N. 279 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 novembre 2006
Ordinanza emessa il 29 novembre 2006 dalla Corte conti - Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana sull'appello proposto da Musmarra Rosario contro Procura regionale presso la Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana. Corte dei conti - Giudizio di responsabilita' - Soggetti condannati per fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge censurata - Fase di appello - Possibilita' di chiedere la definizione del giudizio mediante il pagamento di una somma non inferiore al 10 per cento e non superiore al 20 per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado - Irrazionalita' - Violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione - Interferenza sulla funzione giurisdizionale contabile, con specifico riguardo al principio di libero convincimento del giudice - Violazione del principio di separazione del potere legislativo dal potere giudiziario. - Legge 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 231. - Costituzione, artt. 3, 24, 97, 101, 103 e 111. Corte dei conti - Giudizio di responsabilita' - Soggetti condannati per fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge censurata - Fase di appello - Possibilita' della sezione di appello della Corte dei conti, in caso di accoglimento della richiesta di definizione del giudizio, di determinare la riduzione della somma dovuta in misura non superiore al 30 per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado - Irrazionalita' - Lesione del diritto di difesa e dei principi del giusto processo, con riferimento alla compressione del ruolo del pubblico ministero contabile - Violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione - Interferenza sulla funzione giurisdizionale contabile, con specifico riguardo al principio di libero convincimento del giudice. - Legge 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 232. - Costituzione, artt. 3, 24, 97, 101, 103 e 111. Corte dei conti - Giudizio di responsabilita' - Soggetti condannati per fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge censurata - Fase di appello - Previsione che il giudizio si intende definito a decorrere dalla data di deposito della ricevuta di versamento presso la segreteria della sezione di appello della somma dovuta dal condannato - Irrazionalita' - Violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione - Interferenza sulla funzione giurisdizionale contabile, con specifico riguardo al principio di libero convincimento del giudice. - Legge 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 233. - Costituzione, artt. 3, 24, 97, 101, 103 e 111.(GU n.17 del 2-5-2007 )
LA CORTE DEI CONTI Ha emesso la seguente ordinanza 71/A/06/ORD. nel giudizio in materia di responsabilita' amministrativa iscritto al n. 1917/A/RESP del registro di segreteria e promosso dal sig. Roario Musmarra, col patrocinio dell'avv. Nunzio Manciagli, avverso la sentenza n. 468/2006 della Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana. Visti gli atti e i documenti di causa; Uditi, nella camera di consiglio del 19 ottobre 2006, il relatore, consigliere Salvatore Cilia, l'avv. Manciagli e il V.P.G. Diana Calaciura. F a t t o Con atto di citazione, depositato in segreteria il 20 giugno 2005, la procura regionale (a seguito di specifica segnalazione da parte del difensore civico del Comune di Acireale) ha convenuto in giudizio il sig. Rosario Musmarra per sentirlo condannare al pagamento, in favore dello stesso comune, della somma di Euro 27.165,46, avendo illegittimamente disposto la liquidazione, nei confronti di alcuni dipendenti del settore finanze del comune, di compensi in aggiunta alla ordinaria retribuzione. L'Organo requirente - dopo avere ricostruito il quadro normativo che disciplina l'elaborazione dei c.d. «progetti finalizzati alla realizzazione di nuovi servizi o al miglioramento di quelli esistenti, rispondenti alla necessita' di soddisfare bisogni a carattere produttivo e sociale» - rileva che, nella fattispecie, «i progetti finalizzati, cosi' come, precisato dalla difesa del convenuto, sono stati disposti dal Musmarra per la redazione del rendiconto e del bilancio preventivo e sono stati motivati dall'esigenza di sopperire alla carenza di organico conseguente al decesso di un funzionario assegnato al settore finanze», concludendo nel senso che i compensi liquidati costituiscono danno erariale, sia perche', dal punto di vita «oggettivo», la predisposizione dei documenti contabili non possono essere inquadrati nell'ambito dei «progetti finalizzati», sia perche', in concreto, «non sussistevano neanche obiettive ed eccezionali difficolta' nello svolgimento dello specifico compito di ufficio». Con la sentenza n. 468/2006, la sezione giurisdizionale, nel condividere pienamente l'impostazione accusatoria, revoca in dubbio tutte le obiezioni difensive (mancata prova in merito alla effettuazione delle prestazioni lavorative del progetto finalizzato al di fuori dell'ordinario orario di lavoro; irrilevanza dell'approvazione in sanatoria del progetto; non ascrivibilita' al meccanismo dei progetti finalizzati di una attivita' istituzionale come la redazione dei documenti contabili; non invocabilita' della norma con cui la legge finanziaria n. 662/1996 aveva autorizzato, per l'anno 1997, il ricorso ai progetti finalizzati per svolgere, fuor dall'orario di lavoro, l'attivita' istruttoria connessa al rilascio delle concessioni edilizie, concludendo nel senso della condanna del convenuto nei termini quantitativi risultanti dall'atto di citazione. Con atto di appello, depositato in segreteria il 28 marzo 2006, l'avv. Manciagli articola la difesa del sig. Musmarra su vari profili: 1) «omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sopra un punto decisivo della controversia». Su tale aspetto, il difensore rileva che - errando - il giudice di primo grado, da una parte, ha ritenuto «quasi ininfluente la questione relativa all'inammissibilita' del ricorso al procedimento del progetto finalizzato per il miglioramento dei servizi dell'ente», e, dall'altra, che «l'esecuzione del progetto sia avvenuta nel corso dell'ordinario periodo di lavoro»; 2) «violazione e falsa applicazione dell'art. 1 del d.P.R. n. 13/1986 e dell'art. 3 del d.P.R. n.268/1987, con riferimento agli artt. 15, 17 e 18 del CCNL del 1° aprile 1999 - Mancanza di motivazione e contraddittorieta». L'avv. Manciagli - dopo avere riprodotto le norme citate - critica l'affermazione (non condivisibile) del giudice di primo grado secondo cui «l'attivita' istituzionale tipica di un servizio non puo', neanche a volere estendere oltre misura il concetto di attivita' produttive e di sviluppo, essere inclusa tra le situazioni da fronteggiare con il progetto finalizzato», e poi rileva che tanto la legislazione regionale quanto la legislazione statale hanno previsto, in varie situazioni (sempre per attivita' istituzionale), l'utilizzo dei progetti finalizzati (tanto che «la stessa ANCI, nel parere espresso in data 8 ottobre 2004, ribadisce la legittimita' del progetto finalizzato per sopperire alla mancanza di personale e, quindi, all'aumentato carico di lavoro»; 3) «violazione e falsa applicazione dell'art. 3 del decreto-legge n. 543/1996, convertito nella legge n. 639/1996 - Carenza e/o insufficienza della motivazione - Omessa valutazione del conseuimento della finalita' dell'ente a del mancato arricchimento dell'imputato». A giudizio dell'avv. Manciagli, il giudice di primo grado da una parte, non si sarebbe soffermato sul requisito della colpa grave (previsto dalla legge come presupposto minimo per la condanna), e, dall'altra, avrebbe travalicato il limite della insindacabilita' del merito delle scelte discrezionali frapposto alle attribuzioni giurisdizionali della Corte dei conti. Conclusivarnente, il difensore chiede l'assoluzione del suo assistito, «riscontrando la legittimita' degli atti impugnati» o, in subordine dichiarando che non sussiste danno erariale e che la scelta del convenuto era insindacabile. In ulteriore subordine, l'avv. Manciagli chiede la definizione del giudizio mediante il pagamento di una somma «non inferiore al 10% e non superiore al 20% del danno quantificato con la sentenza di primo grado, fatta salva la possibilita' prevista dall'art. 232» (recte: art. 1, comma 232, della legge n. 266/2005). Con atto conclusionale, depositato in segreteria il 21 settembre 2006, la procura generale dopo avere individuato il senso e la portata dei «progetti finalizzati», dichiara la piena adesione all'impostazione dell'atto di citazione e della sentenza appellata, chiedendo la conferma della sentenza stessa. Con separato (e contestuale) atto, la procura generale, nel prendere atto che la richiesta di definizione agevolata e' prospettata «in subordine» rispetto all'assoluzione nel merito, chiede che la richiesta stessa sia dichiarata inammisibile in quanto la norma che disciplina tale definizione «prescinde da qualsiasi esito del giudizio ordinario». Nell'apposita camera di consiglio, sia l'avv. Manciagli che il V.P.G. confermano le impostazioni e le richieste risultanti dagli atti scritti, mentre il primo aggiunge che il carattere «subordinato» della richiesta di «definizione agevolata» costituisce una mera conseguenza del meccanismo previsto dalla legge. D i r i t t o In via pregiudiziale la sezione deve affrontare l'eccezione di inammissibilita', prospettata dalla procura generale nei termini risultanti dall'ultima parte della narrativa, con riferimento alla richiesta di «definizione agevolata» del giudizio ex art. 1, commi 231, 232 e 233 legge n. 266/2005. L'eccezione e' infondata in quanto, tenendo conto (come risultera' dal prosieguo della motivazione) del fatto che tale richiesta puo' essere formulata esclusivamente in sede di proposizione dell'appello, non pare ragionevole ipotizzare che l'atto di appello, se finalizzato alla richiesta della definizione agevolata, avrebbe dovuto limitarsi ai «motivi» del gravame, pretermettendo qualsiasi richiesta conclusiva nel merito (probabilmente, nel maggiore dei casi, di assoluzione), mentre e' da ritenere che nell'ottica complessiva della legge, la richiesta di cui sopra, apparentemente (ma fisiologicamente) «subordinata», acquisisce poi - nell'ambito dell'esame della sezione di appello - tutte le caratteristiche della domanda «principale». A questo punto il Collegio de ve rilevare che l'art. 1 della legge 23 dicembre 2005, n. 266, pone - ai commi 231, 232 e 233 - i seguenti (nuovi) meccanismi sostanziali e processuali applicabili nei giudizi responsabilita' dinanzi alla Corte dei conti per i fatti commessi antecedentemente alla data di entrata in vigore della legge stessa: 1) «i soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna possono chiedere alla competente sezione di appello, in sede di impugnazione, che il procedimento venga definito mediante il pagamento di una somma non inferiore al 10 per cento e non superiore al 20 per cento del danno quantificato nella sentenza»; 2) «la sezione di appello con decreto in camera di consiglio, sentito il procuratore competente, delibera in merito alla richiesta e, in caso di accoglimento, determina la somma dovuta in misura non superiore al 30 per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado, stabilendo il termine per il versamento»; 3) «Il giudizio di appello si intende definito a decorrere dalla data di deposito della ricevuta di versamento presso la segreteria della sezione di appello». Tali disposizioni, in sostanza, introducono, nella fase di appello, un procedimento camerale diretto alla definizione «agevolata» del giudizio di responsabilita', innanzi la Corte dei conti; ma la sezione dubita della leggitimita' costituzionale del complesso di tali disposizioni, per violazione degli artt. 3, 24, 97 101, 103, e 111 della Costituzione. Il ragionamento della sezione prende le mosse da quella giurisprudenza constituzionale (fra le altre, sentenze n. 68/1971, n. 63/1973 e n. 1032/1998) in base alla quale la concreta garanzia dei prinicipi costituzionali di eguaglianza, di buon andamento e del controllo contabile sia sostanzialmente affidata alla legge ordinaria, nel senso che sono riservate al descrezionale apprezzamento del legislatore non solo la determinazione e la graduazione dei tipi e dei limiti di responsabilita' che - in relazione alle varie categorie di dipendenti pubblici o alle partivolari situzioni regolare - appaiono come le forme piu' idonee a garantire l'attuazione dei predetti principi costituzionali (sentenza n. 411/1998 e ordinanza n. 549/1988, nonche' - con riferimento all'art. 28 Cost. - le sentenze n. 2/1968, n. 123/ 1972, n. 164/1982 e n. 26/1987), ma anche la possibilita' di stabilire un limite patrimoniale della responsabilita' amministrativa (sentenza n. 340/2001). Cio' sta a significare, in definitiva, da una parte, che, per quanto non sia possibile trarre da taluni parametri costituzionali (in particolare, artt. 97 e 103, secondo comma, Cost.) un principio di iderogabilita' delle comuni regole della responsabilita', si puo' tuttavia ricavare dagli stessi parametri la regola secondo la quale la discrezionalita' del legislatore, per essere considrata corretta nel suo esercizio, deve determinare e graduare, caso per caso, i tipi e i limiti della responsabilita' in riferimento alle diverse categorie e situazioni concrete, fissando, per ciascuna di esse le forme piu' idonee a garantire i principi del buon andamento e del controllo contabile (sentenza n. 371/1998); e dall'altra che in sede di giudizio di legittimita' costituzionale, le leggi disciplinanti la responsabilita' dei pubblici dipendenti sono sindacabili, in riferimento ai parametri invocati, solo sotto il profilo della ragionevolezza della disciplina adottata e delle diversita' introdotte (cioe', in realzione all'art. 3 Cost.). Conseguentemente, non potendosi negare, in linea di principio, la possibilita' di un intervento legislativo del tipo di quello esaminato in questa sede, e' tuttavia pur sempre necessario che l'intervento stesso sia strettamente (e ragionevolmente) collegato alle specifiche pecularieta' del caso in modo tale da escludere qualsiasi ipotesi di arbitrio nella fase di sostituzione della disciplina generale con una (successiva) eccezionale (Corte cost., sentenza n. 14/1999, e altre precedenti ivi citate) sotto il profilo tanto del rispetto del principio di eguaglianza, quanto della tutela del buon andamento e della salvaguardia della funzione giurisdizionale da indebite interferenze da parte del potere legislativo. Senonche', rispetto alle norme di cui si sta trattando, appare alquanto problematica l'individuazione della ratio che le sorregge, che non sia quella - puramente e semplicemente - della limitazione del risarcimento patrimoniale del soggetto condannato in primo grado, circostanza che, proprio per questo, caratterizza l'innovazione normativa per lasua irrazionalita' e - conseguentemente - per la sua arbitrarieta'. In merito, potrebbe essere utile richiamare due esempi, tratti dalla normativa, che - pur eventualmente «criticabili» sul piano lato sensu «politico» - presentano una ratio che consente di superare, sul piano giuridico, i dubbi di irrazionalita' e arbitrarieta': uno, concerne il c.d. «condono fiscale» che, pur attivabile «dinanzi alle commissioni tributarie od al giudice ordinario in ogni grado del giudizio e anche a seguito di rinvio (da ultimo, art. 16 legge 27 dicembre 2002, n. 289)», e' chiaramente finalizzato all'incremento - e in termini brevi - delle entrate fiscali, oltre a deflazionare, in qualche misura, il contenzioso tributario un altro, concernente la «applicazione della pena su richiesta delle parti» (ai sensi degli artt. 444 e segg. cod. proc. pen.), che, potendo essere richiesta nel giudizio ordinario, fino alla presentazione delle conclusioni di cui agli artt. 421, comma 3, e 422, comma 3 (e, in caso di giudizio direttissimo, fino alla dichiarazione di apertura di dibattimento di primo grado), e' chiaramente finalizzata a deflazionare il carico di lavoro del giudice penale per i reati meno rilevanti e, al contempo, a limitare drasticamente le pene detentive e quindi limitare gli accessi alle carceri, notoriamente superaffollate. Conseguentemente, raffrontando le citate situazioni con il caso che interessa in questa sede, a giudizio della sezione appaiono violati gli artt. 97 (principio di buon andamento dell'amministrazione pubblica) e 103, secondo comma, Cost. (controllo contabile) stante che le norme sottopposte a scrutinio costituzionale, da una parte, non incidono minimamente in senso riduttivo) sull'entita' del contenzioso contabile (considerato che le norme stesse operano esclusivamente in sede di appello, nel cui ambito il sostituire una pubblica udienza con una camera di consiglio e una sentenza con un decreto e' sicuramente di piccolo momento), e, dall'altra, che producono (quasi sicuramente facendo astrazione ovviamente dall'ipotesi di condanna in sede di appello ordinario) una minore entrata (fra il 90 per cento e il 70 per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado), per cui rimane soltanto l'irrazionale e incongruo «effetto premiale» (nei confronti del convenuto condannato) che, quanto in tale, si appalesa del tutto ingiustificato. D'altra parte, la sezione ritiene che tali parametri costituzionali siano violati anche sotto un altro profilo. Infatti - premesso che nel sistema vigente l'attenuazione della responsabilita' amministrativo-contabile e' rimessa, nei singoli casi, al potere riduttivo del giudice, che, a tal fine, puo' tenere conto (fondamentalmente) del comportamento e del livello di responsabilita', ma anche delle capacita' economiche del soggetto responsabile -, appare assolutamente irragionevole (e, in questo senso, viene implicato anche l'art.3 Cost.) una riduzione predeterminata e pressoche' automatica della responsabilita' e della misura del risarcimento, lasciando al giudice una valutazione minima in ordine al comportamento complessivo dell'agente (Corte costituzionale sentenza n. 340/2001); con la ulteriore conseguenza che il complesso normativo esaminato potrebbe incidere (limitandolo) sul principio del «libero convincimento del giudice», violando cosi' l'art. 101 Cost, limitandolo anche nel senso che l'inciso «in caso di accoglimento» della richiesta del soggetto condannato (comma 232), non contenendo alcun criterio di orientamento per il giudice, comporta - in conclusione e in sostanza - l'assenza di qualsiasi «discrezionalita» nell'an (per cui il procedimento, in certo qual modo, diventa «obbligatorio»). A sua volta il principio di eguaglianza appare ulteriormente violato nella considerazione che la normativa e' applicabile soltanto ai «soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna», con la conseguenza che la situazione concreta potrebbe rilevarsi negativa nei confronti dei soggetti che risultino assolti in primo grado nel senso che la relativa sentenza potrebbe essere appellata dal pubblico ministero e che la sentenza di appello potrebbe essere di condanna, senza che il convenuto possa fruire dei vantaggi della norma «di condono». E' ben vero che, nella specie, si' e in presenza di soggetti condannati in primo grado, con la conseguenza che la prospettazione che precede potrebbe apparire non rilevante, ma, nell'economia complessiva della normativa, appare comunque irrazionale una previsione legislativa che esclude dai beneflci quei soggetti la cui posizione - dopo la sentenza di primo grado - appare chiaramente meno «pesante» di quella dei convenuti condannati; mentre difficilmente potrebbe pervenirsi ad una interpetazione «adeguatrice», non solo perche', in tale caso dovrebbe superarsi la «lettera» della «condanna» in primo grado, ma anche perche' si dovrebbe «creare» il criterio al quale correlare le percentuali del 10, del 20 o del 30 previste dal la legge. Appare violato anche l'art. 24 Cost. (in particolare, il comma 2: «La difesa e' diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento») nella parte in cui il pubblico ministero presso la Corte dei conti viene evocato nel solo comma 232 e solo per «essere sentito» in camera di consiglio quando la Sezione di appello deve deliberare «in merito alla richiesta»; infatti, per tale funzione limitata e marginale (che in sostanza nell'espressione di un «parere»), del pubblico ministero, il procedimento regolato dai commi 231 - 233 dell'art. 1 della legge n. 266/2005 non assume, sostanzialmente, carattere bilaterale per cui la funzione di «parte» del pubblico ministero contabile (nell'ottica - anche del «giusto processo» - dell'art. 111 Cost.) viene, nella specie, quasi pretermessa (con la conseguenza - fra l'altro - che in tal modo, vengono pesantemente compressi i diritti e gli interessi della pubblica amministrazione, dei quali il pubblico ministero e' chiaramente portatore, in uno all'interesse generale dell' Ordinamento). Le questioni di leggittimita' costituzionale che precedono, non superabili in via interpretativa, sono non manifestamente infondate per i motivi che precedono e rilevanti in quanto le norme denunciate, ove venissero dichiarate incostituzionali, non potrebbero essere applicabili nel presente giudizio, che proseguirebbe secondo il rito ordinario.
P. Q. M. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 231, 232 e 233 della legge 23 dicembre 2005, n. 266 in relazione agli artt. 3, 24, 97, 101, 103 e 111 della Costituzione. Ordina l'immediata trasmissione degli atti, a cura della segreteria, alla Corte costituzionale, sospendendo conseguentemente il processo fino all'esito del giudizio incidentale di costituzionalita'. Dispone che a cura della segreteria, la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e alle parti, e sia comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Cosi' provveduto in Palermo, nella Camera di consiglio del 19 ottobre 2006. Il Presidente: Sancetta L'estensore: Cilia 07C0527