N. 681 ORDINANZA (Atto di promovimento) 19 ottobre 2006

Ordinanza  emessa  il  19 ottobre  2006 dalla Corte di cassazione nei
procedimenti  civili  riuniti promossi da Comune di Montello ed altra
contro Cerimbelli Angela ed altro

Espropriazione  per  pubblica  utilita'  -  Criteri di determinazione
  dell'indennizzo  in  misura ridotta rispetto al valore venale degli
  immobili - Applicabilita' ai procedimenti in corso - Violazione dei
  principi   del   giusto   processo   -   Lesione   degli   obblighi
  internazionali derivanti dalla CEDU.
- Decreto-legge  11 luglio  1992,  n. 333, art. 5-bis, convertito con
  modificazioni in legge 8 agosto 1992, n. 359.
- Costituzione,  artt. 111,  commi primo e secondo, 117, primo comma;
  convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo e delle
  liberta'  fondamentali, art. 6; protocollo alla Convenzione diritti
  dell'uomo, art. 1.
(GU n.6 del 7-2-2007 )
                       LA CORTE DI CASSAZIONE

    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sui ricorsi iscritti ai
nn. 29309   e   1735   del   Ruolo   generale   degli  affari  civili
rispettivamente  dell'anno  2001  e  del  2002, proposti da Comune di
Montello,   in   persona   del   sindaco  pro  tempore  elettivamente
domiciliato  in  Roma al piazzale Clodio n. 12, presso l'avv. Stefano
Santarelli  che,  con  l'avv.  Francesco  Daminelli  di  Bergamo,  lo
rappresenta  e difende, per procura a margine del ricorso, ricorrente
principale;
    Contro  Cerimbelli Angela, elettivamente domiciliata in Roma alla
via  Barnaba  Tortolini  n. 34,  presso  l'avv. Nicolo' Paoletti, che
congiuntamente  e  disgiuntamente  con  gli  avv.  Giovanni  Cadei  e
Alessandro  Baldassarri,  la  rappresenta  e  difende, per procura in
calce  al  controricorso  con ricorso incidentale, controricorrente e
ricorrente incidentale; avverso la sentenza della Corte di appello di
Brescia,  1ª sez. civ., n. 417/01 del 28 marzo-26 maggio 2001. Udita,
all'udienza  del  26 settembre  2006,  la  relazione  del Cons. dott.
Fabrizio  Forte.  Sentiti,  gli  avv.  Gregoria  Failla,  per  delega
dell'avv. Santarelli, e Nicolo' Paoletti, udito il p.m. dott. Antonio
Martone,  il quale ha concluso, in via principale, perche' si sollevi
la  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 5-bis del d.l.
n. 333/1992, in relazione agli artt. 111 e 117 Cost. e, in subordine,
per la remissione degli atti alle sezioni unite.
                        Premesso in fatto che
    Con citazione dell'11 aprile 1997, Angela Cerimbelli conveniva in
giudizio  dinanzi  alla  Corte  di  appello  di  Brescia il Comune di
Montello  e si opponeva alla stima delle indennita' di espropriazione
e  di  occupazione  di  un  suo  terreno  di  mq.  1680 in territorio
comunale,  occupato  sin dal 21 maggio 1991 ed espropriato, in favore
dell'ente  locale,  con  decreto  del  Presidente  della Provincia di
Bergamo dell'8 maggio 1996.
    L'attrice   aveva  dedotto  che  l'indennita'  di  espropriazione
determinata  in  L.  45.045.360  e quella d'occupazione fissata in L.
448.560  per  anno erano incongrue, pure per l'esistenza di manufatti
sull'area  acquisita,  dovendo  comunque riconoscersi rivalutazione e
interessi  sulle  somme a lei spettanti, mentre, ad avviso del Comune
di Montello, per l'area sita al di fuori del centro abitato e in Zona
F1,  urbanisticamente  destinata  a  parcheggi e verde attrezzato, la
indennita'  liquidata  era  da  ritenere giusta, non avendo valore le
costruzioni sul terreno.
    Con  sentenza  del 25 maggio 2001, la Corte di appello di Brescia
ha ritenuto edificabile dai privati, sia pure per la realizzazione di
attrezzature   di   interesse   comune   di   cui  alla  destinazione
urbanistica,  l'area  espropriata  nei limiti prescritti dall'art. 54
delle  Norme  di  attuazione  del  locale  P.R.G.  (altezza m. 7,50 e
densita'  fondiaria  del  40%), ed e' pervenuta a una valutazione del
valore   di   mercato   del  terreno  di  L. 128.000/mq.,  liquidando
l'indennita'  di espropriazione, senza la riduzione del 40% di cui ai
primi  due  commi dell'art. 5-bis della legge n. 359 del 1992 a causa
della  insufficienza  dell'indennita'  offerta, in L. 107.520.000, da
aumentare  per  il  soprassuolo  arboreo  di  L.  2.000.000  e  per i
manufatti   esistenti   di   L.  30.000.000,  pervenendo  alla  somma
complessiva di L. 139.520.000, oltre agli interessi legali dalla data
dell'esproprio  al  saldo,  nulla essendo dovuto per la rivalutazione
monetaria;  l'indennita'  di occupazione era invece determinata negli
interessi  legali  sulla  somma  dovuta  a  titolo  di  indennita' di
espropriazione  per  ciascun  anno,  a  decorrere dalla immissione in
possesso del 1991 fino al decreto di espropriazione.
    Il  comune  di Montello era condannato anche a pagare le spese di
causa, compresi i compensi al c.t.u.

                           Considerato che

    Per  la  cassazione della indicata sentenza il Comune di Montello
ha  proposto  ricorso in via principale di tre motivi e la Cerimbelli
s'e' difesa, con controricorso e ricorso incidentale di due motivi.
    Con   il   ricorso   principale  si  lamenta:  1)  la  violazione
dell'art. 5-bis commi 1 e 3 della legge 8 agosto 1992, n. 359, avendo
la   Corte   di   merito  erroneamente  ritenuto  edificabile  l'area
espropriata,   in   zona   F1,  urbanisticamente  destinata  a  verde
attrezzato  e  parcheggi,  da  qualificare  come  agricola per la sua
destinazione  incompatibile  con  la  edificabilita',  riservata solo
all'iniziativa  pubblica;  2)  falsa  applicazione  del secondo comma
dello  stesso art. 5-bis citato, dovendosi applicare la riduzione del
40%,  tenuto  conto  della  circostanza che la misura dell'indennita'
offerta  era  stata  fissata  dalla Commissione provinciale e non dal
comune,  al  quale  non  era imputabile l'omessa offerta e la mancata
conclusione   della   cessione   volontaria;   3)   la  insufficiente
motivazione  nella  erronea  aggiunta  del valore dei manufatti, gia'
compresi  nella  stima  elaborata dal c.t.u. che li aveva considerati
riduttivi   del   valore   del  terreno  e  comunque  non  valutabili
autonomamente cosi' come le essenze arboree.
    Con  i  due motivi del ricorso incidentale della Cerimbelli viene
censurata  la  sentenza  impugnata  per violazione dell'art. 1 del 1°
Protocollo  addizionale  alla  Convenzione  per  la  salvaguardia dei
diritti  dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmato a Parigi il
20  marzo  1952  e  ratificato  dall'Italia  con legge 4 agosto 1955,
n. 848,  in  relazione  all'applicazione  dell'art. 5-bis del d.l. 11
luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della
legge   8 agosto   1992,   n. 359  e  al  rigetto  della  domanda  di
rivalutazione  monetaria diviso dalla sentenza impugnata, sulla somma
liquidata, e all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.
    La  controricorrente  chiede in via principale la disapplicazione
del  citato art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992, per contrasto con la
norma   sovranazionale   sopra  citata  che  garantisce  il  pacifico
godimento della proprieta' e prevede le condizioni per le quali se ne
puo'  essere privati consistenti in un pubblico rilevante interesse e
nella  conformita'  della  procedura  ablativa alle norme del diritto
interno e internazionale, consentendo agli Stati aderenti di regolare
con  legge  l'esercizio della proprieta' in conformita' all'interesse
pubblico.
    Ad avviso della ricorrente incidentale, secondo la giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, deve esservi
piena  proporzionalita'  tra  le  finalita' pubbliche che si vogliono
raggiungere  e  sacrificio  della  privazione  della  proprieta', con
l'effetto che l'espropriazione o acquisizione della proprieta' non e'
conforme  alla indicata norma della Convenzione quando, per essa, non
sia pagato il prezzo di mercato o una somma ragionevolmente collegata
al valore venale del bene.
    Tale  sproporzione risulta chiara nell'art. 5-bis del d.l. n. 333
del  1992 che liquida l'indennita' in circa la meta' del valore delle
aree espropriate quando, come e' accaduto nel caso con la statuizione
impugnata dal comune in via principale, non sia applicata l'ulteriore
riduzione   del  40%,  per  la  omessa  accettazione  dell'indennita'
offerta.
    Poiche'  l'art. 6  del  Trattato  sull'Unione  europea  ha  fatto
propria  la  Convenzione  europea  dei  diritti dell'uomo, il giudice
nazionale  non  puo'  che  disapplicare  la  norma  contrastante  con
l'indicato  art. 1  del primo Protocollo addizionale alla Convenzione
stessa  (il  ricorso  cita  C. cost. 23 marzo 1993, n. 115, 18 aprile
1991, n. 168 e 14 giugno 1990, n. 285) e la Cassazione dovra' cassare
sul   punto   la   sentenza  impugnata  e  disporre  la  liquidazione
dell'indennita' di espropriazione nel valore commerciale delle aree o
in una somma ragionevolmente proporzionata a tale valore.
    La   sentenza   impugnata   ha   pure   negato  il  diritto  alla
rivalutazione sulla somma liquidata in base ai valori delle aree alla
data  dell'espropriazione,  cosi' violando ancora la Convenzione come
interpretata   dalla   Corte  di  Strasburgo,  che  ha  chiarito  che
l'espropriato non puo' essere danneggiato dall'anormale prolungamento
della  procedura  espropriativa e che allo stesso quindi compete ogni
reintegrazione anche della svalutazione monetaria, soprattutto quando
egli  deve  agire  in  giudizio per ottenere il riconoscimento di una
giusta indennita', come in concreto accaduto.
    Alla  luce  della giurisprudenza sovranazionale, deve cambiare lo
stesso  orientamento  interpretativo  per il quale l'indennita' viene
corrisposta  come debito pecuniario di valuta, con la conseguenza che
nulla compete per la rivalutazione all'espropriato.

                            O s s e r v a

    1.1.  -  Preliminarmente  deve  ordinarsi  la  riunione  dei  due
procedimenti  iscritti a ruolo a seguito delle distinte impugnazioni,
principale e incidentale, contro la stessa sentenza, art. 335 c.p.c.
    2.1.  -  La  Corte  deve esaminare in primo luogo la questione di
legittimita'  costituzionale dell'art. 5-bis primo comma, del d.l. 11
luglio   1992,   n. 333,  convertito  in  legge,  con  modificazioni,
dall'art. 1  della  legge  8  agosto  1992,  n. 359  (d'ora in avanti
art. 5-bis), sollevata dalla Cerimbelli con la memoria del 2 dicembre
2004,   sia  pure  subordinatamente  al  mancato  accoglimento  della
richiesta,  contenuta nel suo ricorso incidentale, di disapplicazione
diretta  da  questa Corte della contestata norma per il suo contrasto
con  l'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle
liberta'  fondamentali  firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950 e con
l'art. 1  del  primo  Protocollo addizionale alla stessa Convenzione,
ratificati  entrambi  dalla legge 4 agosto 1955, n. 848. La questione
risulta  gia'  sollevata  da questa Corte con ordinanza del 29 maggio
2006,   n. 12810,   alla  quale  il  presente  provvedimento  intende
uniformarsi,  solo integrandone il contenuto in rapporto al contrasto
della  norma  interna  con le citate norme della Convenzione europea,
come  rilevato  nella  sentenza  della Camera della Corte europea dei
diritti  dell'uomo  (da  ora  CEDU)  del  28 luglio 2004, nella causa
Scordino  contro  Italia,  alla  quale  e'  poi  seguita la pronuncia
definitiva nella medesima controversia resa dalla Grande Camera della
stessa  Corte,  sul  ricorso  del  Governo italiano, in data 29 marzo
2006, decisioni entrambe pronunciate ai sensi degli artt. 41, 43 e 44
del   citato  accordo  sovranazionale  con  condanna  dell'Italia  al
pagamento,  in  favore  dei ricorrenti, di una somma a titolo di equa
riparazione.
    Con  la  pronuncia  del  2006,  in particolare, la Grande Chambre
della  CEDU  ha  affermato  (par. 82 - 104) che l'art. 5-bis viola il
«sistema»   della   Convenzione  sulla  privazione  della  proprieta'
individuale  per  pubblica  utilita',  come  da  essa  reiteratamente
interpretato  nella  relazione  tra i due commi del citato art. 1 del
primo  Protocollo  addizionale,  in  ordine  allo  scopo  di pubblica
utilita'  che  consente  l'acquisizione della proprieta' in danno dei
titolari  del  diritto  (primo  comma)  e  al raffronto tra interesse
generale  e  diritto  individuale che con tale privazione si realizza
(secondo comma).
    La  normativa  italiana,  nel  prevedere un'indennita' largamente
inferiore   rispetto   al  valore  venale  del  bene  espropriato,  e
riducibile a circa un terzo del prezzo di mercato di questo, oltre al
carico tributario per ogni espropriazione, senza considerare la causa
per  la  quale  avviene  il  sacrificio  individuale, rompe il giusto
equilibrio tra interesse generale e diritto di proprieta' individuale
tutelato  dall'art. 1  del  primo Protocollo addizionale citato. Tale
ultima  norma  impone, nelle espropriazioni per pubblica utilita', la
regola  di  un  ristoro  corrispondente al valore di mercato dei beni
ablati,  anche  se  gli  Stati  convenzionati  possono  prevedere  la
corresponsione  di  un indennizzo inferiore a tale valore in rapporto
ad  alcuni  scopi di pubblica utilita' che incidono su una pluralita'
indistinta  di  cittadini  in fattispecie eccezionali, nelle quali si
persegue   un   interesse   generale  in  un  contesto  di  modifiche
costituzionali  e  di  sistema,  o  di  nazionalizzazioni,  oppure di
riforme  economico-sociali  o politiche, che giustifichino un ristoro
non  integrale  per il proprietario espropriato (par. 102 - 103 della
sentenza citata CEDU del 2006)
    Di  conseguenza, la riduzione dell'indennita' fino a circa il 30%
del valore venale delle aree edificabili, come effetto dei criteri di
liquidazione    della    indennita'   di   espropriazione,   di   cui
all'art. 5-bis   non   consente  un  serio  ristoro  dei  proprietari
espropriati e viola il giusto equilibrio tra sacrificio del privato e
interessi  generali,  per cui la citata norma interna e' in contrasto
con l'art. 1 del primo Protocollo citato e lo Stato italiano e' stato
condannato  a  corrispondere  l'equa  riparazione  di tale violazione
della Convenzione.
    La  Grande  Camera  richiama,  nella sentenza citata del 2006, ai
paragrafi  97 - 99, come fattispecie nelle quali si e' consentita una
riduzione  dell'indennita'  o  del  ristoro  per  la privazione della
proprieta', i casi eccezionali relativi al riscatto di un gran numero
di abitazioni dagli enfiteuti o titolari del diritto di superficie in
vaste  aree  urbane  dell'Inghilterra,  qualificato  come  di riforma
economico  sociale  (James  e  altri  contro  Regno Unito 21 febbraio
1996),  ovvero quello di modifiche costituzionali (Ex re di Grecia ed
altri   28  novembre  2002)  oppure  di  espropriazioni  derivate  da
nazionalizzazioni o da cambiamenti radicali di sistemi politici, come
gli  espropri  avvenuti  con  la  fine dei regimi comunisti o dopo la
riunificazione della Germania.
    Analoga violazione della Convenzione opera l'art. 5-bis (par. 126
-  132  della sentenza del 2006) con la previsione della applicazione
retroattiva  di  esso (sesto comma) alle liquidazioni dell'indennita'
gia'  in  corso  in sede amministrativa e persino nel caso di giudizi
pendenti  sull'accertamento  di tali indennita', alla data di entrata
in  vigore  della  legge,  cosi'  privando  i proprietari dei terreni
espropriati di una parte di quanto gia' loro spettante e chiesto o da
domandare   in   sede   giurisdizionale,   corrispondente  al  valore
commerciale delle aree espropriate che, ai sensi della legge 2359 del
1865,   era   da  applicare,  prima  della  novella  del  1992,  alla
fattispecie.
    Pertanto,  nel  caso  di  specie,  analogo a quello oggetto della
presente   causa   per   la   sua   modesta   rilevanza,   in  quanto
l'espropriazione  era destinata alla costruzione di un parcheggio e a
realizzare  del  verde  attrezzato,  si  e'  avuta  una ingerenza del
legislatore   nella   causa   che  e'  sorta  per  la  determinazione
dell'indennita'  a  favore  di una delle parti, violandosi i principi
«dello  stato  di  diritto  e  la nozione di giusto processo», di cui
all'art. 6  della Convenzione (par. 126 e 133 della sentenza Scordino
del  2006), per non avere lo Stato italiano giustificato alla CEDU la
rilevata  retroattivita'  con  la specialita' della pubblica utilita'
nell'espropriazione  non  inserita  in  un  contesto  di rilievo o di
riforma socio-economica.
    Le  richiamate  sentenze  della  CEDU  rilevano,  ad avviso della
ricorrente  incidentale, per l'ordinamento interno e sulla disciplina
legale dei criteri di liquidazione dell'indennita' di espropriazione,
anche  perche'  si  e'  esattamente  affermato  che  le  norme  della
Convenzione  vanno  interpretate  dai  giudici italiani uniformandosi
all'ermeneutica  di  esse come data dal loro giudice naturale, che e'
appunto  la Corte di Strasburgo (S.U. 26 gennaio 2004, n. 1340, Cass.
28  maggio 2004, n. 10294, 16 marzo 2005, n. 5724, 29 settembre 2005,
n. 19028  e 4 novembre 2005, n. 21391 e, nello stesso senso, CEDU (27
febbraio 2001, Luca' contro Italia).
    2.2.  -  Deve  anche delibarsi, come presupposto per la eventuale
ammissibilita' della questione, la esistenza o mancanza del potere di
questa  Corte  di disapplicare l'art. 5-bis, anche limitatamente alla
retroattivita'  della  sua  applicazione, come chiesto in ricorso per
effetto  della  riscontrata  violazione  dalla  norma  interna  della
Convenzione,  in  adesione  a  quanto  deciso dalla CEDU in varie sue
pronunce.
    E'  in  rapporto  alla  gerarchia  delle  fonti  normative e alla
pluralita'  dei  livelli  di  legalita',  cui  il giudice italiano e'
soggetto    -   livelli   interni   (norme   regionali,   statali   e
costituzionali)  e  sovranazionali  o internazionali - e al carattere
precettivo delle norme della Convenzione, che si pone il problema del
preteso  potere  di  disapplicazione  dai  giudici  stessi  di  norme
legislative interne in contrasto con il detto accordo sovranazionale.
    La  citata  ordinanza  di  questa  Corte  n. 12810/2006,  che  ha
prospettato  la  questione  di  legittimita' costituzionale del primo
comma  dell'art. 5-bis  della  legge n. 359 del 1992, uniformemente a
quella,  quasi  contestuale,  del  20  maggio  2006,  n. 11887 che ha
rimesso  analoga  questione  al  Giudice  delle leggi, in rapporto al
comma 7-bis dello stesso articolo e al ridotto risarcimento dei danni
da  occupazione acquisitiva illecita, hanno entrambe negato che nella
fattispecie,  in mancanza di una disciplina specifica e precettiva in
sede sovranazionale dei criteri di liquidazione del ristoro dovuto ai
soggetti espropriati, possa sussistere un potere del giudice italiano
di disapplicare la legge interna.
    Siffatto potere si e' giustamente ritenuto non compatibile con il
nostro  sistema  costituzionale e in specie con le norme che regolano
l'abrogazione  delle  leggi,  di  cui  all'art. 15 delle disposizioni
preliminari al codice civile e all'art. 136 della Costituzione.
    Entrambe   le   citate   ordinanze   di   questa  Corte  relative
all'art. 5-bis,  correttamente  negano  che  il contrasto, identico a
quello dedotto dalla ricorrente incidentale, di tale norma con quelle
sovranazionali,  consenta al giudice la disapplicazione diretta della
disciplina  di  diritto interna, anche allorche', come nel caso delle
sentenze  Scordino  contro  Italia,  si  e'  rilevato  che  lo stesso
costituisce violazione del sistema della protezione convenzionale del
diritto di proprieta'.
    Del  resto  la  stessa sentenza della CEDU del marzo 2006 rimette
allo   Stato   italiano   l'adozione   delle   misure   «legislative,
amministrative  e  finanziarie» (par. 237) necessarie all'adeguamento
del sistema interno alle norme sovranazionali, cosi' chiarendo che la
sua   pronuncia  non  puo'  incidere  con  effetti  abrogativi  sulla
legislazione italiana.
    Invero,  sul  carattere  precettivo  delle  norme contenute dalla
Convenzione  europea,  occorre  mantenere  distinti i diritti da essa
protetti,  «riconosciuti»  dagli  Stati  contraenti con l'art. 1 come
«fondamentali»  anche  nel  diritto  interno,  con  effetto immediato
conseguente   alla   legge   di   ratifica,  salvo  per  quelli  gia'
precedentemente  garantiti,  dai mezzi e dalle modalita' di tutela di
tali  diritti,  rimessi  ai singoli Stati aderenti e agli ordinamenti
interni.
    L'art. 13  della Convenzione prevede il ricorso alla magistratura
interna  di  ciascuno  Stato convenzionato, in caso di violazione dei
diritti tutelati dall'accordo internazionale anche se posta in essere
da   persone  che  agiscono  nell'esercizio  di  funzioni  pubbliche,
evidenziando  cosi'  che  i  mezzi di tutela dei diritti fondamentali
sono  rimessi  ai singoli Stati, salvo l'intervento sussidiario della
CEDU,  sui ricorsi individuali di cui all'art. 34 della Convenzione e
la  condanna  dei  singoli Stati inadempienti all'equa riparazione di
cui al successivo art. 41.
    Nello  stesso  senso e' l'art. 46 della Convenzione, per il quale
le  «alte  Parti  contraenti  s'impegnano a conformarsi alle sentenze
definitive  della  Corte  nelle controversie nelle quali sono parti»,
cosi'  escludendo  ogni  effetto  immediatamente  abrogativo di norme
interne  delle  sentenze  della  CEDU,  alle quali consegue l'obbligo
degli   Stati   di   dar  loro  esecuzione,  in  Italia  recentemente
disciplinato  con  la legge 9 gennaio 2006, n. 12, che individua solo
nel  governo  e nel Parlamento gli organi cui trasmettere le sentenze
della  Corte  di Strasburgo, unici legittimati a dare esecuzione alle
decisioni sovranazionali.
    Appare  chiara  quindi,  in  base  alla  stessa  Convenzione,  la
esclusione  di  ogni potere dei giudici italiani di «disapplicare» le
norme  legislative  in contrasto con essa, riservando la Costituzione
il  potere  di  far  venir meno le norme primarie al solo legislatore
nazionale  e  regionale  e alla Corte costituzionale (artt. 70 e ss.,
117  e  136  Cost.);  nel  caso,  inoltre,  l'esigenza  di  copertura
finanziaria della modifica normativa conseguente alla disapplicazione
dell'art. 5-bis,  comporterebbe una violazione, dagli stessi giudici,
dell'art. 81 della Cost.
    La   previsione   poi,   nell'art. 56  della  Convenzione,  della
possibile  applicabilita'  di essa solo in alcuni dei territori degli
Stati aderenti e dell'applicazione delle disposizioni stesse «tenendo
conto   delle   necessita'   locali»   evidenzia   che,  nel  sistema
dell'accordo   sovranazionale   citato,  pur  essendo  precettivo  il
riconoscimento dei diritti garantiti nell'accordo per tutti gli Stati
che  vi  aderiscono, le modalita' di tutela di essi e di applicazione
nei  territori  dei  singoli  Stati  sono  rimesse  alla legislazione
interna.
    La  non  precettivita' delle norme che la sentenza della CEDU del
2006  ha  ritenuto  violate  e'  del  resto  comprovata  dalla stessa
molteplicita'  delle pronunce di questa Corte, che, in passato, hanno
unanimemente    negato    ogni    contrasto    con   la   Convenzione
dell'art. 5-bis,  sia con riferimento al risarcimento per la illecita
occupazione   per   pubblica   utilita'   che   per  l'indennita'  di
espropriazione  (tra  molte, da S.U. 6 maggio 2003, n. 6853 a Cass. 9
giugno   2006,   n. 13431,   in  ordine  all'occupazione  acquisitiva
illecita,  e Cass. 22 luglio 2004, n. 13667 e 21 maggio 2003, n. 7943
in   rapporto   all'opposizione   alla  stima  e  alla  bipartizione,
nell'articolo indicato, delle aree, tra edificabili e inedificabili).
    Per quanto attiene poi alla retroattivita' della norma e alla sua
incidenza  sui  procedimenti  amministrativi  in corso e sui processi
pendenti,  si  e'  affermata la irrilevanza della perdita conseguente
alla  riduzione  del  ristoro  legalmente  regolato per la privazione
della  proprieta'  per  pubblica  utilita'  conseguente  a interventi
legislativi,  almeno  in  rapporto  al  diritto  al giusto processo e
all'equa riparazione da irragionevole durata dei processi di cui alla
legge  21 marzo 2001, n. 89 (Cass. 28 marzo 2006, n. 6998, 14 ottobre
2005, n. 19999, 26 marzo 2004, n. 6071, 17 febbraio 2003, n. 2382).
    Si e' anche esattamente rilevato da questa Corte, nelle ordinanze
citate  che  hanno  sollevato  la  medesima questione di legittimita'
costituzionale,  che  il  richiamo contenuto nell'art. 6, par. 2, del
Trattato di Maastricht al rispetto, da parte dell'Unione europea, dei
«diritti  fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea
per   la   salvaguardia   dei  diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentale  firmata  a  Roma  il  4 novembre 1950 e quali risultano
dalle  tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto
principi  generali  del  diritto  comune»,  non esclude la diversita'
degli  organi  giurisdizionali  preposti  alla tutela di tali diritti
(Corte  europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo) da quelli cui e'
invece demandata la interpretazione delle norme comunitarie, quale e'
la  Corte  di  giustizia  del  Lussemburgo  che ha negato una propria
competenza  in  materia di diritti fondamentali (cfr. Corte Giustizia
29 maggio 1997, C. 199-95 - Kremzow).
    Le  norme  della  Convenzione  non  sono  quindi  assimilabili ai
Regolamenti comunitari ne', come questi, si. applicano immediatamente
nell'ordinamento   interno  (sul  problema,  Cass.  19  luglio  2002,
n. 10542).  La  Corte  costituzionale  che,  in  passato, prima delle
modifiche  apportate  alla  Convenzione  di  cui al Protocollo n. 11,
firmato  a  Strasburgo  l'11  maggio 1994, e ratificato in Italia con
legge  28  agosto 1997, n. 296, che ha modificato i citati artt. 46 e
56   della   Convenzione,   sembra   avere   avuto  orientamenti  non
incompatibili  con  la  diretta  applicabilita' in Italia delle norme
della  Convenzione (con le sentenze citate in ricorso cfr. C. cost. 9
luglio  1992,  n. 373 e 3 maggio 1993, n. 235, entrambe sul carattere
pubblico   delle   udienze  nel  giusto  processo),  e'  oggi  invece
orientata,  dopo la novella degli artt. 111 e 117 della Cost., a dare
un rilievo indiretto alle norme convenzionali, come fonti di obblighi
cui  l'Italia e' da tali norme vincolata (C. cost. 25 settembre 2002,
n. 445  e  ord.  6 aprile 2005, n. 139), cosi' negando implicitamente
ogni   abrogazione   automatica  e  la  disapplicazione  delle  leggi
ordinarie  interne in contrasto con quelle della Convenzione da parte
dei giudici nazionali.
    Quanto  affermato  non  esclude  che  i  diritti  tutelati con la
Convenzione esistano sin dal momento della ratifica di essa - o prima
se  gia'  garantiti dal diritto interno - con conseguente successione
nella  loro  disponibilita'  degli  eredi degli originari titolari, i
quali  ne  potranno chiedere la tutela ai giudici italiani, una volta
intervenuta  la  norma  interna che la regoli (S.U. 23 dicembre 2005,
n. 28507).
    La   precettivita'   del  riconoscimento  dei  diritti,  tutelati
dall'accordo  internazionale,  non rileva ai fini dell'abrogazione di
norme  che  in  concreto  potrebbero essere lesive di dette posizioni
soggettive,  finche'  restino  generici  e  non  precisati  i  rimedi
dell'ordinamento  interno  a  garanzia  di detti diritti fondamentali
(Cass. 12 gennaio 1999, n. 254).
    In  conformita'  a  quanto  gia'  delibato  dalle  citate recenti
ordinanze  di  questa  Corte,  che  hanno dubitato della legittimita'
costituzionale  dell'art. 5-bis  puo'  riaffermarsi  che  il  Giudice
italiano  che  eventualmente  disapplichi  la  norma  richiamata  non
avrebbe  comunque  il  potere  di  imporre  come giusto indennizzo il
valore  venale  del  bene  espropriato,  ritenuto  piu' volte in sede
sovranazionale  l'unico di regola applicabile e che invece il Giudice
delle   leggi   interno   ha   affermato  essere  non  conforme  alla
Costituzione,  per  la  quale  un serio ristoro si e' sempre ritenuto
compatibile  con  una  riduzione  del prezzo pieno del bene acquisito
come   sacrificio  individuale  dovuto  alla  pubblica  utilita'.  In
conclusione,  denegato  il  potere  di disapplicazione delle norme in
contrasto  con  la  Convenzione  da questa Corte, unico strumento per
rilevare  il loro contrasto con la Convenzione europea e provocare la
loro  espunzione  dall'ordinamento,  e'  quello  di  investire  della
questione relativa la Corte costituzionale.
    3.1. - Ai fini della rilevanza della questione occorre brevemente
delibare  sul  primo motivo del ricorso principale con il quale si e'
censurata   la   sentenza   di  merito  per  avere  qualificato  come
edificabile  l'area  espropriata,  in  quanto  l'eventuale fondatezza
dello   stesso   renderebbe  inapplicabile  l'art. 5-bis,  della  cui
legittimita'  costituzionale  si  dubita in questa sede. Il motivo di
ricorso,  pur affermando l'erroneita' della affermazione, dalla Corte
di  appello,  della  natura  edificabile  delle  aree  ne  deduce  il
carattere non fabbricabile per il fatto di essere inserite dal locale
P.R.G.   in   Zona   F1   (destinate   all'istruzione  primaria,  per
attrezzature di interesse comune, per verde variamente attrezzato).
    Non  risulta  censurata  pero'  la ratio decidendi della sentenza
impugnata  su  tale  riconoscimento  della natura edificabile di tali
aree  che  la  Corte di appello desume dalla loro utilizzabilita' dai
privati  sia  pure  per  la  realizzazione  di  interessi  generali o
diffusi.
    I  giudici  del  merito  hanno infatti ritenuto che la previsione
contenuta  nelle norme di attuazione del P.R.G. di un assoggettamento
«a  servitu'  di  uso  pubblico»  delle aree collocate nelle predette
zone,  ne evidenzi la loro edificabilita' anche dai privati, sia pure
per  i  soli  fini  di  interesse  pubblico  previsti nello strumento
urbanistico; manca ogni censura su tale rilievo della Corte di merito
per  cui  deve  ritenersi  incontestata  per tale limitato profilo la
qualifica  di edificabile dell'area, con conseguente applicazione per
la  sua espropriazione dell'art. 5-bis, al quale quindi correttamente
si e' fatto riferimento nella presente procedura ablativa.
    3.2.   -   Nel  caso  di  specie  la  questione  di  legittimita'
costituzionale   dell'art. 5-bis  e'  certamente  rilevante,  perche'
espressamente,   nel   ricorso  incidentale,  si  deduce  che,  nella
espropriazione oggetto di causa, l'indennita' di espropriazione di un
area  edificabile  e' stata liquidata con i criteri di determinazione
di cui all'indicato articolo, sulla quale la controricorrente solleva
dubbi  di  legittimita' costituzionale «per violazione degli artt. 2,
10, 11, 42, 97, 111 e 117 della Costituzione, in relazione all'art. 1
del primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti
dell'uomo  e  6  di  questa  stessa Convenzione» (cosi' la memoria di
parte che chiede di sollevare la questione).
    Si  lamenta  in sostanza che, anche senza la riduzione del 40% di
cui alla citata norma interna, chiesta peraltro dall'espropriante con
il  ricorso  principale,  al soggetto espropriato non e' garantito un
serio  ristoro per la rottura dell'equilibrio tra diritto individuale
di  proprieta'  e  interesse  generale a base della causa di pubblica
utilita'   nella  espropriazione  per  cui  e'  causa,  avvenuta  per
realizzare  un parcheggio e destinare a verde altra parte del terreno
oggetto  di  esproprio,  cioe'  per  opere e strutture, che lo stesso
proprietario  avrebbe  potuto eseguire, al di fuori di un contesto di
intervento economico-sociale di grande rilievo.
    D'altro canto anche la censura di cui al terzo motivo del ricorso
principale   sul   computo   del   soprassuolo  nella  determinazione
dell'indennita' rende rilevante la questione dell'art. 5-bis che, per
le aree edificabili, non sembra dar rilievo ai manufatti esistenti su
di esse.
    Come  emerge  anche  dalla sentenza della Grande Camera del marzo
2006  (par. 230), l'affermata legittimita' costituzionale dei criteri
legali  di  determinazione  dell'indennita' dei suoli edificabili, di
cui alle sentenze della Corte costituzionale 16 giugno 1993, n. 283 e
16   dicembre   1993,   n. 442,   e'   collegata  al  suo  «carattere
dichiaratamente  temporaneo,  in  attesa  di  un'organica  disciplina
dell'espropriazione  per  pubblica  utilita»  e si giustifica «per la
particolare  urgenza e valenza degli scopi che il legislatore intende
perseguire» nella particolare congiuntura economica in cui versava il
paese  (cosi' espressamente la sentenza n. 383/1993, richiamata anche
dall'altra pronuncia citata del Giudice delle leggi).
    Solo  la disciplina dell'art. 5-bis, applicabile ratione temporis
nel caso per la indicata natura edificabile delle aree impropriamente
contestata  (cfr.  retro  par.  3.1),  assume rilievo per la presente
decisione;  difetta  invece  di  rilevanza  il  richiamo della stessa
ricorrente  incidentale all'art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327,
che  ha reso definitivi i criteri di liquidazione della indennita' di
cui all'art. 5-bis con effetto dal 1° luglio 2003 ed e' inapplicabile
nella  fattispecie,  anche  se  esclude la giustificazione della loro
provvisorieta',  ai  fini  della  legittimita' costituzionale di tale
riduzione   delle   somme  dovute  al  soggetto  danneggiato  per  la
privazione della proprieta'.
    4.  -  Ritenuta  rilevante la questione proposta dalla ricorrente
incidentale,  in  rapporto al richiamato art. 5-bis questa Corte deve
dichiararne anche la non manifesta infondatezza.
    La  Corte  costituzionale,  pur  riconoscendo, a differenza della
CEDU,  il  carattere  di  principi  e  norme  fondamentali di riforma
economico-sociale  alla  disciplina  del  richiamato  art. 5-bis,  ha
negato  la illegittimita' costituzionale di tale norma, salvo che per
la  parte  in cui essa non ha previsto, in violazione degli artt. 3 e
42  della  Cost.,  per  i procedimenti espropriativi in corso, cui la
norma   si   applica,   una   nuova  offerta  della  indennita'  allo
espropriato, la cui accettazione possa escludere la riduzione del 40%
del  ristoro di cui alla norma, gia' fortemente riduttivo rispetto al
valore  di  mercato  del  bene  espropriato (par. 7.3. della sentenza
n. 283/1993).
    La stessa sentenza del Giudice delle leggi, al successivo par. 9,
nega la illegittimita', per violazione dell'art. 3 della Cost., della
retroattivita'  della  disciplina  dell'art. 5-bis, per non essere la
ultrattivita'  delle  leggi  (art. 11  delle  Disp.  sulla  legge  in
generale) principio recepito dalla Costituzione, escludendo quindi la
fondatezza   della   questione   «nei  termini  cosi'  puntualizzati»
(espressione  del  giudice  costituzionale richiamata nella ordinanza
citata di questa Corte n. 12810/2006).
    Ne'  puo'  ritenersi  che  la Corte costituzionale, con le citate
pronunce  del  1993,  riferendosi all'art. 3 della Cost., abbia avuto
riguardo  anche ad una ipotizzabile e sottesa violazione dell'art. 97
della   Cost.   e   del   principio   di   imparzialita'  dell'azione
amministrativa, che la contestata disposizione di legge ordinaria non
sembra  assicurare,  intervenendo  sulle  posizioni  delle  parti dei
procedimenti  espropriativi  gia' iniziati, riducendo solo per quelli
non  ancora  definiti - e in danno dell'espropriato - l'entita' della
somma  che  lo stesso poteva percepire all'inizio della procedura per
effetto della privazione del suo bene per causa di pubblica utilita'.
    Appare  pero'  chiaro  che  l'art. 111 della Cost. come novellato
dalla  legge  costituzionale  23 novembre 1999, n. 2 ha garantito tra
l'altro, con il principio del giusto processo, di cui al primo comma,
anche  quello  delle  «condizioni  di  parita» tra le parti. Pertanto
occorre  accertare se, in rapporto a tale norma, la retroattivita' di
cui  al  sesto  comma  dell'art. 5-bis non incida sullo stesso giusto
processo  destinato  a  determinare l'indennita', sia esso in corso o
debba  addirittura  ancora  iniziare,  eliminando  le  condizioni  di
parita'  delle parti del processo, con un intervento che ha sfavorito
una  sola  di  esse,  riducendo  fortemente  quanto la stessa avrebbe
potuto chiedere o aveva in concreto preteso al momento della domanda,
non  ottenendo poi quanto poteva aspettarsi di ricevere per la durata
del procedimento amministrativo e/o per quella del processo.
    La  retroattivita' dei criteri di liquidazione dell'indennita' ha
insomma inciso anche sulla indennita' nei procedimenti amministrativi
in corso, anteriormente alla futura opposizione alla stima ancora non
proponibile  per  ragioni  imputabili  all'espropriante  (C. cost. 22
febbraio  1990,  n. 67)  e, per tale profilo, ha determinato comunque
una  ingerenza  del  legislatore  sul  presente  processo  a  sfavore
dell'espropriato  che,  senza tale norma, avrebbe potuto pretendere e
ottenere  una  maggiore  somma,  se  i  procedimenti amministrativi o
giurisdizionali  in  corso fossero stati conclusi prima della data di
entrata in vigore dell'art. 5-bis.
    In  effetti  la  CEDU,  nella  citata sentenza Scordino del 2006,
ritiene  violato  l'art. 6  della  Convenzione,  per  l'ingerenza del
legislatore  nei  procedimenti  e  processi  in corso a favore di una
delle  parti, in rapporto all'art. 1 del primo Protocollo addizionale
alla  Convenzione, proprio in quanto non risulta giustificata con una
rilevante  causa  di  pubblica  utilita'  la  perdita  di  una  parte
dell'indennita'  retroattivamente stabilita, mentre era gia' iniziato
il  procedimento  espropriativo ed era ancora in corso il processo di
liquidazione della indennita' (par. 132).
    Per  tale  profilo,  non si afferma in sede sovranazionale che la
retroattivita'  dell'art. 5-bis  comporti violazione del principio di
legalita', che deve fondare ogni privazione della proprieta', ma solo
che  la  ingerenza del potere legislativo sul funzionamento di quello
giudiziario,  con  l'alterazione  delle  condizioni  di parita' delle
parti,  non  e' nel caso giustificato in rapporto al tipo di pubblica
utilita' che si persegue con la realizzazione dell'opera per la quale
l'esproprio e' stato disposto.
    Risulta  quindi  palese  che nel caso, sulla presente opposizione
alla  stima  proposta  nel  1996  in  un  procedimento  espropriativo
iniziato sin dal 1991 e prima dell'entrata in vigore dell'art. 5-bis,
il diritto di proprieta' della ricorrente incidentale e' stato inciso
dall'intervento  normativo di cui all'articolo ora richiamato, che ha
modificato  a  favore dell'espropriante i criteri di liquidazione del
ristoro  dovuto  all'espropriato,  riducendo di oltre il 50% la somma
che  tale  parte  avrebbe  potuto  ottenere  in  caso  di  tempestiva
conclusione della procedura espropriativa e del conseguente processo.
    4.1.  -  La  stessa  CEDU,  con  diverse  sue  pronunce, ha ormai
definitivamente   chiarito   il  contrasto  con  l'art. 1  del  primo
Protocollo addizionale dei ristori indennitari e risarcitori previsti
per  le  acquisizioni  lecite  e  illecite  connesse  a  procedimenti
espropriativi  con  o  senza  causa di pubblica utilita' (cfr. con le
pronunce  della C.E.D.U. sopra citate, le sentenze della stessa Corte
30  ottobre  2003,  Belvedere  Alberghiera  contro Italia, 30 ottobre
2003,  Carbonara  e Ventura contro Italia, 11 dicembre 2003, Colacrai
contro Italia, 15 luglio 2005, Carletta contro Italia e Donati contro
Italia,  e  12 gennaio 2006 Sciarrotta contro Italia, caso questo del
quale  si  e'  decisa la ricevibilita' con il merito per essere ormai
certa  la  contrarieta'  della liquidazione della illecita privazione
della  proprieta'  in  Italia  per  causa di p.u. e 23 febbraio 2006,
Immobiliare  Cerro  contro Italia, sintomatico perche' e' il medesimo
caso  oggetto  della  citata  S.U.  6853/2003,  che  ha  ritenuto non
violativa  della  Convenzione  la  disciplina  della liquidazione del
risarcimento  dei  danni, di cui al comma 7-bis dell'art. 5-bis della
legge n. 359/1992).
    In  tale  contesto, la questione di illegittimita' costituzionale
dell'art. 5-bis per contrasto con il primo comma dell'art. 117 Cost.,
risolta   negativamente  prima  delle  modifiche  ad  esso  apportate
dall'art. 3  della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, appare
oggi anche essa non manifestamente infondata.
    E'  indubbio  che  le  norme  costituzionali  novellate, come gli
artt. 111  e  117 della Cost., pur se hanno effetto con la entrata in
vigore  delle  loro  modifiche,  incidono  con  queste non solo sulla
normativa   ordinaria  futura  ma  anche  su  quella  previgente,  da
dichiarare  illegittima  se  con esse contrastante (cosi' C. cost. 24
dicembre  2004,  n. 425  in  rapporto all'art. 117 Cost.) anche se il
legislatore    ha    poi    provveduto   a   regolare   l'adeguamento
dell'ordinamento  interno  statale  e  regionale  alla stessa novella
costituzionale  con le leggi 5 giugno 2003, n. 131 e 4 febbraio 2005,
n. 11.
    Si   deve   negare   che,  come  ritiene  una  dottrina  peraltro
minoritaria,  le norme costituzionali novellate in questi ultimi anni
possano  operare  solo su quelle ordinarie successive, senza incidere
sulla  legittimita'  di  quelle gia' vigenti che invece devono essere
dichiarate  illegittime ed abrogarsi per le parti in cui risultino in
contrasto,  anche  sopravvenuto,  con i principi nuovi inseriti nella
carta fondamentale.
    Nella  fattispecie,  puo'  affermarsi che l'eventuale riscontrata
violazione  da norme italiane di quelle della Convenzione europea dei
diritti  dell'uomo  gia'  vigenti  alla data di entrata in vigore del
nuovo  art. 117  Cost.,  ne  comporta  la sopravvenuta illegittimita'
costituzionale  che,  ovviamente,  nella  fattispecie, se dichiarata,
retroagirebbe  sin dalla data di entrata in vigore dell'art. 5-bis in
contrasto attuale con la norma della carta fondamentale.
    La   questione,   comunque,  non  e'  quella  che  la  ricorrente
incidentale   pure  prospetta  della  conformazione  dell'ordinamento
interno   alle   norme   del   diritto   internazionale  generalmente
riconosciute  di  cui all'art. 10 della Cost. (sul tema cfr. C. cost.
11  febbraio  1993,  n. 75),  ma  l'altra della incidenza delle norme
convenzionali  sovranazionali  sulla legislazione statale e regionale
in   materia   di   criteri   di  determinazione  dell'indennita'  di
espropriazione,  per  i  quali  lo  Stato italiano deve esercitare il
proprio potere legislativo in conformita' alla Convenzione, con leggi
statali  anche  quadro per quelle regionali, al fine di conformare le
norme interne a quelle internazionali.
    5.   -   In   conclusione,   vanno  dichiarate  rilevanti  e  non
manifestamente  infondate le questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 5-bis  del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito in legge
8 agosto 1992, n. 359:
        a) per  contrasto con l'art. 111, primo e secondo comma della
Costituzione,  in  relazione all'art. 6 della Convenzione europea dei
diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali e all'art. 1 del
primo  Protocollo addizionale a tale Convenzione, nella parte in cui,
disponendo l'applicabilita', ai procedimenti espropriativi in corso e
ai giudizi pendenti, dei criteri di determinazione dell'indennita' in
esso  contenuti per i suoli edificabili, viola il diritto a un giusto
processo  per  il soggetto espropriato e, in specie, le condizioni di
parita'   delle   parti   davanti   al   giudice,   lese  palesemente
dall'intromissione   del   legislatore   nell'amministrazione   della
giustizia,  con influenza chiara sulla risoluzione di una specifica e
determinata  categoria  di  controversie,  tese  alla  determinazione
dell'indennita' di espropriazione;
        b) per   contrasto   con   l'art. 117,   primo  comma,  della
Costituzione, in rapporto all'art. 1 del primo Protocollo addizionale
alla   richiamata   Convenzione,   nella  parte  in  cui,  disponendo
l'applicabilita'  dei  criteri  di  determinazione dell'indennita' in
esso  contenuti, attribuisce ai soggetti privati della proprieta' per
cause di pubblica utilita' di non eccezionale rilievo, un ristoro non
serio   ed  eccessivamente  riduttivo  del  valore  venale  del  bene
espropriato.
    Ai  sensi  dell'art. 23  delle  legge  11  marzo  1953, n. 87, la
dichiarazione   di  rilevanza  e  non  manifesta  infondatezza  della
questione  di legittimita' costituzionale comporta la sospensione del
processo   e   la   immediata  trasmissione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale.
                              P. Q. M.
    Riuniti  i  ricorsi,  dichiara  rilevanti  e  non  manifestamente
infondate le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 5-bis
del  d.l.  legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito in legge 8 agosto
1992,   n. 359,   per   contrasto  con  gli  artt. 111  e  117  della
Costituzione,  anche in rapporto all'art. 6 della Convenzione europea
dei diritti dell'uomo e all'art. 1 del primo Protocollo addizionale a
tale Convenzione.
    Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e la
sospensione del giudizio.
    Ordina  che,  a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
notificata  alle  parti  in  causa  e al Presidente del Consiglio dei
ministri  e  sia  comunicata  ai  Presidenti  delle  due  Camere  del
Parlamento.
    Cosi'  deciso  in Roma, nella Camera di consiglio della I sezione
civile della Corte di cassazione, il 26 settembre 2006.
                      Il Presidente: Criscuolo
07C0103