N. 268 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 aprile 2006
Ordinanza emessa il 6 aprile 2006 dalla Corte di appello di Napoli nel procedimento penale a carico di Cioce Vitale ed altro Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento - Preclusione (salvo per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la nuova prova e' decisiva) - Violazione del principio di ragionevolezza - Contrasto con il principio della parita' delle parti - Lesione del principio della ragionevole durata del processo. - Codice di procedura penale, art. 593, comma 2, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46; legge 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10. - Costituzione, artt. 3, primo comma, e 111, comma secondo.(GU n.1000 del 26-4-2007 )
LA CORTE DI APPELLO Ha emesso la seguente ordinanza. All'esito del giudizio di primo grado, con sentenza emessa in data 14 gennaio 2003, il Tribunale di Napoli, proscioglieva gli imputati Cioce Vitale e Cioce Alfonso dai reati di violazione di sigilli e di violazione delle leggi urbanistiche; tale sentenza veniva pero' appellata dal p.g. e riformata dalla Corte di appello di Napoli che, con decisione del 13 febbraio 2004, condannava i predetti imputati in ordine al reato di violazione di sigilli; tale pronunzia veniva pero' poi annullata dalla Corte di cassazione che, con sentenza del 26 ottobre 1994, rinviava gli atti alla Corte di appello di Napoli per un nuovo giudizio. Questa Corte dovrebbe pertanto oggi decidere in ordine all'appello del p.g. presentato avverso la sentenza di primo grado. Il p.g., nella presente udienza, ha pero' sollevato una questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593 comma due c.p.p. nella parte in cui esclude la possibilita' per il p.m./p.g. di appellare le sentenze di proscioglimento e cio' per contrasto con gli art. 3, 111, secondo comma della Costituzione (prospettando il contrasto della norma citata con riferimento al principio della parita' delle parti, della ragionevolezza del principio della ragionevole durata del processo. La difesa dell'imputato si e' rimessa alla Corte. Osserva innanzi tutto questa Corte che, ai sensi dell'art. 23 secondo comma, legge n. 87/1953, palese appare la rilevanza per il presente processo della questione sollevata dal p.g.: ove infatti si dovesse immediatamente applicare, ex art. 10, legge n. 46/2006, la disposizione di cui all'art. 593, secondo comma c.p.p. cosi' come novellato (alla luce di tali disposizioni si dovrebbe emettere un'ordinanza di dichiarazione di inammissibilita' dell'appello del p.m. e cio' perche' ai sensi dell'indicata norma avrebbe dovuto trovare immediata applicazione anche nei processi in corso l'art. 593 c.p.p. cosi' come novellato dall'art. 1 della predetta legge: tale norma infatti, nel suo secondo comma, limita il potere d'appello del p.m. avverso le sentenze di proscioglimento alla sola ipotesi della sopravvenienza di nuove prove, circostanza insussistente nella fattispecie), tale applicazione comporterebbe una diversa disciplina del presente processo nel senso che non sarebbe possibile per questa Corte esaminare i motivi d'appello proposti dal p.g. appellante avverso la pronunzia di proscioglimento, come invece sarebbe consentito ove vi fosse una dichiarazione di incostituzionalita' della stessa. E dunque, una volta riconosciuta la rilevanza della questione proposta, va ora valutato se la stessa sia o meno «manifestamente infondata». E' bene subito rilevare sul punto che, secondo questa Corte, tale giudizio deve essere formulato tenendo ben presenti i limiti dello stesso, e cioe' nel senso che cio' che si deve valutare non e' tanto la fondatezza o meno della questione di legittimita' costituzionale sollevata (giudizio di esclusiva competenza della Corte costituzionale), quanto piuttosto, se la stessa sia o meno «manifestamente infondata», risultando tale solo quella in riferimento alla quale i dubbi prospettati siano davvero insussistenti, oppure non effettivi e reali ma solo apparenti, non superabili con il richiamo ad altri principi di rango costituzionale o con interpretazioni costituzionalmente orientate. Va infatti ricordato che l'art. 1 della legge cost. n. 1/1948 statuisce che «la questione di legittimita' costituzionale di una legge ... rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata e' rimessa alla Corte costituzionale per la sua decisione». Ebbene nella fattispecie non puo' che convenirsi con il p.g. proponente (tranne che in ordine al presunto contrasto con l'art. 112 Cost.) che plurimi e fondati appaiono i dubbi di legittimita' costituzionale della norma in esame (art. 593, comma secondo cosi' come novellato), dubbi che portano a ritenere, con tranquillante sicurezza, che la questione prospettata sia realmente non manifestamente infondata. E valga il vero. Un primo piu' che fondato dubbio di legittimita' costituzionale della norma citata si pone con riferimento all'art. 111, secondo comma della Costituzione laddove lo stesso dispone che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita', davanti ad un giudice terzo e imparziale». L'art. 593 c.p.p. cosi' come novellato prevede invero al primo comma la possibilita' per il p.m. e l'imputato di proporre appello contro le sentenze di condanna ed al secondo comma la possibilita' di appellare le sentenze di proscioglimento solamente se il p.m. o l'imputato appellante abbiano chiesto una prova nuova e decisiva. Appare davvero evidente che il principio di parita' di cui all'art. 111, secondo comma della Costituzione e' solo apparentemente rispettato: la presunta parita' prevista dalla nuova formulazione dell'art. 593 e' infatti una parita' solo formale in quanto risulta davvero palese che, di fronte ad una sentenza di proscioglimento, l'unica parte che abbia realmente un «interesse» ad impugnare e' solo ed esclusivamente il p.m.; per altro l'art. 568 c.p.p. n. 4 sancisce espressamente che «per proporre impugnazione e' necessario avervi interesse» e l'art. 591, comma 1, lett. a) c.p.p. dispone che «l'impugnazione e' inammissibile quando e' proposta da chi non e' legittimato o non ha interesse»: e pertanto, una volta riconosciuto in fatto che assolutamente alcun interesse puo' avere l'imputato ad appellare contro le sentenze di proscioglimento, va altresi' rilevata l'impraticabilita' in diritto di un tale appello, tenuto anche conto che sul punto la Cassazione e' sempre stata estremamente rigorosa nello statuire l'inammissibilita' dell'appello dell'imputato prosciolto in primo grado: si veda da ultimo s.u. sent. n. 20 del 30 ottobre 2003. La norma in esame finisce in sostanza con il limitare il potere d'appello all'unica parte che ha reale interesse ad impugnare una sentenza assolutoria, e cioe' al p.m. Ne' puo' replicarsi che comunque il p.m. ha il potere di ricorrere in Cassazione: il ricorso in cassazione non ha e non potra' mai avere infatti la stessa estensione dell'atto di appello, e cio' perche' mentre quest'ultimo attiene al merito, il primo potra' avere ad oggetto solo determinati profili di legittimita' tassativamente previsti dalla nuova formulazione dell'art. 606 c.p.p. Va inoltre rilevato sul punto che elementi a supporto della tesi contraria alle considerazioni suesposte (tesi secondo cui sarebbe legittima una limitazione dell'appello del p.m. avverso le sentenze di proscioglimento) non possono certo desumersi (come invece e' stato prospettato da alcuni difensori in udienza) dal contenuto di convenzioni internazionali, atteso infatti che l'art. 2 del protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo delle liberta' fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, dopo avere stabilito al primo comma che «ogni persona dichiarata rea da un tribunale ha diritto di far esaminare la colpevolezza o la condanna da un tribunale superiore» (prescrizione che secondo la sentenza n. 288/1997 della Corte costituzionale e' adempiuta dalla ricorribilita' in Cassazione di tutte le sentenze di condanna), al secondo comma prevede espressamente delle eccezioni, quali l'ipotesi in cui «l'interessato e' stato dichiarato colpevole e condannato a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento». E pertanto, come e' davvero agevole rilevare dalla lettura di tale disposizione, la fattispecie della condanna in grado di appello che segue ad una assoluzione di primo grado e' perfettamente conforme non solo al diritto costituzionale ma anche alle Convenzioni internazionali alle quali l'Italia ha aderito. Ne', sotto altro profilo, puo' argomentarsi che la eventuale condanna in appello pronunziata a seguito di impugnazione del p.m. avverso una sentenza di proscioglimento violerebbe il presunto principio del «doppio grado di giurisdizione di merito»: sul punto va infatti rilevato che tale presunto principio e' insussistente sia in ambito di convenzioni internazionali (si veda quanto poco piu' sopra argomentato in ordine alla previsione, nella convenzione di Strasburgo, di una condanna emessa in appello dopo un proscioglimento in primo grado), sia nel nostro ordinamento: la Corte costituzionale infatti ha piu' volte affermato che il «doppio grado di giurisdizione di merito non forma oggetto di garanzia costituzionale» (si veda tra le altre l'ordinanza n. 421/2001), non essendo per altro possibile ipotizzare che lo stesso discenda da convenzioni internazionali, con riferimento ad esempio al gia' citato art. 2 del della conv. di Strasburgo «poiche' tale disposizione non legittima una interpretazione per cui il riesame ad opera di un tribunale superiore debba coincidere con un giudizio di merito, ma consente di ritenere che il principio si sostanzia nella previsione del ricorso in Cassazione gia' presente nella Costituzione italiana» (sentenza Corte cost. n. 288/1997). Inoltre la norma in esame presenta evidenti dubbi di legittimita' costituzionale anche con riferimento al principio di uguaglianza previsto dall'art. 3 della Costituzione, con riferimento al principio della ragionevolezza che in esso trova fondamento (nel senso che il principio di uguaglianza riguarda il dovere di trattare nello stesso modo casi uguali e trova un limite solo nella ragionevolezza di disciplinare in modo diverso casi che in realta' uguali lo sono solo in apparenza o che in concreto non lo sono). Ebbene, la Corte costituzionale in plurime sue pronunzie (si veda soprattutto la sentenza n. 363/l991 e le ordinanze successive tra cui la n. 421/2001) ha piu' volte ribadito che il principio della parita' tra accusa e difesa puo' sopportare una diminuzione dei poteri processuali del p.m. solo nei limiti proprio del principio della ragionevolezza (cosi' anche la sent. n. 280/1995 e la ord. n. 426/1998). Ad esempio la Corte cost. ha affermato che il limite all'appello del pubblico ministero nel giudizio abbreviato stabilito dall'art. 443 c.p.p. (inappellabilita' delle sentenze di condanna che non modificano il titolo del reato) non contrasta con i canoni di ragionevolezza e non viola il principio della parita' delle parti perche': a) costituisce il «corrispettivo» in funzione premiale (unitamente alla riduzione della pena) della rinunzia al dibattimento da parte dell'imputato attraverso una opzione processuale che favorisce una piu' rapida definizione dei processi; b) perche' in presenza di una sentenza di condanna comunque il pubblico ministero ha realizzato la pretesa punitiva fatta valere nel processo, rimanendo intatta la facolta' di impugnazione delle sentenze di assoluzione e delle sentenze di condanna che modificano il titolo del reato pronunziate nel giudizio abbreviato. Ebbene tali motivi di «ragionevolezza» non si ritrovano in alcun modo nel caso in esame, laddove l'evidente limitazione della facolta' di appellare le sentenze di assoluzione per il pubblico ministero (assimilabile nella sostanza ad un divieto d'appello) finisce con l'integrare una macroscopica diversita' di trattamento tra le parti processuali, consistente nell'applicazione della identica regola a parti del processo aventi interessi contrapposti, senza che pero' vi sia alcuna «contropartita» sul piano processuale che giustifichi il diverso trattamento riservato alla parte pubblica ed escluda il carattere discriminatorio della disposizione. Ne' puo' sottacersi un altro evidente profilo di «irragionevolezza» di tale norma, sempre con riguardo all'art. 3 della Costituzione, profilo gia' rilevato dal Presidente della Repubblica nel proprio messaggio, del 20 gennaio 2006, di rinvio della legge in oggetto alle Camere, messaggio in cui testualmente si osservava, nel sottolineare la «manifesta incostituzionalita» della normativa, che «la soppressione dell'appello delle sentenze di proscioglimento, a causa della disorganicita' della riforma, fa si' che la stessa posizione delle parti nel processo venga ad assumere una condizione di disparita' che supera quella compatibilita' con la diversita' delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo... Un ulteriore incongruenza della nuova legge sta nel fatto che il pubblico ministero totalmente soccombente non puo' proporre appello, mentre cio' gli e' consentito quando la sua soccombenza sia solo parziale, avendo ottenuto una condanna diversa da quella richiesta». Appare in sostanza davvero irragionevole prevedere per il pubblico ministero una possibilita' di appellare le sentenze di condanna (laddove cioe' la pretesa punitiva e' stata accolta ed al solo fine di richiedere un aggravamento di pena) ed una contestuale pratica eliminazione della facolta' di appellare le sentenze di assoluzione, allorquando cioe' la pretesa punitiva dello Stato non e' stata accolta. E la modifica apportata alla norma dopo il messaggio del Capo dello Stato (introducendo la possibilita' «per il pubblico ministero e per l'imputato» di presentare appello avverso le sentenze di proscioglimento solo attraverso la produzione di una «prova nuova e decisiva»), non legittima certo considerazioni diverse, atteso che la stessa si presenta in realta' come modifica del tutto apparente, talmente teorica da escluderne di fatto l'applicabilita', e cio' in quanto prospetta un'ipotesi sostanzialmente inattuabile di fatto (il p.m. dovrebbe trovare, nel ristrettissimo arco temporale dei 15-30 o 45 giorni concessigli per l'impugnazione, quella prova non solo «nuova» ma anche «decisiva, tale cioe' da ribaltare la decisione di primo grado, quella prova non rinvenuta durante il corso di tutte indagini preliminari ed in tutto il dibattimento di primo grado). Va infine osservato che la normativa in esame presenta dubbi di legittimita' costituzionale anche con riferimento all'art. 111, secondo comma della Costituzione nella parte che riguarda la ragionevole durata dei processi («La legge ne assicura la ragionevole durata»). Ed invero, se prima ditale riforma qualsiasi processo si definiva nei tre gradi «ordinari» di giudizio, (o in quattro in caso del ricorso per saltum seguito da annullamento con rinvio alla Corte di appello ex art. 569 comma 4 c.p.p.), dopo l'entrata in vigore della legge n. 46/2006 diverrebbe fisiologico che il processo conclusosi con la sentenza di assoluzione di primo grado dovrebbe svolgersi in cinque gradi di giudizio: ed infatti nel caso di accoglimento del ricorso in cassazione contro la sentenza di assoluzione di primo grado, il rinvio disposto dalla Corte di cassazione non sarebbe piu' alla Corte di appello ma al giudice di primo grado, con reiterazione pertanto di tutti i tre gradi «ordinari» di giudizio. L'evidente prospettata dilatazione dei tempi e del connesso complessivo iter processuale (cui va aggiunto, nelle particolari ipotesi di diritto transitorio disciplinate dall'art. 10, legge n. 46/2006 relative alla pendenza di appelli gia' proposti dal p.m. avverso sentenze di proscioglimento, anche il tempo, non prestabilito dalla nuova normativa, che intercorrera' tra la sentenza di primo grado di assoluzione e la successiva ordinanza dichiarativa d'inammissibilita' dell'appello) appare davvero irragionevole, tenuto anche conto della riduzione dei termini di prescrizione di cui alla recente legge n. 251/2005. Il presente processo va pertanto sospeso in attesa della decisione della Corte costituzionale cui vanno trasmessi gli atti.
P. Q. M. Letti gli artt. 134 della Costituzione e legge costit. 9 febbraio 1948, n. 1 e 23, primo e secondo comma, legge n. 87/1953; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593, comma due c.p.p., cosi' come novellato dalla legge n. 46/2006, nella parte in cui esclude la possibilita' per il p.m. di appellare le sentenze di proscioglimento, e dell'art. 10, legge n. 46/2006, per contrasto con gli artt. 3, primo comma e 111, secondo comma della Costituzione; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e la conseguente sospensione del processo; Dispone che la presente ordinanza sia, a cura della cancelleria, notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Napoli, addi' 6 aprile 2006 Il Presidente: Gallo 07C0516