
riguardo  c'e'  da  dire  che  tale decreto e' successivo ai fatti in
causa   e   che   in  ogni  caso,  anche  ritenendo  fondata  la  sua
applicabilita'  si  arriva a conclusioni diverse. Infatti, anche se i
materiali  per  loro  natura  non  appaiono inquinanti, sono tuttavia
annoverati  tra  i  rifiuti  e  d'altra  parte  l'esclusione  di  cui
all'art. 3  degli  inerti  e  dei  depositi di terra non inquinata ai
sensi  del  d.m. 25 ottobre 1999 n. 471, non equivale alla esclusione
di tali materiali dalla categoria dei rifiuti.
    Ancora  secondo  la  parte  appellante  dal  contenuto degli atti
autorizzatori    e'    deducibile   senza   ombra   di   dubbio   che
l'autorizzazione  fosse finalizzata a uno stoccaggio definitivo e non
a uno stoccaggio provvisorio, quindi a una discarica.
    Non  e'  inoltre  corretto  che  i  primi  giudici escludano ogni
efficacia  all'atto  autorizzatorio ai fini della classificazione del
materiale.  Infatti,  in  base  alla  normativa  in esame, cosi' come
interpretata  dalla  legge  n. 443  vi  sono due sole possibilita': o
l'autorizzazione  e' fatta ai sensi del d.lgs. n. 22/1997 e allora il
materiale  e'  un  rifiuto,  oppure  se vi e' altra autorizzazione il
materiale  non  e'  rifiuto,  ma  questa  seconda autorizzazione deve
essere  rilasciata  da autorita' competente e diversa secondo il tipo
di riutilizzo.
    La  sentenza appellata poi merita di essere riformata per carenza
di  motivazione  su un punto fondamentale della decisione, laddove si
metteva in dubbio la natura di norma di interpretazione autentica del
comma  17  dell'art. 7  e  del  comma 1 lettera f-bis dell'art. 8 del
d.lgs.  n. 22  del  1997, dove appunto si afferma che «... le terre e
rocce  da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono,
percio',  escluse  dall'ambito  di  applicazione del medesimo decreto
legslativo, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da
sostanze   inquinanti   derivanti  dalle  attivita'  di  escavazione,
perforazione   e   costruzione,  sempre  che  la  composizione  media
dell'intera  massa  non  presenti  una  concentrazione  di inquinanti
superiore  ai  limiti  massimi  previsti  dalle  norme  vigenti».  Si
affermava   pertanto   che  venivano  modificati  i  criteri  per  il
campionamento dei materiali.
    Secondo  la  Regione  gli  avvisi di accertamento dovevano essere
differenziati  sia  in virtu' della natura della norma sia in ragione
della  data  di  entrata  in  vigore  della norma interpretata. Cosi'
l'avviso  n. 146  doveva  essere  esaminato  alla luce delle norme in
vigore  alla  data  dell'accertamento dei fatti (12 settembre 2000) e
quindi degli artt. 7 e 8 del decreto Ronchi all'epoca vigente. A tale
data  secondo  l'art. 7  i  rifiuti  venivano  distinti  in  urbani e
speciali, secondo l'origine, e pericolosi e non pericolosi secondo le
caratteristiche. L'art. 8 non annoverava tra le esclusioni le terre e
le rocce da scavo.
    Le  norme  di  interpretazione  autentica  retroagiscono  fino al
momento  dell'entrata  in  vigore delle disposizioni interpretate ma,
l'interpretazione  della lettera f-bis legge n. 93 del 23 marzo 2001,
non  puo'  retroagire  ad epoca antecedente al 19 aprile 2001 data di
entrata  in  vigore della legge stessa; quindi, il 12 settembre 2000,
la lettera f-bis non esisteva e non poteva essere interpretata.
    La  sentenza  merita poi di essere riformata anche nella parte in
cui respinge la domanda della Regione Toscana di rinvio pregiudiziale
ex art. 234, comma 2 del TrCE alla Corte di Giustizia della Comunita'
europea,   in  modo  da  verificare  la  compatibilita'  delle  norme
introdotte dalla legge n. 443 del 2001 con le direttive CEE n. 75/442
e n. 91/156 in materia di rifiuti.
    Infatti i primi giudici hanno negato che il parere motivato dalla
Commissione  europea  adottato  dallo  Stato italiano, possa produrre
effetto  nel giudizio dal momento che si tratterebbe «di atto interno
di una procedura ancora da definirsi».
    Tale conclusione non puo' essere condivisa dal momento che, anche
se  in  fase  precontenziosa,  siamo  pur  sempre  in  presenza di un
provvedimento  che  sancisce  l'illegittimita'  di  una  disposizione
nazionale contestata.
    Non  solo  la  Commissione tributaria provinciale sostiene che la
direttiva 75/442 puo' vincolare lo Stato italiano ma non direttamente
i  suoi cittadini. La sentenza pertanto nega che il singolo cittadino
possa  chiedere  un  controllo  di legittimita' della norma nazionale
alla  Corte  di  Giustizia.  A  questo riguardo viene citata numerosa
giurisprudenza  comunitaria,  secondo  la quale tale affermazione non
avrebbe fondamento.
    Da  rilevare  infine,  nei riguardi dell'identita' di fattispecie
che  il  materiale  oggetto  di accertamento presenta caratteristiche
diverse da quelle del materiale di cui alla sentenza 95 del 2003, sia
per  la quantita' estratta, sia da un punto di vista qualitativo, dal
momento  che  trattasi  di materiali provenienti da scavi di gallerie
diverse e quindi, presumibilmente, diversi nella composizione e nella
concentrazione di materiali inquinanti.
    In  conclusione,  la  Regione  Toscana  riportandosi alla lettura
sistematica  della  citata normativa comunitaria e nazionale conclude
che  la  legge  n. 443/2001  non ha effetto ablativo della nozione di
rifiuto.
    La  legge  di  interpretazione  autentica  si limita a chiarire a
quali  condizioni  qualitative  (limite  di  sostanze  inquinanti)  e
giuridiche  (riutilizzazione),  le  terre e le rocce da scavo possono
essere  escluse  dalla disciplina in materia di rifiuti e pertanto la
parte appellante chiede:
        in  via  principale  l'accoglimento  del proprio appello e il
conseguente  annullamento  e  riformazione  della  sentenza dei primi
giudici;
        in  via  subordinata  il rinvio pregiudiziale della questione
alla  Corte  di  Giustizia perche' si pronunci ai sensi dell'art. 234
del Trattato sulla compatibilita' delle norme con le Direttive 75/442
e   91/156;   alternativamente,   affinche'   sollevi   questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 1 commi 17, 18 e 19 della legge
n. 443/2001,  per  violazione  degli  artt. 11  e  117  comma 1 della
Costituzione;
        in   via   ulteriormente  subordinata  si  chiede  che  venga
dichiarata  la  legittimita'  degli  avvisi  n. 148 (Casone) e n. 150
(Marzano),  venga  accolto  parzialmente  l'appello  e  riformata  la
sentenza  nella  parte in cui accoglie i ricorsi con riferimento alla
pretesa tributaria;
        in  via  istruttoria  si  chiede  che la Commissione disponga
consulenza-tecnica  d'ufficio  al  fine  di accertare i fatti esposti
nell'appello presentato al punto D.4 (pagg. 35 e 36).
    Nelle  proprie  controdeduzioni  e per quanto occorrer possa, nel
proprio  appello  incidentale il Consorzio Cavet chiede che l'appello
della Regione Toscana venga dichiarato inammissibile o respinto e che
comunque venga confermato l'annullamento degli avvisi di accertamento
e di irrogazione.
    L'appello  deve  essere considerato inammissibile per intervenuto
giudicato  estenio  a  favore del Consorzio Cavet, dal momento che la
materia  e'  stata oggetto della sentenza n. 95/2002, gia' passata in
giudicato  per le questioni interpretative ivi affrontate e risolte e
peraltro identiche a quelle del presente giudizio.
    Non  solo  la  decisione  della  causa non puo' prescindere dalla
valutazione  di  elementi  di fatto, l'accertamento dei quali avrebbe
dovuto avvenire in modo specifico e diverso per le due discariche.
    Esiste  inoltre  l'infondatezza oggettiva dei motivi di appello e
della   pretesa  fiscale,  essendo  la  legittimita'  della  sentenza
impugnata adeguatamente motivata nel merito (anche a questo proposito
viene citata numerosa giurisprudenza nazionale e comunitaria).
    Infine  viene  ribadito  che  il  Consorzio Cavet ha provveduto a
richiedere   agli   enti   locali  le  autorizzazioni  amministrative
necessarie   per   l'utilizzo  dei  depositi  e  delle  attivita'  di
ripristino ambientale, autorizzazioni regolarmente ottenute.
    Pertanto il contribuente chiede:
        l'inammissibilita' dell'appello della Regione per intervenuto
giudicato esterno a favore della resistente;
        il  rigetto  nel  merito  previa  applicazione  della  regola
giuridica   individuata  nella  sentenza  definitiva  confermando  la
sentenza dei primi giudici, ovvero accogliere l'appello incidentale;
        in  via  subordinata  l'annullamento dell'atto di irrogazione
delle   sanzioni   per   carenza   di  motivazione  e  illegittimita'
dell'irrogazione  della  sanzione per errore di diritto e/o errore di
fatto.
    All'esito   della   discussione   si   rendono   necessarie   una
puntualizzazione  della  normativa  nazionale,  nella sua successione
temporale, e di quella comunitaria.
    Sotto  il  primo  profilo va ricordato che il d.P.R. 10 settembre
1982   n. 915   aveva   classificato   «i  materiali  provenienti  da
demolizioni,  costruzioni  e  scavi»  come rifiuti speciali, ai sensi
dell'art. 2, comma 3 punto 3.
    Con  l'entrata  in vigore del decreto legislativo 5 febbraio 1997
n. 22   «i   rifiuti   derivanti   dalle  attivita'  di  demolizione,
costruzione,   nonche'   i  rifiuti  pericolosi  che  derivano  dalle
attivita' di scavo» sono stati classificati come rifiuti speciali.
    Lo  stesso decreto Ronchi prevedeva poi all'art. 8 (relativo alle
esclusioni)   che   «i   materiali   non   pericolosi   che  derivano
dall'attivita'  di scavo» fossero esclusi dalla normativa sui rifiuti
(ex comma 2, lett. c).
    Questa   esclusione   fu   oggetto  di  critica  da  parte  della
Commissione  europea,  cosi' che con il c.d. Ronchi-bis (d.lgs n. 389
del 1997) i commi 2, 3 e 4 dell'art. 8 del d.lgs. n. 22/1997 venivano
abrogati (ex art. 1, comma 9).
    Il  quadro  di  coerenza  della  disciplina  nazionale con quella
comunitaria    prevedeva    cosi'   che   i   materiali   provenienti
dall'attivita'  di scavo rientrassero fra i rifiuti, con la ulteriore
specificazione  che  quelli pericolosi avessero la qualificazione, di
rifiuti speciali.
    Con  una  circolare  ministeriale veniva operata una prima deroga
alla  disciplina,  prevedendosi che le terre e rocce da scavo fossero
qualificate    come   rifiuti   allorche'   superassero   limiti   di
concentrazione  di  inquinamento  stabiliti  dal d.m. 25 ottobre 1999
n. 471,  ed in presenza di specifiche condizioni di riutilizzo (e sul
punto  basti  richiamare il principio di legalita', ed in particolare
di  riserva  di legge, per una valutazione sulla legittimita' di tale
modifica normativa).
    A fronte di una giurisprudenza di legittimita' che aveva visto la
terza  sezione della Corte di cassazione adottare una interpretazione
ritenuta   restrittiva  in  tema  di  terre  e  rocce  da  scavo,  il
legislatore interveniva, con una tecnica che in materia di rifiuti si
e' ripetuta innumerevoli volte, con la legge 23 marzo 2001 n. 93, che
introduceva  due  ulteriori  ipotesi  di  esclusione  dal  regime dei
rifiuti  (ex art. 10), e tra queste la lettera f-bis), che escludeva,
in quanto disciplinate da specifiche disposizioni di legge, «le terre
e  le  rocce da scavo destinate all'effettivo utilizzo per reinterri,
riempimenti,   rilevati  e  macinati,  con  esclusione  di  materiali
provenienti  da  siti  inquinati e da bonifiche con concentrazione di
inquinanti  superiore  ai  limiti  di  accettabilita' stabiliti dalle
norme vigenti».
    La  materia subiva dopo poco un ulteriore intervento con la legge
21  dicembre  2001 n. 443 (c.d. legge obiettivo o legge Lunardi). che
forniva l'interpretazione autentica dell'art. 7, comma 3 lett. b, del
decreto   Ronchi   (vigente  sin  dalla  sua  entrata  in  vigore)  e
dell'art. 8,  comma 1, lett. f-bis, (introdotto dalla citata legge 93
del 2001). In realta' fornendo l'interpretazione delle ipotesi in cui
le terre e rocce da scavo non costituiscono rifiuti, la legge Lunardi
non  poteva  fornire altra interpretazione se non quella dell'art. 8,
relativo   alle   esclusioni,   in   quanto   l'art. 7  attiene  alla
classificazione  dei  rifiuti  (urbani  o  speciali, pericolosi o non
pericolosi),  con  la  conseguenza che la legge 443 del 2001 fornisce
l'interpretazione  autentica  della  esclusione al regime dei rifiuti
introdotta  con  la  legge  n. 93  del  2001 (indipendentemente dalle
ulteriori  considerazioni sulla natura o meno di interpretazione o di
innovazione di tale intervento).
    Il    quadro    veniva   nuovamente   sottoposto   ad   ulteriore
interpretazione  con la legge comunitaria 2003 (legge 31 ottobre 2003
n. 306),  che  modificava  nuovamente  la  lettura  delle  due citate
disposizioni (e qui valgano analogicamente le medesime osservazioni).
    Sostanzialmente  il quadro normativo non e' mutato con la entrata
in  vigore  (il  29  aprile  2006)  delle norme in materia ambientale
introdotte  dal  decreto  legislativo  3  aprile 2006 n. 152; infatti
l'art. 186 prevede che:
        «le  terre  e  le  rocce  da  scavo,  anche di gallerie, ed i
residui   della  lavorazione  della  pietra  destinate  all'effettivo
utilizzo   per   reinterri,  riempimenti,  rilevati  e  macinati  non
costituiscono  rifiuti  ...  solo  nel  caso  in  cui,  anche  quando
contaminati,  durante  il  ciclo  produttivo,  da sostanze inquinanti
derivanti  dalla attivita' di escavazione, perforazione e costruzione
siano   utilizzati,  senza  trasformazioni  preliminari,  secondo  le
modalita'  previste  nel progetto sottoposto a valutazione di impatto
ambientale...».
    Orbene  il  rapporto tra diritto comunitario e diritto interno si
mostra  particolarmente  complesso,  ed  ha  spesso  dato  origine  a
controversie  tra la Corte di giustizia e le Corti costituzionali, ed
in  particolare  quella  tedesca  e  quella  del  nostro Paese, anche
tenendo conto del fatto che il diritto comunitario risulta formato da
un  complesso  di elementi nel quale le norme dei trattati istitutivi
rappresentano soltanto la prima fonte, ed alle quali si aggiungono le
norme  di  diritto  derivato,  in primis i regolamenti e le direttive
adottate  dagli organi comunitari, cosi' come le sentenze della Corte
di  Giustizia,  intervenuta  nelle  procedure  di infrazione o in via
pregiudiziale in tema di interpretazione del diritto comunitario.
    Nel  corso  della  evoluzione  giurisprudenziale conseguentemente
intercorsa  e' possibile individuare alcuni punti fermi, ed in primis
il  concetto che il Trattato CE ha di fatto realizzato un ordinamento
giuridico  di  nuovo  genere  nel campo del diritto internazionale, a
favore  del  quale  gli  Stati  hanno rinunciato, anche se in settori
limitati  ai  loro  poteri  sovrani  (causa  26/62, Van Gend en Loos,
raccolta CGCE, 1963, 1, decisione del 1973).
    Una   affermazione   che   trova   un   aggancio   costituzionale
nell'art. 11  per  il  quale  «L'Italia ...consente, in condizioni di
parita'   con   gli  altri  Stati,  alle  limitazioni  di  sovranita'
necessarie  ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra
le  nazioni...»,  nel  richiamo ai vincoli derivanti dall'ordinamento
comunitario  contenuto  nell'art. 117,  e nelle pronunce per le quali
l'ordinamento comunitario e l'ordinamento statale sono distinti ma al
tempo  stesso  coordinati  1)  cosi che le norme comunitarie ricevono
diretta  applicazione nell'ordinamento interno pur rimanendo estranee
al  sistema  delle fonti, comportando non la caducazione, bensi' solo
la  non  applicazione,  da  parte  del giudice nazionale, della nonna
interna incompatibile.
    Infatti  con  la  sentenza  n. 170  la Corte costituzionale aveva
avuto  modo di affermare come nelle materie riservate alla normazione
delle  Comunita'  europee  il  giudice  ordinario  dovesse  applicare
direttamente  la  norma  comunitaria,  la  quale  prevale sulla legge
nazionale  incompatibile,  anteriore  o  successiva;  cio'  in quanto
l'ordinamento  dello  Stato e quello della Comunita' europea sono due
sistemi  reciprocamente  autonomi  e,  al  tempo  stesso,  coordinati
secondo  le  previsioni del Trattato di Roma, la cui osservanza forma
oggetto,  in  forza  dell'art. 11  Cost.,  di  una specifica, piena e
continua  garanzia  (Corte  costituzionale 19 aprile 1985 n. 113). In
particolare nella decisione 113 del 1985 il Giudice delle leggi, dopo
avere ribadito che allorquando una fattispecie cada sotto il disposto
della  disciplina  prodotta  dagli organi della C.E.E. immediatamente
applicabile  nel  territorio  dello Stato, la regola comunitaria deve
ricevere  da  parte  del  giudice  statale  necessaria  ed  immediata
applicazione,  pur  in  presenza  di  incompatibili statuizioni della
legge  ordinaria  dello Stato, non importa se anteriore o successiva,
precisava  come  tale percorso dovesse essere rispettato non soltanto
ove  si'  tratti  di  disciplina  prodotta  dagli organi della C.E.E.
mediante  regolamento, ma anche di statuizioni risultanti da sentenze
interpretative  della  Corte  di giustizia. Giurisprudenza confermata
anche  successivamente  in  occasione  di  questione  vertente  sulla
liberta'  di stabilimento e di prestazione dei servizi dei lavoratori
autonomi,  allorche'  ci si riferiva agli artt. 52 e 59 del Trattato,
come   interpretati,   in   sede   di   giudizio   promosso  a  norma
dell'art. 169,  dalla  Corte  di  giustizia  (Corte  costituzionale 4
luglio 1989 n. 389).
    Ma  l'interpretazione  e  l'applicazione  del  Trattato,  e delle
disposizioni  comunitarie  in  genere,  non  sono  riservate  al solo
giudice  comunitario,  atteso  che  «e' compito dei giudici nazionali
incaricati  di applicare, nell'ambito delle loro competenze, le norme
del diritto comunitario, garantire la piena efficacia di tali norme e
tutelare  i  diritti  attribuiti  ai singoli» (CGCE 19 novembre 1991,
Francovich,  C  6/90  e  C  9/90,  Raccolta 1991, p.I, 5357); giudici
definiti   dalla  stessa  Corte  quali  giudici  comuni  del  diritto
comunitario.
    L'ordinamento  comunitario viene cosi' visto come integrato negli
ordinamenti   giuridici   degli  Stati  membri,  con  la  conseguente
impossibilita'  per  gli  Stati  membri  di  far  prevalere contro un
ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocita',
un  provvedimento unilaterale ulteriore, il quale pertanto non potra'
essere  opponibile  all'ordine  comune  (causa  6/64,  Costa c. Enel,
raccolta CGCE, 1964, 1127).
    Una   immediata  comprensione  di  questa  gerarchia  si  ha  con
riferimento ai Regolamenti comunitari, occupandosi dei quali la Corte
di Giustizia (in un caso nel quale era stata chiamata a giudicare sui
rapporti  fra  un  regolamento  ed  urna  legge  nazionale  italiana)
elaboro'  il  concetto  di  preminenza  o supremazia dell'ordinamento
comunitario  sull'ordinamento  interno  affermando  come in forza del
principio  della  preminenza  del  comunitario  le  disposizioni  del
trattato  e  gli  atti  delle istituzioni, qualora siano direttamente
applicabili,  hanno  l'effetto, nei loro rapporti col diritto interno
degli  Stati  membri, non solo di rendere ipso iure inapplicabile per
il  fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione
contrastante  della  legislazione nazionale preesistente, ma anche in
quanto  tali disposizioni fanno parte integrante, con rango superiore
rispetto  alle  norme interne, dell'ordinamento giuridico vigente nel
territorio  dei singoli Stati membri di impedire la valida formazione
di  nuovi  atti  legislativi  nella  misura  in  cui  questi  fossero
incompatibili  con  norme  comunitarie  (causa  106/1977, Simmenthal,
raccolta CGCE, 1978, 629).
    La  dottrina  e la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia
hanno  poi avuto modo di precisare come la prevalenza sopra descritta
non potesse limitarsi ai soli regolamenti, ma dovesse essere estesa a
tutte  le  norme  comunitarie dotate di un «effetto diretto». Effetto
che la giurisprudenza comunitaria ha riconosciuto in ogni caso in cui
la  norma sia chiara, precisa e non condizionata, ovvero suscettibile
di  applicazione  immediata (non necessitante di alcun atto nazionale
per  la  sua  applicazione) (causa Van Gend en Loos, cit.). Il citato
effetto  diretto puo' conseguentemente essere nconosciuto, secondo la
giurisprudenza   della   Corte,   oltre   che  ai  regolamenti,  alle
disposizioni   del   Trattato,   a  quelle  delle  direttive  con  le
caratteristiche  sopra  evidenziate  e  per  le  quali sia scaduto il
termine di attuazione, ed alle decisioni.
    Al  fronte di tale quadro di riferimento sussisterebbe inoltre un
generale   «obbligo  di  interpretazione  conforme»  della  normativa
interna  rispetto  a  quella  comunitaria,  che troverebbe la propria
fonte  nell'obbligo di leale collaborazione tra autorita' nazionali e
comunitarie  contenuto  nell'art. 10  (ex  5)  del  Trattato,  e  che
ingenererebbe  un  diffuso  potere  di  disapplicazione  da  parte di
qualsiasi   giudice   nazionale   adito   nell'ambito  della  propria
competenza.
    Peraltro  il  Trattato  istitutivo  della  Comunita'  europea non
impone  agli  Stati  membri soltanto l'obbligo di adeguare la propria
disciplina  interna  ai  precetti  comunitari,  ma altresi' quello di
adottare  le  misure  idonee  a rendere tale obbligo di conformazione
«attuale».  Cio'  in quanto allorche' l'istituzione comunitaria abbia
regolamentato   un   determinato   settore   con   una  direttiva  di
armonizzazione,  finalizzata,  come  e'  noto,  ad assicurare regole,
uniformi per i cittadini comunitari, la applicazione interna ad opera
di  un singolo Stato con una disciplina che, sia operando sul profilo
teminologico  e/o  delle  esclusioni  sia su quello sanzionatorio, si
riveli  del  tutto  o  in  parte inefficace, vanificherebbe il citato
presupposto  dell'intervento  comunitario,  ovvero  la armonizzazione
delle legislazioni.
    Questo  comportamento nazionale dovrebbe in tal caso essere letto
come  contrario  al  dedotto  principio  contenuto  nell'art. 10  del
Trattato,  ai  sensi  dei  quale  «gli Stati membri adottano tutte le
misure  di  carattere  generale  e  particolare  atte  ad  assicurare
l'esecuzione degli obblighi derivanti dal trattato ovvero determinati
dagli atti delle istituzioni della comunita».
    A  questo  punto  si  rende  necessaria  una puntualizzazione sui
rapporti  tra  diritto  comunitario  e  diritto penale, alla luce del
principio  della  riserva  di  legge di cui all'art. 25 Costituzione,
nonche'  di  quello di irretroattivita' della legge penale atteso che
la   attribuzione   al  Parlamento  della  scelta  dei  comportamenti
meritevoli  di  sanzione penale rientrerebbe tra i principi nazionali
non derogabili da parte del diritto comunitario.
    La   stessa   dottrina  precisa  come  se  la  riserva  di  legge
rappresenta  l'aspetto  formale del principio di legalita', in quanto
prescrive  la  fonte  ed  il  procedimento  di produzione delle norme
penali,   il   principio   di  determinatezza  ne  esprime  l'aspetto
sostanziale.   Conseguentemente   viene   osservato   come  l'attuale
effettiva  connotazione  delle  norme  comunitarie  sia  tale  da non
rendere  possibile una immediata applicazione delle stesse al fine di
irrogare  una  sanzione penale. Peraltro l'orientamento maggioritario
in  dottrina  sembra escludere una diretta competenza penale da parte
delle  istituzioni  comunitarie  2),  ne  allo  stato risultano norme
comuntarie   direttamente  incriminatrici.  Conseguentemente,  mentre
l'interpretazione  conforme  a  costituzione deve essere privilegiata
per evitare il vizio di incostituzionalita' della norma interpretata,
il   complesso  dei  principi  fondamentali  del  nostro  ordinamento
costituzionale  e dei diritti inalienabili della persona, fra i quali
rientra   il   principio  di  irretroattivita'  della  legge  penale,
costituiscono un controlimite del quale non puo' non tenersi conto.
    Il  discorso si sposta conseguentemente sulla possibile influenza
del diritto comunitario sul diritto penale degli Stati nazionali.
    Come   ricordato   in   precedenza  nessuno  discute  l'immediata
efficacia  in  bonam partem del diritto comunitario cui quel «giudice
comune»  nazionale,  come  definito  dalla  CG,  puo',  e  deve, dare
esecuzione  attraverso  la  disapplicazione, totale o parziale, delle
norme  penali interne eventualmente incompatibili; in applicazione di
tale  principio  la Corte di cassazione 3) ha ritenuto che la legge 9
dicembre  1977  n. 903,  che  regola  e sanziona il divieto di lavoro
notturno per le donne nelle aziende manufatturiere anche artigianali,
contrastasse  con  la  direttiva  76/207/CEE, come interpretata dalla
Corte  di  Giustizia,  e dovesse conseguentemente essere disapplicata
con salvezza della parte che fa divieto di lavoro notturno durante il
periodo  della gravidanza e del primo anno di vita del bambino. Sotto
questo   profilo  si  e'  ritenuto  che  l'esercizio  di  un  diritto
riconosciuto  dalla  normativa  comunitaria potrebbe dare vita ad una
causa  di giustificazione 4) ai sensi dell'art. 51 cod. pen (si pensi
alla  liberta'  di  stabilimento  o  di prestazione dei servizi quale
scriminante  dell'esercizio  abusivo della professione); ma anche nei
casi  in  cui  la  norma  comunitaria  contrasti integralmente con il
divieto   penalmente   sanzionato   dal  diritto  nazionale,  e  tale
conseguenza   puo'   verificarsi   anche  per  il  contrasto  di  una
disposizione   nazionale   con   una  disposizione  comunitaria  come
interpretata  dalla  Corte  di  Giustizia della Comunita' europea, si
produrra quell'efficacia in bonam che si sta esaminando.
    Peraltro  non va dimenticato come il diritto comunitario consenta
un   ampio   sindacato   di   proporzionalita'   della   pena   e  di
ragionevolezza,  in  generale,  delle  incriminazioni  5), attraverso
l'interpretazione   del   citato   art. 10  del  Trattato,  cosi'  da
consentire  un  esame  non  soltanto sulla compatibilita' delle norme
nazionali  di  carattere  repressivo,  ma  anche  sulla  tipologia  e
l'entita'   delle   sanzioni;   anche  se  va  sottolineato  come  la
giurisprudenza   comunitaria  attribuisca  al  legislatore  nazionale
un'ampia  discrezionalita',  una  volta  controllate  la effettivita'
della  sanzione  e la sua proporzionalita', nella scelta tra sanzioni
amministrative o penali 6).
    Diversa  e'  la  problematica  dell'influenza  in  malam  partein
allorche'  il  significato  di  una  norma  penale  dipende dalla sua
integrazione  con altre norme, ovviamente distinguendo il caso in cui
l'eterointegrazione  incida soltanto sulla definizione del fatto, dai
casi nei quali incida sullo stesso precetto.
    Secondo   la   giurisprudenza   costituzionale   la  possibilita'
dell'integrazione   della   legge   penale  da  parte  di  norme  non
legislative  incontra  precisi limiti relativamente al precetto, alla
sanzione  ed  ai  soggetti,  cosi' che si e' ritenuto che «se pure e'
vero  che  una  cosa  e' riprodurre una norma non autoesecutiva, come
quella  contenuta  in  una  direttiva  non  dettagliata,  ed altro e'
riprodurre  una  norma  autoesecutiva,  come  quella  dettata  da  un
regolamento,  pur  tuttavia,  atteso che la riserva di legge preclude
l'immediata  esecutivita'  (in  malam  anche  di  un  regolamento, ne
consegue  che una norma interna recettizia sara' comunque destinata a
renderne effettiva l'applicazione».
    Nel caso in cui la disciplina comunitaria preveda non soltanto un
obbligo  di tutela di un determinato bene, lasciando aperta la scelta
tra sanzione penale o amministrativa, ma imponga un obbligo di tutela
esclusivamente   penale,   la   mancata  ottemperanza  da  parte  del
legislatore nazionale potra' comportare, in ossequio di quanto sopra,
la  sola  condanna  da  parte della Corte di Giustizia ai sensi degli
artt. 226-228  del Trattato, non potendosi dare altrimenti ingresso a
forme di incriminazione non legislativamente predeterminate.
    Ma  se  e'  pur  vero  che  la  integrazione in malam partem va a
misurarsi  con il principio di legalita', con la teoria delle fonti e
con  la  lettura  costituzionalmente orientata dell'art. 5 cod. pen.,
diverso sara' l'ipotesi in cui la eterointegrazione incide solo sulla
definizione del fatto, contribuendo, come ogni altra fonte normativa,
alla  descrizione  della  fattispecie  (come in tema della nozione di
rifiuto).
    Ancora  diversa  si  presenta la tematica del rapporto disciplina
comunitaria  nazionale  nel caso in cui una norma penale risulti gia'
introdotta  in  un  ambito  nazionale,  e  con  successivo intervento
legislativo la sanzione penale venga modificata o abrogata. In questo
caso appare potersi percorrere due diverse strade: la prima e' quella
del  ricorso  in  via pregiudiziale ex art. 234 affincha' la Corte di
Giustizia fornisca la interpretazione del diritto comunitario, in uno
con  la  valutazione di adeguatezza e proporzionalita' delle sanzioni
rispetto  alle  esigenze  di tutela ed alla gravita' del fatto 7), la
seconda   prevede   la  sottoposizione  della  questione  alla  Corte
costituzionale  per violazione degli artt. 11 e 117. comma 1, Costit.
stante  la  difformita'  dal  diritto comunitario della norma interna
derogatrice.
    Un  contributo  a  tale  ricostruzione e' dato da alcuni passaggi
della  decisione  7  febbraio 2000, n. 31 della Corte costituzionale,
che  dichiarava inammissibile, per il rilevato contrasto con norme di
trattati  internazionali  sottoscritti  dall'Italia,  la richiesta di
`referendum'  popolare  per  l'abrogazione  dell'intero  testo  unico
approvato  con  d.lgs.  25  luglio 1998, n. 286, richiesta dichiarata
legittima  con ordinanza del 7-13 dicembre 1999 dell'Ufficio centrale
per  il `referendum' costituito presso la Corte di cassazione, con la
denominazione  «Immigrazione  e  condizione dello straniero». In tale
pronuncia il giudice delle leggi ricordava come in base al cosiddetto
«Acquis  di  Schengen»  -  che  ricomprende convenzioni, protocolli e
dichiarazioni  immediatamente  applicabili  ai  tredici  Paesi membri
dell'Unione  europea  per  effetto del protocollo B, artt. 1 e 2, del
Trattato  di  Amsterdam  -  i  singoli Stati aderenti abbiano assunto
numerosi   obblighi  in  materia  di  controlli  al  passaggio  delle
frontiere  interne, di transito dei cittadini extracornunitari che si
rechino  in  altro  Paese  contraente  o  di  attraversamento delle -
frontiere esterne e, infine, in tema di sanzioni penali nei confronti
di chi favorisce l'immigrazione clandestina.
    Nell'occasione,   pur   rilevando  che  l'art. 2,  comma  2,  del
Protocollo  sull'art. J.7  del trattato sull'Unione europea, allegato
al  trattato  di  Amsterdam,  riservi  al Consiglio, fondandosi sulle
«pertinenti  disposizioni dei trattati, la base giuridica di ciascuna
delle  disposizioni  o  decisioni  che costituiscono» «lo "Acquis" di
Schengen»,  la  Corte  affermava  come  non  vi  fosse dubbio che gli
artt. 5,   6   e   27  della  Convenzione  dell'accordo  di  Schengen
costituissero   espressione   di   un  preciso  indirizzo  normativo,
rigidamente  vincolante,  al quale il nostro legislatore non potrebbe
sottrarsi.  In  questo  quadro normativo la Corte affermava, percio',
che  l'eventuale abrogazione delle norme del d.lgs. n. 286 del 1998 -
che  per effetto delle abrogazioni disposte dall'art. 47 dello stesso
testo  unico  sono  le  uniche che regolavano, nel nostro ordinamento
interno;  le  suddette materie, ed in alcune delle quali, oltretutto,
si riflettono valori fondamentali della nostra Carta costituzionale -
avrebbe  reso  l'Italia inadempiente ai suoi obblighi con conseguente
esclusione della consultazione popolare.
    Il  quadro  generale  sopra  delineato puo' a questo punto essere
messo a confronto con la questione relativa alla individuazione della
nozione di rifiuto (ed alla conseguente esclusione dalla stessa delle
terre e rocce da scavo). In merito deve sottolinearsi come nel nostro
Paese  le  caratteristiche che, in ambito comunitario, individuano la
nozione  di «rifiuto» sono state originariamente riprodotte nell'art.
6,  comma  1  -  lett.  a), del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (che ha
recepito  le  modifiche  del  1991 alle due direttive comunitarie sui
rifiuti)  secondo  cui  «e' rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che
rientra  nelle  categorie  riportate  nell'Allegato  A  e  di  cui il
detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi».
    Il  primo  elemento  essenziale  della  nozione  di  «rifiuto» e'
costituito,  pertanto,  dall'appartenenza  ad  una delle categorie di
materiali  e sostanze individuale nel citato Allegato A), ma l'elenco
delle  16  categorie di rifiuti in esso contenuto non e' esaustivo ed
ha  un  valore puramente indicativo, poiche' lo stesso Allegato «A) -
Parte  1»  comprende due voci residuali capaci di includere qualsiasi
sostanza od oggetto, da qualunque attivita' prodotti.
    Il  secondo  elemento collegato all'atteggiamento del detentore e
relativo alle tre diverse previsioni del concetto di «disfarsi».
    Nozione  che  puo'  essere piu' ampiamente interpretata alla luce
delle  numerose  dalla  lettura  delle numerose decisioni della Corte
europea  di  Giustizia  le  cui decisioni (siano esse di condanna per
inadempimento   dello   Stato   oppure   interpretative  del  diritto
comunitario) sono immediatamente e direttamente applicabili in Italia
(vedi  Corte  cost:  n. 113/1985  e  nn. 232  e  389  del  1989).  In
particolare  basta  richiamare le sentenze 28 marzo 1990, nelle cause
riunite  Vessoso  e  Zanetti;  25  giugno  1997, in proc. n. 304/1994
Tombesi;  15  giugno 2000, in proc. 418 e n. 419/1997 Arco; 18 aprile
2002,  Palin  Granit  Oy; e da ultimo la decisione 11 settembre 2003,
AvestaPolarit Chrome Oy, in RivistAmbiente, 2003, 12, 1339.
    Piu'  in particolare con la sentenza 18 aprile 2002, Palin Granit
Oy,  risulta  ribadito,  che  «la  nozione di rifiuto non puo' essere
interpretata  in  senso  restrittivo»  tenendo conto che «la politica
della  Comunita'  in materia ambientale mira a fin elevato livello di
tutela  ed e' fondata in particolare sui principi della precauzione e
dell'azione  preventiva».  Tale  decisione  ha introdotto, pero', una
«apertura»   sicuramente  significativa  per  la  vicenda  in  esame,
ianalizzando  l'ipotesi  «che  un  bene,  un  materiale o una materia
prima, che deriva da un processo di fabbricazione o di estrazione che
non e' principalmente destinato a produrlo, puo' costituire non tanto
un  residuo  quanto  un  sottoprodotto,  del  quale  l'impresa non ha
intenzione di disfarsi ai sensi dell'art. 1, lett. a), comma 1, della
direttiva  75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a
condizioni  per  lei  favorevoli,  in  un  processo successivo, senza
operare  trasformazioni  preliminari». Secondo la Corte di Giustizia,
una  situazione del genere «non contrasterebbe con le finalita' della
direttiva  75/442.  In  effetti non vi sarebbe alcuna giustificazione
per   assoggettare   alle  disposizioni  di  quest'ultima,  che  sono
destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni,
materiali  o  materie  prime  che  dal punto di vista economico hanno
valore  di  prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione e
che,  in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali
prodotti.  Tuttavia,  tenuto conto dell'obbligo ...di interpretare in
maniera   estensiva   la   nozione   di  rifiuto,  per  limitare  gli
inconvenienti   o   i   danni   dovuti   alla  loro  natura,  occorre
circoscrivere  tale  argomentazione  relativa  ai sottoprodotti, alle
situazioni  in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una
materia  prima  sia non solo eventuale ma certo, senza trasformazione
preliminare  e  nel  corso  del processo di produzione. Appare quindi
evidente  che,  oltre  al  criterio  derivante dalla natura o meno di
residuo  di  produzione  di una sostanza, il grado di probabilita' di
riutilizzo  di  tale  sostanza,  senza  operazioni  di trasformazione
preliminare,  costituisce  un  secondo  criterio  utile  ai  fini  di
valutare  se  essa  sia  o  meno  un rifiuto ai sensi della direttiva
75/442. Se, oltre alla mera possibilita' di riutilizzare la sostanza,
il   detentore   consegue   un  vantaggio  economico  nel  farlo,  la
probabilita'  di tale riutilizzo e' alta. In un'ipotesi del genere la
sostanza in questione non puo' piu' essere considerata un ingombro di
cui  il  detentore cerchi di disfarsi, bensi' un autentico prodotto».
La  Corte di Giustizia e' giunta cosi ad affrontare esplicitamente la
questione  della  distinzione tra prodotti e rifiuti ed i criteri per
operare  una distinzione siffatta sono stati individuati nell'assenza
di  operazioni  di  trasformazione  preliminare, e nella certezza del
riutilizzo senza recare pregiudizio all'ambiente.
    Peraltro  la  Corte di Giustizia delle Comunita' europee (Sez. II
11  novembre 2004, C-475/02, Niselli) ha escluso in modo assoluto che
possano  ricomprendersi  tra i sottoprodotti, di cui il detentore non
intende  disfarsi, i residui di consumo (o di produzione), atteso che
questi  non  costituiscono  materiali o materie prime derivanti da un
processo  di fabbricazione o di estrazione destinato principalmente a
produrlo;  pertanto  la  Corte  ha  affermato come non sia consentito
escludere  dalla  nozione  di rifiuto ogni residuo di produzione o di
consumo  sol che esso possa essere riutilizzato in un qualunque ciclo
di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo
e senza arrecare danno all'ambiente, vuoi previo trattamento ma senza
che occorra tuttavia un'operazione di recupero ai sensi dell'allegato
II  B  della  direttiva 75/442 (trasfusa nel decreto n. 22/1997). Una
prima manifestazione di adesione al contenuto della pronuncia Niselli
della   Corte  di  giustizia  e'  presente  nella  giurisprudenza  di
legittimita'  con  la  decisione 14 aprile 2005, dep. 1° giugno 2005,
n. 20499, Colli.
    La  stessa  Corte  ha  mostrato  di  avere  definitivamente celto
l'opzione   della   non   diretta   applicabilita'   della  normativa
comunitaria,  e  della  conseguente  necessita'  di  rimessione della
questione  alla  Corte costituzionale in due recenti occasioni, anche
se  con  riferimento  alla  pregressa disciplina; una prima volta con
specifica  attenzione  alla nozione di rifiuto (ordinanza del gennaio
2006), ed una seconda volta con riguardo alla previsione agevolatrice
contenuta  nell'art. 30  del  Ronchi  (e  riprodotta nel nuovo d.lgs.
n. 152 del 2006).
    Questa  Commissione  ne  condivide la scelta processuale,e rileva
come  la  ricaduta  pratica  delle  osservazioni  svolte sul presente
procedimento  e'  avvalorata  dalla  esistenza  della vertenza tra la
Commissione  europea  e  la  Repubblica italiana, causa c-194/05, per
violazione  della  direttiva  in materia in relazione alla disciplina
sopra  illustrata  introdotta  dalle  leggi  n. 93 del 2001 e 443 del
2001;  cosi' dopo la entrata in vigore del decreto legislativo n. 152
del   2006,  appare  rilevante  e  non  manifestamente  infondata  la
questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 186 del decreto
legislativo 3 aprile 2006, n. 152 per violazione degli artt. 11 e 117
Costituzione.
          1)  Corte  costituzionale  5  giugno  1984 n. 170, in Giur.
          costit.,  1992,  4479,  ed  in Foro It., 1984, I, 2062, con
          nota di Tizzano.
          2) F. Sgubbi, Diritto penale comunitario, in Dig. Pen., IV,
          Utet  1990,  102;  Parodi  G.,  Diritto  penale  e  diritto
          comunitario, in Riv. trim. dir. pen. econom., 1999, 105; G.
          Marinucci  -  E. Dolcini, Corso di diritto penale, III ed.,
          Giuffre', 2001, 61; C. Sotis, Obblighi comunitari di tutela
          e  opzione  penale:  una  dialettica perpetua?, in Riv. it.
          dir. proc. pen., 2002, 188;
          3) Cass., sez. III, 1° luglio 1999, Valentini, in CED Cass.
          214345.
          4)  Cfr.  Pret.  Lodi, 17 maggio 1984, Rienks, in Dir. com.
          scambi  int.,  1984,  189,  che  ha prosciolto dal reato di
          esercizio  abusivo  dalla  professione  di  veterinario  il
          cittadino  di  uno  stato  estero  cui  era stata rifiutata
          l'iscrizione  all'albo.  In  dottrina  G. Grasso, Comunita'
          europee e diritto penale, Milano, 1989.
          5)  Cfr.  Corte  di Giustizia 29 febbraio 1996, in raccolta
          1996,  943;  Corte  di  Giustizia 17 ottobre 1995 83/94, in
          raccolta 1995, 3221;
          6)  Come  si ricava dall'esame dei casi Commissione c. Rep.
          Federale  Tedesca,  Corte  di Giustizia 29 settembre 1998 e
          Corte  di  Giustizia  4 dicembre  1997, Daihatsu handler c.
          Dahatsu Deutschland GmbH.
          7) S. Riondato, Profili di rapporti tra diritto comunitario
          e  diritto  penale  dell'economia,  in Riv. trim. dir. pen.
          econom., 1997, 1138 e ss.;
                              P. Q. M.
    Visti  gli artt. 134 Cost. e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
solleva  d'ufficio  questione di legittimita' costituzionale dell'art
186  del  decreto  legislativo  3  aprile 2006 n. 152, per violazione
degli  artt. 11  e  117  Costituzione,  dichiarandola rilevante e non
manifestamente infondata;
    Sospende il giudizio in corso ed ordina la immediata trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale;
    Ordina  che  a  cura  della cancelleria la presente ordinanza sia
notificata  alle  parti ed ai loro difensori domiciliatari nonche' al
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri, e comunicata ai Presidenti
della Camera e del Senato.
        Firenze, addi' 9 maggio 2006
                       Il Presidente: Montagna
Il relatore: Bandettini
07C0102