N. 298 SENTENZA 9 - 25 luglio 2008

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il
  pubblico  ministero  di  proporre  appello  avverso  le sentenze di
  proscioglimento   emesse  dal  giudice  di  pace  -  Preclusione  -
  Denunciata  irragionevolezza  nonche'  violazione  del principio di
  parita'  delle  parti  nel  processo  - Esclusione - Non fondatezza
  della questione.
- Legge 20 febbraio 2006, n. 46, art. 9, comma 2.
- Costituzione, artt. 3 e 111.
Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilita' per il
  pubblico  ministero  di  proporre  appello  avverso  le sentenze di
  proscioglimento   emesse  dal  giudice  di  pace  -  Preclusione  -
  Disciplina  transitoria - Prevista declaratoria di inammissibilita'
  dell'appello  proposto prima dell'entrata in vigore della novella -
  Denunciata  irragionevolezza  nonche'  violazione  del principio di
  parita'  delle parti nel processo - Inapplicabilita', nella specie,
  della  norma  censurata, con conseguente difetto di rilevanza della
  questione - Manifesta inammissibilita' della questione.
- Legge 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10, comma 2.
- Costituzione, artt. 3 e 111.
(GU n.32 del 30-7-2008 )
composta dai signori:
Presidente: Franco BILE;
Giudici:  Giovanni  Maria  FLICK,  Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO,
   Paolo  MADDALENA,  Alfio  FINOCCHIARO,  Alfonso  QUARANTA,  Franco
   GALLO,  Luigi  MAZZELLA,  Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria
   Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO;
ha pronunciato la seguente
                              Sentenza
nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 9, comma 2, e
10, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice
di  procedura penale in materia di inappellabilita' delle sentenze di
proscioglimento),  promosso  con  ordinanza del 21 gennaio 2008 dalla
Corte  di  cassazione  nel  procedimento  penale a carico di S. M. ed
altro,  iscritta  al  n. 85  del registro ordinanze 2008 e pubblicata
nella   Gazzetta   Ufficiale  della  Repubblica  n. 15,  prima  serie
speciale, dell'anno 2008.
   Udito  nella  Camera  di  consiglio  del 25 giugno 2008 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
                          Ritenuto in fatto
   Con  l'ordinanza  indicata  in  epigrafe la Corte di cassazione ha
sollevato,  in  riferimento  agli  artt.  3 e 111 della Costituzione,
questioni di legittimita' costituzionale:
     a)  dell'art.  9,  comma  2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46
(Modifiche   al   codice   di   procedura   penale,   in  materia  di
inappellabilita'  delle  sentenze di proscioglimento), nella parte in
cui  -  modificando  l'art.  36,  comma 1, del decreto legislativo 28
agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice
di  pace,  a  norma  dell'articolo  14  della legge 24 novembre 1999,
n. 468)  -  non  consente  al  pubblico ministero di proporre appello
avverso le sentenze di proscioglimento del giudice di pace;
     b)  dell'art.  10,  comma  2, della citata legge n. 46 del 2006,
nella  parte  in  cui  prevede  che  l'appello  proposto dal pubblico
ministero  contro  una di dette sentenze, prima della data di entrata
in  vigore  della  medesima  legge,  sia dichiarato inammissibile con
ordinanza non impugnabile.
   La  Corte  rimettente premette di essere investita del ricorso per
cassazione  proposto il 10 marzo 2006 dal Procuratore generale presso
la Corte d'appello di Genova, avverso la sentenza del Giudice di pace
di  Voltri  -  emessa  il 25 novembre 2005 e depositata il 31 gennaio
2006  -  che  aveva assolto due imputati dal reato di lesioni colpose
«gravi  e  aggravate  dalla violazione delle norme sulla circolazione
stradale»:  sentenza  censurata  dal ricorrente sotto i profili della
mancata  ammissione  di  una prova decisiva, nonche' della mancanza e
della  manifesta  illogicita'  della motivazione in ordine all'omessa
ammissione  di  una  perizia,  volta  ad  accertare  le modalita' del
sinistro.
   La  Corte  rimettente evidenzia come il ricorso sia stato proposto
il giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge n. 46
del  2006,  mentre  la  sentenza e il deposito della motivazione sono
precedenti  ad essa. In simile situazione, potrebbe porsi un problema
di individuazione della disciplina applicabile: infatti, e' pacifico,
nella  giurisprudenza  di legittimita', che il principio tempus regit
actum  opera  anche  in  rapporto  alle  impugnazioni;  tuttavia,  si
registrano  divergenti  indirizzi  in  ordine al momento rilevante ai
fini    dell'applicazione    di    detto    principio   (proposizione
dell'impugnazione,   pronuncia   della   sentenza  o  deposito  della
motivazione).
   Nella  specie,  peraltro,  il  problema risulterebbe risolto dalla
disposizione  transitoria  di  cui  all'art. 10, comma 2, della legge
n. 46  del  2006,  tuttora  vigente  nelle  parti  non  incise  dalle
declaratorie  di  illegittimita'  costituzionale di cui alle sentenze
n. 26 e n. 320 del 2007: disposizione in forza della quale «l'appello
proposto  contro  una  sentenza di proscioglimento [...] dal pubblico
ministero  prima  della  data  di entrata in vigore della [...] legge
viene  dichiarato  inammissibile con ordinanza non impugnabile». Alla
luce   di   tale   previsione,   il  momento  discriminante  ai  fini
dell'individuazione  della disciplina applicabile, infatti, sarebbe -
univocamente   -   quello   della   proposizione   dell'impugnazione:
proposizione  che,  nel  caso  di specie, e' avvenuta sotto il vigore
della novella.
   Sotto  un diverso profilo, e per quanto concerne la qualificazione
giuridica  dell'impugnazione  proposta,  la  Corte rimettente ricorda
come,  secondo  la propria costante giurisprudenza - stante il rinvio
operato  dall'art.  2  del d.lgs. n. 274 del 2000 alle norme generali
del  codice di rito, in materia di impugnazione - avverso le sentenze
del  giudice  di  pace  sia  ammesso  il  ricorso per cassazione «per
saltum»;  nel  qual  caso  il  giudice  di  rinvio  si identifica nel
tribunale   in   composizione  monocratica,  indicato  quale  giudice
competente  per il giudizio d'appello dall'art. 39 del citato decreto
legislativo.  Di qui, peraltro, l'applicabilita' anche dell'art. 569,
comma  3,  del codice di procedura penale, che prevede la conversione
del  ricorso  «per saltum» in appello, qualora venga con esso dedotto
un  vizio  di motivazione o l'omessa assunzione di una prova decisiva
(art. 606, lettere d ed e, cod. proc. pen.).
   Nella  specie, il ricorso proposto dal pubblico ministero si fonda
proprio  sui  motivi  di cui alle lettere d) ed e) dell'art. 606 cod.
proc.  pen.  Percio'  -  ove non fosse intervenuta la legge n. 46 del
2006,  rendendo  inappellabili  dal pubblico ministero le sentenze di
proscioglimento   del  giudice  di  pace  -  l'impugnazione  andrebbe
qualificata  come  ricorso per saltum e, conseguentemente, convertita
in  appello  ai  sensi  del  citato  art.  569  cod.  proc. pen.; con
individuazione  del  giudice competente nel tribunale in composizione
monocratica.
   Desunta  da  tali  considerazioni la rilevanza della questione, la
Corte  rimettente  osserva - quanto alla non manifesta infondatezza -
come   le  sentenze  n. 26  e  n. 320  del  2007  abbiano  dichiarato
l'illegittimita'  costituzionale  degli artt. 1 e 2 della legge n. 46
del  2006, nella parte in cui non consentono al pubblico ministero di
proporre  appello  avverso  le  sentenze  di proscioglimento emesse a
seguito  di  giudizio  ordinario  o  di  giudizio abbreviato; nonche'
dell'art.  10,  comma  2,  della  medesima legge, in riferimento alla
prevista  declaratoria di inammissibilita' degli appelli proposti dal
pubblico  ministero  avverso  le predette sentenze anteriormente alla
data di entrata in vigore della riforma.
   Tali pronunce di incostituzionalita' - prosegue il giudice a quo -
si  fondano  sul  rilievo  che  il  principio  di parita' delle parti
(riferibile   anche   al  regime  delle  impugnazioni)  non  comporta
necessariamente  l'identita'  tra  i  poteri processuali del pubblico
ministero  e  dell'imputato. Tuttavia, le alterazioni della simmetria
fra   tali   poteri  debbono  trovare  comunque  una  giustificazione
razionale,  legata  ad una esigenza di complessivo riequilibrio delle
posizioni   delle   parti  o  al  ruolo  istituzionale  del  pubblico
ministero.  Tale giustificazione, per contro, non e' ravvisabile - in
termini  di  adeguatezza  e  proporzionalita'  -  rispetto alle norme
dianzi  citate,  tenuto  conto  del  carattere  radicale,  generale e
unilaterale della sperequazione generata da tali alterazioni.
   Ad  avviso  della  Corte  rimettente,  le  medesime considerazioni
indurrebbero  a  ritenere  contrastante  con  gli artt. 3 e 111 Cost.
anche  l'esclusione  dell'appello  del  pubblico  ministero contro le
sentenze di proscioglimento del giudice di pace, disposta dalle norme
censurate.
   I  peculiari caratteri del procedimento davanti al giudice di pace
-  piu'  volte  posti  in  luce nella giurisprudenza costituzionale -
potrebbero   giustificare,   infatti,  deviazioni  «sensibili»  della
relativa  disciplina  rispetto  al  modello  ordinario,  ma  non  «il
completo  stravolgimento del regime delle impugnazioni»: e cio' tanto
piu'  a  fronte  della  natura  non  sempre  «bagatellare»  dei reati
attribuiti  alla  competenza  del  giudice  di pace. Nei procedimenti
relativi ai reati di piu' accentuato disvalore - quale, in specie, il
delitto di lesioni personali colpose aggravate dalla violazione delle
norme  sulla  circolazione  stradale, oggetto del giudizio a quo - le
esigenze  di  una  verifica piena della correttezza delle valutazioni
del giudice di primo grado assumerebbero, in effetti, una particolare
pregnanza.  Sarebbe,  percio',  ancora  piu'  evidente  il  carattere
radicale  dell'asimmetria  racchiusa  nella  disciplina censurata, in
quanto  «estesa  a qualsiasi tipologia di processo e anche ai casi di
totale soccombenza» della parte pubblica.
   Sussisterebbe,  in  ogni caso, il connotato della «unilateralita».
L'eliminazione   dell'appello   del  pubblico  ministero  avverso  il
proscioglimento non avrebbe, infatti, «alcuna vera contropartita». Ne
essa  risulterebbe giustificabile solo perche' limitata a determinate
categorie di reati, stante il particolare «impatto sociale» di alcuni
di  essi;  mentre  apparirebbe  contraddittorio  il  mantenimento del
potere di appello della parte pubblica contro le sentenze di condanna
a pena diversa da quella pecuniaria.
   La  disciplina denunciata non potrebbe essere giustificata neppure
in  una  prospettiva  di  riequilibrio  dei poteri delle parti, avuto
riguardo  ai  piu'  ridotti  poteri di impugnazione di cui l'imputato
fruirebbe,  rispetto  al  rito  ordinario,  nel  caso  di sentenza di
condanna  alla  sola pena pecuniaria. Cio' in quanto tale sentenza e'
appellabile  dall'imputato  ove sia stata pronunciata condanna, anche
generica,  al  risarcimento  del danno (art. 37 del d.lgs. n. 274 del
2000); mentre, secondo parte della dottrina, nel procedimento davanti
al  giudice  di  pace  non  sarebbe applicabile al pubblico ministero
nemmeno il nuovo dettato dell'art. 593, comma 2, cod. proc. pen., che
consente  di  appellare la sentenza di proscioglimento nell'ipotesi -
sia  pure  marginale - di sopravvenienza o di scoperta di nuove prove
decisive dopo la sentenza di primo grado.
   Sotto  diverso  profilo, poi, il collegamento esistente - in forza
dell'art.  38  del  d.lgs.  n. 274  del  2000  -  tra  il  potere  di
impugnazione  del  pubblico ministero e quello della parte offesa che
abbia proposto ricorso immediato al giudice ai sensi dell'art. 21 del
medesimo    decreto   legislativo,   finirebbe   per   ridimensionare
«drasticamente»  il  ruolo  di  detta  parte,  in  contrasto  con  un
connotato tipico del procedimento davanti al giudice di pace. Stante,
infatti,  l'interdipendenza  -  sottolineata anche dalla relazione al
d.lgs.  n. 274  del  2000 - tra la disciplina della citazione diretta
dell'imputato,   «strumento   propulsivo  nelle  mani  della  persona
offesa»,  e il diritto di impugnazione della stessa, ogni limitazione
di  quest'ultimo  diritto  verrebbe  a  riverberarsi  sulla specifica
funzione  annessa  alla  giurisdizione  del  giudice di pace, «tesa a
valorizzare le prevalenti esigenze di tutela della vittima del reato,
stravolgendo, quindi, uno dei pilastri di quel giudizio».
   Un  ulteriore  profilo di irragionevolezza emergerebbe all'interno
dello  stesso  disposto  dell'art.  9  della  legge  n. 46  del 2006.
Infatti,  per  un  verso, con il comma 1 di tale articolo, si sarebbe
ricondotto   il   danneggiato   «entro   una  dimensione  prettamente
civilistica»,  mediante  l'abrogazione  dell'art. 577 cod. proc. pen.
(che  consentiva  alla  persona  offesa  costituita  parte  civile di
proporre  impugnazione, anche agli effetti penali, contro le sentenze
di   condanna  e  di  proscioglimento  per  i  reati  di  ingiuria  e
diffamazione).  Per un altro verso, si sarebbe fatto invece permanere
-  nel  procedimento davanti al giudice di pace - «un ampio potere in
capo  alla  parte  offesa»,  consentendole  di  proporre  ricorso per
cassazione,  anche  agli  effetti  penali,  avverso  la  sentenza  di
proscioglimento.
   Alla  radice  della  disciplina  censurata  non potrebbe scorgersi
neppure  un'esigenza di semplificazione processuale; al contrario, la
riforma  avrebbe  determinato  un incremento dei «passaggi» necessari
per  pervenire  alla  decisione  definitiva.  In precedenza, infatti,
all'assoluzione  ingiusta potevano seguire l'appello e il ricorso per
cassazione;  invece,  attualmente, per giungere al medesimo risultato
occorrerebbero,  «nella  migliore delle ipotesi», quattro «passaggi»:
ricorso  per  cassazione  del  pubblico  ministero, nuovo giudizio di
primo  grado,  appello  contro la decisione di condanna e ricorso per
cassazione  avverso  la  sentenza confermativa. Donde una dilatazione
dei  tempi  processuali  atta  ad incidere negativamente, quanto alle
contravvenzioni,  sulla  prescrizione del reato e, per tutti i reati,
sulla ragionevole durata del processo.
   Ne',  da  ultimo, varrebbe invocare il contenuto del messaggio del
Presidente  della  Repubblica, con il quale - in sede di rinvio della
legge  di  riforma  alle Camere - si era evidenziato, come profilo di
incongruenza,  il  fatto  che  al  principio  informatore della legge
stessa   (quello,  cioe',  dell'inappellabilita'  delle  sentenze  di
proscioglimento)   fosse  originariamente  sfuggito  il  procedimento
penale   davanti  al  giudice  di  pace:  non  essendo  la  segnalata
incongruenza    piu'    ravvisabile    dopo   le   dichiarazioni   di
incostituzionalita' degli artt. 1, 2 e 10 della legge n. 46 del 2006.
                       Considerato in diritto
   1.   -   La   Corte   di   cassazione  dubita  della  legittimita'
costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione,
dell'art.  9, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche
al  codice  di procedura penale, in materia di inappellabilita' delle
sentenze di proscioglimento), nella parte in cui - modificando l'art.
36,  comma  1,  del  d.lgs.  28 agosto 2000, n. 274 - non consente al
pubblico  ministero  di  proporre  appello  avverso  le  sentenze  di
proscioglimento  del  giudice di pace; nonche' dell'art. 10, comma 2,
della  citata  legge  n. 46  del 2006, nella parte in cui prevede che
l'appello  proposto  dal  pubblico  ministero  contro  una  di  dette
sentenze, prima della data di entrata in vigore della medesima legge,
venga dichiarato inammissibile.
   Ad   avviso   della  Corte  rimettente,  in  rapporto  alle  norme
censurate,  varrebbero  le medesime rationes che hanno indotto questa
Corte a dichiarare costituzionalmente illegittimi sia gli artt. 1 e 2
della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui sopprimevano il potere
di   appello   del   pubblico   ministero   contro   le  sentenze  di
proscioglimento  emesse a seguito di giudizio ordinario e di giudizio
abbreviato; sia la disposizione transitoria di cui all'art. 10, comma
2,  della stessa legge, per la parte corrispondente (sentenze n. 26 e
n. 320 del 2007).
   Infatti,  anche le norme denunciate genererebbero, tra i poteri di
impugnazione   delle   parti,   una   asimmetria  priva  di  adeguata
giustificazione,   avuto  riguardo  al  suo  carattere  asseritamente
radicale,  generalizzato  e  unilaterale.  Tale  giustificazione  non
potrebbe  essere  rinvenuta ne' nelle particolarita' del procedimento
davanti  al  giudice  di  pace, che non legittimerebbero un «completo
stravolgimento  del  regime  delle impugnazioni», tanto piu' a fronte
della  natura  non  sempre  «bagatellare»  dei  reati attribuiti alla
competenza  di detto giudice; ne' in una esigenza di riequilibrio dei
poteri  delle  parti, tra i quali non era ravvisabile, in precedenza,
alcuna   significativa   sperequazione.   Mentre,  per  altro  verso,
apparirebbe contraddittorio il mantenimento del potere di appello del
pubblico  ministero  contro le sentenze di condanna a pena diversa da
quella pecuniaria.
   Ulteriori  profili  di irragionevolezza della disciplina censurata
si  connetterebbero al depotenziamento del ruolo della persona offesa
che abbia proposto ricorso immediato al giudice ai sensi dell'art. 21
del  d.lgs.  n. 274 del 2000, i cui poteri di impugnazione riflettono
quelli  del  pubblico ministero (art. 38 del d.lgs. n. 274 del 2000);
nonche'  al fatto che la persona offesa mantenga, comunque, il potere
di proporre ricorso per cassazione, anche agli effetti penali: e cio'
ancorche' il comma 1 dello stesso art. 9 della legge n. 46 del 2006 -
abrogando  l'art.  577  cod.  proc. pen. - abbia inteso ricondurre il
danneggiato dal reato «in una dimensione prettamente civilistica».
   Da  ultimo,  l'esclusione dell'appello della parte pubblica contro
le  sentenze  di  proscioglimento  non  risponderebbe  neppure ad una
esigenza  di  semplificazione.  Al contrario, nel caso di assoluzione
ingiusta,  essa  provocherebbe  un  aumento  dei  gradi  di  giudizio
occorrenti  onde pervenire alla decisione definitiva; con conseguente
compromissione   anche   del  principio  di  ragionevole  durata  del
processo.
   2.  - La questione relativa all'art. 9, comma 2, della legge n. 46
del 2006 non e' fondata.
   3.  -  Contrariamente  a  quanto  sostenuto  dal giudice a quo, le
precedenti  argomentazioni  di  questa Corte - sulla base delle quali
essa  ha  dichiarato  costituzionalmente  illegittima la soppressione
dell'appello   del   pubblico   ministero   avverso  le  sentenze  di
proscioglimento,   emesse  nel  giudizio  ordinario  e  nel  giudizio
abbreviato,  per violazione dell'art. 111, secondo comma, Cost. - non
impongono  la  medesima  conclusione  in  rapporto  alla  norma  oggi
sottoposta a scrutinio.
   3.1.  - Con la sentenza n. 26 del 2007, questa Corte ha ribadito -
a  conferma della propria costante giurisprudenza - che, nel processo
penale,   il   principio   di   parita'   delle  parti  non  comporta
necessariamente  l'identita'  tra  i  poteri processuali del pubblico
ministero   e  quelli  dell'imputato.  Infatti  -  sulla  base  delle
«fisiologiche  differenze  che  connotano  le  posizioni  delle parti
necessarie  del processo penale, correlate alle diverse condizioni di
operativita'  e  ai  differenti  interessi  dei  quali [...] le parti
stesse   sono   portatrici»  -  sono  compatibili  con  il  principio
costituzionale  in  questione  delle disparita' di trattamento tra le
parti medesime: purche' tali disparita' siano sorrette da un'adeguata
ratio  giustificatrice,  connessa al ruolo istituzionale del pubblico
ministero  o  ad esigenze di funzionale e corretta esplicazione della
giustizia  penale, anche in un'ottica di complessivo riequilibrio dei
poteri dei contendenti; e purche', comunque, esse siano contenute nei
limiti della ragionevolezza.
   Tali  enunciati  -  ha  ulteriormente precisato la citata sentenza
n. 26  del  2007  -  risultano riferibili anche alla disciplina delle
impugnazioni,   che   non  puo'  reputarsi  in  alcun  modo  estranea
all'ambito di operativita' del principio di parita' delle parti. Cio'
pur  avendo  la  Corte  evidenziato - in assenza di un riconoscimento
costituzionale della garanzia del doppio grado di giurisdizione - che
il  potere  di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado,
da parte del pubblico ministero, non e' configurabile come proiezione
necessaria  del  principio  di obbligatorieta' dell'azione penale, di
cui  all'art.  112  Cost.;  e  che  tale potere presenta, a fronte di
esigenze   contrapposte,  dei  margini  di  «cedevolezza»  piu'  ampi
rispetto  a  quelli che connotano il simmetrico potere dell'imputato,
il  quale,  invece,  si correla anche al fondamentale valore espresso
dal diritto di difesa (art. 24 Cost.).
   Di  qui,  dunque,  la  conclusione  che,  «per quanto attiene alla
disciplina delle impugnazioni - ferma restando la possibilita' per il
legislatore  [...]  di  una  generale  revisione  del  ruolo  e della
struttura  dell'appello  - non contraddice, comunque, il principio di
parita'  l'eventuale differente modulazione dell'appello medesimo per
il  l'imputato  e per il pubblico ministero, purche' essa avvenga nel
rispetto  del canone della ragionevolezza», con i relativi «corollari
di adeguatezza e proporzionalita».
   3.2.  -  La  sentenza  n. 26 del 2007 ha escluso che le condizioni
dianzi  ricordate  ricorressero con riguardo al nuovo testo dell'art.
593  cod.  proc.  pen., come sostituito dall'art. 1 della legge n. 46
del  2006, concernente l'appello nel giudizio ordinario: essendosi in
quell'occasione  al  cospetto  di  una  dissimmetria estrema, che non
avrebbe  potuto  essere  reputata  compatibile  con  il  principio di
parita'  delle  parti,  senza  svuotare  di  significato  l'affermata
riferibilita'   di   detto   principio   anche   alla  materia  delle
impugnazioni.
   La  sperequazione  indotta dalla citata disposizione - per effetto
della  quale  una  sola  delle  parti perdeva la facolta' di proporre
doglianze  di  merito  avverso  la  sentenza che avesse integralmente
respinto  le  proprie  istanze (salva l'ipotesi, del tutto marginale,
della sopravvenienza o della scoperta di nuove prove decisive dopo il
giudizio  di  primo  grado)  -  si  presentava,  difatti,  oltre  che
radicale,   anche   «generalizzata   e   "unilaterale"».   A   fronte
dell'intatto   potere  dell'imputato  di  appellare  le  sentenze  di
condanna  -  anche  per  reati  bagatellari  (salva  la  preesistente
eccezione   relativa   alle  sentenze  di  condanna  alla  sola  pena
dell'ammenda)  -  il pubblico ministero veniva privato del simmetrico
potere  di  appello avverso il proscioglimento, non in riferimento «a
talune  categorie  di  reati,  ma  [...]  indistintamente  a  tutti i
processi»:  ivi compresi quelli relativi ai «delitti piu' severamente
puniti  e  di  maggiore  allarme  sociale».  Al  tempo  stesso, detta
rimozione   non   trovava   «alcuna   specifica   "contropartita"  in
particolari modalita' di svolgimento del processo».
   In  questa situazione, l'alterazione del trattamento paritario dei
contendenti   non   poteva   essere   giustificata,   in  termini  di
«adeguatezza  e  proporzionalita», alla luce delle rationes addotte a
fondamento  della  riforma (vale a dire: l'asserita impossibilita' di
considerare   colpevole  «al  di  la'  di  ogni  ragionevole  dubbio»
l'imputato  prosciolto  in  primo  grado;  l'esigenza  di  uniformare
l'ordinamento   italiano   alle   previsioni   di   determinati  atti
internazionali;   l'opportunita'   di  evitare  che  la  sentenza  di
proscioglimento emessa da un giudice che ha assistito alla formazione
della  prova  venga  ribaltata  da  un  giudice che ha una cognizione
prevalentemente «cartolare» del materiale probatorio).
   4.  -  E'  agevole rilevare, peraltro, come le connotazioni dianzi
indicate  -  ravvisabili,  mutatis  mutandis, anche in relazione alla
soppressione  dell'appello del pubblico ministero avverso le sentenze
di  proscioglimento  emesse  a seguito di giudizio abbreviato (art. 2
della legge n. 46 del 2006, modificativo dell'art. 443, comma 1, cod.
proc.  pen.:  si veda la sentenza n. 320 del 2007) - non siano invece
riscontrabili nell'ipotesi oggetto dell'odierno scrutinio.
   4.1.   -  La  limitazione  del  potere  di  appello  del  pubblico
ministero,  stabilita  dal  novellato  art.  36 del d.lgs. n. 274 del
2000,  non e' affatto «generalizzata». Essa concerne, al contrario, i
soli  reati  di competenza del giudice di pace, ossia un circoscritto
gruppo  di  figure  criminose di minore gravita' e di ridotto allarme
sociale:  figure espressive, in buona parte, di conflitti a carattere
interpersonale e per le quali e' comunque esclusa l'applicabilita' di
pene detentive.
   La validita' di questo rilievo non e' inficiata dall'asserto della
Corte  rimettente,  stando al quale non tutti i reati attribuiti alla
competenza  del giudice di pace - e, tra essi, in specie, il reato di
lesioni  personali  colpose commesse con violazione delle norme sulla
disciplina della circolazione stradale (oggetto del giudizio a quo) -
potrebbero  essere  qualificati, in realta', come «bagatellari». Tale
asserto  si  risolve,  infatti,  in  un  personale  apprezzamento del
giudice  a quo circa il merito di scelte legislative in se' latamente
discrezionali  (quali quelle relative alla valutazione della gravita'
e dell'allarme sociale generato dai singoli reati).
   Al  tempo  stesso, la limitazione censurata viene ad innestarsi su
un  modulo  processuale (il procedimento davanti al giudice di pace),
che  -  come reiteratamente rilevato da questa Corte e come lo stesso
giudice  a  quo  riconosce  -  presenta caratteristiche assolutamente
peculiari.   Esso   risulta  improntato  a  finalita'  di  snellezza,
semplificazione  e  rapidita',  che lo rendono non comparabile con il
procedimento  davanti  al  tribunale, e comunque tali da giustificare
sensibili  deviazioni  rispetto  al  modello  ordinario (ex plurimis,
ordinanze n. 28 del 2007, n. 85 e n. 415 del 2005, n. 349 del 2004).
   Inoltre,  la  modifica  normativa denunciata e' intervenuta su una
disciplina  che - con specifico riguardo al regime delle impugnazioni
-  vedeva l'imputato, per certi versi, sfavorito rispetto al pubblico
ministero.  In base al previgente art. 36 del d.lgs. n. 274 del 2000,
difatti, la parte pubblica era abilitata ad appellare sia le sentenze
di  condanna  del  giudice  di pace che applicano una pena diversa da
quella  pecuniaria;  sia  le  sentenze  di  proscioglimento per reati
puniti  con  pena  alternativa. Per contro, ai sensi dell'art. 37 del
medesimo  decreto  legislativo,  l'imputato  era - ed e' - ammesso ad
appellare   le   sentenze  di  condanna  a  pena  diversa  da  quella
pecuniaria;  nonche'  le sentenze di condanna a quest'ultima pena, ma
solo  ove  venga  congiuntamente impugnato il capo di condanna, anche
generica, al risarcimento del danno.
   Ne derivava che, prima della riforma, il pubblico ministero fruiva
del  potere  di  appello, a certe condizioni, in rapporto ad entrambi
gli  epiloghi  decisori  del  processo  di  primo  grado  (condanna e
proscioglimento);  mentre  l'imputato  fruiva  dell'omologo potere, a
certe  condizioni,  in rapporto ad uno soltanto di detti epiloghi (la
condanna). Non solo: l'imputato non poteva (ne' puo) proporre appello
contro le sentenze di condanna per reati puniti con pena alternativa,
allorche'  sia  stata concretamente applicata la sola pena pecuniaria
(salvo  che  impugni l'eventuale capo di condanna al risarcimento dei
danni);  invece,  il pubblico ministero poteva appellare in ogni caso
le  sentenze  di  proscioglimento relative alla medesima categoria di
reati.
   4.2.  -  In  simile  situazione,  la  scelta  del  legislatore  di
escludere  la  proponibilita'  di  censure  di  merito,  da parte del
pubblico  ministero,  avverso  le  sentenze  di  proscioglimento  del
giudice  di  pace  - a dispetto del mantenimento di un (circoscritto)
potere di appello dell'imputato avverso le sentenze di condanna - non
puo'  ritenersi eccedente i limiti di compatibilita' con il principio
di  parita'  delle parti. Tale scelta trova, infatti, una sufficiente
ratio  giustificatrice  sia nella ritenuta opportunita' di evitare un
secondo  giudizio  di merito, ad iniziativa della parte pubblica, nei
confronti  di  soggetti  gia'  prosciolti  per  determinati reati «di
fascia  bassa»,  all'esito  di  un  procedimento improntato a marcata
rapidita'  e  semplificazione  di  forme;  sia  -  almeno  in parte -
nell'ottica  del  riequilibrio  dei poteri rispetto ad un assetto nel
quale ad essere collocato in posizione di svantaggio era, sotto certi
aspetti, l'imputato: ossia, proprio la parte il cui diritto d'appello
ha  una  maggiore  «forza  di  resistenza» rispetto a spinte di segno
soppressivo.
   L'eventualita',   allegata   dalla  Corte  rimettente,  che  -  in
contrasto con la «esigenza semplificativa o di ragionevole durata del
processo»  -  l'intervento  normativo censurato determini, in caso di
assoluzione  ingiusta,  un  aumento  dei gradi di giudizio occorrenti
onde  pervenire  alla  decisione  definitiva (stante il carattere, di
regola,  solo  rescindente  del giudizio di cassazione), costituisce,
per l'appunto, una semplice eventualita': ed in tali termini essa era
stata  evocata,  in un'ottica contrapposta, dalla sentenza n. 320 del
2007  di  questa  Corte,  citata  dal  giudice  a quo. D'altronde, e'
indubbio  che,  sotto  altri  versanti,  l'esclusione del giudizio di
appello  su  iniziativa  della parte pubblica comporti, viceversa, un
risparmio di attivita' processuali.
   Analogamente,  resta  irrilevante,  ai  fini  considerati,  che la
compressione  dei  poteri  di  impugnazione del pubblico ministero si
riverberi  - stante il collegamento istituito dall'art. 38 del d.lgs.
n. 274  del 2000 - anche sui corrispondenti poteri del ricorrente che
ha  chiesto la citazione a giudizio dell'imputato, ai sensi dell'art.
21  del medesimo decreto legislativo. Contrariamente a quanto afferma
la Corte rimettente, il semplice fatto che - sullo specifico versante
considerato  -  i poteri riconosciuti alla persona offesa, che agisce
in veste di «accusatore privato», subiscano una contrazione riflessa,
non  puo'  essere  qualificato  come  «stravolgimento»  di  «uno  dei
pilastri»  su  cui  poggia  la  giurisdizione del giudice di pace (la
centralita'  del  ruolo  della  vittima).  Ne',  in  ogni caso, detta
contrazione  puo'  essere  elevata  ad  indice  della  irrazionalita'
dell'intervento novellistico: infatti, e' evidente come l'«accusatore
privato»  non  possa fruire, sul piano del principio di parita' delle
parti,  di  poteri  processuali,  agli effetti penali, piu' estesi di
quelli riconosciuti all'accusatore pubblico.
   Del   tutto   inconferente   rispetto   al  thema  decidendum  (la
configurazione  dei poteri di appello del pubblico ministero) - oltre
che  contraddittoria  rispetto  alla doglianza dianzi esaminata - e',
poi,  l'ulteriore  censura  prospettata  dal  giudice a quo: cioe' la
supposta discrepanza tra l'abrogazione dell'art. 577 cod. proc. pen.,
disposta  dal  comma 1 dello stesso art. 9 della legge n. 46 del 2006
(nella   quale   dovrebbe   scorgersi   l'intento  di  ricondurre  il
danneggiato  dal  reato «in una dimensione prettamente civilistica»),
da un lato, e il mantenimento, nel procedimento davanti al giudice di
pace,  del  potere  della  persona offesa (che abbia proposto ricorso
immediato  ai  sensi  dell'art.  21  del  d.lgs.  n. 274 del 2000) di
ricorrere  per  cassazione  avverso  la  sentenza di proscioglimento,
anche agli effetti penali, dall'altro lato.
   Quanto,  infine,  alla  denunciata  incongruenza  intrinseca  alla
disciplina  dell'impugnazione  della parte pubblica, conseguente alla
conservazione  del  suo  potere  di  appello  avverso  le sentenze di
condanna  a  pena  diversa  da  quella  pecuniaria - e, cioe', contro
sentenze   che   accolgono,  anche  se  solo  in  parte,  le  istanze
dell'accusa,   mentre   sono   rese  inappellabili  le  sentenze  che
disattendono  in toto la pretesa punitiva (si vedano, al riguardo, le
sentenze  n. 26  e  n. 320  del 2007) - detta incongruenza, una volta
escluso  che  la  disposizione  impugnata  possa ritenersi di per se'
contrastante   con   il   principio   di  parita'  delle  parti,  non
necessariamente  dovrebbe  essere  rimossa  nel senso auspicato dalla
Corte   rimettente:   e,   cioe',  tramite  l'ablazione  della  norma
modificativa   e   il   ripristino   del  regime  pregresso.  Sarebbe
ipotizzabile,   infatti,   anche   un  intervento  che  incida  sulla
perdurante (e, peraltro, di fatto assai circoscritta) appellabilita',
da   parte  del  pubblico  ministero,  delle  sentenze  di  condanna:
intervento che non puo' essere peraltro preso in considerazione nella
presente  sede,  sia perche' di segno opposto al petitum; sia perche'
comunque irrilevante nel giudizio a quo.
   5.  - L'accertata insussistenza di un vulnus all'art. 111, secondo
comma,  Cost.  -  sotto  il profilo della non configurabilita' di una
disparita'  di  trattamento  tra  le  parti  eccedente i limiti della
ragionevolezza  -  vale altresi', e conseguentemente, ad escludere la
lesione  dell'art.  3  Cost.,  dedotta  dalla  Corte congiuntamente a
quella dell'art. 111 Cost. e sulla base delle stesse considerazioni.
   6.  - La questione relativa alla norma transitoria di cui all'art.
10,  comma  2,  della  legge n. 46 del 2006 - che, ove scrutinata nel
merito,  non  potrebbe  evidentemente  che  seguire la medesima sorte
della  questione  relativa  alla norma «a regime» - e' manifestamente
inammissibile per difetto di rilevanza.
   Secondo quanto si riferisce nell'ordinanza di rimessione, difatti,
nel  caso oggetto del giudizio a quo l'impugnazione e' stata proposta
in  data  successiva  all'entrata  in  vigore  della novella: sicche'
difetta,  nella  specie, il presupposto di applicabilita' della norma
transitoria censurata.
              Per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE
   1)   dichiara   non   fondata   la   questione   di   legittimita'
costituzionale  dell'art.  9,  comma 2, della legge 20 febbraio 2006,
n. 46  (Modifiche  al  codice  di  procedura  penale,  in  materia di
inappellabilita'  delle  sentenze  di proscioglimento), sollevata, in
riferimento  agli  artt.  3  e 111 della Costituzione, dalla Corte di
cassazione con l'ordinanza indicata in epigrafe;
   2)  dichiara  la  manifesta  inammissibilita'  della  questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 10, comma 2, della citata legge
20 febbraio 2006, n. 46, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111
della  Costituzione,  dalla  Corte  di  cassazione  con  la  medesima
ordinanza.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.
                         Il Presidente: Bile
                         Il redattore: Flick
                      Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 25 luglio 2008.
              Il direttore della cancelleria: Di Paola