N. 272 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 aprile 2006
Ordinanza emessa il 7 aprile 2006 dalla Corte di appello di Napoli nel procedimento penale a carico di Fantini Antonio ed altri Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento - Preclusione (salvo per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la nuova prova e' decisiva) - Inammissibilita' dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella - Violazione del principio di ragionevolezza sotto diversi profili - Contrasto con il principio della parita' delle parti - Lesione del principio della ragionevole durata del processo. - Codice di procedura penale, art. 593, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46; legge 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10. - Costituzione, artt. 3, primo comma, e 111, comma secondo.(GU n.17 del 2-5-2007 )
LA CORTE DI APPELLO Ha emesso la seguente ordinanza. Nel procedimento a carico di Fantini Antonio + altri, instauratosi a seguito dell'appello proposto dal p.m. avverso la sentenza emessa in data 2 maggio 2002 con la quale il Tribunale di Napoli pronunciava sentenza di proscioglimento nei confronti di alcuni imputati e ne assolveva altri, dopo numerose udienze svoltesi nell'arco di oltre un anno per la discussione dell'avvocatura dello Stato per la costituita parte civile e dei difensori in relazione ai numerosi capi di imputazione, nel corso della odierna udienza, destinata alla discussione dell'ultimo dei difensori prenotati, il p.g. ha sollevato, per essere nelle more intervenuta la legge 20 febbraio n. 46 del 2006, questione di legittimita' costituzionale dell'art. art. 593, comma secondo c.p.p., come novellato, nella parte in cui esclude la possibilita' per il p.m. di appellare le sentenze di proscioglimento perche' in contrasto con gli art. 3, 111, 24 e 97 della Costituzione. La difesa dell'imputato Pomarici Roberto ha invocato l'immediata declaratoria della prescrizione dei reati ascritti al suo assistito, perche' intervenuta in epoca precedente alla modifica legislativa ed in ragione dell'ingiustificato procrastinarsi del processo, gia' pendente da numerosi anni. Ritiene, preliminarmente la Corte che la questione e' rilevante, giacche' ove venisse dichiarata la incostituzionalita' denunciata, peraltro gia' da organi giudiziari di altri distretti, nonche' da giudici di questo stesso distretto, l'esito del procedimento sarebbe certamente differente da una inoppugnabile declaratoria di inammissibilita', imposta dalla vigente normativa, dell'appello gia' proposto, che, diversamente non potrebbe neppure essere esaminato. Per quel che concerne il rilievo del difensore dell'imputato Pomarici, e' il caso di considerare che il presupposto dell'appello del p.m. e' l'invocazione di una diversa qualificazione giuridica dei reati, che pure resterebbe inibita dall'applicazione della nuova formulazione dell'art. 593 c.p.p., e che la verifica del gia' perento termine di prescrizione, in ogni caso, comporterebbe la indagine nche del merito con i conseguenti rilievi di incompatibilita' che comprometterebbero la unitaria trattazione del procedimento, che eventualmente dovesse rendersi necessaria in caso di censura di incostituzionalita' della Corte. Quanto alla verifica della «manifesta infondatezza», per come letteralmente enunciata dall'art. 1 della legge cost. n. 1/1948, questa Corte ritiene certamente fondati i dubbi di legittimita' costiizionale della norma in esame. Un primo dubbio di legittimita' costituzionale della norma citata si pone con riferimento all'art. 111, secondo comma della Costituzione laddove lo stesso dispone che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita', davanti ad un giudice terzo e imparziale». L'art. 593 c.p.p., cosi' come novellato prevede invero al primo comma la possibilita' per il p.m. e l'imputato di proporre appello contro le sentenze di condanna ed al secondo comma la possibilita' di appellare le sentenze di proscioglimento, solamente se il p.m. o l'imputato appellante abbiano chiesto una prova nuova e decisiva. Appare davvero evidente che il principio di parita' di cui all'art. 111, secondo comma della Costituzione e' solo apparentemente rispettato: la presunta parita' prevista dalla nuova formulazione dell'art. 593 e' infatti una parita' solo formale in quanto risulta davvero palese che, di fronte ad una sentenza di proscioglimento, l'unica parte che abbia realmente un «interesse» ad impugnare e' solo ed esclusivamente il p.m.; per altro l'art. 568 c.p.p. n. 4 sancisce espressamente che «per proporre impugnazione e' necessario avervi interesse» e l'art. 591, comma 1, lett. a) c.p.p. dispone che «l'impugnazione e' inammissibile quando e' proposta da chi non e' legittimato o non ha interesse»: e pertanto, una volta riconosciuto in fatto che assolutamente alcun interesse puo' avere l'imputato ad appellare contro le sentenze di proscioglimento, va altresi' rilevata l'impraticabilita' in diritto di un tale appello, tenuto anche conto che sul punto la Cassazione e' sempre stata estremamente rigorosa nello statuire l'inammissibilita' dell'appello dell'imputato prosciolto in primo grado: si veda da ultimo s.u. sent. n. 20 del 30 ottobre 2003. La norma in esame finisce in sostanza con il limitare il potere d'appello all'unica parte che ha reale interesse ad impugnare una sentenza assolutoria, e cioe' al p.m. Va inoltre rilevato sul punto che elementi a supporto della tesi contraria alle considerazioni suesposte (tesi secondo cui sarebbe legittima una limitazione dell'appello del p.m. avverso le sentenze di proscioglimento) non possono certo desumersi (come invece e' stato prospettato da alcuni difensori in udienza) dal contenuto di convenzioni internazionali, atteso infatti che l'art. 2 del protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, dopo avere stabilito al primo comma che «ogni persona dichiarata rea da un tribunale ha diritto di far esaminare la colpevolezza o la condanna da un tribunale superiore» (prescrizione che secondo la sentenza n. 288/1997 della Corte costituzionale e' adempiuta dalla ricorribilita' in Cassazione di tutte le sentenze di condanna), al secondo comma prevede espressamente delle eccezioni, quali l'ipotesi in cui «l'interessato e' stato dichiarato colpevole e condannato a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento». E pertanto, come e' davvero agevole rilevare dalla lettura di tale disposizione, la fattispecie della condanna in grado di appello che segue ad una assoluzione di primo grado e' perfettamente conforme non solo al diritto costituzionale ma anche alle Convenzioni internazionali alle quali l'Italia ha aderito. La norma in esame presenta evidenti dubbi di legittimita' costituzionale anche con riferimento al principio di uguaglianza previsto dall'art. 3 della Costituzione, con riguardo al principio della ragionevolezza, che in esso trova fondamento (nel senso che il principio di uguaglianza riguarda il dovere di trattare nello stesso modo casi uguali e trova un limite solo nella ragionevolezza di disciplinare in modo diverso casi che in realta' uguali lo sono solo in apparenza o che in concreto non lo sono). Ebbene, la Corte costituzionale in plurime sue pronunzie (si veda soprattutto la sentenza n. 363/1991 e le ordinanze successive tra cui la n. 421/2001) ha piu' volte ribadito che il principio della parita' tra accusa e difesa puo' sopportare una diminuzione dei poteri processuali del p.m. solo nei limiti proprio del principio della ragionevolezza (cosi' anche la sent. n. 280/1995 e la ord. n. 426/1998). Ad esempio la Corte cost. ha affermato che il limite all'appello del pubblico ministero nel giudizio abbreviato stabilito dall'art. 443 c.p.p. (inappellabilita' delle sentenze di condanna che non modificano il titolo del reato) non contrasta con i canoni di ragionevolezza e non viola il principio della parita' delle parti perche': a) costituisce il «corrispettivo» in funzione premiale (unitamente alla riduzione della pena) della rinunzia al dibattimento da parte dell'imputato attraverso una opzione processuale che favorisce una piu' rapida definizione dei processi; b) perche' in presenza di una sentenza di condanna comunque il pubblico ministero ha realizzato la pretesa punitiva fatta valere nel processo, rimanendo intatta la facolta' di impugnazione delle sentenze di assoluzione e delle sentenze di condanna che modificano il titolo del reato pronunziate nel giudizio abbreviato. Tali motivi di «ragionevolezza» non si ritrovano in alcun modo nel caso in esame, laddove l'evidente limitazione della facolta' di appellare le sentenze di assoluzione per il pubblico ministero (assimilabile nella sostanza ad un divieto d'appello) finisce con l'integrare una macroscopica diversita' di trattamento tra le parti processuali, consistente nell'applicazione della identica regola a parti del processo aventi interessi contrapposti, senza che pero' vi sia alcuna «contropartita» sul piano processuale che giustifichi il diverso trattamento riservato alla parte pubblica ed escluda il carattere discriminatorio della disposizione. Ne' puo' sottacersi un altro evidente profilo di «irragionevolezza» ditale norma, sempre con riguardo all'art. 3 della Costituzione, profilo gia' rilevato dal Presidente della Repubblica nel proprio messaggio, del 20 gennaio 2006, di rinvio della legge in oggetto alle Camere, messaggio in cui testualmente si osservava, nel sottolineare la «manifesta incostituzionalita» della normativa, che «la soppressione dell'appello delle sentenze di proscioglimento, a causa della disorganicita' della riforma, fa si' che la stessa posizione delle parti nel processo venga ad assumere una condizione di disparita' che supera quella compatibilita' con la diversita' delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo. Un ulteriore incongruenza della nuova legge sta nel fatto che il pubblico ministero totalmente soccombente non puo' proporre appello, mentre cio' gli e' consentito quando la sua soccombenza sia solo parziale, avendo ottenuto una condanna diversa da quella richiesta». Appare in sostanza davvero irragionevole prevedere per il pubblico ministero una possibilita' di appellare le sentenze di condanna (laddove cioe' la pretesa punitiva e' stata accolta ed al solo fine di richiedere un aggravamento di pena) ed una contestuale pratica eliminazione della facolta' di appellare le sentenze di assoluzione, allorquando cioe' la pretesa punitiva dello Stato non e' stata accolta. E la modifica apportata alla norma dopo il messaggio del Capo dello Stato (introducendo la possibilita' «per il pubblico ministero e per l'imputato» di presentare appello avverso le sentenze di proscioglimento solo attraverso la produzione di una «prova nuova e decisiva»), non legittima certo considerazioni diverse, atteso che la stessa si presenta in realta' come modifica del tutto apparente, talmente teorica da escluderne di fatto l'applicabilita', e cio' in quanto prospetta un'ipotesi sostanzialmente inattuabile di fatto (il p.m. dovrebbe trovare, nel ristrettissimo arco temporale dei 15-30 o 45 giorni concessigli per l'impugnazione, quella prova non solo «nuova» ma anche «decisiva», tale cioe' da ribaltare la decisione di primo grado, quella prova non rinvenuta durante il corso di tutte indagini preliminari ed in tutto il dibattimento di primo grado). Senza tacere dell'ulteriore incongruenza rappresentata dalla disparita' tra accusa «privata», alla quale e' ancora consentito proporre impugnazione avverso le sentenze di proscioglimento, per fini esclusivamente civili e l'accusa «pubblica», che pur persegue il primario interesse superiore della giustizia. Va infine osservato che la normativa in esame presenta dubbi di legittimita' costituzionale anche con riferimento all'art. 111, secondo comma della Costituzione nella parte che riguarda la ragionevele durata dei processi («La legge ne assicura la ragionevole durata»). Ed invero, se prima di tale riforma qualsiasi processo si definiva nei tre gradi «ordinari» di giudizio, (o in quattro in caso del ricorso per saltum seguito da annullamento con rinvio alla Corte di appello ex 569, comma 4 c.p.p.), dopo l'entrata in vigore della legge n. 46/2006 diverrebbe fisiologio che il processo conclusosi con la sentenza di assoluzione di primo grado dovrebbe svolgersi in cinque gradi di giudizio: ed infatti nel caso di accoglimento del ricorso in cassazione contro la sentenza di assoluzione di primo grado, il rinvio disposto dalla Corte di cassazione non sarebbe piu' alla Corte di appello ma al giudice di primo grado, con reiterazione pertanto di tutti i tre gradi «ordinari» di giudizio. L'evidente prospettata dilatazione dei tempi e del connesso complessivo iter processuale (cui va aggiunto, nelle particolari ipotesi di diritto transitorio disciplinate dall'art. 10, legge n. 46/2006 relative alla pendenza di appelli gia' proposti dal p.m. avverso sentenze di proscioglimento, anche il tempo, non prestabilito dalla nuova normativa, che intercorrera' tra la sentenza di primo grado di assoluzione e la successiva ordinanza dichiarativa d'inammissibilita' dell'appello) appare davvero irragionevole, tenuto anche conto della riduzione dei termini di prescrizione di cui alla recente legge n. 251/2005. Va ancora osservato, con particolare riferimento ad altrettanti dubbi di legittimita' costituzionali della norma transitoria di cui all'art. 10, legge n. 46 del 2006, che l'abrogazione con legge ordinaria di tutta l'attivita' di impugnazione mediante appello doverosamente coltivata dal pubblico ministero antecedentemente all'entrata in vigore della legge sulla inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento, reca un grave pregiudizio al principio di efficiente andamento dell'attivita' giudiziaria, perche' essa vanifica tutta l'attivita' di appello gia' svolta dagli uffici del p.m. per sostenere la pretesa punitiva dello Stato davanti al giudice superiore rispetto a quello che in primo grado ne aveva disatteso la richiesta, nonche' l'attivita' giudiziaria svolta dallo stesso giudice di secondo grado, sia quanto allo studio degli atti, sia quanto alla particolarmente complessa, come nel caso in esame, organizzazione delle udienze. Il rispetto minimale del principio di buon andamento dell'attivita' giudiziaria avrebbe richiesto, quanto meno, per evitare la vanificazione retroattiva dell'attivita' processuale di appello, la previsione di una norma transitoria di salvaguardia delle attivita' processuali compiute dalle parti sino all'entrata in vigore della legge, in aderenza al principio tempus regit actum, proprio delle norme processuali, specie ove non si ravvisano minimamente ragioni di urgenza che ne giustifichino la deroga. Il presente processo va pertanto sospeso in attesa della decisione della Corte costituzionale cui vanno trasmessi gli atti.
P. Q. M. Letti gli artt. 134 della Costituzione e 1 della legge costit. 9 febbraio 1948, n. 1 e 23, primo e secondo comma, legge n. 87/1953; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593, comma secondo c.p.p., cosi' come novellato dalla legge n. 46/2006, nella parte in cui esclude la possibilita' per il p.m. di appellare le sentenze di proscioglimento, e dell'art. 10, legge n. 46/2006, per contrasto con gli artt. 3, primo comma e 111, secondo comma della Costituzione; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e la conseguente sospensione del processo e dei termini di prescrizione; Dispone che la presente ordinanza sia, a cura della Cancelleria, notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Napoli, addi' 7 aprile 2006 Il Presidente: Pisano 07C0520