N. 238 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 dicembre 2007

Ordinanza  del  21  dicembre 2007 emessa dal Tribunale di Trieste nel
procedimento penale a carico di Llapatinca Ylber

Straniero  - Espulsione amministrativa - Rientro senza autorizzazione
  nel  territorio  dello  Stato dello straniero espulso - Trattamento
  sanzionatorio  -  Reclusione da uno a quattro anni - Violazione del
  principio  di  uguaglianza  sotto  i profili della ragionevolezza e
  della proporzionalita' - Contrasto con il principio della finalita'
  rieducativa  della pena - Riproposizione di questione oggetto della
  ordinanza  della  Corte Costituzionale n. 385/2007, di restituzione
  atti per ius superveniens.
- Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, art. 13, comma 13, come
  modificato  dall'art. 1 del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241
  (convertito,  con  modificazioni,  nella  legge  12  novembre 2004,
  n. 271)  e,  da ultimo, dall'art. 2, comma 1, lett. c), del decreto
  legislativo 8 gennaio 2007, n. 5.
- Costituzione, artt. 3 e 27, comma terzo.
(GU n.35 del 20-8-2008 )
                            IL TRIBUNALE
   Nel  processo  nei  confronti  di  Llapatinca Ylber, nato a Trrnje
(Kosovo) il 15 marzo 1978, ha emesso la seguente ordinanza.
   1.  -  In  data  22  marzo  2006 Ylber Llapatinca veniva tratto in
arresto dai carabinieri, perche' ritenuto versare nella flagranza del
reato  di  cui  all'art.  13,  comma  13  del  d.lgs. n. 286/1998. Il
pubblico   ministero   chiedeva   la   convalida  dell'arresto  e  la
celebrazione  del  giudizio direttissimo; fissata l'udienza per il 23
marzo  2006,  l'arresto  veniva  convalidato,  dopo  di  che le parti
comunicavano  di  avere  raggiunto  un accordo per l'applicazione, ai
sensi dell'art. 444 c.p.p., della pena di una pena.
   Percio',  per  provvedere  sulla  richiesta  delle  parti,  questo
giudice  ha  dovuto preventivamente valutare la congruita' della pena
sulla  quale  l'accordo  e' intervenuto (cfr. la sentenza della Corte
costituzionale  del 2 luglio 1990, n. 313); tuttavia, rispetto a tale
apprezzamento,  e'  apparsa pregiudiziale una valutazione concernente
la  conformita'  alla  Carta costituzionale delle norme di cui potra'
essere   fatta   applicazione   a  tal  fine,  particolarmente  della
previsione  edittale  che  si  riferisce al reato per cui si procede,
peraltro nei limiti in cui tale valutazione e' consentita dall'art. 1
della  legge  costituzionale  9  febbraio  1948, n. 1 e dall'art. 23,
comma  3  della  legge  11  marzo  1953,  n. 87.  Per tale ragione lo
scrivente  giudice, nella predetta udienza, ha sollevato questione di
legittimita'   costituzionale   riguardo  alla  norma  incriminatrice
invocata  dal  pubblico  ministero, per il ritenuto contrasto con gli
artt. 3 e 27, terzo comma della Carta costituzionale.
   Con  ordinanza n. 385 del 5 novembre 2007 la Corte costituzionale,
rilevato  che  l'art.  13,  comma  13  del  d.lgs.  n. 286/1998,  nel
frattempo,  era  stato  modificato dall'art. 2, comma 1, lett. c) del
d.lgs.  8 gennaio 2007, n. 5, ha restituito gli atti a questo giudice
remittente,  per una nuova valutazione in ordine alla rilevanza della
questione  proposta.  In  particolare,  la  Corte  ha ritenuto che la
novella   appena   citata   abbia   modificato   la   fisionomia  del
comportamento   delittuoso,   limitando   la   rilevanza  penale  del
reingresso  ai  soli casi in cui lo straniero precedentemente espulso
non  abbia conseguito ne' la speciale autorizzazione ministeriale ne'
l'autorizzazione al ricongiungimento.
   Percio',  sulla  base dell'esame degli atti, si deve escludere che
nella  fattispecie  in  esame  ricorra il caso previsto dall'art. 13,
comma  13 ultima parte del d.lgs. n. 286/1998, invero, dagli atti non
risulta  l'esistenza di familiari del Llapatinca residenti in Italia,
ne'  risultano  richieste  avanzate dall'interessato per finalita' di
ricongiungimento   familiare;  ne',  del  resto,  nell'interrogatorio
effettuato   nell'udienza   di   convalida,  l'interessato  ha  fatto
riferimento a circostanze di tal genere.
   Ritiene  percio'  questo  giudice che il nuovo esame demandato dal
provvedimento  della  Corte  su questo particolare aspetto, incidente
sulla  rilevanza della questione a suo tempo proposta, sortisca esito
negativo.  Di  talche',  non essendo per altro verso mutato il quadro
normativo di riferimento, ne' avendo la norma denunciata subito altre
modifiche  incidenti sui profili demandati alla delibazione di questo
giudice,   debba   venire   riproposta   la   medesima  questione  di
legittimita'  costituzionale,  negli stessi termini gia' espressi con
l'ordinanza del 23 marzo 2006.
   2.   -   Anzitutto,   pare   opportuna   una   breve   digressione
sull'evoluzione  della  normativa di cui si deve fare applicazione in
questa sede.
   Prevedeva  l'art.  151  TULPS che lo straniero espulso non potesse
rientrare   nel   territorio   dello   Stato   senza   una   speciale
autorizzazione  del ministro dell'interno e che il trasgressore fosse
punito con l'arresto da due a sei mesi.
   L'art.  46,  comma  1, lett. a) della legge 6 marzo 1998, n. 40 ha
abrogato  l'art.  151  TULPS;  a  questa  e' subentrata la previsione
incriminatrice  di  cui  all'art.  13,  comma 13 del d.lgs. 25 luglio
1998,  n. 286,  rimanendo  pero' immutata la sanzione prevista per il
trasgressore.
   L'art.  12,  comma  1  della  legge 30 luglio 2002, n. 189, ha poi
pero'  inasprito  la  sanzione,  prevedendo  che la medesima condotta
fosse punibile con l'arresto da sei mesi a un anno.
   Infine,  la  sanzione  edittale  e' stata ulteriormente modificata
dall'art.  1  del  d.l.  14  settembre  2004,  n. 241, convertito con
modifiche  dalla  legge  12  novembre  2004,  n. 271, per il quale la
medesima  condotta  e'  punibile  con  la reclusione da uno a quattro
anni.
   Peraltro,  il  d.l.  n. 241, nelle modifiche introdotte in sede di
conversione, ha inasprito anche la sanzione edittale stabilita per il
reato  di  cui  all'art.  14,  comma 5-ter del d.lgs. 25 luglio 1998,
n. 286,  portandola  - dall'originaria previsione dell'arresto da sei
mesi a un anno - a quella della reclusione da uno a quattro anni.
   Le  modifiche  alla  normativa  de  qua dettate dal citato decreto
conseguono alla pronuncia, da parte della Corte costituzionale, della
sentenza n. 223 del 15 luglio 2004, con la quale era stata dichiarata
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art. 14, comma 5-quinquies del
d.lgs.  25  luglio  1998,  n. 286, per contrasto con gli artt. 3 e 13
della Costituzione, «. nella parte in cui stabilisce che per il reato
previsto  dal  comma  5-ter  del  medesimo  art.  14  e' obbligatorio
l'arresto dell'autore del fatto .», per la manifesta irragionevolezza
della  previsione  dell'arresto  obbligatorio,  previsto  dalla norma
nonostante  che  sulla  base del vigente ordinamento processuale esso
non fosse suscettibile di sfociare in alcuna misura cautelare.
   D'altro   canto,   dalle   dichiarazioni   degli  esponenti  della
maggioranza  parlamentare  (nella  misura in cui dalle stesse si puo'
desumere  l'«intenzione»  del  Legislatore) e dagli atti parlamentari
relativi  all'iter  di  approvazione  della  legge  di conversione si
ricavano  indicazioni  univoche, le quali confermano che le modifiche
introdotte  con  il  d.l.  n. 241  del 2004 sono state motivate dalla
necessita'  di  ovviare  alla  pronuncia  della  sentenza della Corte
costituzionale n. 223 del 2004.
   Invero, in tali atti si rinviene piu' volte l'espressa indicazione
della   necessita'   di   superare   le  censure  mosse  dalla  Corte
costituzionale  («.  Sul  cammino della Bossi-Fini si e' abbattuta la
mannaia  della Corte costituzionale. Ritengo che con il d.l. in esame
il  Governo  ed  il  Parlamento  siano  intervenuti correttamente per
rispondere  ai  rilievi  della Corte .» (A.C. 5369, discussione del 2
novembre  2004  sul  testo  approvato  al  Senato il 20 ottobre 2004,
repliche del relatore alla legge).
   Va  dunque  notato  che l'innalzamento del limite edittale massimo
porta la fattispecie in esame nell'ambito di operativita' del sistema
generale   di   applicabilita'  delle  misure  coercitive,  ai  sensi
dell'art.  280, comma 2 c.p.p., sicche' viene meno il presupposto dal
quale  la Corte aveva argomentato l'irragionevolezza della previsione
dell'arresto obbligatorio per siffatto reato.
   Peraltro,  va notato che, pur non venendo direttamente interessata
dalle  pronunce  della  Corte  costituzionale  la  fattispecie di cui
all'art.  13,  comma  13, la modifica della sanzione edittale ad essa
relativa   si   giustifica   per   il   coordinamento   del   sistema
sanzionatorio,  posto  che anche in precedenza le previsioni edittali
dell'art.  14,  comma 5-ter e dell'art. 13, comma 13, erano analoghe.
Dunque  anche  per quest'ultima fattispecie e' ora previsto l'arresto
obbligatorio  in flagranza ed e' possibile l'applicazione di tutte le
misure  coercitive contemplate nel Capo II del Libro IV del Codice di
procedura penale.
   3. - Dubita lo scrivente giudice che la misura della pena edittale
prevista   per   il   reato   in   esame   sia  conforme  al  dettato
costituzionale.
   In  primo  luogo,  essa  pare  in  contrasto  con  l'art.  3 della
Costituzione,   perche'   non  appare  rispettosa  del  principio  di
uguaglianza,   sotto   i   profili   della   ragionevolezza  e  della
proporzionalita'.
   Si   deve  pero'  premettere  che  la  Corte  costituzionale,  pur
riservando  alla  discrezionalita'  del legislatore lo «... stabilire
quali  comportamenti debbano essere puniti, determinare quali debbano
essere  la  qualita'  e  la misura della pena ed apprezzare parita' e
disparita'  di  situazioni  ...», ha affermato ripetutamente che «...
l'esercizio  di  tale  discrezionalita'  puo' essere censurato quando
esso  non  rispetti il limite della ragionevolezza e dia quindi luogo
ad  una  disparita'  di  trattamento  palese  e  ingiustificata  ...»
(sentenza  n. 25  del  1994;  il  principio e' richiamato anche nella
sentenza  n. 333  del  1992,  nell'ordinanza  n. 220 del 1996 e nella
sentenza n. 84 del 1997).
   Allora,  riguardo  ai profili dianzi richiamati, e' stato chiarito
(sentenza  n. 409  del  1989) che il principio di uguaglianza sancito
dall'art.   3   della   Costituzione  «...  esige  che  la  pena  sia
proporzionata  al  disvalore del fatto illecito commesso, in modo che
il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa
sociale  ed a quella di tutela delle posizioni individuali ...». Tale
funzione  non  verrebbe  adempiuta  qualora non venisse rispettato il
limite della ragionevolezza.
   Per  meglio  delineare  quest'ultimo si puo' fare riferimento alla
giurisprudenza   della  Corte  costituzionale  che,  nell'intento  di
specificare  i connotati del principio costituzionale di uguaglianza,
ha fatto riferimento a un piu' ampio sistema di valori, che abbraccia
molteplici  principi  costituzionali,  che va letto nel suo insieme e
impone  soluzioni interpretative fra loro coerenti: il riferimento va
alla sentenza n. 91 del 1973 e, soprattutto, alla sentenza n. 215 del
1987,  che  afferma  «...  Sul  tema  della  condizione giuridica del
portatore   di  handicaps  confluiscono  un  sistema  di  valori  che
attingono    ai    fondamentali   motivi   ispiratori   del   disegno
costituzionale.  conseguentemente, il canone ermeneutica da impiegare
in  siffatta  materia  e'  essenzialmente  dato dall'interrelazione e
dall'integrazione   tra   i  precetti  in  cui  quei  valori  trovano
espressione  e  tutela  ...»;  ancor piu' esplicitamente, la sentenza
n. 204  del  1982  insegna  che il valore essenziale dell'ordinamento
giuridico  di un paese civile va ricercato «... nella coerenza tra le
parti  di  cui  si  compone.  canone di. coerenza che nel campo delle
norme  di  diritto  e'  l'espressione del principio di uguaglianza di
trattamento tra eguali posizioni sancito dall'art. 3 ...».
   Cosi',  la  Corte  costituzionale  ha  ripetutamente dimostrato di
ritenere  sindacabile l'esercizio della discrezionalita' da parte del
legislatore,  sul  punto  relativo  alla  corrispondenza delle scelte
legislative  al  canone  di  ragionevolezza:  al riguardo, si possono
ricordare la sentenza n. 55 del 1974 (con la quale si e' ritenuto che
la  norma  impugnata dettasse si' una disciplina differenziata, pero'
per  situazioni  che il legislatore aveva ritenuto diverse e che tale
apprezzamento  non  fosse  privo di razionalita) e la sentenza n. 126
del  1979,  nella  quale  si  insegna  che «... effettuata una scelta
politica  nell'esercizio della sua discrezionalita', logica vuole che
il  legislatore  stesso attui poi con coerenza il criterio prescelto,
mediante  una  disciplina  normativa idonea al conseguimento del fine
voluto.  Diversamente,  ove  l'incoerenza  fosse  tale da determinare
irrazionali  discriminazioni,  la legge risulterebbe viziata non solo
nel   merito,   ma   anche   sotto   il  profilo  della  legittimita'
costituzionale ...».
   Anche  sullo  specifico tema del giudizio sulla razionalita' delle
scelte  del  legislatore  in tema di proporzione fra reato e pena, la
Corte ha piu' volte affermato la possibilita' di sindacare disparita'
di    trattamento   talmente   rilevanti   da   apparire   prive   di
giustificazione, e cio' e' avvenuto anche quando poi, in concreto, la
Corte ha ritenuto di non rilevare nelle norme denunciate squilibri di
ampiezza  tale  da  comportare il suo intervento demolitivo (cfr., ad
esempio, la sentenza n. 271 del 1974).
   Peraltro,  la  gia' citata sentenza n. 409 del 1989 costituisce un
importante  punto di arrivo nel percorso interpretativo seguito dalla
Corte,   venendo   in   essa   esplicitato   che   il   principio  di
proporzionalita'    induce    a   negare   legittimita'   alle   «...
incriminazioni  che,  anche  se  presumibilmente idonee a raggiungere
finalita'  statuali  di  prevenzione,  producono, attraverso la pena,
danni  all'individuo  (ai suoi diritti fondamentali) ed alla societa'
sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da
quest'ultima  con  la  tutela  dei  beni  e  dei  valori offesi dalle
predette incriminazioni ...».
   4.  -  Nel caso di specie ritiene questo giudice che, in relazione
ai  principi  sopra  ricordati,  la sanzione edittale prevista per il
reato  in  esame sia eccessiva, oltre che del tutto sproporzionata al
disvalore della condotta che intende reprimere.
   Si nota, invero, che l'inasprimento operato dall'ultima novella e'
macroscopico, sia perche' la medesima condotta ora integra un delitto
anziche'  una  contravvenzione, sia perche' l'odierno minimo edittale
coincide col previgente massimo edittale; se poi si guarda al periodo
immediatamente  precedente,  si nota che la medesima condotta fino al
2002  veniva  punita  con l'arresto da due a sei mesi, dunque con una
sanzione  che,  al  massimo,  arrivava alla meta' dell'odierno minimo
edittale.
   Al  contempo, pero', il fenomeno dell'immigrazione clandestina che
la  normativa  in  esame  si  propone  di  contrastare  non ha subito
apprezzabili evoluzioni, ne' si sono registrati mutamenti che possano
avere  indotto  il  legislatore  a  riconsiderare  il valore dei beni
giuridici tutelati e a introdurre norme piu' severe, e questo nemmeno
se  si  prende  in  esame il maggior arco di tempo che risale fino al
1998.
   D'altro  canto,  una  qualche giustificazione sotto questo profilo
non  si  rinviene  nemmeno  dall'esame  dei  lavori  parlamentari: in
particolare, non si rinviene nella relazione all'emendamento del d.l.
n. 241/2004,   posto  che  i  relatori  fanno  riferimento  esplicito
soltanto  alla  necessita'  di  adeguarsi  alla  sentenza della Corte
costituzionale  n. 223  del  2004,  intendendo  tale adeguamento come
inasprimento  della  pena, cosi' da consentire l'arresto obbligatorio
per coloro che non ottemperino all'ordine del questore.
   Infine, va notato che l'irragionevolezza della previsione in esame
e'  confermata  anche  dal  raffronto  con  la  fattispecie  prevista
dall'art.  13, comma 13-bis prima parte, la quale commina la medesima
pena  a colui che rientri nel territorio nazionale dopo un'espulsione
disposta  dal  giudice: fatto quest'ultimo che, pero', e' da ritenere
ben  piu'  grave,  in  quanto presuppone la commissione di un reato o
quantomeno  la  pendenza  di  un procedimento penale, mentre cio' non
ricorre per la fattispecie di cui all'art. 13, comma 13.
   5.  -  Ritiene  ancora lo scrivente giudice che la norma penale in
esame contrasti con l'art. 27, terzo terzo comma della Costituzione.
   Invero,   deve   venire   anzitutto   ricordato   come   la  Corte
costituzionale,  dopo  avere  inizialmente  ritenuto  che il precetto
costituzionale    appena   invocato   si   riferisse   essenzialmente
all'esecuzione  penale  e  dunque  non  avesse  riguardo  alla misura
edittale   della  pena  fissata  dal  legislatore,  ha  ripetutamente
affermato  che  esso  si  riferisce  a tutti i momenti in cui vige la
sanzione  penale, particolarmente in quello in cui la minaccia di una
pena   per   un   determinato   comportamento  esplica  finalita'  di
prevenzione   generale  «...  se  la  finalita'  rieducativa  venisse
limitata  alla  fase  esecutiva,  rischierebbe  grave  compromissione
ogniqualvolta  specie  e  durata  della  sanzione  non  fossero state
calibrate  (ne'  in  sede  normativa  ne' in quella applicativa) alle
necessita' rieducative del soggetto ...» (v. sentenza n. 313 del 1990
e sentenza n. 341 del 1994).
   Nel  caso  di specie, come si e' gia' notato sopra, l'inasprimento
della   pena   e'   stato   dettato   unicamente   dall'esigenza   di
legittimazione   costituzionale   -   sotto  il  particolare  profilo
esplicitato   dalla  Corte  nella  sentenza  n. 223  del  2004  -  un
determinato  iter  procedurale,  che  passa  attraverso la previsione
dell'arresto  obbligatorio  (art. 13, comma 13-ter) e la possibilita'
di applicare misure cautelari coercitive, verosimilmente perche' tali
scansioni  procedimentali si intendono quali strumenti di prevenzione
speciale.
   Tuttavia,  cio'  ha  comportato un vero e proprio rovesciamento di
prospettiva,  che  conferisce  al  diritto  sostanziale  una funzione
servente rispetto alle norme processuali.
   Invero, nel nostro ordinamento la fissazione della misura edittale
della  pena risponde certamente a scelte di politica criminale che il
legislatore  pone  in  essere  sulla base del contesto sociale in cui
opera  e  avendo  di mira la difesa di un determinato bene giuridico;
peraltro,  il  dettato  costituzionale  impone  che  la  pena - anche
nell'astratta previsione edittale - venga proporzionata in guisa tale
da riuscire utile alla rieducazione del condannato.
   Per  tale  ragione,  una  previsione  edittale  che venga modulata
unicamente  in  funzione  dell'esperibilita'  di  un determinato iter
processuale,   in   mancanza  di  altre  ragioni  che  obiettivamente
giustifichino   il   suo   notevole   inasprimento,  viene  di  fatto
disancorata dagli ordinari parametri di riferimento e, percio', perde
anche la sua precipua funzione rieducativa.
   Quindi,  l'entita'  della  pena non e' una leva che il legislatore
possa  muovere  ad  arbitrio,  per  conseguire  finalita' di politica
criminale  determinate,  senza  tenere  in  conto  il disvalore della
condotta  e  il  bisogno  di  rieducazione  del reo che essa mette in
evidenza.
   Fermo  restando  che  non  si intende anticipare in questa sede la
valutazione  in  ordine alla responsabilita' dell'imputato (ovvero in
ordine  alla congruita' della specifica pena concordata dalle parti),
va   notato  che  il  presente  giudizio  non  puo'  venire  definito
indipendentemente    dalla    risoluzione   della   questione   sopra
evidenziata,    apparendo    che   necessariamente   dovrebbe   farsi
applicazione  della  norma  sopra citata e sospetta di illegittimita'
costituzionale.
   Per   le  ragioni  sopra  indicate,  questo  giudice  ritiene  non
manifestamente   infondata   l'esposta   questione   di  legittimita'
costituzionale.
   Il  processo percio' deve venire sospeso e gli atti immediatamente
trasmessi   alla  Corte  costituzionale,  per  la  risoluzione  della
questione.
   Va  ordinata altresi', a cura della cancelleria, la notifica della
presente  ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri e la sua
comunicazione ai Presidenti delle Camere.
                              P. Q. M.
   Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
   Dichiara  rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'   costituzionale  dell'art.  13,  comma  13  del  d.lgs.
n. 286/1998 - come modificato dall'art. 1 del d.l. 14 settembre 2004,
n. 241, convertito con modifiche dalla legge 12 novembre 2004, n. 271
e,  da  ultimo,  dall'art.  2, comma 1, lett. c) del d.lgs. 8 gennaio
2007,  n. 5  - nella parte in cui prevede la pena della reclusione da
uno  a  quattro  anni  per  lo  straniero  espulso  che  rientri  nel
territorio  dello Stato senza la speciale autorizzazione del Ministro
dell'interno, per violazione degli articoli 3 e 27, terzo comma della
Costituzione;
   Dispone  la  trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per
la risoluzione della questione;
   Sospende il giudizio nei confronti dell'imputato:
   Dispone  la  notifica  della  presente  ordinanza,  a  cura  della
cancelleria, al Presidente del Consiglio dei Ministri:
   Dispone  la  comunicazione  della presente ordinanza, a cura della
cancelleria, ai Presidenti delle Camere;
   Manda alla cancelleria per gli altri adempimenti di competenza.
     Trieste, addi' 21 dicembre 2007
                         Il giudice: Antoni