N. 14 ORDINANZA (Atto di promovimento) 26 maggio 2006

Ordinanza   emessa   il   26   maggio   2006  (pervenuta  alla  Corte
costituzionale  il 10 gennaio 2007) dalla Corte di appello di Brescia
nel procedimento penale a carico di Ciarrapico Tullio ed altri

Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il
  pubblico  ministero  di  proporre  appello  contro  le  sentenze di
  proscioglimento   -   Preclusione,   salvo  nelle  ipotesi  di  cui
  all'art. 603,  comma 2,  se  la nuova prova e' decisiva - Contrasto
  con  il  principio  di ragionevolezza - Disparita' di trattamento a
  fronte della prevista possibilita' per lo stesso pubblico ministero
  di  proporre  appello contro una sentenza di condanna - Lesione del
  diritto  di  difesa  - Violazione del principio del contraddittorio
  nella   parita'   delle   parti   -   Contrasto  con  il  principio
  dell'obbligatorieta' dell'azione penale.
- Codice  di  procedura penale, art. 593, come sostituito dall'art. 1
  della legge 20 febbraio 2006, n. 46.
- Costituzione, artt. 3, 24, 111 e 112.
(GU n.7 del 14-2-2007 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Sulla  eccezione  di  illegittimita' costituzionale dell'art. 593
c.p.p.,  come  modificato  dall'art.  10,  legge  n. 46/2006, e sulla
richiesta  di  declaratoria di inammissibilita' dell'appello proposto
da  talune  delle  parti  civili,  propone  all'odienra  udienza  dal
procuratore generale;

                          Osserva in fatto

    Il  28  febbraio  1981  veniva  costituita  in  Bergamo la S.p.A.
Investeditor,  avente ad oggetto attivita' nei settori dell'editoria,
della  pubblicita',  delle  arti  grafiche, dell'informazione e della
produzione    e    diffusione    di   programmi   cinematografici   e
radiotelevisivi.  L'attivita'  della  societa'  veniva  diretta nella
edizione del quotidiano Il Giornale di Bergamo Oggi.
    Il  26  gennaio  1989  la  maggioranza del capitale sociale della
Investeditor  veniva  acquisita  dalla  S.r.l.  EDA,  facente  capo a
Ciarrapico  Giuseppe;  quest'ultimo  assumeva la carica di presidente
del  consiglio di amministrazione, il di lui figlio Ciarrapico Tullio
quella  di  consigliere  delegato e Tesei Fabio quella di procuratore
generale.
    Il   31   dicembre   1990   la  maggioranza  delle  azioni  della
Investeditor  veniva  ceduta  dalla  EDA  alla  Fondazione  Accademia
Europea CRS IDEA di Dalmine.
    Il 19 gennaio 1991 la societa' veniva trasformata in S.r.l., e la
carica  di presidente del consiglio di amministrazione veniva assunta
da  Ciarrapico  Tullio.  Del  consiglio  facevano  parte  negli  anni
successivi,  oltre  al  gia'  nominato Tesei Fabio, Iannelli Eugenio,
Bonazzola  Marcello,  Seganfreddo Luciano, De Santis Giovanni e Melzi
Omar.
     Il quotidiano gestito dalla societa' adottava a partire dal 1990
una  diversa  tecnica  redazionale,  per la quale le pagine nazionali
venivano  fornite  da un'agenzia romana collegata alle societa' della
famiglia  Ciarrapico,  la  quale  gia'  svolgeva tale servizio per le
testate Ciociaria Oggi e Latina Oggi. Nel corso di quell'anno 1990 la
Investeditor  cominciava a sua volta a predisporre le pagine locali e
talune pagine nazionali, che venivano trasmesse ai quotidiani romani.
    La  Investeditor,  dopo  aver  registrato  a bilancio consistenti
perdite negli anni 1989 e 1990, riportava modesti utili fino al 1993,
dopodiche' manifestava nel 1994 perdite per L. 2.478.000.000.
    Il  31 agosto 1994 la famiglia Ciarrapico cedeva le proprie quote
alla  S.r.l.  Edifin  Finanziaria Editoriale, facente capo a Giupponi
Umberto;  questi  assumeva  la  carica di presidente del consiglio di
amministrazione,  mentre  Agliardi Dorino veniva nominato consigliere
delegato e procuratore della societa'.
    Con  sentenza  in  data  10  ottobre 1995 il Tribunale di Bergamo
dichiarava  il  fallimento  della Investeditor, nominando curatore il
rag. Bombardieri Fabio. Nella relazione da questi presentata venivano
evidenziati i fatti di cui alle imputazioni.
    Nel  corso del procedimento si costituivano parti civili, fra gli
altri,  i  dipendenti  della Investeditor Zapperi Cesare, Sciacovelli
Barbara, Barachetti Pietro, Carminati Fabio e Carrara Sergio.
    Con  l'impugnata  sentenza  del  Tribunale  di  Bergamo in data 8
ottobre 2003 Giupponi Umberto veniva condannato alla pena di anni due
di  reclusione,  nonche'  al  risarcimento  dei danni in favore delle
costituite  parti  civili,  per  il  reato di bancarotta fraudolenta;
Ciarrapico  Tullio, Iannelli Eugenio, Bonazzola Marcello, Seganfreddo
Luciano,  Tesei  Fabio,  De  Santis  Giovanni,  Melzi Omar e Agliardi
Dorino  venivano  invece  assolti  dalle  imputazioni  di  bancarotta
fraudolenta,  dichiarazioni fiscali fraudolente, emissione di fatture
fittizie e truffa.
    Avverso  la  citata  sentenza presentavano appello il Procuratore
della  Repubblica  presso  il  Tribunale di Bergamo e le parti civili
costituite,  chiedendo che venisse ritenuta la responsabilita' penale
degli  imputati  assolti  in  primo  grado  per  i  fatti  di seguito
indicati,  nonche' l'imputato Gipponi avverso la sentenza di condanna
nei suoi confronti.
      In  data 18 maggio 2006 le parti civili Zapperi Cesare, Carrara
Sergio,  Carminati  Fabio,  Sciacovelli  Barbara  e Barachetti Pietro
dichiaravano di rinunciare all'appello proposto.

                         Osserva in diritto

    Deve   preliminarmente   osservarsi  che  l'intervenuta  rinuncia
all'appello   delle   parti  civili  in  premessa  indicate  comporta
declaratoria  di  inammissibilita' dell'impugnazione, con conseguente
condanna alle spese.
    Cio' posto, con la norma della cui legittimita' costituzionale il
procuratore  generale  dubita  la  disciplina  dei  casi  di  appello
prevista  dall'art.  593 c.p.p. e' stata profondamente modificata con
particolare    riguardo    all'appellabilita'   delle   sentenze   di
proscioglimento  pronunciate  in  primo  grado,  con esclusione delle
sentenze   emesse  a  seguito  di  giudizio  abbreviato  e  di  altre
specificamente  indicate.  La  previgente  normativa  escludeva  tale
appellabilita'  al  terzo  comma  del  citato  art.  593,  sia per il
pubblico  ministero che per l'imputato, con riferimento alle sentenze
relative a contravvenzioni punite con la pena dell'ammenda o con pena
alternativa, ed al secondo comma, limitatamente al solo imputato, per
le  sentenze  di  proscioglimento perche' il fatto non sussiste o per
non aver commesso il fatto.
    Per   effetto  della  recentissima  modifica,  il  secondo  comma
dell'art.  593,  nell'attuale  formulazione, consente ora al pubblico
ministero   ed  all'imputato  di  appellare  contro  le  sentenze  di
proscioglimento  solo  allorche'  con  i  motivi di appello, ai sensi
dell'art.   603   cpv.   c.p.p.,   venga  richiesta  la  rinnovazione
dell'istruzione dibattimentale per l'assunzione di prove sopravvenute
o  scoperte dopo il giudizio di primo grado, e dette prove abbiano il
carattere   della   decisivita';  prevedendosi  dal  punto  di  vista
procedurale  che  il giudice dell'appello, ove in via preliminare non
ammetta la rinnovazione dell'istruttoria, dichiari l'inammissibilita'
dell'appello,  e  che entro il termine di quarantacinque giorni dalla
notificazione  della  relativa  ordinanza  le  parti possano proporre
ricorso per cassazione anche avverso la sentenza di primo grado.
    L'art.  10 legge n. 46/2006 prevede poi che la legge stessa trovi
applicazione  per  i  procedimenti in corso; disponendo che l'atto di
appello  proposto  avverso  una  sentenza  di  proscioglimento  prima
dell'entrata   in   vigore   della  nuova  normativa  sia  dichiarato
inammissibile  con  ordinanza non impugnabile, e che entro il termine
di  quarantacinque  giorni  dalla notificazione di quest'ultima possa
essere  presentato  ricorso  per  cassazione  avverso la decisione di
primo grado.
    Tanto  premesso,  e  richiamando  quanto  precedentemente esposto
sulla  vicenda  processuale,  e'  evidente  la rilevanza nel presente
giudizio  della  questione  proposta  dal  procuratore  generale.  Al
procedimento  in  esame,  per effetto della citata norma transitoria,
deve  senz'altro  applicarsi, invero, la nuova disciplina; essendo di
conseguenza  l'appello  in  discussione  soggetto  a  declaratoria di
inammissibilita',  con  la  conseguente possibilita', per il pubblico
ministero  appellante,  di  esperire  il  ben  diverso  e  tutto piu'
delimitato rimedio del ricorso per cassazione 1).
    Il   requisito   della   rilevanza   dell'eccezione   e'   dunque
sussistente.
    Altrettanto  deve  concludersi, peraltro, in ordine all'ulteriore
presupposto della non manifesta infondatezza della questione.
    E'  opportuno  premettere  che, per quanto la novella legislativa
abbia  ad  oggetto l'appellabilita' delle sentenze di proscioglimento
da  parte  sia  dell'imputato  che  del  pubblico  ministero,  e' nei
confronti  di quest'ultimo che la limitazione dell'accesso al gravame
in  discussione  assume  portata  preponderante  e,  sostanzialmente,
rilievo   centrale.   All'imputato  era  invero  gia'  inibita  dalla
precedente   normativa  la  possibilita'  di  appellare  sentenze  di
proscioglimento  con  formula  piena. Ma, a prescindere da questa pur
pregnante   circostanza,   non  occorre  spendere  molte  parole  per
evidenziare  come in generale, a fronte di una pronuncia assolutoria,
l'interesse  ad  impugnare  si  concentri  in  concreto  sul pubblico
ministero piu' che sull'imputato.
    L'incidenza   di   una   siffatta   limitazione   sui  poteri  di
impugnazione  del  pubblico  ministero  non  richiede,  a  sua volta,
particolare  commento.  E'  sufficiente osservare come per effetto di
essa   l'ufficio   della   pubblica  accusa  si  veda  privato  nella
grandissima maggioranza dei casi del potere di appellare una sentenza
di  proscioglimento  in  primo  grado.  L'esercizio  di  tale  potere
presuppone  infatti,  nell'attuale  previsione  normativa,  che nuove
prove  siano  emerso  dopo il giudizio di primo grado; e, per giunta,
che  esse  si  presentino  come  decisive  per  il  giudizio.  Ove la
marginalita' statistica di una situazione cosi' descritta puo' essere
agevolmente apprezzata da chiunque abbia minima esperienza delle cose
giudiziarie.
    Una  deprivazione  di facolta' processuali di tale portata impone
un   controllo   sulla   ragionevolezza   della  relativa  previsione
normativa;  e  cio'  soprattutto  nel  momento  in  cui  le  predette
facolta',  in  quanto riferite alla figura istituzionale del pubblico
ministero,   si   ricollegano  a  valori  di  fondamentale  rilevanza
costituzionale.
    Viene in risalto in primo luogo, a questo proposito, il principio
dell'obbligatorieta'  dell'esercizio dell'azione penale, da parte del
pubblico ministero, di cui all'art. 112 della Costituzione.
    La  centralita'  del  principio in parola nel sistema complessivo
della  giurisdizione penale e' data, vale la pena qui ricordarlo, non
solo dal suo contenuto specifico; ma altresi' dalla sua funzionalita'
alla  concreta  attuazione  di  valori a loro volta caratterizzati da
valenza costituzionale.
    E'   dato   acquisito   da   tempo  nella  stessa  giurisprudenza
costituzionale,  formatasi sulle norme del codice di procedura penale
ora  vigente  a  partire dalla sua entrata in vigore, che l'esercizio
dell'azione  penale  da  parte  del pubblico ministero, ufficio non a
caso  interno ed integrante dell'ordine giudiziario nella visione del
legislatore   costituente,   sia   manifestazione   del  fondamentale
principio.  di  legalita',  di cui all'art. 25 della Cosituzione, nel
suo aspetto sostanziale; in quanto esso esprime, cioe', la necessita'
che  alla commissione di reati, lesivi di interessi e valori spesso a
loro  volta  di  rango costituzionale o comunque di elevata rilevanza
sociale, segua l'inflizione di una pena 2).
    Non va peraltro trascurato, in questa prospettiva, il rilievo del
diritti  di  difesa  garantito  dall'art. 24 della Costituzione anche
alle  parti  offese dei reati. Diritto che non puo' ritenersi attuato
dalle  sole  norme  connesse all'istituto della costituzione di parte
civile nel processo penale; rispetto al quale, a dire il vero, l'art.
6  legge n. 46/2006, modificando l'art. 576 c.p.p. con l'escludere il
riferimento  operativo  della  facolta'  di  impugnazione della parte
civile  al  mezzo  di  gravame  previsto  per  il pubblico ministero,
continua  a  rendere possibile l'appello di essa parte civile avverso
la  sentenza  di  proscioglimento  di  primo  grado, sia pure ai soli
effetti  della responsabilita' civile. L'esercizio dell'azione penale
da  parte del pubblico ministero vale infatti ad offrire alle vittime
dei  reati  l'essenziale  tutela  del  loro  legittimo  interesse  ad
ottenere  giustizia,  a  prescindere  dalle  possibilita'  che  dette
vittime  in  concreto  abbiano  di  accedere  al processo nelle forme
dell'azione civile ivi direttamente intrapresa.
    Detto  questo,  e'  ben  vero  che  la giurisprudenza della Corte
costituzionale  ha  affermato  come il potere di appello del pubblico
ministero  non  possa  essere  ricondotto  all'obbligo  di esercitare
l'azione  penale  3).  Ma  e' vero altresi' che il principio e' stato
dalla stessa giurisprudenza successivamente chiarito nel senso che la
facolta' di impugnazione non costituisca «estrinsecazione necessaria»
dell'esercizio  dell'azione  penale  4).  Detta  facolta' rappresenta
dunque  non  piu' che uno dei possibili sviluppi, e non il necessario
prolungamento   dell'azione   penale;   ma,  in  questa  prospettiva,
limitazioni particolarmente consistenti al potere di impugnazione non
possono  che  riverberarsi  sulla  completezza  delle possibilita' di
esercizio dell'azione. E qui ci troviamo di fronte, come si e' visto,
ad una deminutio del potere di appello del pubblico ministero tale da
ridurre lo stesso a casi marginali, per non dire estremi.
    Avuto riguardo al contesto di valori costituzionalmente rilevanti
di  cui  le  opportunita'  di  esercizio dell'azione penale sono, per
quanto   esposto,   espressione,   diviene   assolutamente   doveroso
interrogarsi  sulla  possibilita',  per  il legislatore ordinario, di
apporre  a  detto  esercizio  limitazioni di tale entita' nell'ambito
della  normale  discrezionalita'  legislativa; e sulla necessita', di
contro,  che  una  scelta  di  questo  genere  debba  essere ancorata
rigorosamente ad un canone di ragionevolezza.
    Vi  e'  pero'  anche un altro profilo di rilevanza costituzionale
che deve essere oggetto di analisi in questa prospettiva; che attiene
al  principio  del  contraddittorio  processuale  posto dall'art. 111
Cost..
    E'  appena  il  caso  di  precisare  che  qui non si intende fare
riferimento  al  principio del contraddittorio nella formazione della
prova,  di  cui  al  quarto  comma  della norma costituzionale appena
citata,  Oggetto  di  attenzione  deve essere invece il piu' generale
richiamo  del  secondo  comma  dell'articolo  alla  necessita' che il
processo  si svolga nel contraddittorio fra le parti ed in condizioni
di parita' delle stesse.
    Il  contraddittorio,  invero, assurge qui a valore che pervade il
processo  nella  sua interezza; e quindi necessariamente coinvolge la
fase dell'appello, che del processo costituisce passaggio essenziale.
Ed  e',  soprattutto,  valore  in  se' considerato, a prescindere dai
contingenti  interessi  delle  parti;  il  contraddittorio e' binario
privilegiato  del  percorso  processuale, garanzia di approssimazione
quanto  piu'  efficace possibile alla verita'. Ed in questa linea, la
parita'  fra  le  parti,  prima che tutela delle stesse, e' oggettiva
esigenza di un contraddittorio reale.
    Se  cosi'  e',  la  parita'  di cui si parla non puo' che inerire
anche  alla fase dell'appello; e, nell'ambito di essa, al suo momento
introduttivo  e  fondante,  ossia  la  definizione dei casi in cui e'
consentito appellare.
    Ed  allora,  non  e'  chi  non  veda  come  la  norma  della  cui
legittimita'  si discute introduca un evidente dato di squilibrio fra
le  parti; impedendo quasi totalmente al pubblico ministero l'appello
in  caso  di  esito  assolutorio del giudizio di primo grado, laddove
nell'opposto risultato della pronuncia di responsabilita' e' concessa
all'imputato piena facolta' di impugnazione.
    Questa   Corte   non   ignora   che   la  recente  giurisprudenza
costituzionale  5)  ha  ritenuto  che  il principio della parita' nel
contraddittorio non comporti necessariamente l'identita' fra i poteri
processuali  delle parti. Ma, anche in questo caso, cio' che e' stato
escluso e' un vincolo di derivazione necessaria ed assoluta fra i due
elementi.  Rimane  tutto  da  valutare,  quindi,  se  in  concreto la
disparita'  fra  determinati  poteri, a cagione della loro rilevanza,
non  alteri  in misura intollerabile l'equilibrio imposto dalla norma
costituzionale;  e,  soprattutto,  se  di  tale  disparita'  non vada
pretesa una giustificazione che la renda ragionevole.
    In  questa  ottica,  le possibilita' di appello, per quanto detto
pocanzi,  ineriscono ad uno snodo fondamentale del processo; una loro
impari   distribuzione   fra  le  parti  rientra  dunque  fra  quelle
situazioni   nelle   quali   la   non  sovrapponibilita'  dei  poteri
processuali    pregiudica   significativamente   il   principio   del
contraddittorio.
    Anche  per questo aspetto dunque, come per quello precedentemente
esaminato,  occorre  sottoporre la scelta legislativa che ha prodotto
la  modifica  dell'art.  593  c.p.p.  ad  un  accurato  scrutinio  di
ragionevolezza.
    Le  diverse  considerazioni che precedono portano dunque a quello
che  a  questo  punto  si presente come il cuore del problema; vale a
dire,  la  compatibilita'  della  norma esaminata con il principio di
ragionevolezza,   desumibile,   come   e'  noto,  dall'art.  3  della
Costituzione.  Ragionevolezza  che  deve  pero' essere valutata nella
prospettiva  della  tollerabilita' del sacrificio che la norma impone
agli  altri valori costituzionali fin qui menzionati; segnatamente il
principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale, nel suo profilo di
stretta   funzionalita'   ai   valori   del  principio  di  legalita'
sostanziale  e  del  diritto di difesa delle vittime dei reati, ed il
principio  del  contraddittorio  nella  parita'  delle parti, che da'
forma al giusto processo.
    Ebbene,  un  esame  condotto  in  questa  direzione  non puo' che
condurre  ad  un  giudizio di irragionevolezza della norma; dovendosi
ritenere il vulnus inferto ai principi appena citati non giustificato
da alcuna esigenza meritevole di considerazione.
    E'  da  escludersi in primo luogo la ricorrenza nella fattispecie
di  ragioni  corrispondenti  o  similari  a  quelle  che  ispirano la
previsione  di altre e diverse limitazioni dei poteri processuali del
pubblico ministero; giudicate coerenti con il dettato costituzionale,
sotto  il  profilo  del  principio  del  contraddittorio,  dalle gia'
segnalate  decisioni  della  Corte costituzionale. Quali l'esclusione
della  possibilita' per il pubblico ministero di presentare l'atto di
impugnazione  nella  cancelleria  del tribunale, diversa dal luogo di
emissione del provvedimento impugnato, ove lo stesso si trovi, di cui
all'art. 582  cpv.  c.p.p.  6),  evidentemente  sorretta da motivi di
celerita'  processuale;  o  l'inappellabilita',  anche in prospettiva
incidentale, da parte del pubblico ministero, della sentenza emessa a
seguito  di  giudizio  abbreviato,  di  cui  all'art. 443 comma terzo
c.p.p.,  ove  ad analoghe ragioni di speditezza si aggiunge l'intento
di  favore  per l'adozione di riti deflattivi 7). Nel caso di specie,
non   e'  ravvisabile  alcun  risultato  di  accelerazione  dell'iter
processuale  che  giustifichi  la  scelta  legislativa la sostanziale
soppressione  di  un  mezzo  di  impugnazione disponibile al pubblico
ministero.
    Neppure  puo'  attribuirsi  rilievo  alla  particolare  posizione
istituzionale che il pubblico ministero assume nel nostro ordinamento
giudiziario; posizione caratterizzata dalla doverosa ricerca di prove
favorevoli  all'imputato  in  sede  di  indagine  e  da  un'obiettiva
considerazione  degli elementi a carico dell'imputato stesso, che non
vincola  l'ufficio  dell'accusa a richieste che siano necessariamente
intese  a  sollecitare una conclusione in termini di condanna. Questi
rilievi  sono  infatti superati nel momento in cui ci sin trovi nella
fase   processuale  a  cui  attiene  la  norma  in  discussione;  che
presuppone  la  conseguita  determinazione  del pubblico ministero di
impugnare  la  pronuncia  assolutoria di primo grado per ottenere una
sentenza  di  condanna, e quindi una valutazione culminata, pur nella
particolare  prospettiva che connota l'operato dell'ufficio d'accusa,
nel  giudizio di sussistenza di congrue prove a carico dell'imputato.
Il  che  da  un  lato  pone il pubblico ministero nella condizione di
proseguire  in  secondo  grado  nell'esercizio  dell'azione penale in
attuazione  dei  valori  di  legalita'  e difesa sociale di cui si e'
ampiamente  detto;  e  dall'altro  esige  che il processo mantenga un
equilibrato  contraddittorio  fra  tali ragioni e quelle della difesa
dell'imputato,  perche' nessuna opportunita' di ricerca della verita'
venga ad essere sottratta al giudizio.
    Non puo' infine essere invocata, come correttamente osservato dal
Procuratore  generale,  la previsione del primo comma dell'art. 2 del
protocollo  11  della  Convenzione  europea  sulla  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificato con legge
n. 296/1997.  Se  e'  vero infatti che la citata disposizione prevede
che  chiunque  venga dichiarato colpevole di una infrazione penale da
un  tribunale  ha  il  diritto  di  sottoporre  ad un tribunale della
giurisdizione  superiore  la dichiarazione di colpa o la condanna, e'
vero  altresi'  che  il  secondo comma dello stesso articolo consente
eccezione  al  principio  nel  caso in cui la persona interessata sia
stata  giudicata in prima istanza da un tribunale della giurisdizione
piu'  elevata o sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito
di   un   ricorso   avverso   il  suo  proscioglimento;  indicazione,
quest'ultima, puntualmente corrispondente alla normativa preesistente
all'intervento legislativo oggetto della questione.
    Non   puo'  sottacersi,  di  contro,  come  la  nuova  disciplina
dell'art.  593 c.p.p. crei un'irragionevole disparita' di trattamento
laddove per un verso impedisce al pubblico ministero l'appello contro
sentenze  di proscioglimento e per altro mantiene la possibilita' per
lo  stesso  pubblico ministero di appellare una sentenza di condanna;
in  tal  modo  privilegiando  la  cura di un interesse processuale di
indubbiamente minore consistenza.
    Queste  considerazioni  inducono  a  ritenere  non manifestamente
infondata  la  questione di legittimita' della norma in oggetto con i
richiamati artt. 24, 111 e 112 della Costituzione; e quindi esistenti
i  presupposti di legge perche' gli atti vengano trasmessi alla Corte
costituzionale  per  la  decisione  in  merito,  con  la  conseguente
sospensione  del procedimento, limitatamente peraltro all'addebito di
cui  aIl'art. 189 cod. strad., per la cui decisione non e' necessaria
una  trattazione  congiunta  con quella relativa all'appello proposto
dal difensore in ordine al delitto di omicidio colposo.
          1)  Pur avuto riguardo all'ampliamento dei casi del ricorso
          per  cassazione  operato  dall'art.  8  della  stessa legge
          n. 46/2006  con  l'inserimento,  nel  testo  dell'art.  606
          c.p.p.,  della  mancata  assunzione  di  una prova decisiva
          anche   laddove   richiesta   nel   corso   dell'istruzione
          dibattimentale  e  della  contraddittorieta'  o illogicita'
          della   motivazione   risultante   da   atti  del  processo
          specificamente indicati dal ricorrente.
          2) Il relativo percorso culminava nella sentenza n. 111 del
          26   marzo   1993,  con  la  quale  si  riteneva  infondata
          l'eccezione  di illegittimita' costituzionale dell'art. 507
          c.p.p.   sul   presupposto  che  detta  norma  subordinasse
          l'assunzione  di  prove  non  indicate  dalle parti al solo
          requisito  dell'assoluta necessita' ai fini del giudizio, a
          prescindere  dall'eventuale inerzia o intempestivita' delle
          parti.
          3) V. sent. n. 206 del 27 giugno 1997.
          4)  V. sent. n. 110 del 1° aprile 2003; n. 165 del 9 maggio
          2003.
          5)  Sent.  n. 110  del  1° aprile 2003; n. 165 del 9 maggio
          2003; n. 46 del 27 gennaio 2004.
          6)  Sent.  n. 110  del  1° aprile 2003; n. 165 del 9 maggio
          2003; n. 46 del 27 gennaio 2004.
          7)  Sent.  n. 165  del  9 maggio 2003; n. 46 del 27 gennaio
          2004.
                              P. Q. M.
    Visto   l'art. 231.   n. 87   del  1953,  dichiara  inammissibile
l'appello proposto dalle parti civili Zapperi Cesare, Carrara Sergio,
Carminati  Fabio,  Sciacovelli Barbara e Barachetti Pietro e condanna
le stesse, in solido, al pagamento delle spese processuali del grado;
    Dichiara  rilevante  ai fini della definizione del giudizio e non
manifestamente  infondata la questione di legittimita' costituzionale
relativa al contrasto dell'art. 593 c.p.p., come modificato dall'art.
11.   legge   n. 46/2006,  con  gli  artt.  3,  24,  111,  112  della
Costituzione;
    Dispone  la  trasmissione  degli  atti alla Corte costituzionale,
mandando   alla   cancelleria   per  la  notifica  dell'ordinanza  al
Presidente   del   Consiglio  dei  ministri  e  la  comunicazione  ai
Presidenti  delle  due  Camere  del  Parlamento,  e  per  la notifica
all'imputato contumace.
    Sospende il giudizio.
        Brescia, addi' 26 maggio 2006
                        Il Presidente: Pianta
07C0151