N. 269 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 aprile 2006

Ordinanza  emessa  il  6 aprile 2006 dalla Corte di appello di Napoli
nel procedimento penale a carico di Arpaia Andrea

Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il
  pubblico  ministero  di  proporre  appello  avverso  le sentenze di
  proscioglimento  -  Preclusione  (salvo  per  le  ipotesi  previste
  dall'art. 603,  comma 2,  cod.  proc.  pen.,  se  la nuova prova e'
  decisiva)  - Violazione del principio di ragionevolezza - Contrasto
  con  il principio della parita' delle parti - Lesione del principio
  della ragionevole durata del processo.
- Codice  di  procedura  penale,  art. 593,  comma 2, come sostituito
  dall'art. 1  della legge 20 febbraio 2006, n. 46; legge 20 febbraio
  2006, n. 46, art. 10.
- Costituzione, artt. 3, primo comma, e 111, comma secondo.
(GU n.1000 del 26-4-2007 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Ha emesso la seguente ordinanza.
    All'esito  del  giudizio  di  primo grado, con sentenza emessa in
data  18 novembre 2002, il Tribunale di Avellino assolveva l'imputato
Arpaia  Andrea  dai  reati  di  cui  agli artt. 223, 216 e 220, legge
fallimentare.
    Avverso  tale  sentenza presentava appello il p.g. che chiedeva a
questa  Corte  di  affermare  la  responsabilita'  dell'imputato e di
condannare lo stesso in ordine al predetto reato.
    Il  p.g.,  nella  presente udienza, ha sollevato una questione di
legittimita' costituzionale dell'art. art. 593 comma due c.p.p. nella
parte  in  cui  esclude  la  possibilita' per il p.m. di appellare le
sentenze di proscioglimento e cio' per contrasto con gli art. 3, 111,
secondo  comma  della  Costituzione  (prospettando il contrasto della
norma  citata con riferimento al principio della parita' delle parti,
della  ragionevolezza  e  del  principio della ragionevole durata del
processo).
    La difesa dell'imputato si e' rimessa alla Corte.
    Osserva  innanzi  tutto  questa  Corte che, ai sensi dell'art. 23
secondo  comma,  legge  n. 87/1953, palese appare la rilevanza per il
presente  processo della questione sollevata dal p.g.: ove infatti si
dovesse  immediatamente  applicare,  ex art. 10, legge n. 46/2006, la
disposizione  di  cui  all'art. 593  secondo  comma c.p.p. cosi' come
novellato  (alla  luce  di  tali  disposizioni  si  dovrebbe emettere
dell'ordinanza  di dichiarazione di inammissibilita' dell'appello del
p.m.  e  cio'  perche'  ai  sensi  dell'indicata norma avrebbe dovuto
trovare immediata applicazione anche nei processi in corso l'art. 593
cpp cosi' come novellato dall'art. 1 della predetta legge: tale norma
infatti,  nel  suo secondo comma, limita il potere d'appello del p.m.
avverso  le  sentenze  di  proscioglimento  alla  sola  ipotesi della
sopravvenienza   di  nuove  prove,  circostanza  insussistente  nella
fattispecie),  tale applicazione comporterebbe una diversa disciplina
del  presente processo nel senso che non sarebbe possibile per questa
Corte  esaminare  i  motivi  d'appello  proposti  dal p.m. appellante
avverso   la   pronunzia  di  proscioglimento,  come  invece  sarebbe
consentito  ove  vi  fosse  una  dichiarazione di incostituzionalita'
della stessa.
    E  dunque,  una  volta  riconosciuta la rilevanza della questione
proposta,  va  ora  valutato  se la stessa sia o meno «manifestamente
infondata».
    E' bene subito rilevare sul punto che, secondo questa Corte, tale
giudizio  deve  essere  formulato tenendo ben presenti i limiti dello
stesso,  e cioe' nel senso che cio' che si deve valutare non e' tanto
la  fondatezza  o meno della questione di legittimita' costituzionale
sollevata    (giudizio    di   esclusiva   competenza   della   Corte
costituzionale),  quanto  piuttosto,  e  solo se la stessa sia o meno
«manifestamente   infondata»,   risultando   tale   solo   quella  in
riferimento   alla   quale   i   dubbi   prospettati   siano  davvero
insussistenti,  oppure  non  effettivi e reali ma solo apparenti, non
superabili  con il richiamo ad altri principi di rango costituzionale
o con interpretazioni costituzionalmente orientate.
    Va  infatti  ricordato  che  l'art. 1 della legge cost. n. 1/1948
statuisce  che  «la  questione  di legittimita' costituzionale di una
legge ... rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti nel corso
di un giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata e'
rimessa alla Corte costituzionale per la sua decisione».
    Ebbene  nella  fattispecie  non  puo'  che convenirsi con il p.g.
proponente (tranne che in ordine al presunto contrasto con l'art. 112
Cost.)  che  plurimi  e  fondati  appaiono  i  dubbi  di legittimita'
costituzionale  della  norma  in esame (art. 593, comma secondo cosi'
come  novellato),  dubbi  che  portano  a ritenere, con tranquillante
sicurezza,   che   la   questione   prospettata   sia  realmente  non
manifestamente infondata.
    E valga il vero.
    Un  primo  piu' che fondato dubbio di legittimita' costituzionale
della  norma  citata  si  pone  con riferimento all'art. 111, secondo
comma della Costituzione laddove lo stesso dispone che «ogni processo
si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita',
davanti ad un giudice terzo e imparziale».
    L'art. 593  c.p.p.  cosi'  come novellato prevede invero al primo
comma  la  possibilita'  per il p.m. e l'imputato di proporre appello
contro le sentenze di condanna ed al secondo comma la possibilita' di
appellare  le  sentenze  di  proscioglimento  solamente  se il p.m. o
l'imputato appellante abbiano chiesto una prova nuova e decisiva.
    Appare  davvero  evidente  che  il  principio  di  parita' di cui
all'art. 111  comma  due  della  Costituzione  e' solo apparentemente
rispettato:  la  presunta  parita'  prevista dalla nuova formulazione
dell'art. 593  e'  infatti una parita' solo formale in quanto risulta
davvero  palese  che,  di  fronte ad una sentenza di proscioglimento,
l'unica parte che abbia realmente un «interesse» ad impugnare e' solo
ed  esclusivamente il p.m.; per altro l'art. 568 c.p.p. n. 4 sancisce
espressamente  che  «per  proporre  impugnazione e' necessario avervi
interesse»  e  l'art. 591  comma  1  lettera  a)  c.p.p.  dispone che
«l'impugnazione  e'  inammissibile  quando  e' proposta da chi non e'
legittimato  o  non ha interesse»: e pertanto, una volta riconosciuto
in  fatto  che assolutamente alcun interesse puo' avere l'imputato ad
appellare contro le sentenze di proscioglimento, va altresi' rilevata
l'impraticabilita'  in diritto di un tale appello, tenuto anche conto
che  sul  punto  la  Cassazione e' sempre stata estremamente rigorosa
nello    statuire   l'inammissibilita'   dell'appello   dell'imputato
prosciolto  in primo grado: si veda da ultimo s.u. sent. n. 20 del 30
ottobre 2003.
    La  norma  in esame finisce in sostanza con il limitare il potere
d'appello  all'unica  parte  che  ha reale interesse ad impugnare una
sentenza assolutoria, e cioe' al p.m.
    Ne'  puo'  replicarsi  che  comunque  il  p.m.  ha  il  potere di
ricorrere in Cassazione: il ricorso in cassazione non ha e non potra'
mai  avere  infatti la stessa estensione dell'atto di appello, e cio'
perche'  mentre quest'ultimo attiene al merito, il primo potra' avere
ad  oggetto  solo  determinati profili di legittimita' tassativamente
previsti dalla nuova formulazione dell'art. 606 c.p.p.
    Va  inoltre rilevato sul punto che elementi a supporto della tesi
contraria  alle  considerazioni  suesposte  (tesi secondo cui sarebbe
legittima  una  limitazione dell'appello del p.m. avverso le sentenze
di proscioglimento) non possono certo desumersi (come invece e' stato
prospettato   da  alcuni  difensori  in  udienza)  dal  contenuto  di
convenzioni   internazionali,   atteso   infatti   che  l'art. 2  del
protocollo   addizionale   n. 7  della  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e delle liberta' fondamentali,
adottato  a  Strasburgo  il 22 novembre 1984, dopo avere stabilito al
primo  comma  che  «ogni  persona  dichiarata  rea da un tribunale ha
diritto  di  far  esaminare  la  colpevolezza  o  la  condanna  da un
tribunale   superiore»   (prescrizione   che   secondo   la  sentenza
n. 288/1997   della   Corte   costituzionale   e'   adempiuta   dalla
ricorribilita'  in  Cassazione  di tutte le sentenze di condanna), al
secondo  comma prevede espressamente delle eccezioni, quali l'ipotesi
in  cui  «l'interessato  e' stato dichiarato colpevole e condannato a
seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento».
    E  pertanto,  come  e'  davvero agevole rilevare dalla lettura di
tale  disposizione, la fattispecie della condanna in grado di appello
che segue ad una assoluzione di primo grado e' perfettamente conforme
non   solo  al  diritto  costituzionale  ma  anche  alle  Convenzioni
internazionali alle quali l'Italia ha aderito.
    Ne',  sotto  altro  profilo,  puo'  argomentarsi che la eventuale
condanna  in  appello  pronunziata a seguito di impugnazione del p.m.
avverso  una  sentenza  di  proscioglimento  violerebbe  il  presunto
principio del «doppio grado di giurisdizione di merito»: sul punto va
infatti  rilevato che tale presunto principio e' insussistente sia in
ambito  di convenzioni internazionali (si veda quanto poco piu' sopra
argomentato   in   ordine   alla  previsione,  nella  convenzione  di
Strasburgo, di una condanna emessa in appello dopo un proscioglimento
in  primo grado), sia nel nostro ordinamento: la Corte costituzionale
infatti ha piu' volte affermato che il «doppio grado di giurisdizione
di  merito non forma oggetto di garanzia costituzionale» (si veda tra
le  altre  l'ordinanza  n. 42l/2001), non essendo per altro possibile
ipotizzare  che lo stesso discenda da convenzioni internazionali, con
riferimento  ad  esempio  al  gia'  citato  art. 2 del della conv. di
Strasburgo    «poiche'    tale   disposizione   non   legittima   una
interpretazione per cui il riesame ad opera di un tribunale superiore
debba  coincidere  con un giudizio di merito, ma consente di ritenere
che  il  principio  si  sostanzia  nella  previsione  del  ricorso in
Cassazione gia' presente nella Costituzione italiana» (sentenza Corte
Cost. n. 288/l997).
    Inoltre la norma in esame presenta evidenti dubbi di legittimita'
costituzionale  anche  con  riferimento  al  principio di uguaglianza
previsto dall'art. 3 della Costituzione, con riferimento al principio
della  ragionevolezza  che in esso trova fondamento (nel senso che il
principio  di uguaglianza riguarda il dovere di trattare nello stesso
modo  casi  uguali  e  trova  un  limite solo nella ragionevolezza di
disciplinare  in modo diverso casi che in realta' uguali lo sono solo
in apparenza o che in concreto non lo sono).
    Ebbene, la Corte costituzionale in plurime sue pronunzie (si veda
soprattutto la sentenza n. 363/1991 e le ordinanze successive tra cui
la n. 42l/2001) ha piu' volte ribadito che il principio della parita'
tra  accusa  e  difesa  puo'  sopportare  una  diminuzione dei poteri
processuali  del  p.m.  solo  nei  limiti proprio del principio della
ragionevolezza   (cosi'   anche   la  sent.  n. 280/1995  e  la  ord.
n. 426/1998).
    Ad  esempio la Corte cost. ha affermato che il limite all'appello
del    pubblico   ministero   nel   giudizio   abbreviato   stabilito
dall'art. 443 c.p.p. (inappellabilita' delle sentenze di condanna che
non  modificano  il  titolo  del reato) non contrasta con i canoni di
ragionevolezza  e  non  viola  il principio della parita' delle parti
perche':  a)  costituisce  il  «corrispettivo»  in  funzione premiale
(unitamente alla riduzione della pena) della rinunzia al dibattimento
da   parte  dell'imputato  attraverso  una  opzione  processuale  che
favorisce  una  piu'  rapida  definizione dei processi; b) perche' in
presenza  di  una sentenza di condanna comunque il pubblico ministero
ha   realizzato  la  pretesa  punitiva  fatta  valere  nel  processo,
rimanendo  intatta  la  facolta'  di  impugnazione  delle sentenze di
assoluzione e delle sentenze di condanna che modificano il titolo del
reato pronunziate nel giudizio abbreviato.
    Ebbene  tali motivi di «ragionevolezza» non si ritrovano in alcun
modo nel caso in esame, laddove l'evidente limitazione della facolta'
di  appellare  le  sentenze  di assoluzione per il pubblico ministero
(assimilabile  nella  sostanza  ad  un divieto d'appello) finisce con
l'integrare  una  macroscopica diversita' di trattamento tra le parti
processuali,  consistente  nell'applicazione  della identica regola a
parti  del processo aventi interessi contrapposti, senza che pero' vi
sia  alcuna  «contropartita» sul piano processuale che giustifichi il
diverso  trattamento  riservato  alla  parte  pubblica  ed escluda il
carattere discriminatorio della disposizione.
    Ne'    puo'    sottacersi    un   altro   evidente   profilo   di
«irragionevolezza» ditale norma, sempre con riguardo all'art. 3 della
Costituzione,  profilo  gia' rilevato dal Presidente della Repubblica
nel  proprio messaggio, del 20 gennaio 2006, di rinvio della legge in
oggetto  alle Camere, messaggio in cui testualmente si osservava, nel
sottolineare  la  «manifesta incostituzionalita» della normativa, che
«la  soppressione  dell'appello  delle sentenze di proscioglimento, a
causa  della  disorganicita'  della  riforma,  fa  si'  che la stessa
posizione  delle  parti nel processo venga ad assumere una condizione
di  disparita'  che  supera  quella  compatibilita' con la diversita'
delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo... Un ulteriore
incongruenza  della  nuova  legge  sta  nel  fatto  che  il  pubblico
ministero  totalmente  soccombente  non puo' proporre appello, mentre
cio'  gli  e' consentito quando la sua soccombenza sia solo parziale,
avendo ottenuto una condanna diversa da quella richiesta».
    Appare   in  sostanza  davvero  irragionevole  prevedere  per  il
pubblico  ministero  una  possibilita'  di  appellare  le sentenze di
condanna  (laddove  cioe'  la pretesa punitiva e' stata accolta ed al
solo  fine  di  chiedere  un aggravamento di pena) ed una contestuale
pratica  eliminazione  della  facolta'  di  appellare  le sentenze di
assoluzione, allorquando cioe' la pretesa punitiva dello Stato non e'
stata accolta.
    E  la  modifica  apportata  alla norma dopo il messaggio del Capo
dello  Stato (introducendo la possibilita' «per il pubblico ministero
e  per  l'imputato»  di  presentare  appello  avverso  le sentenze di
proscioglimento  solo  attraverso la produzione di una «prova nuova e
decisiva»), non legittima certo considerazioni diverse, atteso che la
stessa  si  presenta  in  realta'  come modifica del tutto apparente,
talmente  teorica  da escluderne di fatto l'applicabilita', e cio' in
quanto  prospetta un'ipotesi sostanzialmente inattuabile di fatto (il
p.m. dovrebbe trovare, nel ristrettissimo arco temporale dei 15- 30 o
45  giorni  concessigli  per  l'impugnazione,  quella  prova non solo
«nuova»  ma anche «decisiva», tale cioe' da ribaltare la decisione di
primo  grado,  quella  prova  non rinvenuta durante il corso di tutte
indagini preliminari ed in tutto il dibattimento di primo grado).
    Va  infine  osservato che la normativa in esame presenta dubbi di
legittimita'   costituzionale  anche  con  riferimento  all'art. 111,
secondo  comma,  della  Costituzione  nella  parte  che  riguarda  la
ragionevole durata dei processi («La legge ne assicura la ragionevole
durata»).
    Ed  invero,  se  prima  di  tale  riforma  qualsiasi  processo si
definiva  nei tre gradi «ordinari» di giudizio, (o in quattro in caso
del  ricorso per saltum seguito da annullamento con rinvio alla Corte
di  Appello  ex  569, comma 4 c.p.p.), dopo l'entrata in vigore della
legge  n. 46/2006  diverrebbe  fisiologico che il processo conclusosi
con  la  sentenza di assoluzione di primo grado dovrebbe svolgersi in
cinque  gradi  di  giudizio:  ed infatti nel caso di accoglimento del
ricorso  in  cassazione  contro  la  sentenza di assoluzione di primo
grado,  il rinvio disposto dalla Corte di cassazione non sarebbe piu'
alla  Corte di Appello ma al giudice di primo grado, con reiterazione
pertanto di tutti i tre gradi «ordinari» di giudizio.
    L'evidente  prospettata  dilatazione  dei  tempi  e  del connesso
complessivo  iter  processuale  (cui  va  aggiunto, nelle particolari
ipotesi  di  diritto  transitorio  disciplinate  dall'art. 10,  legge
n. 46/2006  relative  alla pendenza di appelli gia' proposti dal p.m.
avverso sentenze di proscioglimento, anche il tempo, non prestabilito
dalla  nuova  normativa,  che  intercorrera' tra la sentenza di primo
grado   di   assoluzione   e  la  successiva  ordinanza  dichiarativa
d'inammissibilita' dell'appello) appare davvero irragionevole, tenuto
anche  conto  della riduzione dei termini di prescrizione di cui alla
recente legge n. 251/2005.
    Il   presente  processo  va  pertanto  sospeso  in  attesa  della
decisione della Corte costituzionale cui vanno trasmessi gli atti.
                              P. Q. M.
    Letti  gli artt. 134 della Costituzione e 1 della leggi costit. 9
febbraio 1948, n. 1 e 23 primo e secondo comma legge n. 87/1953;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 593,  comma due c.p.p., cosi'
come  novellato dalla legge n. 46/2006, nella parte in cui esclude la
possibilita' per il p.m. di appellare le sentenze di proscioglimento,
e  dell'art. 10,  legge  n. 46/2006,  per  contrasto con gli artt. 3,
primo comma e 111 secondo comma della Costituzione;
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla  Corte
costituzionale e la conseguente sospensione del processo;
    Dispone  che la presente ordinanza sia, a cura della cancelleria,
notificata  al  Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai
Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
        Napoli, addi' 6 aprile 2006
                        Il Presidente: Gallo
07C0517