N. 76 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 novembre 2008

Ordinanza del 17 novembre 2008 emessa dal Tribunale  di  Rossano  nel
procedimento civile promosso da Vergadoro Giuseppe  ed  altro  contro
Cooperativa soc. a r.l. Futura Lavoro. 
 
Lavoro e  occupazione  -  Apposizione  di  termini  alla  durata  del
  contratto di lavoro subordinato - Violazione delle norme in materia
  di apposizione e di proroga del termine - Previsione, per i giudizi
  in corso alla data di entrata in vigore della norma  censurata,  di
  un indennizzo a carico  del  datore  di  lavoro  e  in  favore  del
  lavoratore di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed  un  massimo
  di  6  mensilita'  dell'ultima  retribuzione  globale  di  fatto  -
  Irragionevolezza -  Ingiustificata  disparita'  di  trattamento  di
  fattispecie identiche discriminate in ragione della pendenza o meno
  di un giudizio alla data di entrata in vigore della legge censurata
  - Lesione del diritto al lavoro  e  del  principio  di  tutela  del
  lavoro - Incidenza sul diritto di azione e di difesa in giudizio  -
  Denunciata  violazione  del  principio  di  autonomia   privata   -
  Contrasto con i principi costituzionali in  materia  di  privazione
  dei diritti e di imposizione di obblighi  -  Indebita  interferenza
  sul potere giurisdizionale - Asserita violazione del  principio  di
  ragionevole durata del processo. 
- Decreto  legislativo  6  settembre  2001,  n.  368,   art.   4-bis,
  introdotto dall'art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge  25  giugno
  2008, n. 112, inserito dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n.
  133. 
- Costituzione, artt. 3, 4, 24, 35, 41, primo  comma,  43,  53,  101,
  102, 104 e 111. 
(GU n.11 del 18-3-2009 )
                            IL TRIBUNALE 
    Definitivamente sciogliendo la riserva posta alla udienza del  13
ottobre 2008, ha pronunciato la seguente ordinanza  nel  procedimento
n. 172/08 R.G.A.C. tra Vergadoro  Giuseppe,  nato  a  Rossano  il  13
giugno 1967, e Calabro' Antonio, nato a Rossano il  6  gennaio  1976,
rappresentati e difesi dall'avv.  Daniela  Boccuti  ed  elettivamente
domiciliati presso lo studio della stessa in  Rossano,  fraz.  Scalo,
via Trieste n. 21, ricorrenti e Coop. soc. a r.l. Futura  Lavoro  con
sede in Cassano allo Ionio, in persona del legale rappresentante  pro
tempore,  rappresentato  e  difeso   dall'avv.   Luigi   Cosenza   ed
elettivamente domiciliata in Rossano, via Manzoni n.  46,  presso  lo
studio dell'avv. Alberto Sanzi,  resistente,  per  il  riconoscimento
della nullita' della clausola oppositiva del termine a  contratto  di
lavoro a tempo determinato. 
    Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue. 
                              F a t t o 
    Con atto depositato il 15 febbraio 2008 i ricorrenti  convenivano
in giudizio dinanzi a questo giudice la  Coop.  soc.  a  r.l.  Futura
Lavoro esponendo: 
        che  la  convenuta  occupava  piu'  di  15   dipendenti   nel
territorio del comune di Rossano e 60 a livello nazionale; 
        di essere stati assunti dalla convenuta con contratti a tempo
determinato, come operai qualificati addetti alla pulizia  del  verde
nel comune di Rossano; 
        che in particolare Vergadoro Giuseppe era stato assunto dal 6
settembre 2007 al 10 settembre 2007, contratto poi prorogato fino  al
30 settembre 2007, senza menzione nello  stesso  e  nella  successiva
proroga delle ragioni giustificative della apposizione del termine; 
        che lo stesso poi era stato assunto dall'11 ottobre  2007  al
12  novembre  2007,  con  giustificazione  di  esigenze   di   ordine
produttivo e  organizzativo  e  per  la  necessita'  di  incrementare
temporaneamente la forza lavoro; 
        che era stato ancora  assunto  dal  29  novembre  2007  al  7
dicembre 2007 per le medesime ragioni; 
        che Calabro' Antonio era stato assunto dal 27 agosto 2007  al
10 settembre 2007, contratto poi prorogato fino al 30 settembre 2007,
senza menzione nello stesso e nella successiva proroga delle  ragioni
giustificative della apposizione del termine; 
        che lo stesso poi era stato assunto dall'11 ottobre  2007  al
12  novembre  2007,  con  giustificazione  di  esigenze   di   ordine
produttivo  e  organizzativo  per  la  necessita'   di   incrementare
temporaneamente la forza lavoro; 
        che era stato ancora  assunto  dal  29  novembre  2007  al  7
dicembre  2007  per  le  medesime  ragioni;  che   entrambi   avevano
continuato a lavorare dopo il 7 dicembre 2007; 
        che  prima  e  dopo  di  lavoro  erano  stati  assunti  altri
dipendenti con rapporto di lavoro a termine, con cio' violando  anche
il  loro  diritto  di  precedenza   nelle   riassunzioni;   che   con
raccomandata del 9 gennaio 2008 la convenuta, che il 10 dicembre 2007
aveva comunicato loro  la  cessazione  del  rapporto  di  lavoro  per
scadenza del termine, gli aveva  comunicato  il  recesso  per  motivo
oggettivo consistente nella assenza di alte attivita' lavorative dove
utilizzarli, a far data dal 7 dicembre 2007; 
        che avevano impugnato  il  recesso  con  raccomandata  del  2
febbraio 2008, dichiarandosi disponibili a riprendere il lavoro; 
        che in  particolare  nel  primo  contratto  non  erano  state
neppure esplicitate le ragioni puntuali che avevano  giustificato  la
apposizione del termine, con violazione dell'art 1, comma 2,  decreto
legislativo n. 368/2001; 
        che le ragioni giustificatrici indicate  erano  generiche  ed
inesistenti, considerato che la convenuta procedeva a tali  forme  di
assunzione senza soluzione di continuita'  alcuna,  per  il  medesimo
servizio espletato dagli istanti; 
        che la attivita' svolta (pulizia del verde pubblico),  svolta
ormai da diversi anni, non era attivita'  temporanea,  occasionale  o
straordinaria, ma permanente; 
        che la proroga era avvenuta in assenza di  indicazione  delle
di ragioni legittimanti, comunque insussistenti; 
        che era stata superata la percentuale massima,  prevista  dal
CCNL,della forza lavoro a tempo determinato assumibile, in  relazione
alla forza lavoro a tempo indeterminato;  che  la  conseguenza  delle
indicate violazioni era costituita dalla conversione dei contratti di
lavoro  a  tempo  indeterminato,  con  obbligo  di  reintegra  ed  al
pagamento a titolo risarcitorio, ex art. 18, legge n. 300/1970, di  5
mensilita'  di  retribuzione,   o   comunque   al   pagamento   delle
retribuzioni maturate dal giorno del recesso a quello della effettiva
reintegrazione; 
        che comunque, anche ove non si ritenesse  la  equiparabilita'
della fattispecie de qua con il recesso, avevano diritto al pagamento
delle retribuzioni infratemporalmente maturate,  per  i  periodi  non
lavorati, dalla messa a disposizione delle loro energie lavorative; 
        che  i  recessi  del  9  gennaio   2008,   impugnati,   erano
illegittimi per inesistenza delle  motivazioni  addotte,  considerato
che la convenuta aveva  numerose  commesse  su  tutto  il  territorio
nazionale e, nello stesso comune di Rossano, aveva proceduto, dopo il
recesso, a nuove assunzioni, con conseguente tutela reale,  vista  la
sussistenza  dei  limiti  numerici  di  cui  all'art.  18,  legge  n.
300/1970. 
    Tanto premesso chiedevano che il giudice  volesse  dichiarare  la
nullita' dei termini apposti ai contratti a tempo determinato  e  per
l'effetto disporre la conversione dei medesimi in contratto  a  tempo
indeterminato e condannare la convenuta alla loro reintegrazione  nel
posto  di  lavoro,  con  risarcimento  del  danno  commisurato   alla
retribuzione globale di  fatto  dalla  scadenza  del  contratto  alla
effettiva reintegra, con versamento dei contributi previdenziali;  in
via subordinata chiedevano  condannarsi  la  convenuta  al  pagamento
delle retribuzioni per i periodi non lavorati dal momento della messa
a disposizione delle  loro  energie  lavorative;  chiedevano  inoltre
dichiararsi la nullita' dei recessi del 9 gennaio  2008,  con  tutela
reale e vittoria spese, con distrazione. 
    La Coop. soc. a r.l. Futura Lavoro si costituiva regolarmente  in
giudizio con memoria depositata in data 27 marzo 2008 esponendo: 
        che il relazione al primo contratto gli istanti  erano  stati
assunti per l'appalto ottenuto dalla Sibaritide S.p.A., titolare  del
servizio, per la  sistemazione  dell'Area  di  Pregio  esistente  nel
territorio del comune di Rossano,  non  eseguibile  con  personale  a
tempo indeterminato ex LSU, che si occupava della  diversa  attivita'
di manutenzione del verde pubblico e  canile  municipale,  genus  del
tutto differente da quello in cui erano occupati gli istanti; 
        che mai questi avevano lavorato nei periodi  non  dedotti  in
contratto ed in particolare dal  30  settembre  2007  all'11  ottobre
2007,  periodo  nel  quale  pare  gli  stessi  avessero  lavorato  su
disposizione di un funzionario della S.p.A. Sibaritide, probabilmente
non a conoscenza del termine del contratto di lavoro stipulato con la
convenuta; 
        che mai gli  istanti  avevano  lavorato  dopo  la  cessazione
dell'ultimo contratto e che non erano stati assunti altri  lavoratori
a termine; 
        che la mancata apposizione delle ragioni giustificatrici  del
termine  era   il   frutto   di   un   mero   disguido   dell'ufficio
amministrativo; 
        che per il Vergadoro il contratto, della durata di  soli  tre
giorni, poteva anche non rivestire la forma scritta, per cui non  era
necessaria la indicazione delle ragioni giustificatrici; 
        che comunque gli  istanti  non  avevano  impugnato  il  primo
contratto (del 27 agosto 2007 per il Calabro' e del 6 settembre  2007
per il Vergadoro) ed avevano accettato le nuove  assunzioni  per  cui
non potevano piu' impugnare il primo contratto, per rinuncia  a  fare
valere la invalidita' dei primi; 
        che  invece  gli  altri  contratti  contenevano  le   ragioni
giustificatrici alla apposizione del termine, sussistenti; 
        che non era vero il  ricorso  indiscriminato  a  contratti  a
termine, considerato che gli istanti erano  stati  assunti  nel  solo
periodo dalla fine di agosto  al  dicembre  2007;  che  era  altresi'
lecito  il  recesso  operato  al  fine  di  tutelarsi  da   eventuali
conseguenze pregiudizievoli; 
        che era impossibile la collocazione degli  istanti  in  altre
occupazioni; 
        che era al di sotto dei limiti numerici di personale  per  la
applicabilita' della tutela reale a fronte dei recessi; 
        che in ipotesi di declatoria di  nullita'  della  apposizione
del termine, la eventuale tutela risarcitoria non poteva  travalicare
la data del recesso. 
    Tanto premesso concludeva  per  il  rigetto  delle  domande,  con
vittoria spese. 
                            D i r i t t o 
    Questo giudice dubita della costituzionalita' dell'art 4-bis  del
decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 introdotto dalla legge 6
agosto 2008 n. 133 che operando la conversione del  decreto-legge  25
giugno 2008, n. 112, ha modificato  l'art.  21  dello  stesso  d.-l.,
introducendo il comma 1-bis dell'ar.t 21 che  cosi'  statuisce:  Dopo
l'art. 4 del  decreto  legislativo  6  settembre  2001,  n.  368,  e'
inserito  il  seguente:  «Art.   4-bis.   (Disposizione   transitoria
concernente l'indennizzo per la violazione delle norme in materia  di
apposizione e di proroga del termine). - 1. Con riferimento  ai  soli
giudizi in corso alla  data  di  entrata  in  vigore  della  presente
disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso
di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2  e  4,  il
datore di lavoro e' tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di
lavoro con un'indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5  ed
un massimo di sei  mensilita'  dell'ultima  retribuzione  globale  di
fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge  15
luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni.». 
    L'art. 4-bis del decreto legislativo n. 368/2001  prevede  quindi
che nei giudizi in corso, come quello di cui e' causa, in ipotesi  di
violazione delle disposizioni di cui agli  articoli  1,  2  e  4,  in
ipotesi di declatoria  di  nullita'  della  clausola  oppositiva  del
termine sia possibile fare luogo solo ad una tutela risarcitoria. 
    La questione e' rilevante nella controversia in esame. Infatti la
disposizione e' applicabile ratione temporis, trattandosi come  detto
di giudizio in corso al 21 agosto 2008, data  di  entrata  in  vigore
della disposizione sospettata  di  incostituzionalita'.  E'  altresi'
rilevante dovendosi dare atto che in  relazione  alla  posizione  del
ricorrente Vergadoro ed in particolare alla deduzione della convenuta
che, per la durata del primo contratto a termine non fosse necessaria
la forma scritta, deve evidenziarsi che lo stesso e' stato  stipulato
per il periodo dal  6  settembre  2007  al  10  settembre  2007,  poi
prorogato fino al 30 settembre 2007:  conseguenzialmente  allo  stato
appare necessaria la forma scritta perche' il rapporto  e'  stato  di
durata superiore a dodici giorni (art. 1, comma 1, d.lgs. n. 368/01).
Sia con riferimento a detto contratto che  al  primo  del  ricorrente
Calabro', (dal 27 agosto 2007 al 10  settembre  2007,  poi  prorogato
fino al 30 settembre 2007) deve rilevarsi che ai  sensi  dell'art.  1
del d.lgs. n. 368/2001 e' consentita l'apposizione di un termine alla
durata del contratto di lavoro subordinato a  fronte  di  ragioni  di
carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo  e  (comma
2) l'apposizione del termine e' priva  di  effetto  se  non  risulta,
direttamente  o  indirettamente,  da  atto  scritto  nel  quale  sono
specificate le ragioni di cui al comma 1. Nel caso di specie  non  vi
e'  alcuna  specificazione  delle  ragioni  per   cui,   salvo   piu'
approfondita valutazione da effettuarsi all'esito  della  discussione
orale e della pronuncia della  sentenza  definitiva,  la  conseguenza
appare essere quella della nullita'  della  clausola  oppositiva  del
termine. 
    L'accoglimento delle  doglianze  relative  alla  apposizione  del
termine al primo contratto rende  irrilevante  l'esame  di  qualsiasi
altra doglianza in relazione  agli  altri  contratti  a  termine.  La
conseguenza della nullita' della clausola oppositiva del termine  era
costituita, prima della introduzione dela  norma  qui  sospettata  di
incostituzionalita',  dalla   declatoria   della   natura   a   tempo
indeterminato del rapporto di lavoro. Infatti la nullita' del termine
apposto al contratto non puo' inficiare l'intero negozio  perche'  lo
stesso non  si  riferisce  ad  un  elemento  principale  del  negozio
giuridico, a cui inerisce, e non vi e' connessione  inscindibile  tra
il termine e le altre clausole contrattuali (come per esempio  se  si
trattasse di contratto a termine per prestazioni che normalmente  non
possono trovare collocazione presso la convenuta). Il riferimento che
si deve fare nel valutare la possibile nullita' dell'intero contratto
e' alla funzione del  contratto,  alla  volonta'  oggettivizzata  nel
regolamento contrattuale e non una indagine psicologica  (cosi'  gia'
Cass. 180/47, da ultimo Cass. civ., sez. II, 5 maggio 2003, n.  6756:
In tema di  contratti,  agli  effetti  della  disposizione  contenuta
nell'art. 1419 c.c. sulla nullita' parziale, la prova  che  le  parti
non avrebbero concluso il contratto senza  quella  parte  affetta  da
nullita', con conseguente  estensione  della  invalidita'  all'intero
contratto, deve essere fornita dall'interessato ed e'  necessario  al
riguardo un apprezzamento in ordine alla volonta' delle  parti  quale
obiettivamente ricostruibile sulla base del concreto  regolamento  di
interessi, rimesso al giudice del merito ed incensurabile in sede  di
legittimita', se adeguatamente e  razionalmente  motivato);  si  deve
quindi verificare  se  il  contratto,  rispetto  agli  interessi  nel
concreto perseguiti, fosse utile all'atto della  sua  stipula  (cass.
sent. n. 536/67). In questo senso e' evidente la  non  estensibilita'
della nullita', considerato che la clausola nulla (quella relativa al
termine) non era essenziale al perseguimento dello scopo nel concreto
perseguito. Da rilevarsi che detta interpretazione trova conferma nel
recente orientamento della Corte di cassazione, come espresso con  la
sentenza n. 12985/08. 
    Deve solo osservarsi  che  la  condotta  degli  istanti  che  non
avevano impugnato il primo contratto ed avevano  accettato  le  nuove
assunzioni costituisce obbligo da parte degli stessi per  ridurre  le
conseguenze della mora accipiens della convenuta, per soddisfare alle
loro esigenze alimentari e per realizzare il loro diritto al  lavoro,
di  rilievo  costituzionale  per  cui  non  puo'  configurare  alcuna
rinuncia. 
    Non resterebbe quindi che  dichiarare  la  nullita'  del  termine
apposto ai primi contratti in atti e  per  l'effetto  dichiarare  che
inter partes intercorre un rapporto di lavoro a  tempo  indeterminato
con decorrenza dalla prima  assunzione  di  ciascuno  degli  istanti,
quantomeno fino al recesso di cui alla  raccomandata  del  9  gennaio
2008. 
    Di ostacolo a dette ordinarie conseguenze, ordinarie perche' tale
rimane per i  processi  non  in  corso  la  disciplina  prevista,  e'
costituita dalla disposizione in esame che prevede, come  conseguenza
della declatoria di nullita', non la  prosecuzione  del  rapporto  di
lavoro con diritto alle retribuzioni infratemporalmente maturate,  ma
nella ipotesi come quella di cui e' causa, di violazione dell'art.  1
del d.lgs. n. 368/2001, che il datore di lavoro sia tenuto unicamente
a indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennita'  di  importo
compreso tra un minimo  di  2,5  ed  un  massimo  di  sei  mensilita'
dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai  criteri
indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive
modificazioni. 
    La questione e' altresi' rilevante anche  sul  piano  processuale
perche', a fronte della previsione di cui all'art. 4-bis, gli istanti
sono posti processualmente di  fronte  ad  una  duplice  alternativa:
richiedere di poter modificare, ex  art.  420,  comma  1  c.p.c.,  su
autorizzazione di questo giudice, le conclusioni  di  cui  alla  loro
domanda a causa dell'intervento normativo, ovvero non modificarle  di
modo che la domanda e' da ritenersi sopravvenutamente  inammissibile,
perche' la loro originaria richiesta non e' piu' ammissibile.  L'art.
4-bis conduce quindi o ad una autorizzazione,  previa  richiesta,  di
modifica  della  domanda  o,  in  mancanza,  ad  una   pronuncia   di
inammissibilita',   mentre   la   sua   eventuale    declatoria    di
incostituzionalita'  ad  una  decisione  di   merito   in   relazione
all'originario petitum. 
    Detta disposizione e' ad avviso di questo giudice non  immune  da
plurimi ed articolati sospetti di illegittimita'  costituzionale  per
violazione degli articoli 3, 24, 11, 41 e 102 103  104  e  111  della
Carta costituzionale. 
    La stessa non puo' costituire oggetto di disapplicazione da parte
del giudice remittente per contrasto  con  l'Ordinamento  comunitario
(direttiva del Consiglio, del 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE  relativa
all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo  determinato)
ed in particolare per  violazione  della  clausola  di  non  regresso
perche' (Corte di giustizia, sentenza  del  22  novembre  2005  nella
causa n. 144/2004) e' possibile prevedere  una  riforma  peggiorativa
della protezione offerta ai lavoratori nel settore  dei  contratti  a
tempo  determinato  perche'  non  e',   in   quanto   tale,   vietata
dall'accordo quadro  quando  non  e'  in  alcun  modo  collegata  con
l'applicazione di questo. Nel caso di specie non  si  tratta  di  una
riforma peggiorativa che trova la sua causa o la sua occasione  nella
applicazione dell'accordo  quadro  suddetto.  Inoltre  una  eventuale
disapplicazione porterebbe  ad  una  applicazione  orizzontale  degli
effetti  della  direttiva.  In  ultimo  deve  ricordarsi  che  vi  e'
questione di disapplicazione  delle  norme  interne  in  relazione  a
direttiva c.d. self executing successiva a disposizione con  essa  in
contrasto. Nel caso di specie di contro,  ove  il  contrasto  dovesse
ritenersi, si tratterebbe piu' chiaramente, di volontaria  infrazione
agli obblighi comunitari, in attuazione della  sovranita'  nazionale:
lo Stato italiano avrebbe scelto di  sottrarsi  volontariamente  agli
obblighi  comunitari,  cosi'   violando   l'art.   11   della   Carta
costituzionale. Parimenti non vi e' allo stato elusione del principio
di effettivita' nel perseguimento degli scopi della citata  Direttiva
(art. 249, terzo comma, CE; Corte di giustizia CE sentenze rese nelle
cause C-212/04 180/04)  considerato  che  la  minaccia  rappresentata
dalla declatoria di nullita' del  termine  apposto  al  contratto  di
lavoro e della conseguente declaratoria che il rapporto di lavoro  e'
ad inizio a tempo indeterminato, e'  solo  occasionalmente  attenuata
dalla disposizione in esame, in un momento solo successivo  a  quello
in cui il deterrente costituito dalla  minacciata  trasformazione  ha
esaurito  i  suoi  effetti:  ovviamente  dette  conclusioni   possono
radicalmente  mutare  a  fronte   di   plurime   reiterazioni   della
disposizione qui sospettata, eventualmente effettuate in seguito alla
verifica, con le organizzazioni sindacali dei datori e dei prestatori
di lavoro comparativamente piu' rappresentative sul piano nazionale e
della valutazione circa una sua ulteriore vigenza (art. 21, comma  4,
d.l. n. 112/2008 come  convertito  con  la  legge  n.  133/2008).  Le
plurime  reiterazioni  infatti  potrebbero  manifestare  l'intenzione
dello  Stato  italiano  di  sostituire,  nei  fatti,   la   efficacia
deterrente costituita dalla  minacciata  declatoria  della  natura  a
tempo indeterminato  del  rapporto  con  la  meno  efficace  sanzione
prevista dall'art. 4-bis  in  parola,  obbligando  questo  giudice  a
verificare la compatibilita' della reiterazione con  le  disposizioni
comunitarie (In  particolare,  tale  potere  discrezionale  non  deve
essere esercitato dalle autorita' nazionali in modo tale da  condurre
ad una situazione che possa generare abusi e pertanto  ostacolare  il
detto obiettivo: punto 82 della sentenza della Corte di giustizia del
4 luglio 2006 nella causa C-212/04): 
Art. 3 della Costituzione. 
    Con  riferimento  al  possibile  contrasto   della   disposizione
sospettata con l'art. 3 della Costituzione, deve evidenziarsi che  la
sanzione  introdotta  dall'art.  4-bis  del  d.lgs.  n.  368/2001  e'
destinata a operare nei soli confronti dei lavoratori  con  cause  in
corso  alla  data  di  pubblicazione   della   legge   n.   133/2008.
Diversamente nei confronti di quattro categorie di soggetti essa  non
opera: 
        coloro i quali hanno intrapreso cause conclusesi con sentenza
passata in giudicato; 
        coloro i quali hanno ottenuto sentenza, non in giudicato,  ma
per la quale non penda appello o ricorso in cassazione, non potendosi
dire in questi casi tecnicamente esistente una causa in corso; 
        coloro i quali, con causa in corso alla data  di  entrata  in
vigore dell'art. 4-bis, vedano estinto il giudizio e poi ripropongano
la controversia; 
        coloro i quali vengano ad agire in giudizio dopo l'entrata in
vigore della legge n. 133/2008. 
    Come e' dato vedersi il  legislatore  ha  adottato  criterio  del
tutto casuale in relazione al quale, invero, questo giudice non e' in
grado di trovare alcuna giustificazione plausibile. 
    Pare quindi evidente il contrasto con l'art. 3 Cost.  che  impone
identico trattamento a parita' di situazioni, consentendo  differenti
trattamenti   ove   gli   stessi   dipendano   da   una   ragionevole
giustificazione,  meritevole  di  tutela  sulla  scorta   di   valori
costituzionalmente  rilevanti  (a  differenza  di   quanto   previsto
dall'art. 24 dello Statuto Albertino  che  faceva  sempre  «salve  le
eccezioni  determinate  dalle  leggi»)   e   proporzionalmente   alla
diversita' della situazione stessa. Nel caso di specie la  diversita'
di sanzione e' prevista addirittura  non  a  seconda  della  data  di
attivazione del procedimento giudiziario (cosi'  alcuni  commentatori
ed alcune recenti ordinanze di remissione alla  Corte  costituzionale
in relazione alla norma qui sospettata), ma in  relazione  alla  mera
formale presenza di causa in corso:  si  escludono  come  detto,  tra
l'altro,  anche  le  cause  per  le  quali  decorrano  i  termini  di
impugnazione, ma  la  stessa  non  sia  stata  ancora  proposta,  con
criterio che non appare rispondere ad alcun canone di ragionevolezza.
Infatti la legittimita' costituzionale  di  discipline  differenziate
del lavoro a termine, giustificate  dalle  peculiari  caratteristiche
dei singoli rapporti di lavoro, e' stata del resto.  riconosciuta  da
questa Corte (sentenza n. 80 del 1994, ordinanza  n.  347  del  1988)
(cosi' la Corte costituzionale nella sentenza n.  410/2000),  ma  nel
caso di specie non vi e' alcuna giustificazione fondata su  peculiari
caratteristiche del rapporto di lavoro, ma in relazione a  parametro,
come detto, del tutto casuale. 
Art. 111 della Costituzione. 
    La norma censurata appare essere  ad  avviso  di  questo  giudice
anche in  contrasto  con  il  disposto  di  cui  all'art.  111  della
Costituzione,  interpretato  anche  alla  luce  dell'art.   6   della
Convenzione  europea  sui  diritti  dell'uomo,  che   impongono   una
ragionevole durata del processo. Ritiene questo giudice che la stessa
debba  essere  interpretata   come   ragionevole   durata   temporale
dell'intero iter necessario per giungere ad una decisione di  merito,
ovvero come una  decisione  strumentale  alla  tutela  della  propria
posizione giuridica. Sulla base dei principi indicati  devono  essere
ritenute non conformi a Costituzione tutte  quelle  disposizioni  che
impongano un  inutile  prolungamento  dell'iter  procedurale  teso  a
giungere  ad  una  decisione  di  merito.  Nel  caso  di  specie   la
disposizione in esame impone  a  coloro  abbiano  causa  pendente  di
ricercare l'estinzione del giudizio (ad esempio  ove  la  controparte
sia contumace), al fine di riproporre successivamente la  domanda  ed
ottenere una ordinaria pronuncia di nullita' del termine  apposto  al
contratto di lavoro e di prosecuzione dello stesso,  in  luogo  della
piu' ridotta tutela prevista dall'art. 4-bis. 
Articoli 24 e 111 della Costituzione. 
    A fronte della previsione di cui alla richiamata disposizione  il
lavoratore con causa in corso e' posto processualmente di  fronte  ad
una duplice alternativa: modificare, ex art. 420, comma 1 c.p.c.,  su
autorizzazione del giudice, le conclusioni  a  causa  dell'intervento
normativo, con una scelta obbligata dalla nuova disposizione,  ovvero
non modificarle di modo che'  la  domanda  diviene  sopravvenutamente
inammissibile. 
    Nella prima  ipotesi  lo  stesso  e'  indotto  ad  una  attivita'
processuale,   altrimenti   non   necessaria,   non   possibile    ed
evidentemente non voluta, visto  che  la  nuova  disposizione  riduce
drasticamente  la  sua  tutela,  con  violazione  dell'art  24  della
Costituzione ed in particolare del comma  2,  obbligando  una  scelta
processuale in forza della disposizione normativa sopravvenuta. 
    Nella  seconda  ipotesi  il  lavoratore  puo'  scegliere  di  non
modificare  le  conclusioni,  cosi'  determinando  una  sentenza   di
inammissibilita' sopravvenuta del ricorso, sentenza  processuale  che
non   precluderebbe   la   riproposizione   della   azione   tendente
all'accertamento della nullita' del termine, al fine di ottenere  una
pronuncia  con  gli  effetti  ordinari  e  non  quelli  di  cui  alla
disposizione qui in esame. E' evidente il sospetto di  illegittimita'
costituzionale per violazione dell'art.  24  e  dell'art.  111  della
Costituzione.  Il  primo  appare  violato  venendosi  ad  indurre  il
lavoratore a non perseguire piu' la tutela dei  propri  diritti,  nel
processo in corso, per effetto di una disposizione normativa e  della
condotta processuale necessariamente collegata alla stessa,  al  fine
di potere  accedere  alla  tutela  «ordinaria»:  infatti  la  mancata
modifica della domanda e delle  conclusioni  determina  una  maggiore
tutela, per effetto della pronuncia processuale cui andra'  incontro,
che  non  gli  preclude  la  possibilita'  di  accedere  alla  tutela
«ordinaria»;  il  secondo  appare  violato  ove   lo   stesso   venga
interpretato nel senso che il giusto processo  deve  tendere  ad  una
ragionevole durata dell'iter complessivo necessario a giungere ad una
decisione di merito ovvero come una decisione strumentale alla tutela
della propria posizione giuridica. Infatti il processo  e  quindi  le
regole preposte al suo funzionamento in tempi ragionevoli non possono
essere ritenute sterili disposizioni tese alla durata di un simulacro
fine a se stesso, ma, considerato che la  funzione  del  processo  e'
dirimere controversie, devono essere  intese  quali  regole  preposte
alla decisione definitiva della controversia  sostanziale  (pronuncia
di merito). 
    Ancora deve rilevarsi come al lavoratore e'  preclusa,  in  forza
del combinato disposto articoli 420 e 437 c.p.c., la  modifica  della
domanda in appello, di tal che la disposizione sospettata finisce con
il condurre ad una certa pronuncia di inammissibilita'  sopravvenuta,
con evidenti effetti sulle spese affrontate in quel giudizio,  e  con
il determinare la necessita' per il lavoratore di proporre  un  nuovo
giudizio al fine di vedere tutelati i propri diritti, con  violazione
dell'art. 111 della Costituzione. 
Articoli 4, 35, 41, 43 e 53 della Costituzione. 
    Ancora appaiono esservi dubbi di legittimita'  costituzionale  in
ordine agli articoli 4, 35, 41 e 42 della Costituzione. 
    Sul punto deve darsi atto del  peculiare  meccanismo  risolutorio
del contratto di  lavoro  previsto  dall'art.  4-bis  del  d.lgs.  n.
368/2001. La sentenza che dichiara la nullita' del termine apposto al
contratto di lavoro e' sentenza  appunto  dichiarativa,  che  non  fa
quindi altro che accertare la illegittimita'  della  apposizione  del
termine e la circostanza che il contratto di  lavoro  deve  ritenersi
sin dall'inizio a tempo indeterminato. Cosi' posta la  questione,  e'
evidente che  la  disposizione  sospettata  incide  sul  piano  degli
effetti del contratto, prevedendo una ipotesi  di  risoluzione  dello
stesso per factum principis. Da rilevarsi altresi' che la condanna ad
una indennita' compresa tra le 2,5 e le 6 mensilita' di  retribuzione
ha  effetto  dalla  data  della  sentenza  e  non  dalla  data  della
illegittima apposizione del termine o della cessazione  del  rapporto
di lavoro considerato che bisogna avere riguardo ai criteri  indicati
nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 che  prevede  che  gli
interessi sulla indennita' ivi prevista decorrano dalla scelta tra la
obbligazione alternativa ivi prevista, la quale trova la  sua  genesi
nella sentenza del giudice. 
    L'effetto determinato dall'art. 4-bis in esame e'  quindi  quello
di risolvere il contratto in forza di  previsione  legislativa  e  di
determinare l'estinzione del diritto di credito del  lavoratore  alle
retribuzioni  infratemporalmente  maturate,  che  gli  spettano   dal
momento della messa a disposizione delle proprie energie lavorative a
quello  della  effettiva  riammissione  in  servizio  (cfr.  sentenze
costanti della Corte di cassazione). A fronte  di  cio'  l'indennizzo
indicato. 
    E' evidente che detta disposizione ha un immediato effetto  sulla
autonomia privata tutelata dall'art. 41, comma 1, della Costituzione,
per cui pare evidente  il  contrasto  con  detta  disposizione  nella
misura in cui prevede una ipotesi di  risoluzione  del  contratto  di
lavoro indipendentemente dalla manifestazione di una  volonta'  delle
parti,  incidendo  direttamente  sul  piano  del   loro   regolamento
negoziale: a  fronte  di  cio'  non  e'  evincibile  alcun  interesse
costituzionalmente apprezzabile, salvo tutelare il datore  di  lavoro
che ha violato disposizioni imperative, anche di rilievo  comunitario
(Direttiva citata), e che abbia  per  mero  caso  la  relativa  causa
pendente al 21 agosto 2008 (data di entrata in vigore dell'art  4-bis
ex art. 1, comma 4 della legge n.  133/2008  pubblicata  in  Gazzetta
Ufficiale 21 agosto 2008). 
    La disposizione in esame priva una parte, ovvero il prestatore di
lavoro, anche della retribuzione gia' maturata, in sostanza  di  gran
lunga maggiore del limite  massimo  previsto  dalla  disposizione  in
parola, basti tenere conto che tra la  data  della  interruzione  del
rapporto di lavoro a  termine  e  la  prima  udienza  necessariamente
maturano almeno tre mesi e dieci  giorni  di  retribuzione  (sessanta
giorni per i tempi dovuti al tentativo obbligatorio di  conciliazione
e quaranta giorni ex art. 415 c.p.c.), ovvero un lasso  di  tempo  di
per se' superiore all'indennizzo minimo, ma solitamente di gran lunga
superiore all'indennizzo massimo; priva  altresi'  il  prestatore  di
lavoro del lavoro stesso, con violazione degli articoli 4 e 35  della
Costituzione, avendo il legislatore, con la disposizione  sospettata,
proposto condizioni che elidono questo  diritto,  gia'  presente  nel
patrimonio delle posizioni giuridiche del lavoratore, in  assenza  di
apprezzabile giustificazione (sul limite della  non  arbitrarieta'  o
manifesta irragionevolezza della  scelta  operata  nella  tutela  del
lavoro Corte costituzionale Ordinanza n. 254 del  1997:  il  criterio
accolto e' frutto di scelte discrezionali del legislatore medesimo al
quale soltanto spetta di stabilire non  solo  in  ordine  all'an,  ma
anche in ordine ai presupposti del  diritto  all'assunzione,  con  il
solo limite della  non  arbitrarieta'  o  manifesta  irragionevolezza
della scelta operata). 
    E' evidente che la disposizione in parola  modifica  radicalmente
l'assetto dei rapporti tra datore di lavoro  e  lavoratore,  privando
quest'ultimo  delle  retribuzioni  dovute  dalla  data  di  messa   a
disposizione delle proprie energie lavorative a quella  di  effettiva
reintegra, nonche' della sussistenza stessa del rapporto di lavoro. A
fronte di detta privazione il legislatore ha previsto un  indennizzo.
La Carta costituzionale prevede poche e circoscritte ipotesi  in  cui
una persona possa essere  privata  di  diritti,  ovvero  obbligata  a
prestazioni e cio' sempre in favore dello Stato (art. 53, obbligo  di
concorrere alle spese pubbliche), ovvero anche di  privati  (articoli
42 e  43),  ma  sempre  a  fronte  di  specifici  motivi  d'interesse
generale. Nel caso di specie invece la  disposizione  in  esame,  per
determinati e casuali soggetti, ha previsto che questi siano  privati
di diritti gia' entrati nel loro patrimonio (la sentenza che  accerta
la nullita' del termine ha come detto valore solo  dichiarativo),  in
relazione ad interessi non pubblici, ma  di  interessi  personali  di
altra categoria di soggetti privati. 
    Si tratta  quindi  di  una  disposizione  latu  sensu  ablatoria,
adottata al di fuori delle ipotesi previste dalla  Costituzione,  che
impone un sacrificio ad una categoria di soggetti, in favore di altra
categoria, per il soddisfacimento di interessi personali di questi  e
non  della  collettivita'.  L'effetto  e'  quindi   quello   di   una
disposizione con efficacia  retroattiva  che  viola  un  fondamentale
valore di civilta' giuridica e principio  generale  dell'ordinamento,
cui il legislatore deve, in linea di principio, attenersi,  che,  pur
non elevato a dignita' costituzionale, salva la previsione  dell'art.
25 Cost.  relativo  alla  materia  penale,  consente  al  legislatore
ordinario emanare norme retroattive solo ove  esse  trovino  adeguata
giustificazione sul piano della ragionevolezza e non  si  pongano  in
contrasto con altri valori e  interessi  costituzionalmente  protetti
cosi' da incidere arbitrariamente sulle situazioni sostanziali  poste
in essere da leggi precedenti (sent. n. 229  del  1999,  n.  432  del
1997, n. 153 e 6 del 1994, n. 283 del 1993, n. 419 del 2000). 
Articoli 101, 102 e 104 della Costituzione. 
    L'efficacia retroattiva della disposizione sospettata incide  sul
diritto alla tutela giurisdizionale,  perche'  espressamente  prevede
che abbia efficacia sui giudizi pendenti di tal  che'  appare  lesiva
della funzione giurisdizionale (articoli 101, 102 e  104  cost.),  in
quanto il legislatore ha agito non «sul piano  astratto  delle  fonti
normative senza ingerirsi nella specifica risoluzione delle  concrete
fattispecie in giudizio (sent. n. 229 del 1999, n. 432 del  1997,  n.
397 del 199 e n. 402 del 1993)» (cosi' testualmente  la  sentenza  n.
419 del 2000) e neppure sui giudizi proposti da  una  certa  data  in
poi, purche' non relativi a situazioni gia'  definite  con  giudicato
sostanziale.  La  disposizione  ha  efficacia   solo   sui   processi
attualmente  pendenti,  con  ricorso  ad  un  criterio   di   diritto
processuale  (come   individuato   nella   presente   ordinanza   con
riferimento alla violazione dell'art. 3 della Costituzione), per  cui
ha  efficacia  solo  con  riferimento  a   specifiche   controversie,
individuabili proprio con riferimento alla  circostanza  che  vi  sia
attualmente esercizio della funzione giurisdizionale:  si  ha  quindi
uno specifico effetto solo su giudizi processualmente pendenti e  non
su una categoria astratta di casi perche' il legislatore ha agito non
sul piano astratto delle fonti normative, ma  si  e'  ingerito  nella
specifica risoluzione delle concrete fattispecie in giudizio,  ovvero
solo quelle pendenti. 
    Tanto premesso gli atti vanno rimessi al giudice delle leggi  per
le sue valutazioni in merito. 
                              P. Q. M. 
    Visto l'art. 23 della  legge  11  marzo  1953,  n.  87,  dichiara
rilevante e non manifestamente  infondata,  nei  termini  di  cui  in
motivazione, la questione di costituzionalita'  dell'art.  4-bis  del
d.lgs. n. 368/2001, introdotto dalla legge 6 agosto 2008, n. 133  che
in sede di conversione del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112,  per
violazione degli articoli 3, 4, 24, 35, 41, 43, 53, 101, 102,  104  e
111 della Costituzione. 
    Sospende il giudizio in corso e  dispone  la  trasmissione  degli
atti alla Corte costituzionale. 
    Ordina che la presente ordinanza sia notificata al Presidente del
Consiglio dei ministri ed alle parti in causa. 
        Cosi' deciso in Rossano, il 17 novembre 2008. 
                         Il giudice: Coppola