N. 681 ORDINANZA (Atto di promovimento) 19 ottobre 2006
Ordinanza emessa il 19 ottobre 2006 dalla Corte di cassazione nei procedimenti civili riuniti promossi da Comune di Montello ed altra contro Cerimbelli Angela ed altro Espropriazione per pubblica utilita' - Criteri di determinazione dell'indennizzo in misura ridotta rispetto al valore venale degli immobili - Applicabilita' ai procedimenti in corso - Violazione dei principi del giusto processo - Lesione degli obblighi internazionali derivanti dalla CEDU. - Decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, art. 5-bis, convertito con modificazioni in legge 8 agosto 1992, n. 359. - Costituzione, artt. 111, commi primo e secondo, 117, primo comma; convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, art. 6; protocollo alla Convenzione diritti dell'uomo, art. 1.(GU n.6 del 7-2-2007 )
LA CORTE DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente ordinanza sui ricorsi iscritti ai nn. 29309 e 1735 del Ruolo generale degli affari civili rispettivamente dell'anno 2001 e del 2002, proposti da Comune di Montello, in persona del sindaco pro tempore elettivamente domiciliato in Roma al piazzale Clodio n. 12, presso l'avv. Stefano Santarelli che, con l'avv. Francesco Daminelli di Bergamo, lo rappresenta e difende, per procura a margine del ricorso, ricorrente principale; Contro Cerimbelli Angela, elettivamente domiciliata in Roma alla via Barnaba Tortolini n. 34, presso l'avv. Nicolo' Paoletti, che congiuntamente e disgiuntamente con gli avv. Giovanni Cadei e Alessandro Baldassarri, la rappresenta e difende, per procura in calce al controricorso con ricorso incidentale, controricorrente e ricorrente incidentale; avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia, 1ª sez. civ., n. 417/01 del 28 marzo-26 maggio 2001. Udita, all'udienza del 26 settembre 2006, la relazione del Cons. dott. Fabrizio Forte. Sentiti, gli avv. Gregoria Failla, per delega dell'avv. Santarelli, e Nicolo' Paoletti, udito il p.m. dott. Antonio Martone, il quale ha concluso, in via principale, perche' si sollevi la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 5-bis del d.l. n. 333/1992, in relazione agli artt. 111 e 117 Cost. e, in subordine, per la remissione degli atti alle sezioni unite. Premesso in fatto che Con citazione dell'11 aprile 1997, Angela Cerimbelli conveniva in giudizio dinanzi alla Corte di appello di Brescia il Comune di Montello e si opponeva alla stima delle indennita' di espropriazione e di occupazione di un suo terreno di mq. 1680 in territorio comunale, occupato sin dal 21 maggio 1991 ed espropriato, in favore dell'ente locale, con decreto del Presidente della Provincia di Bergamo dell'8 maggio 1996. L'attrice aveva dedotto che l'indennita' di espropriazione determinata in L. 45.045.360 e quella d'occupazione fissata in L. 448.560 per anno erano incongrue, pure per l'esistenza di manufatti sull'area acquisita, dovendo comunque riconoscersi rivalutazione e interessi sulle somme a lei spettanti, mentre, ad avviso del Comune di Montello, per l'area sita al di fuori del centro abitato e in Zona F1, urbanisticamente destinata a parcheggi e verde attrezzato, la indennita' liquidata era da ritenere giusta, non avendo valore le costruzioni sul terreno. Con sentenza del 25 maggio 2001, la Corte di appello di Brescia ha ritenuto edificabile dai privati, sia pure per la realizzazione di attrezzature di interesse comune di cui alla destinazione urbanistica, l'area espropriata nei limiti prescritti dall'art. 54 delle Norme di attuazione del locale P.R.G. (altezza m. 7,50 e densita' fondiaria del 40%), ed e' pervenuta a una valutazione del valore di mercato del terreno di L. 128.000/mq., liquidando l'indennita' di espropriazione, senza la riduzione del 40% di cui ai primi due commi dell'art. 5-bis della legge n. 359 del 1992 a causa della insufficienza dell'indennita' offerta, in L. 107.520.000, da aumentare per il soprassuolo arboreo di L. 2.000.000 e per i manufatti esistenti di L. 30.000.000, pervenendo alla somma complessiva di L. 139.520.000, oltre agli interessi legali dalla data dell'esproprio al saldo, nulla essendo dovuto per la rivalutazione monetaria; l'indennita' di occupazione era invece determinata negli interessi legali sulla somma dovuta a titolo di indennita' di espropriazione per ciascun anno, a decorrere dalla immissione in possesso del 1991 fino al decreto di espropriazione. Il comune di Montello era condannato anche a pagare le spese di causa, compresi i compensi al c.t.u. Considerato che Per la cassazione della indicata sentenza il Comune di Montello ha proposto ricorso in via principale di tre motivi e la Cerimbelli s'e' difesa, con controricorso e ricorso incidentale di due motivi. Con il ricorso principale si lamenta: 1) la violazione dell'art. 5-bis commi 1 e 3 della legge 8 agosto 1992, n. 359, avendo la Corte di merito erroneamente ritenuto edificabile l'area espropriata, in zona F1, urbanisticamente destinata a verde attrezzato e parcheggi, da qualificare come agricola per la sua destinazione incompatibile con la edificabilita', riservata solo all'iniziativa pubblica; 2) falsa applicazione del secondo comma dello stesso art. 5-bis citato, dovendosi applicare la riduzione del 40%, tenuto conto della circostanza che la misura dell'indennita' offerta era stata fissata dalla Commissione provinciale e non dal comune, al quale non era imputabile l'omessa offerta e la mancata conclusione della cessione volontaria; 3) la insufficiente motivazione nella erronea aggiunta del valore dei manufatti, gia' compresi nella stima elaborata dal c.t.u. che li aveva considerati riduttivi del valore del terreno e comunque non valutabili autonomamente cosi' come le essenze arboree. Con i due motivi del ricorso incidentale della Cerimbelli viene censurata la sentenza impugnata per violazione dell'art. 1 del 1° Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 e ratificato dall'Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, in relazione all'applicazione dell'art. 5-bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 8 agosto 1992, n. 359 e al rigetto della domanda di rivalutazione monetaria diviso dalla sentenza impugnata, sulla somma liquidata, e all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. La controricorrente chiede in via principale la disapplicazione del citato art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992, per contrasto con la norma sovranazionale sopra citata che garantisce il pacifico godimento della proprieta' e prevede le condizioni per le quali se ne puo' essere privati consistenti in un pubblico rilevante interesse e nella conformita' della procedura ablativa alle norme del diritto interno e internazionale, consentendo agli Stati aderenti di regolare con legge l'esercizio della proprieta' in conformita' all'interesse pubblico. Ad avviso della ricorrente incidentale, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, deve esservi piena proporzionalita' tra le finalita' pubbliche che si vogliono raggiungere e sacrificio della privazione della proprieta', con l'effetto che l'espropriazione o acquisizione della proprieta' non e' conforme alla indicata norma della Convenzione quando, per essa, non sia pagato il prezzo di mercato o una somma ragionevolmente collegata al valore venale del bene. Tale sproporzione risulta chiara nell'art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992 che liquida l'indennita' in circa la meta' del valore delle aree espropriate quando, come e' accaduto nel caso con la statuizione impugnata dal comune in via principale, non sia applicata l'ulteriore riduzione del 40%, per la omessa accettazione dell'indennita' offerta. Poiche' l'art. 6 del Trattato sull'Unione europea ha fatto propria la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, il giudice nazionale non puo' che disapplicare la norma contrastante con l'indicato art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione stessa (il ricorso cita C. cost. 23 marzo 1993, n. 115, 18 aprile 1991, n. 168 e 14 giugno 1990, n. 285) e la Cassazione dovra' cassare sul punto la sentenza impugnata e disporre la liquidazione dell'indennita' di espropriazione nel valore commerciale delle aree o in una somma ragionevolmente proporzionata a tale valore. La sentenza impugnata ha pure negato il diritto alla rivalutazione sulla somma liquidata in base ai valori delle aree alla data dell'espropriazione, cosi' violando ancora la Convenzione come interpretata dalla Corte di Strasburgo, che ha chiarito che l'espropriato non puo' essere danneggiato dall'anormale prolungamento della procedura espropriativa e che allo stesso quindi compete ogni reintegrazione anche della svalutazione monetaria, soprattutto quando egli deve agire in giudizio per ottenere il riconoscimento di una giusta indennita', come in concreto accaduto. Alla luce della giurisprudenza sovranazionale, deve cambiare lo stesso orientamento interpretativo per il quale l'indennita' viene corrisposta come debito pecuniario di valuta, con la conseguenza che nulla compete per la rivalutazione all'espropriato. O s s e r v a 1.1. - Preliminarmente deve ordinarsi la riunione dei due procedimenti iscritti a ruolo a seguito delle distinte impugnazioni, principale e incidentale, contro la stessa sentenza, art. 335 c.p.c. 2.1. - La Corte deve esaminare in primo luogo la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 5-bis primo comma, del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 8 agosto 1992, n. 359 (d'ora in avanti art. 5-bis), sollevata dalla Cerimbelli con la memoria del 2 dicembre 2004, sia pure subordinatamente al mancato accoglimento della richiesta, contenuta nel suo ricorso incidentale, di disapplicazione diretta da questa Corte della contestata norma per il suo contrasto con l'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e con l'art. 1 del primo Protocollo addizionale alla stessa Convenzione, ratificati entrambi dalla legge 4 agosto 1955, n. 848. La questione risulta gia' sollevata da questa Corte con ordinanza del 29 maggio 2006, n. 12810, alla quale il presente provvedimento intende uniformarsi, solo integrandone il contenuto in rapporto al contrasto della norma interna con le citate norme della Convenzione europea, come rilevato nella sentenza della Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo (da ora CEDU) del 28 luglio 2004, nella causa Scordino contro Italia, alla quale e' poi seguita la pronuncia definitiva nella medesima controversia resa dalla Grande Camera della stessa Corte, sul ricorso del Governo italiano, in data 29 marzo 2006, decisioni entrambe pronunciate ai sensi degli artt. 41, 43 e 44 del citato accordo sovranazionale con condanna dell'Italia al pagamento, in favore dei ricorrenti, di una somma a titolo di equa riparazione. Con la pronuncia del 2006, in particolare, la Grande Chambre della CEDU ha affermato (par. 82 - 104) che l'art. 5-bis viola il «sistema» della Convenzione sulla privazione della proprieta' individuale per pubblica utilita', come da essa reiteratamente interpretato nella relazione tra i due commi del citato art. 1 del primo Protocollo addizionale, in ordine allo scopo di pubblica utilita' che consente l'acquisizione della proprieta' in danno dei titolari del diritto (primo comma) e al raffronto tra interesse generale e diritto individuale che con tale privazione si realizza (secondo comma). La normativa italiana, nel prevedere un'indennita' largamente inferiore rispetto al valore venale del bene espropriato, e riducibile a circa un terzo del prezzo di mercato di questo, oltre al carico tributario per ogni espropriazione, senza considerare la causa per la quale avviene il sacrificio individuale, rompe il giusto equilibrio tra interesse generale e diritto di proprieta' individuale tutelato dall'art. 1 del primo Protocollo addizionale citato. Tale ultima norma impone, nelle espropriazioni per pubblica utilita', la regola di un ristoro corrispondente al valore di mercato dei beni ablati, anche se gli Stati convenzionati possono prevedere la corresponsione di un indennizzo inferiore a tale valore in rapporto ad alcuni scopi di pubblica utilita' che incidono su una pluralita' indistinta di cittadini in fattispecie eccezionali, nelle quali si persegue un interesse generale in un contesto di modifiche costituzionali e di sistema, o di nazionalizzazioni, oppure di riforme economico-sociali o politiche, che giustifichino un ristoro non integrale per il proprietario espropriato (par. 102 - 103 della sentenza citata CEDU del 2006) Di conseguenza, la riduzione dell'indennita' fino a circa il 30% del valore venale delle aree edificabili, come effetto dei criteri di liquidazione della indennita' di espropriazione, di cui all'art. 5-bis non consente un serio ristoro dei proprietari espropriati e viola il giusto equilibrio tra sacrificio del privato e interessi generali, per cui la citata norma interna e' in contrasto con l'art. 1 del primo Protocollo citato e lo Stato italiano e' stato condannato a corrispondere l'equa riparazione di tale violazione della Convenzione. La Grande Camera richiama, nella sentenza citata del 2006, ai paragrafi 97 - 99, come fattispecie nelle quali si e' consentita una riduzione dell'indennita' o del ristoro per la privazione della proprieta', i casi eccezionali relativi al riscatto di un gran numero di abitazioni dagli enfiteuti o titolari del diritto di superficie in vaste aree urbane dell'Inghilterra, qualificato come di riforma economico sociale (James e altri contro Regno Unito 21 febbraio 1996), ovvero quello di modifiche costituzionali (Ex re di Grecia ed altri 28 novembre 2002) oppure di espropriazioni derivate da nazionalizzazioni o da cambiamenti radicali di sistemi politici, come gli espropri avvenuti con la fine dei regimi comunisti o dopo la riunificazione della Germania. Analoga violazione della Convenzione opera l'art. 5-bis (par. 126 - 132 della sentenza del 2006) con la previsione della applicazione retroattiva di esso (sesto comma) alle liquidazioni dell'indennita' gia' in corso in sede amministrativa e persino nel caso di giudizi pendenti sull'accertamento di tali indennita', alla data di entrata in vigore della legge, cosi' privando i proprietari dei terreni espropriati di una parte di quanto gia' loro spettante e chiesto o da domandare in sede giurisdizionale, corrispondente al valore commerciale delle aree espropriate che, ai sensi della legge 2359 del 1865, era da applicare, prima della novella del 1992, alla fattispecie. Pertanto, nel caso di specie, analogo a quello oggetto della presente causa per la sua modesta rilevanza, in quanto l'espropriazione era destinata alla costruzione di un parcheggio e a realizzare del verde attrezzato, si e' avuta una ingerenza del legislatore nella causa che e' sorta per la determinazione dell'indennita' a favore di una delle parti, violandosi i principi «dello stato di diritto e la nozione di giusto processo», di cui all'art. 6 della Convenzione (par. 126 e 133 della sentenza Scordino del 2006), per non avere lo Stato italiano giustificato alla CEDU la rilevata retroattivita' con la specialita' della pubblica utilita' nell'espropriazione non inserita in un contesto di rilievo o di riforma socio-economica. Le richiamate sentenze della CEDU rilevano, ad avviso della ricorrente incidentale, per l'ordinamento interno e sulla disciplina legale dei criteri di liquidazione dell'indennita' di espropriazione, anche perche' si e' esattamente affermato che le norme della Convenzione vanno interpretate dai giudici italiani uniformandosi all'ermeneutica di esse come data dal loro giudice naturale, che e' appunto la Corte di Strasburgo (S.U. 26 gennaio 2004, n. 1340, Cass. 28 maggio 2004, n. 10294, 16 marzo 2005, n. 5724, 29 settembre 2005, n. 19028 e 4 novembre 2005, n. 21391 e, nello stesso senso, CEDU (27 febbraio 2001, Luca' contro Italia). 2.2. - Deve anche delibarsi, come presupposto per la eventuale ammissibilita' della questione, la esistenza o mancanza del potere di questa Corte di disapplicare l'art. 5-bis, anche limitatamente alla retroattivita' della sua applicazione, come chiesto in ricorso per effetto della riscontrata violazione dalla norma interna della Convenzione, in adesione a quanto deciso dalla CEDU in varie sue pronunce. E' in rapporto alla gerarchia delle fonti normative e alla pluralita' dei livelli di legalita', cui il giudice italiano e' soggetto - livelli interni (norme regionali, statali e costituzionali) e sovranazionali o internazionali - e al carattere precettivo delle norme della Convenzione, che si pone il problema del preteso potere di disapplicazione dai giudici stessi di norme legislative interne in contrasto con il detto accordo sovranazionale. La citata ordinanza di questa Corte n. 12810/2006, che ha prospettato la questione di legittimita' costituzionale del primo comma dell'art. 5-bis della legge n. 359 del 1992, uniformemente a quella, quasi contestuale, del 20 maggio 2006, n. 11887 che ha rimesso analoga questione al Giudice delle leggi, in rapporto al comma 7-bis dello stesso articolo e al ridotto risarcimento dei danni da occupazione acquisitiva illecita, hanno entrambe negato che nella fattispecie, in mancanza di una disciplina specifica e precettiva in sede sovranazionale dei criteri di liquidazione del ristoro dovuto ai soggetti espropriati, possa sussistere un potere del giudice italiano di disapplicare la legge interna. Siffatto potere si e' giustamente ritenuto non compatibile con il nostro sistema costituzionale e in specie con le norme che regolano l'abrogazione delle leggi, di cui all'art. 15 delle disposizioni preliminari al codice civile e all'art. 136 della Costituzione. Entrambe le citate ordinanze di questa Corte relative all'art. 5-bis, correttamente negano che il contrasto, identico a quello dedotto dalla ricorrente incidentale, di tale norma con quelle sovranazionali, consenta al giudice la disapplicazione diretta della disciplina di diritto interna, anche allorche', come nel caso delle sentenze Scordino contro Italia, si e' rilevato che lo stesso costituisce violazione del sistema della protezione convenzionale del diritto di proprieta'. Del resto la stessa sentenza della CEDU del marzo 2006 rimette allo Stato italiano l'adozione delle misure «legislative, amministrative e finanziarie» (par. 237) necessarie all'adeguamento del sistema interno alle norme sovranazionali, cosi' chiarendo che la sua pronuncia non puo' incidere con effetti abrogativi sulla legislazione italiana. Invero, sul carattere precettivo delle norme contenute dalla Convenzione europea, occorre mantenere distinti i diritti da essa protetti, «riconosciuti» dagli Stati contraenti con l'art. 1 come «fondamentali» anche nel diritto interno, con effetto immediato conseguente alla legge di ratifica, salvo per quelli gia' precedentemente garantiti, dai mezzi e dalle modalita' di tutela di tali diritti, rimessi ai singoli Stati aderenti e agli ordinamenti interni. L'art. 13 della Convenzione prevede il ricorso alla magistratura interna di ciascuno Stato convenzionato, in caso di violazione dei diritti tutelati dall'accordo internazionale anche se posta in essere da persone che agiscono nell'esercizio di funzioni pubbliche, evidenziando cosi' che i mezzi di tutela dei diritti fondamentali sono rimessi ai singoli Stati, salvo l'intervento sussidiario della CEDU, sui ricorsi individuali di cui all'art. 34 della Convenzione e la condanna dei singoli Stati inadempienti all'equa riparazione di cui al successivo art. 41. Nello stesso senso e' l'art. 46 della Convenzione, per il quale le «alte Parti contraenti s'impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti», cosi' escludendo ogni effetto immediatamente abrogativo di norme interne delle sentenze della CEDU, alle quali consegue l'obbligo degli Stati di dar loro esecuzione, in Italia recentemente disciplinato con la legge 9 gennaio 2006, n. 12, che individua solo nel governo e nel Parlamento gli organi cui trasmettere le sentenze della Corte di Strasburgo, unici legittimati a dare esecuzione alle decisioni sovranazionali. Appare chiara quindi, in base alla stessa Convenzione, la esclusione di ogni potere dei giudici italiani di «disapplicare» le norme legislative in contrasto con essa, riservando la Costituzione il potere di far venir meno le norme primarie al solo legislatore nazionale e regionale e alla Corte costituzionale (artt. 70 e ss., 117 e 136 Cost.); nel caso, inoltre, l'esigenza di copertura finanziaria della modifica normativa conseguente alla disapplicazione dell'art. 5-bis, comporterebbe una violazione, dagli stessi giudici, dell'art. 81 della Cost. La previsione poi, nell'art. 56 della Convenzione, della possibile applicabilita' di essa solo in alcuni dei territori degli Stati aderenti e dell'applicazione delle disposizioni stesse «tenendo conto delle necessita' locali» evidenzia che, nel sistema dell'accordo sovranazionale citato, pur essendo precettivo il riconoscimento dei diritti garantiti nell'accordo per tutti gli Stati che vi aderiscono, le modalita' di tutela di essi e di applicazione nei territori dei singoli Stati sono rimesse alla legislazione interna. La non precettivita' delle norme che la sentenza della CEDU del 2006 ha ritenuto violate e' del resto comprovata dalla stessa molteplicita' delle pronunce di questa Corte, che, in passato, hanno unanimemente negato ogni contrasto con la Convenzione dell'art. 5-bis, sia con riferimento al risarcimento per la illecita occupazione per pubblica utilita' che per l'indennita' di espropriazione (tra molte, da S.U. 6 maggio 2003, n. 6853 a Cass. 9 giugno 2006, n. 13431, in ordine all'occupazione acquisitiva illecita, e Cass. 22 luglio 2004, n. 13667 e 21 maggio 2003, n. 7943 in rapporto all'opposizione alla stima e alla bipartizione, nell'articolo indicato, delle aree, tra edificabili e inedificabili). Per quanto attiene poi alla retroattivita' della norma e alla sua incidenza sui procedimenti amministrativi in corso e sui processi pendenti, si e' affermata la irrilevanza della perdita conseguente alla riduzione del ristoro legalmente regolato per la privazione della proprieta' per pubblica utilita' conseguente a interventi legislativi, almeno in rapporto al diritto al giusto processo e all'equa riparazione da irragionevole durata dei processi di cui alla legge 21 marzo 2001, n. 89 (Cass. 28 marzo 2006, n. 6998, 14 ottobre 2005, n. 19999, 26 marzo 2004, n. 6071, 17 febbraio 2003, n. 2382). Si e' anche esattamente rilevato da questa Corte, nelle ordinanze citate che hanno sollevato la medesima questione di legittimita' costituzionale, che il richiamo contenuto nell'art. 6, par. 2, del Trattato di Maastricht al rispetto, da parte dell'Unione europea, dei «diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentale firmata a Roma il 4 novembre 1950 e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comune», non esclude la diversita' degli organi giurisdizionali preposti alla tutela di tali diritti (Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo) da quelli cui e' invece demandata la interpretazione delle norme comunitarie, quale e' la Corte di giustizia del Lussemburgo che ha negato una propria competenza in materia di diritti fondamentali (cfr. Corte Giustizia 29 maggio 1997, C. 199-95 - Kremzow). Le norme della Convenzione non sono quindi assimilabili ai Regolamenti comunitari ne', come questi, si. applicano immediatamente nell'ordinamento interno (sul problema, Cass. 19 luglio 2002, n. 10542). La Corte costituzionale che, in passato, prima delle modifiche apportate alla Convenzione di cui al Protocollo n. 11, firmato a Strasburgo l'11 maggio 1994, e ratificato in Italia con legge 28 agosto 1997, n. 296, che ha modificato i citati artt. 46 e 56 della Convenzione, sembra avere avuto orientamenti non incompatibili con la diretta applicabilita' in Italia delle norme della Convenzione (con le sentenze citate in ricorso cfr. C. cost. 9 luglio 1992, n. 373 e 3 maggio 1993, n. 235, entrambe sul carattere pubblico delle udienze nel giusto processo), e' oggi invece orientata, dopo la novella degli artt. 111 e 117 della Cost., a dare un rilievo indiretto alle norme convenzionali, come fonti di obblighi cui l'Italia e' da tali norme vincolata (C. cost. 25 settembre 2002, n. 445 e ord. 6 aprile 2005, n. 139), cosi' negando implicitamente ogni abrogazione automatica e la disapplicazione delle leggi ordinarie interne in contrasto con quelle della Convenzione da parte dei giudici nazionali. Quanto affermato non esclude che i diritti tutelati con la Convenzione esistano sin dal momento della ratifica di essa - o prima se gia' garantiti dal diritto interno - con conseguente successione nella loro disponibilita' degli eredi degli originari titolari, i quali ne potranno chiedere la tutela ai giudici italiani, una volta intervenuta la norma interna che la regoli (S.U. 23 dicembre 2005, n. 28507). La precettivita' del riconoscimento dei diritti, tutelati dall'accordo internazionale, non rileva ai fini dell'abrogazione di norme che in concreto potrebbero essere lesive di dette posizioni soggettive, finche' restino generici e non precisati i rimedi dell'ordinamento interno a garanzia di detti diritti fondamentali (Cass. 12 gennaio 1999, n. 254). In conformita' a quanto gia' delibato dalle citate recenti ordinanze di questa Corte, che hanno dubitato della legittimita' costituzionale dell'art. 5-bis puo' riaffermarsi che il Giudice italiano che eventualmente disapplichi la norma richiamata non avrebbe comunque il potere di imporre come giusto indennizzo il valore venale del bene espropriato, ritenuto piu' volte in sede sovranazionale l'unico di regola applicabile e che invece il Giudice delle leggi interno ha affermato essere non conforme alla Costituzione, per la quale un serio ristoro si e' sempre ritenuto compatibile con una riduzione del prezzo pieno del bene acquisito come sacrificio individuale dovuto alla pubblica utilita'. In conclusione, denegato il potere di disapplicazione delle norme in contrasto con la Convenzione da questa Corte, unico strumento per rilevare il loro contrasto con la Convenzione europea e provocare la loro espunzione dall'ordinamento, e' quello di investire della questione relativa la Corte costituzionale. 3.1. - Ai fini della rilevanza della questione occorre brevemente delibare sul primo motivo del ricorso principale con il quale si e' censurata la sentenza di merito per avere qualificato come edificabile l'area espropriata, in quanto l'eventuale fondatezza dello stesso renderebbe inapplicabile l'art. 5-bis, della cui legittimita' costituzionale si dubita in questa sede. Il motivo di ricorso, pur affermando l'erroneita' della affermazione, dalla Corte di appello, della natura edificabile delle aree ne deduce il carattere non fabbricabile per il fatto di essere inserite dal locale P.R.G. in Zona F1 (destinate all'istruzione primaria, per attrezzature di interesse comune, per verde variamente attrezzato). Non risulta censurata pero' la ratio decidendi della sentenza impugnata su tale riconoscimento della natura edificabile di tali aree che la Corte di appello desume dalla loro utilizzabilita' dai privati sia pure per la realizzazione di interessi generali o diffusi. I giudici del merito hanno infatti ritenuto che la previsione contenuta nelle norme di attuazione del P.R.G. di un assoggettamento «a servitu' di uso pubblico» delle aree collocate nelle predette zone, ne evidenzi la loro edificabilita' anche dai privati, sia pure per i soli fini di interesse pubblico previsti nello strumento urbanistico; manca ogni censura su tale rilievo della Corte di merito per cui deve ritenersi incontestata per tale limitato profilo la qualifica di edificabile dell'area, con conseguente applicazione per la sua espropriazione dell'art. 5-bis, al quale quindi correttamente si e' fatto riferimento nella presente procedura ablativa. 3.2. - Nel caso di specie la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 5-bis e' certamente rilevante, perche' espressamente, nel ricorso incidentale, si deduce che, nella espropriazione oggetto di causa, l'indennita' di espropriazione di un area edificabile e' stata liquidata con i criteri di determinazione di cui all'indicato articolo, sulla quale la controricorrente solleva dubbi di legittimita' costituzionale «per violazione degli artt. 2, 10, 11, 42, 97, 111 e 117 della Costituzione, in relazione all'art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e 6 di questa stessa Convenzione» (cosi' la memoria di parte che chiede di sollevare la questione). Si lamenta in sostanza che, anche senza la riduzione del 40% di cui alla citata norma interna, chiesta peraltro dall'espropriante con il ricorso principale, al soggetto espropriato non e' garantito un serio ristoro per la rottura dell'equilibrio tra diritto individuale di proprieta' e interesse generale a base della causa di pubblica utilita' nella espropriazione per cui e' causa, avvenuta per realizzare un parcheggio e destinare a verde altra parte del terreno oggetto di esproprio, cioe' per opere e strutture, che lo stesso proprietario avrebbe potuto eseguire, al di fuori di un contesto di intervento economico-sociale di grande rilievo. D'altro canto anche la censura di cui al terzo motivo del ricorso principale sul computo del soprassuolo nella determinazione dell'indennita' rende rilevante la questione dell'art. 5-bis che, per le aree edificabili, non sembra dar rilievo ai manufatti esistenti su di esse. Come emerge anche dalla sentenza della Grande Camera del marzo 2006 (par. 230), l'affermata legittimita' costituzionale dei criteri legali di determinazione dell'indennita' dei suoli edificabili, di cui alle sentenze della Corte costituzionale 16 giugno 1993, n. 283 e 16 dicembre 1993, n. 442, e' collegata al suo «carattere dichiaratamente temporaneo, in attesa di un'organica disciplina dell'espropriazione per pubblica utilita» e si giustifica «per la particolare urgenza e valenza degli scopi che il legislatore intende perseguire» nella particolare congiuntura economica in cui versava il paese (cosi' espressamente la sentenza n. 383/1993, richiamata anche dall'altra pronuncia citata del Giudice delle leggi). Solo la disciplina dell'art. 5-bis, applicabile ratione temporis nel caso per la indicata natura edificabile delle aree impropriamente contestata (cfr. retro par. 3.1), assume rilievo per la presente decisione; difetta invece di rilevanza il richiamo della stessa ricorrente incidentale all'art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, che ha reso definitivi i criteri di liquidazione della indennita' di cui all'art. 5-bis con effetto dal 1° luglio 2003 ed e' inapplicabile nella fattispecie, anche se esclude la giustificazione della loro provvisorieta', ai fini della legittimita' costituzionale di tale riduzione delle somme dovute al soggetto danneggiato per la privazione della proprieta'. 4. - Ritenuta rilevante la questione proposta dalla ricorrente incidentale, in rapporto al richiamato art. 5-bis questa Corte deve dichiararne anche la non manifesta infondatezza. La Corte costituzionale, pur riconoscendo, a differenza della CEDU, il carattere di principi e norme fondamentali di riforma economico-sociale alla disciplina del richiamato art. 5-bis, ha negato la illegittimita' costituzionale di tale norma, salvo che per la parte in cui essa non ha previsto, in violazione degli artt. 3 e 42 della Cost., per i procedimenti espropriativi in corso, cui la norma si applica, una nuova offerta della indennita' allo espropriato, la cui accettazione possa escludere la riduzione del 40% del ristoro di cui alla norma, gia' fortemente riduttivo rispetto al valore di mercato del bene espropriato (par. 7.3. della sentenza n. 283/1993). La stessa sentenza del Giudice delle leggi, al successivo par. 9, nega la illegittimita', per violazione dell'art. 3 della Cost., della retroattivita' della disciplina dell'art. 5-bis, per non essere la ultrattivita' delle leggi (art. 11 delle Disp. sulla legge in generale) principio recepito dalla Costituzione, escludendo quindi la fondatezza della questione «nei termini cosi' puntualizzati» (espressione del giudice costituzionale richiamata nella ordinanza citata di questa Corte n. 12810/2006). Ne' puo' ritenersi che la Corte costituzionale, con le citate pronunce del 1993, riferendosi all'art. 3 della Cost., abbia avuto riguardo anche ad una ipotizzabile e sottesa violazione dell'art. 97 della Cost. e del principio di imparzialita' dell'azione amministrativa, che la contestata disposizione di legge ordinaria non sembra assicurare, intervenendo sulle posizioni delle parti dei procedimenti espropriativi gia' iniziati, riducendo solo per quelli non ancora definiti - e in danno dell'espropriato - l'entita' della somma che lo stesso poteva percepire all'inizio della procedura per effetto della privazione del suo bene per causa di pubblica utilita'. Appare pero' chiaro che l'art. 111 della Cost. come novellato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 ha garantito tra l'altro, con il principio del giusto processo, di cui al primo comma, anche quello delle «condizioni di parita» tra le parti. Pertanto occorre accertare se, in rapporto a tale norma, la retroattivita' di cui al sesto comma dell'art. 5-bis non incida sullo stesso giusto processo destinato a determinare l'indennita', sia esso in corso o debba addirittura ancora iniziare, eliminando le condizioni di parita' delle parti del processo, con un intervento che ha sfavorito una sola di esse, riducendo fortemente quanto la stessa avrebbe potuto chiedere o aveva in concreto preteso al momento della domanda, non ottenendo poi quanto poteva aspettarsi di ricevere per la durata del procedimento amministrativo e/o per quella del processo. La retroattivita' dei criteri di liquidazione dell'indennita' ha insomma inciso anche sulla indennita' nei procedimenti amministrativi in corso, anteriormente alla futura opposizione alla stima ancora non proponibile per ragioni imputabili all'espropriante (C. cost. 22 febbraio 1990, n. 67) e, per tale profilo, ha determinato comunque una ingerenza del legislatore sul presente processo a sfavore dell'espropriato che, senza tale norma, avrebbe potuto pretendere e ottenere una maggiore somma, se i procedimenti amministrativi o giurisdizionali in corso fossero stati conclusi prima della data di entrata in vigore dell'art. 5-bis. In effetti la CEDU, nella citata sentenza Scordino del 2006, ritiene violato l'art. 6 della Convenzione, per l'ingerenza del legislatore nei procedimenti e processi in corso a favore di una delle parti, in rapporto all'art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione, proprio in quanto non risulta giustificata con una rilevante causa di pubblica utilita' la perdita di una parte dell'indennita' retroattivamente stabilita, mentre era gia' iniziato il procedimento espropriativo ed era ancora in corso il processo di liquidazione della indennita' (par. 132). Per tale profilo, non si afferma in sede sovranazionale che la retroattivita' dell'art. 5-bis comporti violazione del principio di legalita', che deve fondare ogni privazione della proprieta', ma solo che la ingerenza del potere legislativo sul funzionamento di quello giudiziario, con l'alterazione delle condizioni di parita' delle parti, non e' nel caso giustificato in rapporto al tipo di pubblica utilita' che si persegue con la realizzazione dell'opera per la quale l'esproprio e' stato disposto. Risulta quindi palese che nel caso, sulla presente opposizione alla stima proposta nel 1996 in un procedimento espropriativo iniziato sin dal 1991 e prima dell'entrata in vigore dell'art. 5-bis, il diritto di proprieta' della ricorrente incidentale e' stato inciso dall'intervento normativo di cui all'articolo ora richiamato, che ha modificato a favore dell'espropriante i criteri di liquidazione del ristoro dovuto all'espropriato, riducendo di oltre il 50% la somma che tale parte avrebbe potuto ottenere in caso di tempestiva conclusione della procedura espropriativa e del conseguente processo. 4.1. - La stessa CEDU, con diverse sue pronunce, ha ormai definitivamente chiarito il contrasto con l'art. 1 del primo Protocollo addizionale dei ristori indennitari e risarcitori previsti per le acquisizioni lecite e illecite connesse a procedimenti espropriativi con o senza causa di pubblica utilita' (cfr. con le pronunce della C.E.D.U. sopra citate, le sentenze della stessa Corte 30 ottobre 2003, Belvedere Alberghiera contro Italia, 30 ottobre 2003, Carbonara e Ventura contro Italia, 11 dicembre 2003, Colacrai contro Italia, 15 luglio 2005, Carletta contro Italia e Donati contro Italia, e 12 gennaio 2006 Sciarrotta contro Italia, caso questo del quale si e' decisa la ricevibilita' con il merito per essere ormai certa la contrarieta' della liquidazione della illecita privazione della proprieta' in Italia per causa di p.u. e 23 febbraio 2006, Immobiliare Cerro contro Italia, sintomatico perche' e' il medesimo caso oggetto della citata S.U. 6853/2003, che ha ritenuto non violativa della Convenzione la disciplina della liquidazione del risarcimento dei danni, di cui al comma 7-bis dell'art. 5-bis della legge n. 359/1992). In tale contesto, la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 5-bis per contrasto con il primo comma dell'art. 117 Cost., risolta negativamente prima delle modifiche ad esso apportate dall'art. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, appare oggi anche essa non manifestamente infondata. E' indubbio che le norme costituzionali novellate, come gli artt. 111 e 117 della Cost., pur se hanno effetto con la entrata in vigore delle loro modifiche, incidono con queste non solo sulla normativa ordinaria futura ma anche su quella previgente, da dichiarare illegittima se con esse contrastante (cosi' C. cost. 24 dicembre 2004, n. 425 in rapporto all'art. 117 Cost.) anche se il legislatore ha poi provveduto a regolare l'adeguamento dell'ordinamento interno statale e regionale alla stessa novella costituzionale con le leggi 5 giugno 2003, n. 131 e 4 febbraio 2005, n. 11. Si deve negare che, come ritiene una dottrina peraltro minoritaria, le norme costituzionali novellate in questi ultimi anni possano operare solo su quelle ordinarie successive, senza incidere sulla legittimita' di quelle gia' vigenti che invece devono essere dichiarate illegittime ed abrogarsi per le parti in cui risultino in contrasto, anche sopravvenuto, con i principi nuovi inseriti nella carta fondamentale. Nella fattispecie, puo' affermarsi che l'eventuale riscontrata violazione da norme italiane di quelle della Convenzione europea dei diritti dell'uomo gia' vigenti alla data di entrata in vigore del nuovo art. 117 Cost., ne comporta la sopravvenuta illegittimita' costituzionale che, ovviamente, nella fattispecie, se dichiarata, retroagirebbe sin dalla data di entrata in vigore dell'art. 5-bis in contrasto attuale con la norma della carta fondamentale. La questione, comunque, non e' quella che la ricorrente incidentale pure prospetta della conformazione dell'ordinamento interno alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute di cui all'art. 10 della Cost. (sul tema cfr. C. cost. 11 febbraio 1993, n. 75), ma l'altra della incidenza delle norme convenzionali sovranazionali sulla legislazione statale e regionale in materia di criteri di determinazione dell'indennita' di espropriazione, per i quali lo Stato italiano deve esercitare il proprio potere legislativo in conformita' alla Convenzione, con leggi statali anche quadro per quelle regionali, al fine di conformare le norme interne a quelle internazionali. 5. - In conclusione, vanno dichiarate rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 5-bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359: a) per contrasto con l'art. 111, primo e secondo comma della Costituzione, in relazione all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e all'art. 1 del primo Protocollo addizionale a tale Convenzione, nella parte in cui, disponendo l'applicabilita', ai procedimenti espropriativi in corso e ai giudizi pendenti, dei criteri di determinazione dell'indennita' in esso contenuti per i suoli edificabili, viola il diritto a un giusto processo per il soggetto espropriato e, in specie, le condizioni di parita' delle parti davanti al giudice, lese palesemente dall'intromissione del legislatore nell'amministrazione della giustizia, con influenza chiara sulla risoluzione di una specifica e determinata categoria di controversie, tese alla determinazione dell'indennita' di espropriazione; b) per contrasto con l'art. 117, primo comma, della Costituzione, in rapporto all'art. 1 del primo Protocollo addizionale alla richiamata Convenzione, nella parte in cui, disponendo l'applicabilita' dei criteri di determinazione dell'indennita' in esso contenuti, attribuisce ai soggetti privati della proprieta' per cause di pubblica utilita' di non eccezionale rilievo, un ristoro non serio ed eccessivamente riduttivo del valore venale del bene espropriato. Ai sensi dell'art. 23 delle legge 11 marzo 1953, n. 87, la dichiarazione di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale comporta la sospensione del processo e la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
P. Q. M. Riuniti i ricorsi, dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 5-bis del d.l. legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359, per contrasto con gli artt. 111 e 117 della Costituzione, anche in rapporto all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e all'art. 1 del primo Protocollo addizionale a tale Convenzione. Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e la sospensione del giudizio. Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso in Roma, nella Camera di consiglio della I sezione civile della Corte di cassazione, il 26 settembre 2006. Il Presidente: Criscuolo 07C0103