N. 345 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 dicembre 2006

Ordinanza  emessa  il  20  dicembre  2006 dal tribunale di Urbino nel
procedimento penale a carico di Saadi Moulay Driss

Reati  e  pene  -  Circostanze  del  reato  - Concorso di circostanze
  aggravanti  e  attenuanti - Divieto di prevalenza delle circostanze
  attenuanti  sulle  circostanze  inerenti alla persona del colpevole
  nel  caso  previsto dall'art. 99, quarto comma, cod. pen. (recidiva
  reiterata)   -   Violazione   del  principio  di  ragionevolezza  -
  Disparita'  di  trattamento  tra  situazioni  analoghe - Parita' di
  trattamento  tra  situazioni  diverse - Lesione del principio della
  funzione rieducativa della pena.
- Codice  penale,  art. 69, comma quarto, come modificato dall'art. 3
  della legge 5 dicembre 2005, n. 251.
- Costituzione, artt. 3 e 27, comma terzo.
(GU n.20 del 23-5-2007 )
                            IL TRIBUNALE


    Nel  procedimento  penale iscritto al n. 28 1/06 R.G contro Saadi
Moulay  Driss,  nato  a  Casablanca  (Marocco)  il  1° dicembre 1976,
imputato  del  delitto  di  cui  all'art. 73,  d.P.R. 9 ottobre 1990,
n. 309  per  aver  detenuto,  ad evidente fine di spaccio, 37,6 g. di
sostanza stupefacente del tipo hashish.
    Commesso in Colbordolo (PU) il 26 settembre 2006.
    All'udienza  del  20  dicembre  2006,  ha pronunciato la seguente
ordinanza.
    1.  -  In data 27 settembre 2006 Saadi Moulay Driss, imputato del
delitto  di  cui all'art. 73, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per aver
detenuto,   ad   evidente  fine  di  spaccio,  37,6  g.  di  sostanza
stupefacente  del  tipo  hashish,  e' stato condotto dinanzi a questo
giudice   per   la  convalida  dell'arresto  e  contestuale  giudizio
direttissimo ex art. 558 c.p.p.
    A  seguito  della  convalida  dell'arresto,  si  e'  proceduto al
giudizio  direttissimo  nelle  forme  del  dibattimento;  all'odierna
udienza,  fissata per la discussione, le parti hanno concluso come da
verbale.
    Nell'istruttoria dibattimentale si e' accertato che, nel corso di
una   perquisizione   domiciliare   effettuata   presso  l'abitazione
dell'imputato,   sono   stati   rinvenuti  nella  sua  disponibilita'
complessivi gr. 37, 6 di sostanza stupefacente di tipo hashish - come
risultante  dalla  perizia tecnica d'ufficio -, contenenti mg 1017 di
principio  attivo. La perquisizione domiciliare e' stata effettuata a
seguito  del  rinvenimento  di  due  panetti di hashish sul luogo ove
qualche  ora  prima si era verificato un incidente stradale che aveva
coinvolto l'imputato.
    La  perizia  disposta  nel  corso  del  giudizio ha consentito di
accertare  la  piena coincidenza delle caratteristiche della sostanza
rinvenuta  a  seguito dell'incidente con quelle della sostanza di cui
al capo di imputazione.
    Le circostanze emerse dall'istruttoria dibattimentale, unitamente
alla   quantita'   di   principio  attivo  contenuto  nella  sostanza
sequestrata a seguito di perquisizione, consentono di ritenere che la
detenzione  della sostanza di cui al capo di imputazione da parte del
Saadi  fosse  finalizzata  all'uso non esclusivamente personale dello
stupefacente.
    L'imputato, pertanto, deve essere ritenuto responsabile del reato
di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990.
    2.  -  Ad  avviso del giudicante, peraltro, ricorrono gli estremi
dell'attenuante ad effetto speciale del fatto di lieve entita' di cui
all'art. 73, quinto comma, d.P.R. cit.
    Cio',  in  particolare,  deve  dirsi  avuto riguardo alla modesta
quantita'   ed  alla  qualita'  dello  stupefacente  rinvenuto  nella
disponibilita'   dell'imputato,   da   cui   si   desume  una  minore
offensivita'  della  condotta  da  lui  posta in essere rispetto alla
generale  condotta  sanzionata  dal  primo  comma dell'art. 73 d.P.R.
n. 309  del  1990  (in  tal  senso, tra le altre, Cass.n. 5534 del 1°
aprile 1996).
    Peraltro,  il  pubblico ministero ha contestato la sussistenza di
una recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale.
    Invero, come risulta dal certificato del casellario giudiziale in
atti  (sentenza  di  condanna per furto tentato ex artt. 56, 624, 625
n. 2   c.p.,  per  fatto  commesso  il  17  dicembre  1999,  divenuta
irrevocabile  l'8  maggio  2001;  sentenza di condanna per violazione
delle  norme contenute nel Testo Unico delle disposizioni concernenti
la  disciplina  dell'immigrazione  e  norme  sulla  condizione  dello
straniero   per   fatto  commesso  il  28  settembre  2001,  divenuta
irrevocabile   l'8  aprile  2005;  sentenza  di  condanna  per  falsa
dichiarazione  sull'identita'  propria  ex art. 496, 62-bis c.p., per
fatto  commesso il 28 maggio 1997, divenuta irrevocabile il 14 maggio
1999),  sussistono  gli  estremi  della  recidiva infraquinquennale e
reiterata  ai  sensi  dell'art. 99  quarto  comma  c.p., senza che le
precedenti  condanne riportate dall'imputato possano intendersi della
medesima   indole   del   delitto   doloso  contestato  nel  presente
procedimento   e,  dunque,  non  potendo  ritenersi  sussistente  una
recidiva di tipo specifico.
    A   norma  dell'art. 69,  quarto  comma,  c.p.,  come  modificato
dall'articolo  3  della  legge  n. 251  del  2005,  nei casi previsti
dall'articolo 99, comma 4, nonche' dagli articoli 111 e 112, comma 1,
numero  4),  vi e' divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti
sulle ritenute circostanze aggravanti.
    Pertanto,  ritenuta  la recidiva reiterata ai sensi dell'art. 99,
quarto   comma,  c.p.,  il  novellato  art. 69,  quarto  comma,  c.p.
impedisce  nel  caso  di  specie  il  giudizio  di  prevalenza  della
circostanza  attenuante ad effetto speciale di cui all'art. 73,quinto
comma,  d.P.R.  n. 309  del  1990  sulla  ritenuta aggravante, con la
conseguenza  che  le  due  circostanze  possono,  al  piu', ritenersi
equivalenti.
    L'imputato,  pertanto,  ai sensi delle richiamate disposizioni di
legge,  dovrebbe  essere  condannato  alla  pena della reclusione non
inferiore a sei anni e della multa non inferiore ad euro 26.000, come
disposto dall'art. 73, comma primo d.P.R. cit..
    3.  -  Tale conclusione, tuttavia, appare al giudicante in aperto
contrasto  con  il  principio di adeguatezza e proporzionalita' della
pena al fatto contestato ed accertato nel corso del giudizio e con il
principio di uguaglianza.
    Invero,  come gia' rilevato, i fatti che hanno costituito oggetto
del  giudizio  possono  sussumersi  nella  fattispecie della illecita
detenzione  di  sostanza  stupefacente;  tuttavia,  la qualita' della
sostanza - di tipo hashish -, unitamente alla sua quantita' - di poco
superiore al limite indicato, da ultimo, dal decreto ministeriale del
4  agosto  2006  -  induce  a  ritenere,  assolutamente  eccessiva  e
sproporzionata  la  pena  sopra  indicata,  individuata  in  base  al
richiamato  divieto  di  prevalenza  dell'attenuante  sulla  recidiva
contestata.
    Da  tale  evidente  sproporzione  tra  fatto  contestato  e  pena
irrogabile discende un duplice ordine di conseguenze.
    In   primo   luogo,   ove  irrogata,  tale  pena  non  tenderebbe
efficacemente alla rieducazione del condannato e, dunque, non sarebbe
funzionale allo scopo costituzionalmente imposto alla sanzione penale
dall'art. 27, terzo comma, della Carta fondamentale.
    In  secondo  luogo,  l'applicazione  di  una sanzione determinata
partendo dalla pena base di cui al primo comma dell'art. 73 del d.P.R
n. 309  del  1990,  in  relazione alla detenzione del quantitativo di
hashish  indicato  al  punto 1, costituirebbe evidente violazione del
principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione.
    4.   -   Tanto   premesso  in  ordine  ai  possibili  profili  di
incostituzionalita'  dell'art. 69, quarto comma, c.p., nella parte in
cui  non  consente  il  giudizio di prevalenza dell'attenuante di cui
all'art. 73,  quinto  comma, d.P.R. n. 309 del 1990, occorre svolgere
alcune  considerazioni  in  punto  di  rilevanza  della  questione di
costituzionalita'.
    La  determinazione  della  pena  nel quantum indicato al punto 2,
infatti, deve ritenersi necessaria ed, allo stato, a parere di questo
giudice,   non  evitabile  per  il  tramite  di  una  interpretazione
costituzionalmente orientata delle leggi.
    In  primo  luogo, infatti, la giurisprudenza di legittimita' e di
merito    appare    assolutamente    uniforme    nell'interpretazione
dell'ipotesi  prevista  dall'art. 73, quinto comma, d.P.R. n. 309 del
1990  quale  circostanza  attenuante  ad effetto speciale, che dunque
ricade  nel  novero  delle circostanze per cui l'art. 69 quarto comma
c.p.  vieta  il  giudizio  di  bilanciamento  nel senso di prevalenza
rispetto alla recidiva reiterata.
    A tal proposito, occorre rilevare che il consolidato orientamento
della  giurisprudenza non pone in dubbio la qualificazione della c.d.
«ipotesi  leve»  come circostanza attenuante, atteso che gli elementi
che  devono costituire oggetto di valutazione da parte del giudice al
fme  di riconoscere tale ipotesi lieve - quali i mezzi, le modalita',
le  circostanze dell'azione, la quantita' e qualita' della sostanza -
sono  i medesimi che consentono di ritenere integrati gli estremi del
reato  di  cui  all'art. 73,  primo  comma,  d.P.R.  n. 309 del 1990,
sebbene  in  forma attenuata nel senso di una minore offensivita' del
fatto rispetto al medesimo bene giuridico tutelato.
    In  tal  senso,  da  ultima,  si  e' espressa la suprema Corte di
cassazione  con le sentenze n. 38879 del 29 settembre 2005 e n. 20556
del  24  febbraio 2005, che hanno confermato le conclusioni raggiuute
con la sentenza n. 17 del 21 giugno 2000 pronunciata a sezioni unite.
    E'  pur vero che, da parte di alcuna dottrina, si e' mossa aperta
critica   a  tale  conclusione,  muovendo  dalla  considerazione  del
medesimo tenore letterale del comma quinto dell'art. 73 d. cit, oltre
che  da  argomenti  di  carattere  sistematico  che  imporrebbero  di
considerare  la  norma in esame quale, piuttosto, ipotesi autonoma di
reato.
    In  particolare,  si e' argomentato in ordine alla previsione del
sesto  comma  dell'art. 74  del  d.P.R.  n. 309 del 1990, a norma del
quale,  se  si  e'  costituita  associazione al fine di «commettere i
fatti  descritti dal comma 5 dell'articolo 73», si applicano il primo
e il secondo comma dell'articolo 416 del codice penale.
    A  parere  di  tale  dottrina,  tale dizione letterale lascerebbe
presumere  che il legislatore abbia individuato la condotta di cui al
comma in esame quale autonoma fattispecie penalmente rilevante, tanto
da ricollegarvi altra previsione sanzionatoria in termini di assoluta
indipendenza   rispetto  alla  fattispecie  di  cui  al  primo  comma
dell'art. 73 d. cit.
    E'  innegabile,  peraltro,  ai  fini che qui ci occupano, che una
tale  interpretazione  della  fattispecie  di  cui  al  comma  quinto
dell'art. cit.   consentirebbe   l'applicazione   di   una   sanzione
proporzionata al fatto in esame.
    Tuttavia   si   ritiene   che,   allo   stato,  il  surrichiamato
orientamento    della   giurisprudenza,   in   quanto   assolutamente
consolidato, non consenta di avallare siffatta interpretazione.
    5.  - La giurisprudenza di merito, peraltro, conscia del pericolo
di  violazione  dei  precetti  costituzionali sopra richiamati insito
nell'applicazione  del  novellato art. 69 c.p., ha cercato di fornire
risposte interpretative in un certo senso «correttive» che, tuttavia,
non possono essere qui condivise.
    In  primo luogo, si e' affermato che il rischio di violazione del
dettato costituzionale possa essere evitato in virtu' del riferimento
dell'art. 69,   quarto   comma,   c.p.   alle  sole  ipotesi  di  cui
all'art. 99,   quarto   comma,   c.p.   che,   in   quanto   connesse
all'applicazione  facoltativa  dell'aumento  di  pena previsto per la
recidiva,  lascerebbero  idoneo spazio alla valutazione discrezionale
del  giudice  di  merito  finalizzata  all'adeguamento  della pena al
fatto.
    In  realta',  a  tale osservazione occorre obiettare, da un lato,
che  il  legislatore ha appositamente previsto e disciplinato il caso
della  recidiva  reiterata  con  aumento  di  pena  facoltativo, come
dimostra   il  riferimento  svolto  nell'art. 69  quarto  comma  alle
«ritenute»   aggravanti;  dall'altro,  che  la  possibilita'  di  non
ritenere  di applicare il previsto aumento di pena non puo' risolvere
il problema posto dalla nuova regola di cui all'articolo in esame.
    Infatti,  l'espresso  richiamo  dell'art. 69,  quarto  comma c.p.
all'art. 99,   quarto  comma  cp,  con  riferimento  alla  «ritenuta»
recidiva,  impone  di  considerare  operante il divieto di prevalenza
delle  circostanze  attenuanti  in tutti i casi in cui si «ritengano»
sussistere  i presupposti della recidiva e non solo quando si ritenga
di  applicare  il  relativo  aumento  di  pena, risultando altrimenti
facilmente eludibile l'intento del legislatore.
    Cio'  in  quanto,  all'evidenza,  basterebbe  pur in presenza dei
presupposti  di  fatto  della  recidiva  reiterata  ritenere  di  non
applicare  l'aumento  di  pena  conseguente (per neppure un giorno di
reclusione  aggiuntivo)  al  fine  di ottenere la disapplicazione del
novellato art. 69, quarto comma c.p.
    Al  contrario,  dall'interpretazione  della  voluntas  legis come
risultante  dalla  novella  deve  evincersi  che il legislatore abbia
precisamente   inteso  inasprire  il  trattamento  sanzionatorio  con
riferimento  a  tutti  i casi di imputato recidivo reiterato, proprio
sottraendo  al giudice di merito quel potere discrezionale che invece
gli   sarebbe   stato   attribuito   dal   previgente  meccanismo  di
bilanciamento  delle  circostanze  di  cui  al medesimo art. 69 c.p.,
oltre  che  dalla  facoltativita'  dell'aumento  di  pena nel caso di
recidiva reiterata.
    In  secondo  luogo,  deve  qui  essere  esaminato  l'orientamento
«correttivo»  espresso  nella sentenza 8 maggio 2006 del Tribunale di
Grosseto.
    In  tale  pronuncia  il  tribunale  prende le mosse dalla lettura
della  sentenza della Corte costituzionale n. 38 del 1985 (confermata
con  la  successiva  sentenza  n. 194/1985),  emessa  in relazione al
trattamento  sanzionatorio previsto per la aggravante della finalita'
di terrorismo.
    In  quel  caso,  la  Corte  costituzionale  era  stata chiamata a
decidere  in  ordine  alla  legittimita'  costituzionale dell'art. 1,
comma   terzo,   d.l.  15  dicembre  1979,  n. 625,  come  convertito
nell'art. 1,   legge  6  febbraio  1980,  n. 15,  relativamente  alla
questione del divieto di equivalenza e di prevalenza delle attenuanti
sull'aggravante della finalita' di terrorismo.
    Nell'esaminare   la  questione,  la  Corte  costituzionale  aveva
escluso  l'obbligatorieta'  del  giudizio  di  bilanciamento  tra  le
circostanze  di  cui  all'art. 69  c.p. nell'ipotesi portata alla sua
cognizione,  argomentando  nel  senso  che  «nell'art. 69  cod. pen.,
l'obbligatorieta'   del   giudizio   di   bilanciamento  ha  una  sua
razionalita'  nell'essenza  stessa  di  quella  valutazione,  che  e'
giudizio di valore globale del fatto e non numerico delle circostanze
contrapposte e concorrenti» sicche' «il giudice e' libero di valutare
il  fatto  in  tutta  la  sua ampiezza circostanziale, sia eliminando
dagli  effetti  sanzionatori  tutte le circostanze (equivalenza), sia
tenendo  conto  di  quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure
soltanto  di  quelle  che la diminuiscono. Ma, una volta rotto questo
perfetto  equilibrio  valutativo, che implica un globale giudizio sia
sul  fatto  di reato che sulla personalita' del suo autore, e privato
il  giudice  (...)  del  potere  di esprimere, ai fini della pena, un
giudizio  omogeneo  e  complessivo  su tutta la vicenda soggettiva ed
oggettiva   dell'illecito,   tenere  ferma  tuttavia  unilateralmente
quell'obbligatorieta',     che    trovava    giustificazione    nella
corrispettiva  omogeneita'  dei  criteri  valutativi,  determinerebbe
effettivamente una situazione del tutto irrazionale». Il Tribunale di
Grosseto  prende  spunto  da  tale  argomentazione per concludere che
anche  nel  caso  li' esaminato - del tutto analogo rispetto a quello
che  si  analizza in questa sede - non puo' ritenersi obbligatorio il
giudizio  di  bilanciamento  tra  le circostanze, a cui si procede in
virtu'  dell'art. 69  c.p.  nei  soli  casi in cui il legislatore non
intervenga   ad   imporre  la  prevalenza  di  una  circostanza  c.d.
«blindata» su altre circostanze.
    Il  giudizio  di  bilanciamento,  in  presenza di aggravanti c.d.
«protette»  o  «blindate»,  potra'  essere  effettuato  tra  le altre
circostanze,  purche'  con  esclusione  di  quella rafforzata, di cui
dovra' farsi necessariamente applicazione.
    In   altri   termini,   a   parere   della  pronuncia  di  merito
surrichiamata,   la   finalita'   perseguita   dal   legislatore  con
l'introduzione  della  novella  del  comma  quarto  dell'art. 69 c.p.
consiste esclusivamente nell'impedire che il giudice, nell'operare il
giudizio di bilanciamento tra le circostanze, consideri prevalenti le
attenuanti  cosi'  non  applicando  l'aumento di pena previsto per la
ritenuta recidiva.
    Ha  considerato  il tribunale, pertanto, che il novellato art. 69
c.p. non escluda l'applicazione delle circostanze attenuanti, purche'
sia  fatta  applicazione  anche  dell'aumento di pena previsto per la
recidiva.
    Tale  assunto,  invero,  sarebbe conforme alle conclusioni cui e'
giunta  la  Corte  Costituzionale nella sentenza n. 38 del 1985 prima
richiamata,   che  ha  consentito  l'applicazione  delle  circostanze
attenuanti  ritenute  sussistenti nel caso in cui siano integrati gli
estremi  dell'aggravante  della  finalita'  di terrorismo, purche' si
operi  l'aumento di pena previsto per la citata aggravante ad effetto
speciale.
    Da  tale  impianto  argomentativo  il  Tribunale  di  Grosseto ha
dedotto  che,  nel  caso in cui ritenga l'ipotesi di lieve entita' di
cui  al  quinto  comma  dell'art. 73  d.P.R. 309 del 1990, il giudice
potrebbe  fare  applicazione  dell'attenuante  purche' applichi anche
l'aggravante della ritenuta recidiva.
    In  buona  sostanza, poiche' l'attenuante in parola e' di effetto
speciale,  la pena da infliggere dovrebbe essere determinata partendo
dall'anno di reclusione di cui all'art. 73, quinto comma, d.P.R. cit.
ed operando l'aumento di pena previsto per la recidiva.
    Tale conclusione, tuttavia, non appare condivisibile per i motivi
che seguono.
    La  sentenza  n. 38 del 1985 della Corte costituzionale, infatti,
risolve  la  questione  relativa  all'aggravante  della  finalita' di
terrorismo  disponendo  che  possono  essere applicate le circostanze
attenuanti  pure  riconosciute  -  al  contrario di cio' che, in quel
caso,  aveva  sostenuto la Corte remittente - «qualora il giudice non
intenda  esercitare  quel  giudizio  di  bilanciamento  che  la legge
consente solo a favore dell'aggravante de qua.
    In  altre  parole, nel caso li esaminato, la Corte costituzionale
interpreta  il divieto di prevalenza ed equivalenza delle circostanze
attenuanti  rispetto  a  quella specifica aggravante ritenendo che il
giudizio  di bilanciamento tra le circostanze di cui all'art. 69 c.p.
debba  ritenersi  ne'  obbligatorio ne' tanto meno precluso, purche',
ove operato, si ritenga la prevalenza dell'aggravante cd. «blindata».
    Nell'ipotesi  esaminata dalla Corte, peraltro, come pure rilevato
in  sentenza,  si  trattava  di una circostanza aggravante ad effetto
speciale,  sicche' le diminuzioni di pena da effettuarsi in relazione
alle   citate   attenuanti,  fuori  dal  giudizio  di  bilanciamento,
avrebbero  dovuto  essere  operate  sulla base della pena individuata
partendo    dall'aumento   determinato   per   l'applicazione   dell'
aggravante.
    Cio',  pertanto, consentiva la piena applicazione dell'aggravante
cd. «blindata».
    Nel  caso che qui ci occupa, al contrario, l'attenuante di cui al
quinto  comma  dell'art. 73  d.P.R.  n. 309  del  1990  e' ad effetto
speciale,  con  la  conseguenza  che,  in  applicazione  della regola
contenuta  nell'art. 63, terzo comma, c.p., come pure argomentato dal
Tribunale  di  Grosseto, deve innanzitutto operarsi la diminuzione di
pena  da  essa  prevista  e,  successivamente,  applicarsi  l'aumento
conseguente alla ritenuta recidiva.
    Cio',  peraltro,  conduce  necessariamente  ad una violazione del
divieto  di  prevalenza  dell'attenuante  sulla  recidiva imposto dal
novellato art. 69 c.p.
    Infatti,  il  legislatore  ha  stabilito che, in caso di ritenuta
recidiva,  l'attenuante non possa in alcun caso ritenersi prevalente,
con  la  conseguenza  che,  potendosi  al  piu'  ritenere equivalente
all'aggravante,  gli effetti della circostanza attenuante non debbano
prodursi, in ogni caso, in modo tale da «condizionare» l'applicazione
della recidiva.
    Dunque,  nel caso in esame, trattandosi di circostanza attenuante
ad  effetto  speciale,  ove  il  giudice  ritenesse di non operare un
bilanciamento  delle  circostanze  -  cosi' non ritenendo equivalente
l'attenuante  in  parola  con  la recidiva -, scegliendo piuttosto di
applicare  sia  l'aumento  di  pena  previsto  per  l'aggravante c.d.
blindata  che  la diminuzione prevista per l'attenuante, l'aumento di
pena conseguente alla recidiva verrebbe ad essere ridotto nel quantum
dalla  necessaria  previa diminuzione della pena base individuata dal
quinto comma dell'art. 73 d.P.R. cit.
    In   tal   modo,   si   ritiene  che  il  risultato  del  mancato
bilanciamento   verrebbe  ad  essere,  inevitabilmente,  elusivo  del
divieto  di prevalenza dell'attenuante disposto dalla norma, che deve
essere  inteso  come divieto di prevalenza di un qualsivoglia effetto
della circostanza attenuante.
    Peraltro, ritiene l'odierno remittente che tale conclusione possa
intendersi  conforme a quanto statuito dalla Corte costituzionale con
la  sentenza n. 38 del 1985, in quanto il divieto di prevalenza viene
inteso  non  gia' come impeditivo di una qualsiasi applicazione delle
circostanze   attenuanti,   ma   senz'altro   impeditivo   di  quella
applicazione    che   determini,   negli   effetti,   la   prevalenza
dell'attenuante nella determinazione della pena base da irrogarsi nel
caso concreto.
    Cosi'  argomentando  in ordine alle possibili interpretazioni del
novellato  art. 69  c.p., in relazione alla circostanza attenuante di
cui  all'art. 73,  quinto  comma,  d.P.R.  n. 309  del  1990,  questo
giudicante  ritiene che l'impianto normativo da applicarsi al caso in
esame  non consenta interpretazioni differenti rispetto all' indicata
condanna ad anni sei di reclusione ed euro 26.000 di multa.
    6.  -  Ma  tale  impianto normativo, come si e' detto, appare, ad
avviso  del  remittente, in contrasto con il principio costituzionale
della  finalita'  rieducativa  della  pena  e  con  il  principio  di
uguaglianza.
    La  Corte costituzionale ha avuto piu' volte modo di precisare la
portata  della  disposizione  dell'articolo  27  della Costituzione e
l'ambito  del proprio sindacato in merito alle scelte del legislatore
in materia di trattamento sanzionatorio.
    Al  riguardo  particolarmente  significativa  appare  la sentenza
della  Corte  costituzionale n. 313 del 1990, la quale si e' espressa
in  merito alla necessita' che la legittimazione della funzione della
pena   sia   compiuta  anche  tramite  il  rispetto  della  finalita'
rieducativa  del condannato. In particolare, in quella sede, la Corte
costituzionale  ha  avuto  modo  di rilevare che se la funzione della
pena  fosse  intesa  come  limitata  alla  prevenzione ed alla difesa
sociale,   riducendo   l'operativita'   della  finalita'  rieducativa
individuata  dall'art. 27  Cost. negli angusti limiti del trattamento
penitenziario,   «si   correrebbe   il  rischio  di  strumentalizzare
l'individuo  per  fini  generali  di  politica criminale (prevenzione
generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di
stabilita'  e  sicurezza  (difesa  sociale),  sacrificando il singolo
attraverso l'esemplarita' della sanzione».
    La  Corte  ha  dunque precisato che «la necessita' costituzionale
che  la  pena  debba tendere a rieducare, lungi dal rappresentare una
mera  generica  tendenza  riferita al solo trattamento, indica invece
proprio  una  delle qualita' essenziali e generali che caratterizzano
la  pena  nel  suo  contenuto  ontologico, e l'accompagnano da quando
nasce,  nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto
si  estingue.  Cio'  che  il  verbo  «tendere»  vuole  significare e'
soltanto  la  presa  d'atto della divaricazione che nella prassi puo'
verificarsi   tra   quella   finalita'  e  l'adesione  di  fatto  del
destinatario   al   processo   di   rieducazione:  com'e'  dimostrato
dall'istituto  che  fa  corrispondere  benefici di decurtazione della
pena  ogniqualvolta,  e  nei  limiti temporali, in cui quell'adesione
concretamente  si manifesti (liberazione anticipata). Se la finalita'
rieducativa venisse limitata alla fase esecutiva, rischierebbe grave,
compromissione  ogniqualvolta  specie  e  durata  della  sanzione non
fossero  state  calibrate  (ne'  in  sede  normativa  ne'  in  quella
applicativa) alle necessita' rieducative del soggetto».
  La  Corte costituzionale, pertanto, ha concluso che «il precetto di
cui  al terzo comma dell'art. 27 della Costituzione vale tanto per il
legislatore  quanto  per  i  giudici  della cognizione, oltre che per
quelli  dell'esecuzione  e della sorveglianza», facendo rilevare come
il  principio  di  proporzione  tra  la quantita' e la qualita' della
sanzione  da  una parte ed offesa dall'altra sia diventato patrimonio
dell'intera cultura giuridica europea.
    Nel  caso  di  specie,  in particolare, si ritiene che il vincolo
imposto al giudice nella determinazione della pena in maniera affatto
avulsa   dalla  considerazione  dei  connotati  obiettivi  del  fatto
costituisca   evidente   violazione   del  principio  della  fmalita'
rieducativa della sanzione penale.
    Infatti,  l'art. 69  c.p.,  nel novellato quarto comma, impone di
conferire  rilievo  alla  circostanza  soggettiva  della  persona del
colpevole  -  consistente  nell'aver  riportato piu' condanne penali,
anche  e  prescindere  da  ogni considerazione circa la tipologia dei
precedenti  reati commessi - a discapito della connotazione obiettiva
del fatto e delle circostanze della condotta contestata.
    In  particolare, il divieto fatto al giudice di tener conto della
condotta  concretamente  tenuta dall'imputato - la cui considerazione
potrebbe   indurre  alla  concessione  delle  circostanze  attenuanti
generiche  prevalenti  o,  nel  caso  di specie, all'applicazione del
qumto  comma  dell'art. 73  del d. P.R. cit. in luogo del primo comma
della  medesima  norma - appare improntato ad irragionevole severita'
nell'esercizio   della   discrezionalita'  legislativa,  con  fondato
pericolo di compromissione di quella finalita' rieducativa della pena
che,  invece, dovrebbe costituire il primario criterio di guida nella
politica sanzionatoria perseguita dalla legge.
    Appare  opportuno, a questo punto, richiamare i principi espressi
dalla  stessa  Corte  Costituzionale  nella sentenza n. 313 del 1995:
«Perche' sia possibile operare uno scrutinio che direttamente investa
il  merito  delle  scelte  sanzionatorie  operate dal legislatore, e'
pertanto   necessario  che  l'opzione  normativa  contrasti  in  modo
manifesto  con  il  canone  della  ragionevolezza,  vale  a  dire  si
appalesi,  in  concreto,  come  espressione  di un uso distorto della
discrezionalita'  che  raggiunga  una  soglia  di  evidenza  tale  da
atteggiarsi  alla stregua di una figura per cosi' dire sintomatica di
«eccesso   di   potere»   e,   dunque,  di  sviamento  rispetto  alle
attribuzioni che l'ordinamento assegna alla funzione legislativa. Non
e',  quindi,  qualsiasi  mutamento  del  costume  o  della  coscienza
collettiva  a  poter  indurre  nuove  gerarchie  di  valori  idonee a
compromettere,  sul  piano  della  ragionevolezza  costituzionalmente
rilevante,  la  ponderazione che dei beni coinvolti sia stata operata
in   sede   normativa   attraverso  l'individuazione  delle  condotte
penalmente  rilevanti e la determinazione del conseguente trattamento
sanzionatorio,  giacche',  ove  cosi'  fosse,  alla relativita' di un
giudizio  di valore - quello legislativo - finirebbe ineluttabilmente
per  sovrapporsi un controllo di ragionevolezza anch'esso relativo e,
come  tale, idoneo a realizzare una funzione eminentemente «creativa»
che  sicuramente  fuoriesce  dai  compiti  riservati  a questa Corte.
L'apprezzamento  in  ordine  alla  manifesta  irragionevolezza  della
quantita'  o  qualita'  della  pena  comminata  per  una  determinata
fattispecie  incriminatrice finisce, dunque, per saldarsi intimamente
alla  verifica  circa  l'effettivo  uso del potere discrezionale, nel
senso  che,  ove  uno  o  piu'  fra  i  valori  che  la norma investe
apparissero  sviliti al punto da risultare in concreto compromessi ad
esclusivo  vantaggio  degli altri, sara' la stessa discrezionalita' a
non potersi dire correttamente esercitata, proprio perche' carente di
alcuni dei termini sui quali la stessa poteva e doveva fondarsi».
    Nel  caso in esame, le disposizioni normative richiamate appaiono
viziate   da  irragionevolezza  nella  misura  in  cui  dalla  scelta
discrezionale  dell'inasprimento  del  trattamento  sanzionatorio nei
confronti  dell'imputato  recidivo si fa discendere una inaccettabile
scissione  tra  il  fatto  concreto contestato e la risposta punitiva
dell'ordinamento, che pare prescindere dall'oggetto della imputazione
per ancorarsi con stretta automaticita' ai soli precedenti penali del
soggetto.
  La  Corte  costituzionale, peraltro, ha in piu' occasioni precisato
che  l'individualizzazione  della  pena,  in  modo  da  tenere  conto
dell'effettiva  entita' e delle specifiche esigenze dei singoli casi,
si   pone   come   naturale   attuazione   e  sviluppo  dei  principi
costituzionali  tanto  di  ordine generale (principio di uguaglianza)
quanto  attinenti direttamente alla materia penale, tanto piu' che lo
stesso  principio  di  legalita' della pena ex art. 25, secondo comma
Cost.  si inserisce in un sistema in cui si esige la differenziazione
piu'  che  l'uniformita'.  In  tale  quadro,  ha un ruolo centrale la
discrezionalita'  giudiziale,  nell'ambito  dei criteri segnati dalla
legge  (in  tal senso, sentenze n. 50 del 1980, 104 del 1968; 118 del
1973).
    7.  -  Le  considerazioni  svolte  devono  essere  a questo punto
raccordate  al  fine di specificare il profilo di incostituzionalita'
dell'art. 69,  quarto  comma,  c.p.  in relazione a tutte circostanze
attenuanti ad effetto speciale.
    A  parere di questo giudicante, infatti, tutto quanto argomentato
nei  punti  precedenti vale, in particolar modo, con riferimento alle
attenuanti ad effetto speciale, a mezzo delle quali il legislatore ha
inteso  prendere  atto  della  minore  offensivita' delle fattispecie
concrete, se ritenuta dal giudice del fatto, prevedendo una pena base
differente rispetto a quella individuata dalla norma incriminatrice.
    La struttura di tali particolari attenuanti, dunque, e' costruita
all'apposito  scopo  di  conferire  uno speciale rilievo al requisito
dell'offensivita'  giudicata  ridotta,  tanto  da  discostarsi  dalla
previsione  generale  del  reato  con  autonoma  determinazione della
sanzione.
    Siffatte   attenuanti,  tra  le  quali  rientra  quella  prevista
dall'art. 73, quinto comma, del d.P.R. cit., proprio in ragione della
peculiarita'  della  loro.  struttura, esigono che rimanga in capo al
giudice  il  potere-dovere di valutarne l'applicabilita', desumendola
dalle sole connotazioni particolari del fatto.
    Una   valutazione   negativa   svolta   in   via  preventiva  dal
legislatore,  necessariamente  disancorata  dalle circostanze proprie
della  concreta fattispecie, appare senza dubbio violativa, oltre che
delle  norme  costituzionali  richiamate,  del  profondo  senso delle
attenuanti   ad   effetto  speciale  come  individuato  dal  medesimo
legislatore ordinario.
    8.  - La Corte costituzionale, piu' volte chiamata a pronunciarsi
sulla   legittimita'  costituzionale  delle  norme  incriminatici  in
relazione  al quantum di pena da irrogare, ha avuto modo di precisare
che la configurazione delle fattispecie criminose e la determinazione
delle  pene  appartengono  alla  politica legislativa e, quindi, alla
discrezionalita'   del  legislatore,  censurabile  solo  in  caso  di
manifesta  irragionevolezza  (v. ordinanze mi. 456 del 1997 e 435 del
1998; ordinanza 207 del 1999).
    In   particolare,   con   ordinanza  456  del  1997,  chiamata  a
pronunciarsi in ordine ad un caso in cui veniva dedotta la violazione
dell'art. 27,  secondo  comma,  della  Costituzione per irragionevole
esercizio  della  discrezionalita'  legislativa  nella determinazione
della  pena,  la  Corte  ha  ribadito  che  «la  configurazione delle
fattispecie  criminose  e  la  valutazione  delle  conseguenze penali
appartengono  alla  politica legislativa e, quindi, all'incensurabile
discrezionalita'  del legislatore, con l'unico limite della manifesta
irragionevolezza,  che deve senz'altro escludersi nel caso in cui due
condotte, ancorche' diverse nel disvalore, siano tuttavia trattate in
modo  omogeneo  sul piano sanzionatorio dal legislatore, in quanto in
questo  caso  l'adeguamento  della pena all'effettivo disvalore della
condotta  rientra tra i compiti del giudice nell'esercizio dei poteri
conferitigli dagli artt. 132 e 133 cod. pen.».
    Ebbene,  nel  caso di specie, la discrezionalita' del legislatore
e'  stata  esercitata  in  maniera  tale da sottrarre al giudice, per
tutti  i  motivi  suesposti,  quel  potere  di adeguamento della pena
all'effettivo disvalore del fatto.
    Pertanto, precludendo all'attivita' giurisdizionale la strada per
l'esercizio di quel potere che costituisce legittimazione stessa, nel
suo   proprio   ambito   di   azione,   dell'ampia   discrezionalita'
legislativa,  l'intervento  normativo  di  riforma  del  quarto comma
dell'art. 69 c.p. non puo' che reputarsi viziato da irragionevolezza.
    9.  -  Le  norme  impugnate  appaiono inoltre in contrasto con il
principio  di uguaglianza sancito dall'articolo 3 della Costituzione,
in  quanto  da  un  lato  determinano una irragionevole disparita' di
trattamento  tra  situazioni analoghe dall'altro impongono in maniera
irragionevole  un  trattamento uguale per situazione molto differenti
tra   loro.   Infatti,  l'odierno  imputato,  in  ragione  della  sua
condizione soggettiva di recidivo, dovrebbe essere punito con pena di
sei  volte superiore nel minimo rispetto a quella irrogabile ad altro
imputato  che,  eventualmente,  si sia reso responsabile del medesimo
fatto   di  detenzione,  con  conseguente  eccessiva  disparita'  nel
trattamento   sanzionatorio   in  relazione  a  situazioni  di  fatto
identiche.  Non  potendosi  considerare  ragionevole  una cosi' grave
differenza  nelle  conseguenze  sanzionatorie  fondata esclusivamente
sulla condizione soggettiva dell'imputato.
    D'altro  canto,  il  medesimo  imputato  subirebbe un trattamento
sanzionatorio  identico  a  quello di altro imputato che, in ipotesi,
non  abbia  precedenti  penali  ma  si  sia  reso  responsabile della
detenzione  di ben maggiori quantitativi del medesimo stupefacente od
addirittura  di  sostanza  rientrante  nel  novero delle c.d. «droghe
pesanti».
    Infatti,  la  parificazione effettuata a livello normativo tra le
cd.   «droghe   pesanti»   e   l'hashish,   unitamente   al  disposto
dell'art. 69,  comma  quarto,  c.p.,  produce  la  conseguenza di una
irragionevole parificazione del trattamento sanzionatorio di fatti di
detenzione  illecita  di  sostanze stupefacenti ben differenti tra di
loro.
    Invero,  non  puo'  affermarsi  che  il  disvalore  penale  della
detenzione  di  una  quantita'  equivalente  a  venti dosi singole di
hashish  possa essere parificato al disvalore insito nella detenzione
di ben piu' elevate dosi di droghe c.d. «pesanti».
    Al  giudicante  rimettente,  tuttavia, e' preclusa la valutazione
effettiva  di tale minore disvalore dal disposto dell'art. 69, quarto
comma,  c.p.  che,  pertanto, si pone in contrasto anche con l'art. 3
della  Costituzione nella parte in cui impone il medesimo trattamento
sanzionatorio  con  riguardo  a fattispecie di detenzione di sostanza
stupefacente  ben  diverse  tra  loro, esclusivamente in virtu' delle
precedenti condanne riportate dall'imputato.
    Allo stesso modo, apparirebbe violato il principio di eguaglianza
laddove,  per  il solo effetto della recidiva, fossero sanzionati con
pene di molto piu' severe soggetti che si siano resi responsabili dei
medesimi fatti.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge n. 87 del 1953;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 69,  quarto comma, c.p., come
modificato  dall'articolo  3  della legge n. 251/2005, nella parte in
cui prevede il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti, in
particolare  quelle  ad  effetto speciale, sulla ritenuta circostanza
aggravante  di cui all'art. 99, quarto comma, c.p., per contrasto con
gli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione.
    Sospende  il  processo  e  ordina la trasmissione degli atti alla
Corte costituzionale.
    Dispone  che  l'ordinanza, di cui e' data lettura in udienza alle
parti,  sia  notificata  al  Presidente  del Consiglio dei ministri e
comunicata ai Presidenti della Camera e del Senato della Repubblica.
        Urbino, addi' 20 dicembre 2006
                         Il giudice: Marrone
07C0639