N. 316 ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 novembre 2006

Ordinanza  emessa l'8 novembre 2006 dalla Corte di appello di Palermo
nel procedimento penale a carico di Marceno' Francesco

Processo  penale  -  Appello  - Modifiche normative - Limitazione del
  potere  di appello del pubblico ministero alle sentenze di condanna
  - Possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello contro
  le  sentenze  di  proscioglimento  soltanto  nelle  ipotesi  di cui
  all'art. 603,  comma 2,  se la nuova prova e' decisiva - Ricorso in
  cassazione  contro  la  sentenza  di  primo  grado - Violazione del
  principio   di   ragionevolezza   -  Ingiustificata  disparita'  di
  trattamento,  tra  pubblico  ministero  e imputato - Ingiustificata
  estensione  dei  poteri  valutativi  della  Corte  di  cassazione -
  Violazione  del  principio  dell'obbligo  di motivazione di tutti i
  provvedimenti  giurisdizionali  -  Violazione  dei  principi  della
  parita'  delle parti nel contraddittorio e della ragionevole durata
  del   processo   -  Lesione  del  principio  della  obbligatorieta'
  dell'azione penale.
- Codice  di  procedura penale, art. 593, come sostituito dall'art. 1
  della legge 20 febbraio 2006, n. 46.
- Costituzione, artt. 3, 111, commi secondo, sesto e settimo, e 112.
Processo   penale  -  Appello  -  Modifiche  normative  -  Disciplina
  transitoria   -   Inammissibilita'   dell'appello   proposto  prima
  dell'entrata  in  vigore della novella - Contrasto con il principio
  di  ragionevolezza  -  Violazione  del  principio di buon andamento
  dell'attivita'    giudiziaria    -    Violazione    del   principio
  costituzionale in tema del ricorso in cassazione.
- Legge 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10.
- Costituzione, artt. 3, 97 e 111, comma settimo.
(GU n.18 del 9-5-2007 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Riunita  in  Camera  di consiglio ha emesso la seguente ordinanza
nel  processo  a  carico di Marceno' Francesco, nato ad Palermo il 22
maggio 1945, definito con sentenza emessa dal Tribunale di Palermo in
data  26  ottobre  2005,  con  la quale il predetto Merceno' e' stato
assolto   dall'imputazione  ascrittagli  di  cui  agli  artt.  31  in
relazione  all'art.  30,  legge  n. 646/1982,  perche'  il  fatto non
costituisce reato;
    Preso  atto dell'appello ritualmente e tempestivamente interposto
avverso   la   predetta   sentenza  dal  Procuratore  generale  della
Repubblica  di  Palermo,  ha  richiesto,  previa  affermazione  della
colpevolezza  del suddetto imputato in ordine ai reati per i quali e'
stato assolto, la condanna dello stesso alle pene di legge;
    Rilevato  che  all'udienza  odierna  il  Procuratore  generale ha
sollevato  eccezione di illegittimita' costituzionale degli artt. 1 e
10  della legge 20 febbraio 2006, n. 46, per violazione degli artt. 3
e  111,  secondo comma della Costituzione; 3 e 112 della Costituzione
in relazione agli artt. 73 e 74 ord. giud.; 97 della Costituzione; 3,
111,   101   e  104  della  Costituzione;  111  settimo  comma  della
Costituzione;
    Sentito  il  difensore  dell'imputato, il quale ha chiesto che la
Corte dichiari la manifesta infondatezza della eccezione sollevata e,
altresi', l'inammissibilita' dell'appello proposto dal p.m.;

                            O s s e r v a

    Questa  Corte  e'  chiamata  a  pronunciarsi  sulla manifesta non
infondatezza  della  questione di compatibilita' costituzionale degli
artt.  1  e  10  della  legge 20 febbraio 2006, n. 46, che ha, tra le
altre, modificato la disposizione di cui all'art. 593, comma 1 c.p.p.
prevedendo  la  possibilita',  dell'appello  da  parte  del  pubblico
ministero e dell'imputato soltanto avverso le sentenze di condanna.
    Piu'  specificamente,  le  norme che si assumono incostituzionali
attengono,  quanto alla prima di esse (art. 593 codice di rito), alla
limitazione  del  potere  di  appello  del pubblico ministero, adesso
circoscritto   alle   sole   sentenze  di  condanna;  alla  residuale
possibilita'  di  esercitare  siffatto potere soltanto in presenza di
una  prova  decisiva  da  articolare ed assumere secondo le modalita'
indicate  nell'art.  603,  comma  2  c.p.p., alla declaratoria in via
preliminare  di  inammissibilita  dell'appello con ordinanza da parte
del  giudice, ove non venga disposta la rinnovazione del dibattimento
ed  alla  correlata possibilita' - per le parti - di proporre ricorso
per  cassazione  contro  la  sentenza  di  primo grado nel termine di
giorni  quarantacinque decorrente dalla notificazione della ordinanza
di inammissibilita' dell'appello.
    Un primo, preliminare esame riguarda la rilevanza delle questioni
proposte:  rilevanza  nel  caso  in  esame pacificamente sussistente,
posto  che  non  essendo  state dedotte. da parte del p.m. appellante
prove  nuove  sopravvenute  nei  limiti  temporali  previsti  per  la
proposizione  dell'appello  e  trovando  applicazione  -  per effetto
della,  disciplina  transitoria  -  la  previsione  normativa  di cui
all'art.  1  della  legge  n. 46/2006,  ne  deriverebbe la necessaria
pronuncia  di  inammissibilita' dell'appello ai sensi dei commi 2 e 3
dell'art.  10,  in  relazione  alla  previsione di carattere generale
contenuta nell'art. 593, comma 2 c.p.p.
    La rilevanza della questione appare evidente poiche' si tratta di
una  diversa  disciplina  del  presente  processo  conclusosi con una
sentenza  di  assoluzione  per  entrambi gli imputati in virtu' della
quale  il  pubblico  ministero  appellante,  per  un  verso  vedrebbe
precluso,  il  proprio  potere di appello e, per altro verso; sarebbe
costretto  in  tempi peraltro assai ristretti, a proporre ricorso per
cassazione avverso la sentenza di primo grado.
    Tanto  premesso,  ritiene la Corte di dovere fare una ulteriore e
preliminare  puntualizzazione, propedeutica all'esame delle eccezioni
sollevate dal procuratore generale.
    Secondo    le   indicazioni   contenute   nell'art.   134   della
Costituzione,  e'  rimessa  alla  Corte costituzionale la risoluzione
delle  questioni  di  legittimita' costituzionale di leggi (o atti ad
essa equiparati) che siano state sollevate di ufficio ovvero eccepite
da  una  delle  parti nel corso del giudizio, con l'unico, preclusivo
limite,  della  eventuale  manifesta  infondatezza  delle  questioni,
ritenuta dal giudice.
    E'   dunque  evidente  che  nel  caso  della  proposizione  della
questione  di  legittimita'  costituzionale competa al giudice che ne
sia  investito  da  una delle parti, effettuare una prima valutazione
della  rilevanza  della  questione  e  della  sua eventuale manifesta
infondatezza  in  stretta sequenza temporale e logica, nel senso che,
una  volta positivamente risolto il problema concernente la rilevanza
della  questione,  dovra' essere affrontato il problema relativo alla
eventuale manifesta infondatezza di essa.
    Tale  ultimo  esame  non  implica,  tuttavia, ad avviso di questa
Corte,  un'analisi  approfondita e particolareggiata dei vari profili
di  illegittimita' prospettati, nel caso in esame, peraltro, non solo
numerosi,  ma  soprattutto  complessi  ed estremamente articolati: se
cosi'  operasse,  la  Corte  finirebbe  con  il  travalicare i propri
compiti,  interferendo sui compiti propri della Corte costituzionale,
unico  giudice  deputato - per legge costituzionale (art. 134 cit.) -
ad  esprimere il richiesto giudizio di legittimita' costituzionale di
quelle norme che si assumono violate.
    Siffatta soluzione attribuisce al giudice chiamato ad operare una
valutazione  per  cosi'  dire  «preliminare»,  il doveroso compito di
rimettere  alla  Corte  costituzionale  unicamente  la risoluzione di
quelle   questioni   che,   oltre  ad  essere  rilevanti,  non  siano
manifestamente  infondate,  intendendosi con tale ultima espressione,
l'insussistenza  o  la  mera apparenza dei dubbi di costituzionalita'
prospettati dalle parti.
    Nel  caso  in  esame,  questa  Corte,  attesi  i  profili, invero
complessi  e tra loro intimamente collegati, delle questioni proposte
dal  procuratore  generale,  ritiene  le  stesse  non  manifestamente
infondate alla luce delle seguenti considerazioni.
    Una   prima   questione   concerne   la  presunta  illegittimita'
costituzionale  dell'art.  1  della  legge in esame rispetto all'art.
111,  secondo  comma  della  Costituzione,  a  tenore  del  quale, il
processo  si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di
parita',   davanti   ad  un  giudice  terzo  e  imparziale,  con  una
ragionevole durata assicurata dalla legge.
    Ritiene  la  Corte  che  i  rilievi  prospettati  dal procuratore
generale  non  solo con riferimento all'art. 111 sopra richiamato, ma
anche con riguardo all'art. 3 della Costituzione, siano meritevoli di
considerazione,  profilandosi  -  per  un  verso - una ingiustificata
compressione della parita' delle parti nel processo, che va inteso in
una  accezione  ampia,  comprensiva  anche delle fasi successive alle
indagini  preliminari,  sino alla sua completa definizione; per altro
verso, profilandosi una irragionevole disparita' tra la posizione del
p.m.  e  quella dell'imputato, solo apparentemente superata dal nuovo
testo normativo.
    Infatti,   quanto   al  significato  da  attribuire  alla  parola
«processo»,   e'  evidente  che  la  Costituzione  intende  riferirsi
all'intero percorso che dalla notitia criminis perviene alla sentenza
definitiva, in armonia con quanto previsto all'art. 24, secondo comma
della Costituzione.
    Ora  a  fronte  del  legittimo potere riconosciuto all'imputato e
costituzionalmente   tutelato  ex  art.  24  della  Costituzione,  di
esercizio  del  proprio  diritto  di difesa in ogni stato e grado del
procedimento,  non  vi  e'  dubbio  che  anche  il p.m. e' chiamato a
esercitare la propria pretesa punitiva in ossequio al principio della
obbligatorieta'  dell'azione  penale (garantita attraverso l'art. 112
della  Costituzione),  al fine di vedere affermata la responsabilita'
penale  di  colui  che,  assoggetto  al  processo, venga riconosciuto
colpevole.
    Trattasi   di  una  pretesa  punitiva  di  rango  costituzionale,
riconoscendosi  in  capo  al p.m. la funzione di Organo preposto alla
realizzazione  degli  interessi  generali  della  giustizia, come del
resto, previsto dagli artt. 73 e 74, ord. giud.
    Ora,  se  e'  indubitabile  la  previsione di limiti al potere di
impugnazione  del  p.m. non e', di per se', in contrasto con la Carta
fondamentale   tanto   e'   vero   che,   in   tema  di  sentenze  di
proscioglimento  a  seguito  di giudizio abbreviato, tali limiti sono
stati ritenunti compatibili con il dettato costituzionale (da ultimo,
ord.  Corte costituzionale n. 421/2001), e' tuttavia da rilevare come
tra la speciale disciplina prevista in materia di giudizio abbreviato
(dettata  anche  da  evidenti ragioni di politica giudiziaria sottese
alla  premialita' del rito) e quella oggi prevista dal nuovo art. 593
c.p.p., vi siano sensibili differenze.
    Manca,   infatti,   in   quest'ultimo   caso   qualsiasi  ragione
giustificativa  per  una limitazione del potere di appello, avvertita
dallo  stesso  Presidente  della  Repubblica  nel  suo messaggio alle
Camere  del  20  gennaio  2006  con  il quale era stata rinviata alle
Camere la prima stesura della legge.
    Il  Presidente  della Repubblica aveva, infatti, segnalato che la
«soppressione dell'appello delle sentenze di proscioglimento, a causa
della  disorganicita'  della  riforma, fa si' che la stessa posizione
delle  parti  nel  processo  venga  ad  assumere  una  condizione  di
disparita'  che  supera  quella  compatibile  con la diversita' delle
funzioni svolte dalle parti stesse nel processo».
    Ne'   -   come   rilevato   dal  p.g.  nella  propria  memoria  -
l'inconveniente  risulta  eliminato  attraverso  la  formulazione del
comma  2  dell'art. 593 c.p.p. che prevede la possibilita' di appello
per  il  p.m.  a condizione che venga indicata una prova sopravvenuta
rispetto  alla fase precedente: trattasi, infatti, di una ipotesi del
tutto   residuale   e   marginale   che   di  fatto  rende  la  norma
sostanzialmente  identica a quella gia' oggetto dei rilievi formulati
dal Presidente della Repubblica.
    L'irragionevolezza  della  norma, peraltro, si coglie appieno la'
dove   si  consideri  che,  partendo  dalla  premessa  che  l'appello
rappresenta  una  forma  di  garanzia contro gli errori contenuti nel
giudizio  di  primo  grado,  la limitazione di esso ad una sola delle
parti  impedisce di pervenire al risultato della decisione giusta cui
mira qualsiasi processo.
    Senza   dire  che  apparirebbero  sostanzialmente  vanificate  le
funzioni di rilievo costituzionale del p.m. risultano delineate dagli
artt. 73 e 74, ord. giud.
    Ritiene,  ancora,  la  Corte di poter condividere le perplessita'
espresse  dal  p.g.  con riferimento alla violazione del principio di
ragionevolezza,  dal  momento  che  non e' dato comprendere in base a
quale  criterio  al  p.m.  e' dato appellare sentenze di condanna, se
ritenute  troppo  miti rispetto alla gravita' del fatto e non e' dato
appellare  avverso  sentenze  di  assoluzione  del  tutto  incoerenti
rispetto alle risultanze processuali.
    Questione di non poco momento e' poi quella afferente il rapporto
-  che  si  assume  violato - tra l'art. 1 della legge in argomento e
l'art. 111, commi primo, sesto e settimo della Costituzione.
    In  conseguenza delle modifiche apportate con tale legge, risulta
notevolmente  ed  irragionevolmente  estesa  l'area  del  giudizio di
merito   della   Cassazione,   trasformata   quindi   da  giudice  di
legittimita', (anche) a giudice di merito.
    A norma dell'art. 111 settimo comma della Costituzione, e' sempre
ammesso  ricorso  avverso  le sentenze ed i provvedimenti adottati in
tema  di  liberta'  personale,  davanti  la  Corte  di cassazione per
violazione   di  legge:  e'  dunque  evidente  che  l'intero  sistema
processuale  si  e'  fino  a questo momento poggiato sul c.d. «doppio
giudizio  di  merito»  da  parte  di  un giudice di primo grado e, di
seguito,  di  un  giudice  di  secondo  grado,  mentre  alla Corte di
cassazione  e'  rimesso  il  delicatissimo  compito di riesaminare il
processo  solo  nei  casi tassativamente determinati di violazione di
legge.
    Tale  compito,  correlato  all'obbligo di motivazione di tutti in
provvedimenti    giurisdizionali    contemplato   nel   sesto   comma
dell'art. 111 della Costituzione, finisce con l'essere vanificato per
effetto  di  una  riforma  che  introduce  tra i vizi ricorribili per
cassazione il travisamento del fatto non piu' ancorato al testo della
decisione, ma riferito a tutti i dati processuali.
    E'  da  escludere comunque un controllo di merito in via generale
per  le  sentenze  di proscioglimento, posto che non tutti gli errori
contenuti  nella  sentenza  potranno  rientrare  in una delle ipotesi
enunciate nell'art. 606 c.p.p.
    Non  e'  chi  non  veda  in  un  sistema  di tal fatta una palese
irragionevolezza  rappresentata,  oltre  che  da una ingiustificabile
estensione  dei  poteri  valutativi  della  Cassazione  con correlata
indeterminatezza  dei  criteri cui dovra' essere informato il ricorso
per  cassazione,  rimessi  esclusivamente al giudice di legittimita',
anche  da  una  altrettanto  ingiustificato allungamento dei tempi di
definizione  del  processo.  Del  resto  proprio su tali punti si e',
ancora  una  volta,  incentrato  il messaggio del Capo dello Stato in
sede  di  rinvio  della  legge alle Camere che, tuttavia, pare essere
stato ignorato dal legislatore.
    Profili  di  incostituzionalita'  sono,  ancora, rinvenibili, per
quanto  rileva  in  questa  sede,  nell'art. 10 della nuova legge che
regola la disciplina transitoria.
    Premesso  che  con  tale disciplina si e' di fatto verificata una
sostanziale abrogazione ex lege di tutti gli appelli proposti al p.m.
avverso  le  sentenze  di  proscioglimento, relativamente ai processi
pendenti  alla  data  di  entrata  in vigore della legge, la norma in
esame    appare,   anzitutto,   confliggere   con   l'art. 97   della
Costituzione,  in  quanto il rispetto del principio di buon andamento
dell'attivita'  giudiziaria  avrebbe  dovuto imporre la previsione di
norme  di  salvaguardia  delle  attivita'  processuali compiute dalle
parti  prima  dell'entrata  in  vigore  della  legge,  per evitare il
collasso dell'intero sistema processuale.
    Ancora piu' grave appare l'inconciliabilita' della norma rispetto
al   principio   costituzionalmente   garantito   all'art.   3  della
ragionevolezza,  essendo  indiscutibile  un effetto retroattivo della
legge processuale.
    E,  seppure  va  rimarcata  la  possibilita'  ex  art.  25  della
Costituzione  di  una retroattivita' delle norme processuali, esclusa
invece  per  le  norme  di  diritto  penale  sostanziale, e' comunque
innegabile   una   interferenza   diretta   delle  leggi  retroattive
sull'attivita'  giurisdizionale,  che  esige  la ragionevolezza della
retroattivita',   certamente   non   assicurata   laddove  la  scelta
legislativa  che  sta  alla  base non abbia alcuna plausibile ragione
giustificatrice.
    Come  osservato  dal  p.g., non solo non e' dato rinvenire alcuna
plausibile  ragione  alla  base  di  tale scelta, ma - come affermato
nella  sentenza  n. 525/2000 della Corte costituzionale - anche nella
materia  processuale vale la regola della tutela dell'affidamento che
esige  che  le  parti  conoscano  il momento in cui sorgono oneri con
effetti  pregiudizievoli  e,  ancor piu', confidino nello svolgimento
del giudizio secondo le regole vigenti all'epoca del compimento degli
atti processuali.
    In ultima analisi, il mutamento improvviso della disciplina per i
processi   in   corso,  senza  alcuna  garanzia  di  tipo  intermedio
dell'effetto  conservativo,  anche per consentire un'entrata a regime
della legge, appare del tutto priva di giustificazione logica.
    Si tratta, ancora una volta, di uno scardinamento del sistema che
urta  contro  diversi  principi  di  rango  costituzionale  e  che il
legislatore  ha  mostrato  di  voler evitare anche per la materia del
diritto  penale  sostanziale,  nonostante la copertura costituzionale
dell'art.  25,  secondo  comma  della  Costituzione,  in  materia  di
mutamento   dei   termini   di  prescrizione  dei  reati,  prevedendo
opportunamente  una  «moratoria»  per  i  processi  in  corso  il cui
dibattimento sia stato aperto in primo grado.
    A  conclusioni  non  dissimili  sul  piano  della  compatibilita'
costituzionale  deve giungersi con riferimento al contenuto dell'art.
10,  comma  2  della  legge  in esame che prevede la pronuncia di una
ordinanza  non  impugnabile di inammissibilita' dell'appello proposto
dal   p.m.  avverso  la  sentenza  di  proscioglimento:  avendo  tale
ordinanza  avente  -  per  il  suo  contenuto definitorio - natura di
sentenza, va riconosciuto il potere di ricorrere per Cassazione, pena
la violazione, per un verso, dell'art. 111, settimo comma che prevede
la   ricorribilita',   per   violazione   di   legge,   di  qualsiasi
provvedimento  giurisdizionale  e, per altro verso, dell'art. 3 sotto
l'aspetto  della  irragionevolezza  della  norma  che  sconvolgerebbe
l'intero sistema delle impugnazioni.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  degli artt. 593 c.p.p., come modificato
dall'art.  1  della  legge  n. 46/2006  e 10 della medesima legge per
violazione  degli  arti. 3, 111, commi secondo, sesto e settimo, 97 e
112  della  Costituzione  nei  termini  e  per  le ragioni esposte in
motivazione.
    Dispone  l'immediata  trasmissione degli atti relativi alla Corte
costituzionale, sospendendo il giudizio in corso.
    Dispone  che la presente ordinanza venga notificata, a cura della
cancelleria  al Presidente del Consiglio dei ministri e ai Presidenti
dei due rami del Parlamento.
        Palermo, addi' 8 novembre 2006
                        Il Presidente: Luzio
07C0592