N. 104 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 settembre 2007

  Ordinanza  del 21 settembre 2007 emessa dal Corte di cassazione nel
procedimento penale a carico di Italiano Antonino
  Ambiente - Rifiuti - Albo nazionale delle imprese esercenti servizi
  di   smaltimento   -  Esclusione  dell'obbligo  di  iscrizione  per
  l'imprenditore  che  a  titolo  professionale trasporti rifiuti non
  pericolosi per conto proprio - Conseguente non configurabilita' per
  tale  soggetto  del  reato  di cui all'art. 51, comma 1, del d.lgs.
  n. 22/1997  -  Contrasto  con  la  direttiva  91/156/CEE  e  con la
  giurisprudenza  della  Corte di giustizia della Comunita' europea -
  Inosservanza  dei  vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario -
  Riproposizione  di  questione  oggetto  della ordinanza della Corte
  costituzionale   n. 126/2007   di   restituzione   atti   per   ius
  superveniens.
  -  Decreto  legislativo  5  febbraio 1997, n. 22, art. 30, comma 4,
  come modificato dall'art. 1, comma 19, della legge 9 dicembre 1998,
  n. 426.
  -  Costituzione artt. 11 e 117, primo comma; direttiva CEE 18 marzo
  1991, n. 156.
(GU n.17 del 16-4-2008 )
                       LA CORTE DI CASSAZIONE
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sul  ricorso proposto da
Italiano Antonio, nato a Barcellona Pozzo di Gotto il 20 maggio 1964,
avverso l'ordinanza in data 4-12 luglio del Tribunale di Messina, con
cui  e'  stata  respinta la richiesta di riesame avverso il sequestro
preventivo emesso il 10 giugno 2005 dal G.i.p. presso il Tribunale di
Barcellona Pozzo di Gotto;
   Sentita la relazione effettuata dal consigliere Luigi Marini;
   Udito  il  pubblico  ministero  nella  persona del cons. Guglielmo
Passacantando,  che  ha  concluso,  in  via  principale,  per  la non
manifesta infondatezza della sollevata questione di costituzionalita'
con  riferimento  alla  normativa introdotta con il d.lgs. n. 152 del
2006;  in  subordine  per  l'annullamento  con  rinvio della sentenza
impugnata.
                             R i l e v a
   1.  -  Con  atto  depositato  il  22  luglio 2005 il ricorrente ha
proposto  ricorso  per cassazione avverso l'ordinanza del 4-12 luglio
2005  con  cui  il  Tribunale  di Messina ha respinto la richiesta di
riesame  presentata  contro  il provvedimento di sequestro preventivo
emesso  dal  G.i.p.  presso il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto
relativo  ad  un  autocarro che trasportava materiale edile di scarto
senza le previste autorizzazioni.
   Il  g.i.p.  ha ritenuto sussistere i presupposti del sequestro con
riferimento   al  reato  di  trasporto  non  autorizzato  di  rifiuti
pericolosi  previsto  dall'art. 51, comma primo, del d.lgs. n. 22 del
1997,  avendo  riferimento  anche  alle  diverse  ipotesi  di  reato
previste  sia  dal  successivo  comma  terzo,  e  cioe'  l'ipotesi di
gestione di discarica abusiva, reato cui concorrono anche le condotte
di  approvvigionamento  del  materiale  poi  conferito, sia dal comma
secondo,  sotto  il  profilo  dello  smaltimento  abusivo  di rifiuti
derivanti da attivita' di impresa.
   2.  -  Avverso tale provvedimento l'odierno ricorrente ha proposto
richiesta  di  riesame  sostenendo,  in  primo  luogo,  che  egli  fu
sottoposto  a  controllo da parte della Guardia di Finanza mentre era
alla guida di un automezzo della propria ditta che percorreva una via
centrale di Barcellona Pozzo di Gotto. Mancherebbe, dunque, qualsiasi
elemento  che  relazioni  il  materiale  trasportato  con una qualche
discarica abusiva, dovendosi piuttosto prendere atto del fatto che il
materiale  era  destinato  alla  discarica  autorizzata gestita dalla
ditta  L.F. Recuperambiente. In secondo luogo, si sarebbe in presenza
di  trasporto  in  proprio  di  rifiuti non pericolosi, cosi' che non
sussisterebbero  i  presupposti  del  reato  previsto dal primo comma
dell'art.  51,  citato, che si applica solo a chi trasporta materiale
non  pericoloso  prodotto  da terzi. Infine, contesta la legittimita'
del  provvedimento  in  quanto  costituirebbe reiterazione di atto di
convalida  di  sequestro  che aveva perduto efficacia perche' decorsi
inutilmente i termini di legge.
   3.  -  Il  Tribunale,  richiamate e fatte proprie integralmente le
motivazioni  del provvedimento emesso dal g.i.p., dopo avere respinto
l'eccezione  preliminare relativa alla reiterazione del provvedimento
di  sequestro  da  parte del giudice, ha ritenuto sussistere il fumus
del reato previsto dall'art. 51 del d.lgs. n. 22 del 1997. Afferma il
tribunale  che  le  modalita'  non regolari del trasporto dei rifiuti
(assenza del formulario recante, tra l'altro, le indicazioni circa la
provenienza   e  la  destinazione)  risultano  in  contrasto  con  la
possibilita'   che   gli  stessi  venissero  accettati  da  qualsiasi
discarica   autorizzata,   e   che  le  dichiarazioni  della  persona
trasportata  sul  mezzo,  un dipendente del sig. Italiano, nella loro
genericita'  non  confermerebbero  la  prospettiva di un trasporto in
discarica autorizzata.
   4.  -  Avverso  l'ordinanza  del tribunale e' stato presentato, in
data  22  luglio 2005, ricorso per cassazione che si fonda su plurimi
motivi.
   Con  primo  motivo si lamenta violazione dell'art. 606, lettera b)
c.p.p. per errata applicazione dell'art. 51 del d.lgs. n. 22 del 1997
e   violazione   dell'art.  606,  lettera  e)  c.p.p.  per  manifesta
illogicita' del provvedimento. Posto che il sig. Italiano trasportava
in   proprio   materiali  edili  di  scarto,  e  quindi  rifiuti  non
pericolosi, non sussisterebbe per lui alcun obbligo di autorizzazione
al  trasporto,  che,  invece,  sussiste  con  riferimento  ai rifiuti
pericolosi anche se trasportati da chi li produce.
   Con  secondo  motivo si lamenta violazione dell'art. 606, lett. b)
c.p.p.  con riferimento ai commi secondo e terzo dell'art. 51 citato,
nonche'  dell'art.  606,  lett.  e)  c.p.p. per manifesta illogicita'
della  motivazione.  Il reato di discarica abusiva sussisterebbe solo
in ipotesi di abbandono definitivo di prodotti di scarto in un'area a
cio'  destinata  con  carattere  di  stabilita'  (scarico abituale di
rifiuti nello stesso luogo); di tale condotta mancherebbe nel caso di
specie  ogni elmento indiziante. Tale carenza risulterebbe dimostrata
dal  fatto  che  il  provvedimento del g.i.p. finisce per considerare
l'ipotesi  di  applicazione  non  del  terzo,  ma  del  secondo comma
dell'art.  51,  e  cioe'  l'ipotesi  di abbandono di rifiuti da parte
dell'imprenditore,  mentre nel corso dell'udienza di riesame e' stato
dimostrato  che  il  sig.  Italiano  trasportava rifiuti derivanti da
lavori  presso  una  propria  abitazione,  e  quindi  agiva  non come
imprenditore, ma quale privato.
   Con  terzo  motivo  si  lamenta violazione dell'art. 606, lett. b)
c.p.p.  con riferimento agli artt. 12 e 15 del d.lgs. n. 22 del 1997,
nonche'  dell'art.  606,  lettera  e) c.p.p. pe manifesta illogicita'
della  motivazione.  Ai  sensi dell'art. 12, citato, il sig. Italiano
avrebbe  potuto  compilare  e consegnare il formulario al momento del
conferimento  in  discarica  o anche immediatamente dopo. Inoltre, il
sucessivo  art.  15  prevede  che non vi sia obbligo di formulario in
caso  di  rifiuti  prodotti in proprio e trasportati senza eccedere i
trenta chilogrammi o i trenta litri al giorno.
   4.  -  Chiamata  a  decidere  sul  ricorso, a seguito di camera di
consiglio  del  24 novembre 2005, la terza sezione penale della Corte
ha  emesso  ordinanza (n. 10328 del 2006) con cui ha rimesso gli atti
alla Corte costituzionale ravvisando la non manifesta infondatezza di
una  questione di legittimita' della normativa in esame per contrasto
con il diritto comunitario.
   La   motivazione   dell'ordinanza,   che   per  il  suo  contenuto
costituisce  l'antecedente logico della presente decisione, viene qui
riportata:
     «3.  -  Dalla  lettura  del  decreto  dispositivo  del sequestro
preventivo  e  della  impugnata  ordinanza del tribunale del riesame,
risulta  in  linea  di  fatto che l'autocarro sequestrato trasportava
rifiuti speciali provenienti da attivita' di demolizione edilizia, ma
non  risulta  che  tali  rifiuti  fossero sicuramente destinati a una
discarica.
   In  linea di diritto, inoltre, l'attivita' di trasporto e deposito
di  rifiuti  in  una  discarica  da  parte  di  terzi  estranei  alla
titolarita'  della discarica stessa configurerebbe solo un'operazione
di  smaltimento  (compresa  nella  categoria  D1  dell'Allegato B del
d.lgs.  n. 22/1997),  e  non  gia'  una  operazione di gestione della
discarica,  che  invece  e'  stata  ipotizzata  in via alternativa da
entrambi i giudici di merito.
   Sotto  entrambi  i profili, quindi, non puo' configurarsi il fumus
del reato di cui all'art. 51, comma 3, del d.lgs. n. 22/1997, ma solo
quello  del  reato di cui all'art. 51, comma 1, dello stesso decreto,
per  trasporto  di rifiuti da parte di soggetto non abilitato, che e'
del  resto  il  reato  che il g.i.p. aveva ravvisato, sia pure in via
subordinata, nella sua ordinanza del 10 giugno 2005.
   Neppure  puo'  configurarsi  il  fumus del reato di cui al secondo
comma del medesimo art. 51, per abbandono o deposito incontrollato di
rifiuti da parte di un titolare d'impresa, non perche' l'indagato non
agisce  nella  sua  qualita'  di  imprenditore, bensi' perche' la sua
attivita' si era limitata al trasporto senza arrivare all'abbandono o
al deposito incontrollato dei rifiuti trasportati».
     «4. - In conclusione, il sequestro preventivo dell'autocarro col
carico  di  rifiuti  speciali,  guidato da Antonino Italiano, sarebbe
legittimo  ai  sensi  dell'art.  321  c.p.p. perche' ricorrerebbe sia
l'astratta  configurabilita'  del  reato di cui all'art. 51, comma 1,
d.lgs.  n. 22/1997,  sia  il  pericolo  che  la libera disponibilita'
dell'autocarro  potesse facilitare la reiterazione del reato da parte
del suo proprietario.
   Non  c'e'  dubbio,  infatti,  che  Antonino  Italiano,  quando  fu
sorpreso  mentre  trasportava  materiali  derivanti  da  attivita' di
demolizione,  era  nell'esercizio  della  sua qualita' d'imprenditore
edile.  Sul  punto,  la  tesi  del ricorrente, secondo cui egli agiva
invece  come  privato  perche'  trasportava rifiuti provenienti dalla
demolizione  di  un muro della sua abitazione, e' una mera asserzione
fattuale inammissibile in sede di legittimita'.
   Piu' in particolare, il predetto reato sarebbe integrato dal fatto
che  l'indagato  trasportava  rifiuti  speciali  non pericolosi senza
essere  iscritto  all'Albo nazionale delle imprese previsto dall'art.
30  del  d.lgs.  n. 22 /1997.  Va quindi esaminato il primo motivo di
ricorso.
   Al  riguardo  bisogna osservare che il comma 4 dell'art. 30, cosi'
come  modificato  dall'art. 1, comma 19, della legge 9 dicembre 1998,
n. 426,  impone  l'obbligo  dell'iscrizione  solo per "le imprese che
svolgono  attivita' di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi
prodotti  da  terzi e le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti
pericolosi"  (escluse  per  queste ultime i trasporti inferiori a una
determinata soglia quantitativa giornaliera).
   Poiche'  non  risulta  che  Antonino Italiano trasportasse rifiuti
prodotti  da terzi, ma risulta anzi che trasportava rifiuti derivanti
dalla  sua  stessa  attivita'  d'imprenditore edile, egli non sarebbe
obbligato  alla  iscrizione all'Albo nazionale e non avrebbe commesso
il  reato  di  cui  al  piu'  volte  citato  art. 51, comma 1, d.lgs.
n. 22/1997».
     «5.  - Sennonche' la predetta disposizione del comma 4 dell'art.
30,  cosi'  come modificato dalla citata legge n. 426/1998, appare in
contrasto  con  la  direttiva  n. 91/156/CEE  che,  nel  suo art. 12,
stabilisce  che  "gli  stabilimenti  o le imprese che provvedono alla
raccolta  o  al  trasporto  di  rifiuti a titolo professionale, o che
provvedono  allo  smaltimento  o  al recupero di rifiuti per conto di
terzi  (commercianti o intermediari) devono essere iscritti presso le
competenti  autorita'  qualora non siano soggetti ad autorizzazione".
Invero,  le  imprese che provvedono professionalmente al trasporto di
rifiuti,  contemplate  dalla  direttiva, comprendono anche quelle che
professionalmente  trasportano  rifiuti  da esse stesse prodotte, che
invece la disposizione di legge italiana esclude.
   Nel  dare  attuazione  a  questa  direttiva comunitaria col d.lgs.
n. 22/1997,  il  legislatore  nazionale  in  un  primo  tempo  si era
perfettamente   adeguato  all'art.  12  della  direttiva,  stabilendo
testualmente  che  "le  imprese  che  svolgono a titolo prefessionale
attivita'  di  raccolta  e  trasporto  di  rifiuti  e  le imprese che
raccolgono  e  trasportano  rifiuti  pericolosi,  anche  se  da  esse
prodotti  (...)  devono  essere  iscritte all'Albo". Ma in un secondo
tempo,  novellando la disposizione mediante l'art. 1, comma 19, legge
n. 426/1998,  ha  violato  l'art. 12, laddove ha escluso dall'obbligo
d'iscrizione   all'Albo   nazionale   l'imprenditore   che  a  titolo
professionale  trasporti rifiuti (non pericolosi) per contro proprio,
cioe' rifiuti da lui stesso prodotti.
   Questa  conclusione  e' ora consacrata, con effetti vincolanti per
l'ordinamento  italiano,  dalla  recente sentenza 9 giugno 2005 della
Corte  di giustizia europea (terza sezione), che pronunciando ex art.
226  (gia'  169)  Trattato  CE in una procedura d'infrazione promossa
dalla  Commissione  della Comunita' contro la Repubblica italiana, ha
testualmente  statuito  che "la Repubblica italiana, permettendo alle
imprese,  in  forza  dell'art. 30, comma 4, del decreto legislativo 5
febbraio  1997,  n. 22  (...)  come  modificato dall'art. 1, comma 19
della legge 9 dicembre 1998, n. 426 (...) di esercitare la raccolta e
il  trasporto  dei  propri  rifiuti  non  pericolosi  come  attivita'
ordinaria  e  regolare  senza  obbligo  di  essere  iscritte all'albo
nazionale  delle  imprese  esercenti  servizi  di smaltimento rifiuti
(...)  e'  venuta  meno  agli  obblighi  ad  essa incombenti ai sensi
dell'art. 12 della direttiva del Consiglio 15 luglio 1997, 75/442/CEE
relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18
marzo 1991, 91/156/CEE".
   Poiche'  non  v'e'  dubbio  che  la  direttiva  91/156/CEE,  e  in
particolare il suo art. 12, con ha efficacia diretta nell'ordinamento
italiano, e poiche' la sentenza dichiarativa della Corte di giustizia
europea   ha   la   stessa  immediata  efficacia  della  disposizione
comunitaria  interpretata  (v.  per  tutte  Corte  costituzionale, 11
luglio  1989,  n. 389), il giudice italiano, che e' soggetto soltanto
alla  legge  (art.  101, secondo comma, Cost.), dovendo applicare una
disposizione  legislativa nazionale chiaramente incompatibile con una
norma di diritto comunitario non self executing, non ha altro rimedio
che   sollevare   questione   di  legittimita'  costituzionale  della
disposizione  nazionale  con  riferimento  agli artt. 11 e 117, primo
comma, Cost., al fine di sentirne dichiarare l'abrogazione.
   Nell'inerzia      del      legislatore,      la      dichiarazione
d'incostituzionalita'  da  parte  del giudice delle leggi e' il mezzo
attraverso cui lo Stato italiano puo' dare esecuzione alla menzionata
sentenza della Corte di giustizia europea».
     «6.  -  La  non  manifesta  infondatezza della questione risulta
chiaramente  dalle considerazioni precedenti, essendo indiscutibile -
dopo  la  sentenza  9 giugno 2005 della Corte lussemburghese - che lo
Stato  italinano,  novellando  il  comma 4 dell'art. 30 con l'art. 1,
comma  19,  della  legge n. 426/1998, non ha rispettato i vincoli che
gli  derivavano dall'ordinamento comunitario attraverso il piu' volte
menzionato  art.  12 della direttiva 91/156/CEE, contravvenendo cosi'
agli artt. 11 e 117 della Carta fondamentale.
   Altrettanto  evidente  e' la rilevanza della questione, essendo la
norma  denunciata  chiaramente  inerente  alla  regiudicanda  dedotta
davanti  a  questo giudice di legittimita'. Per valutare il fumus del
reato  di  cui  all'art.  51, comma 1, d.lgs. n. 22/1997, infatti, e'
necessario  applicare  l'art. 30, comma 4, cosi' come novellato dalla
predetta  norma  della  legge  n. 426/1998,  a  meno  che  questa sia
dichiarata incostituzionale.
   La  rilevanza  diventa  piu'  problematica  se si considera che la
norma  denunciata  (nuovo  testo  dell'art.  30, comma 4), escludendo
l'obbligo  d'iscrizione  all'Albo  nazionale per gli imprenditori che
esercitano  la  raccolta e il trasporto di riufiuti non pericolosi da
essi  stessi  prodotti,  ha  modificato in senso favorevole al reo la
precedente  disposizione  (testo  originario  dell'art. 30, comma 4),
depenalizzando  per  i suddetti imprenditori non iscritti all'Albo il
reato di cui all'art. 51, comma 1.
   Emerge  cosi'  il noto problema del sindacato di costituzionalita'
sulle  norme penali di favore, cioe' delle norme che, per determinati
soggetti  o ipotesi, abrogano o modificano in senso favorevole al reo
precedenti norme incriminatrici».
     «7.   -   Com'e'  ben  noto  a  codesta  Corte,  muovendo  dalla
considerazione   che   l'eventuale   accoglimento   della   eccezione
d'illegittimita'  costituzionale  della  norma penale piu' favorevole
non  potrebbe influire sull'esito del giudizio a quo per il principio
d'irretroattivita'  di  cui  all'art.  25,  secondo  comma,  Cost.  e
all'art.  2,  comma  1,  cod.  pen.,  si  e'  tratta  in  passato  la
conclusione che le eccezioni d'incostituzionalita' delle norme penali
di  favore  sono  "tipicamente"  irrilevanti,  con la conseguenza che
dette norme restano sottratte al controllo costituzionale.
   Ma in seguito il problema e' stato diversamente risolto, a partire
dalla  sentenza  n. 148/1983,  che  ha  argomentato  la  rilevanza  e
l'ammissibilita'   delle  questioni  d'illegittimita'  costituzionale
sulle norme penali di favore in base al duplice argomento secondo cui
l'accoglimento della questione: a) verrebbe comunque a incidere sulle
formule  di proscioglimento o sui dispositivi della sentenza penale e
si   rifletterebbe   sullo   schema   argomentativo   della  relativa
motivazione;   b)  avrebbe  comunque  "effetto  di  sistema"  la  cui
valutazione spetta ai giudici comuni e non al giudice costituzionale.
E  cio'  perche',  senza  vanificare  la garanzia dell'art. 25 Cost.,
anche  le  norme  penali  di favore devono sottostare al sindacato di
costituzionalita',  "a  pena  di  istituire  zone  franche  del tutto
impreviste   dalla   Costituzione,   all'interno   delle   quali   la
legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile".
   Nel  caso  di  specie,  poi,  va  aggiunto un ulteriore, decisivo,
argomento.   L'eventuale   sentenza   di   accoglimento  cagionerebbe
l'abrogazione  della  norma denunciata con effetto ex nunc, e quindi,
in  forza  dell'art.  25,  secondo comma, Cost., non potrebbe portare
alla   condanna   dell'indagato   Antonino   Italiano  per  il  fatto
anteriormente commesso. E tuttavia potrebbe portare alla conferma del
sequestro   preventivo   dell'autocarro  da  lui  utilizzato  per  il
trasporto  dei  rifiuti,  in  forza  della consolidata giurisprudenza
secondo  cui  la  misura  cautelare  di  cui  all'art.  321 c.p.p. ha
carattere  reale, in quanto prescinde dalla personale responsabilita'
della  persona sottoposta alle indagini (v. fra le sentenze massimate
Cass.,  sez.  III, n. 1428, del 21 giugno 1994, Menietti, rv. 198175;
Cass.,  sez. II, n. 5472 del 21 dicembre 1999, p.m. in proc. Coppola,
rv.  215089,  Cass.,  sez.  III,  n. 11290 del 20 marzo 2002, p.m. in
proc.    Di    Falco).   Per   conseguenza,   la   dichiarazione   di
incostituzionalita'  della norma denunciata avrebbe effetto immediato
nel  giudizio  cautelare  a quo senza che cio' costituisse violazione
dell'art. 25, secondo comma, Cost.».
     «8.  - Questo approdo ermeneutico non e' scalfito dalle numerose
statuizioni  di  codesta  Corte che hanno ribadito l'inammissibilita'
delle  sentenze  additive  contra  reum  per  rispetto  dell'art. 25,
secondo  comma,  Cost.,  stante  la  strutturale diversita' delle due
ipotesi.
   Infatti,  quando  e'  dedotta la questione di costituzionalita' di
una  norma penale di favore, la sentenza di accoglimento ha carattere
ablativo   della   deroga  oggettiva  o  soggettiva  introdotta,  con
l'effetto  di  ripristinare  la  piena portata della normativa di una
norma incriminatrice preesistente. Al contrario, la sentenza additiva
di  accoglimento  (che  dichiara incostituzionale la norma sospettata
"nella parte in cui non prevede" etc.) ha l'effetto di creare ex novo
una  norma incriminatrice o di ampliare la portata di una fattispecie
penale  esistente,  usurpando  in  entrambi  i  casi  una prerogativa
spettante   alla  discrezionalita'  del  legislatore  e  violando  il
principio d'irretroattivita' dei reati e delle pene.
   (Diverso sembra il caso della sentenza n. 440/1995, in cui, con un
meccanismo  di  tipo  ablatorio, il giudice delle leggi, in forza del
principio  di  uguaglianza,  ha  esteso  il  reato di bestemmia della
divinita'  anche  a  tutela  delle  religioni non cattoliche, creando
cosi'  una  nuova  figura  di reato, che pero' non era applicabile al
fatto contestato nel processo a quo).
   Per  diversa  ragione  l'approdo  della  sentenza  n. 148/1983 non
appare intaccato neppure dalla recente sent. n. 161/2004 Corte cost.,
la  quale  ha  escluso  la  possibilita'  di  estendere  l'ambito  di
applicazione  della  norma  incriminatrice  di cui all'art. 2621 cod.
civ.  (false  comunicazioni  sociali),  come  sostituito dall'art. 1,
d.lgs.  11  aprile  2002, n. 61, attraverso la rimozione delle soglie
minime di punibilita' ivi previste. Qui, infatti, la Corte ha escluso
la  possibilita'  di  ampliare o aggravare la figura di un reato gia'
esistente  attraverso  la  "demolizione" delle soglie di punibilita',
sul  rilievo  che  queste  soglie  integrano  requisiti essenziali di
tipicita'  del  fatto  ovvero condizioni di punibilita', e cioe' sono
comunque  "un  elemento  che  ‘delimita'  l'area d'intervento della
sanzione  prevista  dalla  norma  incriminatrice,  e non gia' sottrae
determinati  fatti  all'ambito  di  applicazione di altra norma, piu'
generale".
   Tale essendo la ratio decidendi, essa non puo' essere applicata ai
casi  -  come  quello  presente  -  in  cui  la  norma denunciata per
incostituzionalita' e' una norma penale di favore, la quale "sottrae"
determinate  ipotesi (nel caso specifico, il trasporto di rifiuti non
pericolosi  effettuato  da  un  imprenditore per conto proprio) a una
norma incriminatrice generale (derivante dal combinato disposto degli
artt. 30 e 51, comma 1, d.lgs. n. 22/1997 nel loro testo originario).
In  altri termini, facendo cadere per incostituzionalita' la modifica
che  l'art.  1,  comma  19,  della  legge 9 dicembre 1998, n. 426, ha
apportato all'art. 30, comma 4, d.lgs. n. 22/1997, si ripristinerebbe
la  portata  originaria  di  una  norma  incriminatrice gia' presente
nell'ordinamento,  che  la novella del 1998 ha parzialmente derogato;
facendo  cadere le soglie di punibilita' previste nell'art. 2621 cod.
civ.,  invece, si amplierebbe la portata penale della stessa norma al
di la' dei limiti in cui il legislatore l'aveva configurata.
     «9. -  Analogo problema si e' presentato alla Corte di giustizia
europea,   chiamata  ex  art.  234  (gia'  177)  del  Trattato  CE  a
interpretare  la  nozione  comunitaria  di  rifiuto, e a saggiarne la
compatibilita'   con   quella  ridefinita  dal  legislatore  italiano
attraverso  l'art.  14  del d.l. 8 luglio 2002, n. 138, convertito in
legge  8  agosto 2002, n. 178, posto che la ricostruzione ermeneutica
operata  dalla  Corte  stessa poteva avere effetti tali da entrare in
rotta  di collisione con il principio di legalita' e irretroattivita'
dei  reati  e  delle pene, che e' ritenuto parte integrante anche del
diritto  comunitario  (C.  giustizia, sez. II, dell'11 novembre 2004,
causa C-457/02, Niselli).
   Al  riguardo, la sentenza Niselli, premesso che "una direttiva non
puo'  avere  l'effetto,  di  per se' e indipendentemente da una norma
giuridica  di  uno  Stato  membro  adottata per la sua attuazione, di
determinare  o  di  aggravare la responsabilita' penale di coloro che
agiscono  in  violazione  delle  sue disposizioni", preso atto che il
fatto  contestato  all'imputato  era  stato  commesso sotto il vigore
delle  disposizioni  incriminatrici  di  cui  al d.lgs. n. 22/1997, e
prima  dell'entrata  in  vigore  dell'art.  14  d.l.  n. 138/2002, ha
concluso  che  non  vi  era  "motivo  di esaminare le conseguenze che
potrebbero  discendere  dal  principio  di  legalita'  delle pene per
l'applicazione della direttiva n. 75/442" (parr. 29 e 30).
   Diverso  e'  il caso affrontato piu' di recente dalla stessa Corte
europea, grande sezione, chiamata a risolvere in via pregiudiziale la
questione  se  il  trattamento sanzionatorio piu' favorevole previsto
dai  novellati artt. 2621 (false comunicazioni sociali) e 2622 (false
comunicazioni  sociali  in  danno dei soci o dei creditori) cod. civ.
fosse  o  meno adeguato in relazione all'art. 6 della prima direttiva
comunitaria  sul  diritto  societario  (sentenza 3 maggio 2005, Cause
riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e altri).
   La  sentenza  ha  osservato  che  il  principio  dell'applicazione
retroattiva della pena piu' mite fa parte integrante delle tradizioni
costituzionali  comuni degli Stati membri e dei principi generali del
diritto  comunitario  (parr.  68  e  69); e ha concluso che "la prima
direttiva  sul  diritto societario non puo' essere invocata in quanto
tale  dalle  autorita'  di uno Stato membro nei confronti di imputati
nell'ambito  di  procedimenti  penali, poiche' una direttiva non puo'
avere  come  effetto,  di  per  se'  e indipendentemente da una legge
interna  di  uno  Stato  membro  adottata  per  la sua attuazione, di
determinare  o  aggravare  la  responsabilita' penale degli imputati"
(par. 78 e dispositivo).
   Basti  rilevare  in  proposito che, nel caso esaminato dalla corte
europea,  ne'  gli  originari  artt.  2621  e  2622  cod.  civ.,  che
prevedevano  un  trattamento  sanzionatorio  piu'  severo, e sotto la
vigenza  dei  quali  erano  stati  commessi i reati contestati, ne' i
nuovi   artt.  2621  e  2622  cod.  civ.,  che  hanno  introdotto  un
trattamento  penale  piu' mite, costituiscono attuazione di direttive
comunitarie;  sicche'  si  comprende  l'affermazione  secondo cui una
direttiva  comunitaria,  per se stessa e senza la mediazione di leggi
nazionali  di  attuazione,  non  possa  determinare  o  aggravare una
responsabilita'  penale nella soggetta materia. Mentre nel caso della
disciplina  sui  rifiuti, la direttiva comunitaria e' stata trasposta
nell'ordinamento  nazionale  attraverso  il d.lgs. n. 22/1997, che ha
previsto  in  aggiunta  un  sistema  sanzionatorio  a  presidio della
disciplina  stessa,  sicche'  ne' la previsione della responsabilita'
penale,  ne' la sua limitazione derivano direttamente dalla direttiva
comunitaria, essendo, invece, state introdotte, la prima dall'art. 51
del  d.lgs.  n. 22/1997,  e  la  seconda dall'art. 1, comma 19, della
legge  n. 426/1998.  Nella  presente vicenda processuale, quindi, non
puo'  farsi  ricorso  al  principio  statuito nella suddetta sentenza
comunitaria  del 3 maggio 2005, proprio perche' presupposto di questo
principio e' la mancanza di norme nazionali attuative della direttiva
comunitaria».
     «10.  - Infine, la rilevanza e ammissibilita' della questione di
legittimita'  costituzionale  del testo novellato dell'art. 34, comma
4,  d.lgs.  n. 22/1997 trova conforto in numerose sentenze di codesta
Corte,  che,  proprio  in  materia  di  rifiuti,  hanno dichiarato la
illegittimita'  costituzionale  di  varie leggi regionali che avevano
depenalizzato lo stoccaggio provvisorio non espressamente autorizzato
di rifiuti tossici e nocivi (n. 306/1992; n. 437/1992; n. 194/1993) o
l'accumulo   temporaneo   di   rifiuti   tossici   e   nocivi  (sent.
n. 213/1991),  o che avevano escluso dagli impianti di smaltimento di
rifiuti  gli  impianti  di  depurazione  per  conto  terzi di rifiuti
liquidi,   cosi'   esonerando   la   loro  gestione  dall'obbligo  di
autorizzazione (sent. n. 173/1998).
   In  questi  casi  la caducazione delle norme legislative regionali
per   contrasto   con   fonti  normative  gerarchicamente  superiori,
costituzionali  e  comunitarie,  e' perfettamente sovrapponibile alla
richiesta  caducazione del testo novellato del richiamato art. 30 per
contrasto  col  diritto  comunitario;  ed  ha  gli stessi effetti sul
trattamento   penale   degli   imputati   nell'ambito   dei  processi
principali.
   Per  tutte  queste  ragioni  non  sembra  potersi  dubitare  della
rilevanza della questione».
   5.  -  Con  ordinanza  n. 126 del 7 marzo-19 aprile 2007, la Corte
costituzionale ha deciso la questione sollevata, restituendo gli atti
alla  Corte  di  cassazione  perche'  valuti  se  la questione stessa
conserva   o   meno  attualita'  alla  luce  dello  jus  superveniens
rappresentato dall'entrata in vigore del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152
che,  nella  parte  quarta,  reca  in  tema di rifiuti una disciplina
integralmente sostitutiva di quella contenuta nel citato d.lgs. n. 22
del  1997.  In  particolare,  il Giudice delle leggi evidenzia che il
comma  8  dell'art.  212 fissa, con il presidio della sanzione penale
prevista  dall'art.  51,  comma  primo,  del  d.lgs.  n. 22 del 1997,
l'obbligo dell'iscrizione all'Albo nazionale anche per le imprese che
esercitano  la  raccolta  e  il  trasporto  dei  propri  rifiuti  non
pericolosi   come   «attivita'   ordinaria   e  regolare»,  sia  pure
prefigurando  un  registro  sensibilmente  agevolato  (che esclude la
necessita'  di  garanzie finanziarie e prevede l'iscrizione a seguito
di semplice richiesta scritta da parte dell'impresa).
                            O s s e r v a
   1.  -  Le  condotte contestate al sig. Italiano risalgono all'anno
2005   e,   come   evidenziato   nell'ordinanza   di   questa   Corte
n. 10328/2006,  sono  successive  alla  modifica  apportata  al comma
quarto  dell'art. 30, d.lgs. n. 22 del 1997, dal comma diciannovesimo
dell'art.  l,  legge  n. 426  del  1998.  Tale modifica escludeva dal
novero  delle condotte punibili il trasporto operato senza iscrizione
all'Albo  nazionale  di  rifiuti  non pericolosi prodotti nell'ambito
della  propria attivita' di impresa. Deve concludersi che la condotta
di  trasporto  di rifiuti effettuata dal sig. Italiano, correttamente
qualificata  ai  sensi del comma primo dell'art. 51, d.lgs. n. 22 del
1997  dalla  citata  ordinanza,  non  risultava  penalmente rilevante
secondo la normativa in vigore.
   2.  -  L'esclusione delle condotte di trasporti dei propri rifiuti
non  pericolosi  dal novero dei comportamenti vietati contrastava con
le  disposizioni  comunitarie,  giusta la chiara lettera dell'art. 12
della  direttiva 91/156/CE e l'interpretazione fornita dalla Corte di
giustizia  con  la  citata  sentenza  del  9  giugno  2005. Di qui la
questione  di  legittimita'  costituzionale sollevata con l'ordinanza
n. 10328 del 2006.
   3. - L'ordinanza della Corte costituzionale n. 126 del 2007 non ha
considerato   detta   questione   inammissibile,  ma  ha  preso  atto
dell'emanazione  da  parte  del  legislatore  italiano di una nuova e
complessiva  normativa in tema di rifiuti, circostanza che ha indotto
a  restituire  gli  atti  a  questa Corte perche' valuti il permanere
della rilevanza della questione alla luce dello jus superveniens.
   4.  - Ritiene la Corte di dover rilevare a tale proposito anche la
circostanza che l'art. 264, comma 1, lettera i) del d.lgs. n. 152 del
2006   include   espressamente  il  d.lgs.  n. 22  del  1997  tra  le
disposizioni di legge abrogate a seguito dell'entrata in vigore della
nuova disciplina.
   5.  - Con riferimento alla materia oggetto del presente giudizio e
con  riferimento alla indicazione fornita dal Giudice delle leggi, si
deve  evidenziare  che  l'art. 212 del d.lgs. n. 152 del 2006 prevede
una  nuova  disciplina dell'Albo nazionale dei gestori ambientali, ed
in particolare stabilisce:
     al  comma  quinto che «l'iscrizione all'Albo e' requisito per lo
svolgimento  delle  attivita'  di raccolta e trasporto di rifiuti non
pericolosi  prodotti  da  terzi,  di  raccolta e trasporto di rifiuti
pericolosi, di bonifica di siti, di bonifica...»;
     al  comma  settimo  che  «le imprese che effettuano attivita' di
raccolta  e  trasporto dei rifiuti ...devono prestare idonee garanzie
finanziarie a favore dello Stato...»;
     al  comma ottavo che «le imprese che esercitano la raccolta e il
trasporto di propri rifiuti non pericolosi come attivita' ordinaria e
regolare   nonche'  le  imprese  che  trasportano  i  propri  rifiuti
pericolosi  in quantita' che non eccedano... non sono sottoposte alle
garanzie  finanziarie  di cui al comma sette e sono iscritte all'Albo
regionale  territorialmente  competente senza che la richiesta stessa
sia soggetta a valutazione ... e senza che vi sia l'obbligo di nomina
del responsabile tecnico...».
   6.  -  Puo',  dunque,  affermarsi  che la disciplina contenuta nel
d.lgs. n. 152 del 2006 reintroduce un obbligo di iscrizione all'Albo,
seppure  secondo  formalita' e requisiti semplificati, per le imprese
che  trasportano  in  proprio i rifiuti non pericolosi da esse stesse
prodotti,  cosi'  che risulta superato il contrasto con la disciplina
comunitaria   che   aveva   costituito  oggetto  della  questione  di
costituzionalita' sollevata con l'ordinanza n. 10328/2006.
   7.  -  Puo'  affermarsi,  altresi', che sotto un profilo di ordine
generale l'abrogazione dell'intero d.lgs. n. 22 del 1997 rende, anche
sotto  questo aspetto, non piu' attuale il contrasto della disciplina
nazionale con quella comunitaria.
   8.  -  Va,  peraltro,  osservato, che il d.lgs. n. 152 del 2006 ha
avuto  cura  di  evitare  problemi  di coordinamento e di continuita'
rispetto  al  regime  degli  atti  amministrativi  e  delle posizioni
giuridiche  formatesi  sotto la vigenza del d.lgs. n. 22 del 1997 (si
veda   la  citata  lettera  i)  dell'art.  264),  ma  non  ha  inteso
intervenire  sul tema della successione delle leggi penali nel tempo,
cosi'  che devono ritenersi applicabili gli ordinari principi fissati
dall'art.  2  del  codice  penale  e  prima  ancora  quanto stabilito
dall'art. 25, secondo comma della Costituzione.
   9.  -  Cio'  significa che le condotte poste in essere nel periodo
ricompreso   tra   la   modifica   introdotta  con  l'art.  1,  comma
diciannovesimo,  della  legge n. 426 del 1998 e la data di entrata in
vigore del d.lgs. n. 152 del 2006, e pertanto anche quelle contestate
all'odierno   ricorrente,   restano  disciplinate  dal  quarto  comma
dell'art.  30  del  d.lgs.  n. 22  del  1997  nel  testo ritenuto non
conforme  alla  normativa  comunitaria.  E' pacifico, infatti, che la
normativa  introdotta  nel  2006  risulta  per  il sig. Italiano meno
favorevole, con la conseguenza che questa Corte dovrebbe esaminare il
presente  ricorso  applicando  la  normativa in vigore al momento del
fatto.  Tale  conclusione sembra conservare attualita' alla questione
di legittimita' sollevata con la citata ordinanza n. 10328/2006.
   10. - A tal proposito si' deve considerare che con sentenza n. 394
del 2006 la Corte costituzionale ha affrontato esplicitamente il tema
delle   pronunce   che   rimuovono   una   normativa  sopravvenuta  e
restituiscono  vigenza  a  disposizioni  aventi,  sul  piano  penale,
effetti meno favorevoli per la parte privata. Premessa la centralita'
del   principio   fissato   dall'art.   25,   comma   secondo,  della
Costituzione,  il  giudice  delle  leggi ha ribadito (in linea con la
giurisprudenza  formatasi  a  partire dalla sentenza n. 148 del 1983)
che  «lo  scrutinio di costituzionalita' anche in malam partem, delle
c.d.  norme penali di favore ... si connette all'ineludibile esigenza
di   evitare   la   creazione   di  "zone  franche"  dell'ordinamento
..sottratte  al  controllo di costituzionalita». La sentenza prosegue
evidenziando che «il principio di legalita' impedisce certamente alla
Corte di configurare nuove norme penali; ma non le preclude decisioni
ablative di norme che sottraggono determinati gruppi di soggetti o di
condotte  alla  sfera applicativa di una norma comune o comunque piu'
generale,  accordando  loro  un  trattamento  piu' benevolo»; in tali
casi,    infatti,   «l'effetto   in   malam   partem   non   discende
dall'introduzione  di  nuove  norme  o  dalla  manipolazione di norme
esistenti  da  parte  della  Corte, la quale si limita a rimuovere la
disposizione  giudicata  lesiva  dei  parametri  costituzionali; esso
rappresenta,  invece,  una  conseguenza  dell'automatica riespansione
della norma generale o comune...».
   Il  Giudice  delle  leggi, nella sentenza citata, ha avuto modo di
chiarire   che  le  norme  penali  di  favore  non  sono  quelle  che
«delimitano»  l'area  di  intervento di una norma incriminatrice e in
tal  modo  «concorrono  alla definizione della fattispecie di reato»,
bensi'  «quelle  che  "sottraggono" una certa classe di soggetti o di
condotte  all'ambito  di  applicazione  di  altra norma, maggiormente
comprensiva».
   11.  - Ritiene questo giudice che i principi cosi' affermati dalla
Corte  costituzionale  consentano  di'  concludere  che,  nel caso in
esame,  il controllo di' legittimita' ben potrebbe dirigersi verso la
disposizione  introdotta  nel  1998  che, escludendo la disciplina di
rigore  nei  confronti  di  una  specifica  tipologia di trasporti di
rifiuti,  ha  «sottratto» quelle e solo quelle condotte all'ambito di
applicazione  della  fattispecie  incriminatrice  e  si  e'  posta in
contrasto  con  la  disciplina  comunitaria,  meritando  con  cio' le
inequivoche censure della Corte di giustizia.
   12.   -  Ritiene  inoltre  che  l'attualita'  della  questione  di
legittimita'  non  possa  essere esclusa con l'argomento che l'intera
normativa  contenuta  nel d.lgs. n. 22 del 1997 e' stata abrogata dal
d.lgs.  n. 152  del  2006. Infatti, per quanto esposto in precedenza,
l'applicazione  al caso in esame delle regole fissate da quest'ultimo
provvedimento  legislativo  deve  essere ritenuta non percorribile in
quanto  meno  favorevole (art. 2, comma quarto c.p.) e potenzialmente
contrastante  con i principi fissati dall'art. 25 della Costituzione.
Da  cio'  consegue  che  la  posizione  del  sig.  Italiano va ancora
esaminata  alla  luce  della  disposizione contenuta nel comma quarto
dell'art.  30 del d.lgs. n. 22 del 1997, come modificato dalla citata
legge  n. 426  del  1998,  e  quindi  nella  formulazione oggetto dei
rilievi  di  legittimita'  sollevati  da questa Corte con l'ordinanza
n. 10328 del 2006.
   In  altri  termini, preso atto che la motivazione e le conclusioni
dell'ordinanza  n.126  del  2006  della Corte costituzionale sembrano
presupporre  la  rilevanza  della questione sollevata da questa Corte
con  l'ordinanza  n.10328/2006,  deve  ritenersi  che  tale rilevanza
conservi  nel  caso  in  esame  la  propria  attualita' in quanto non
risulta   in   concreto   applicabile  lo  jus  superveniens  che  ha
costituito,   secondo  le  indicazioni  della  Corte  costituzionale,
l'oggetto del nuovo esame di questo giudice.
   13.  - Va ritenuto, infine, che la questione conservi il carattere
di  non  manifesta infondatezza nei termini ampiamente illustrati con
la  citata  ordinanza  n.10328/2006  di questa Corte, che e' stata in
precedenza integralmente riportata nella sua parte motiva.
                              P. Q. M.
   Dichiara  rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 30, comma quarto, del decreto
legislativo   n. 22   del   1997,   modificato   dall'  art.1,  comma
diciannovesimo,  della  legge  n.426  del  1998, per violazione degli
artt.11 e 117, comma primo, della Costituzione.
   Sospende  il  giudizio  e  ordina  la trasmissione degli atti alla
Corte  costituzionale,  mandando alla cancelleria per gli adempimenti
come per legge.
     Cosi' deciso in Roma, il 21 giugno 2007.
                       Il Presidente: De Maio
                                                  L'estensore: Marini