N. 76 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 novembre 2008
Ordinanza del 17 novembre 2008 emessa dal Tribunale di Rossano nel procedimento civile promosso da Vergadoro Giuseppe ed altro contro Cooperativa soc. a r.l. Futura Lavoro. Lavoro e occupazione - Apposizione di termini alla durata del contratto di lavoro subordinato - Violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine - Previsione, per i giudizi in corso alla data di entrata in vigore della norma censurata, di un indennizzo a carico del datore di lavoro e in favore del lavoratore di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto - Irragionevolezza - Ingiustificata disparita' di trattamento di fattispecie identiche discriminate in ragione della pendenza o meno di un giudizio alla data di entrata in vigore della legge censurata - Lesione del diritto al lavoro e del principio di tutela del lavoro - Incidenza sul diritto di azione e di difesa in giudizio - Denunciata violazione del principio di autonomia privata - Contrasto con i principi costituzionali in materia di privazione dei diritti e di imposizione di obblighi - Indebita interferenza sul potere giurisdizionale - Asserita violazione del principio di ragionevole durata del processo. - Decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, art. 4-bis, introdotto dall'art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, inserito dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133. - Costituzione, artt. 3, 4, 24, 35, 41, primo comma, 43, 53, 101, 102, 104 e 111.(GU n.11 del 18-3-2009 )
IL TRIBUNALE Definitivamente sciogliendo la riserva posta alla udienza del 13 ottobre 2008, ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento n. 172/08 R.G.A.C. tra Vergadoro Giuseppe, nato a Rossano il 13 giugno 1967, e Calabro' Antonio, nato a Rossano il 6 gennaio 1976, rappresentati e difesi dall'avv. Daniela Boccuti ed elettivamente domiciliati presso lo studio della stessa in Rossano, fraz. Scalo, via Trieste n. 21, ricorrenti e Coop. soc. a r.l. Futura Lavoro con sede in Cassano allo Ionio, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Luigi Cosenza ed elettivamente domiciliata in Rossano, via Manzoni n. 46, presso lo studio dell'avv. Alberto Sanzi, resistente, per il riconoscimento della nullita' della clausola oppositiva del termine a contratto di lavoro a tempo determinato. Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue. F a t t o Con atto depositato il 15 febbraio 2008 i ricorrenti convenivano in giudizio dinanzi a questo giudice la Coop. soc. a r.l. Futura Lavoro esponendo: che la convenuta occupava piu' di 15 dipendenti nel territorio del comune di Rossano e 60 a livello nazionale; di essere stati assunti dalla convenuta con contratti a tempo determinato, come operai qualificati addetti alla pulizia del verde nel comune di Rossano; che in particolare Vergadoro Giuseppe era stato assunto dal 6 settembre 2007 al 10 settembre 2007, contratto poi prorogato fino al 30 settembre 2007, senza menzione nello stesso e nella successiva proroga delle ragioni giustificative della apposizione del termine; che lo stesso poi era stato assunto dall'11 ottobre 2007 al 12 novembre 2007, con giustificazione di esigenze di ordine produttivo e organizzativo e per la necessita' di incrementare temporaneamente la forza lavoro; che era stato ancora assunto dal 29 novembre 2007 al 7 dicembre 2007 per le medesime ragioni; che Calabro' Antonio era stato assunto dal 27 agosto 2007 al 10 settembre 2007, contratto poi prorogato fino al 30 settembre 2007, senza menzione nello stesso e nella successiva proroga delle ragioni giustificative della apposizione del termine; che lo stesso poi era stato assunto dall'11 ottobre 2007 al 12 novembre 2007, con giustificazione di esigenze di ordine produttivo e organizzativo per la necessita' di incrementare temporaneamente la forza lavoro; che era stato ancora assunto dal 29 novembre 2007 al 7 dicembre 2007 per le medesime ragioni; che entrambi avevano continuato a lavorare dopo il 7 dicembre 2007; che prima e dopo di lavoro erano stati assunti altri dipendenti con rapporto di lavoro a termine, con cio' violando anche il loro diritto di precedenza nelle riassunzioni; che con raccomandata del 9 gennaio 2008 la convenuta, che il 10 dicembre 2007 aveva comunicato loro la cessazione del rapporto di lavoro per scadenza del termine, gli aveva comunicato il recesso per motivo oggettivo consistente nella assenza di alte attivita' lavorative dove utilizzarli, a far data dal 7 dicembre 2007; che avevano impugnato il recesso con raccomandata del 2 febbraio 2008, dichiarandosi disponibili a riprendere il lavoro; che in particolare nel primo contratto non erano state neppure esplicitate le ragioni puntuali che avevano giustificato la apposizione del termine, con violazione dell'art 1, comma 2, decreto legislativo n. 368/2001; che le ragioni giustificatrici indicate erano generiche ed inesistenti, considerato che la convenuta procedeva a tali forme di assunzione senza soluzione di continuita' alcuna, per il medesimo servizio espletato dagli istanti; che la attivita' svolta (pulizia del verde pubblico), svolta ormai da diversi anni, non era attivita' temporanea, occasionale o straordinaria, ma permanente; che la proroga era avvenuta in assenza di indicazione delle di ragioni legittimanti, comunque insussistenti; che era stata superata la percentuale massima, prevista dal CCNL,della forza lavoro a tempo determinato assumibile, in relazione alla forza lavoro a tempo indeterminato; che la conseguenza delle indicate violazioni era costituita dalla conversione dei contratti di lavoro a tempo indeterminato, con obbligo di reintegra ed al pagamento a titolo risarcitorio, ex art. 18, legge n. 300/1970, di 5 mensilita' di retribuzione, o comunque al pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno del recesso a quello della effettiva reintegrazione; che comunque, anche ove non si ritenesse la equiparabilita' della fattispecie de qua con il recesso, avevano diritto al pagamento delle retribuzioni infratemporalmente maturate, per i periodi non lavorati, dalla messa a disposizione delle loro energie lavorative; che i recessi del 9 gennaio 2008, impugnati, erano illegittimi per inesistenza delle motivazioni addotte, considerato che la convenuta aveva numerose commesse su tutto il territorio nazionale e, nello stesso comune di Rossano, aveva proceduto, dopo il recesso, a nuove assunzioni, con conseguente tutela reale, vista la sussistenza dei limiti numerici di cui all'art. 18, legge n. 300/1970. Tanto premesso chiedevano che il giudice volesse dichiarare la nullita' dei termini apposti ai contratti a tempo determinato e per l'effetto disporre la conversione dei medesimi in contratto a tempo indeterminato e condannare la convenuta alla loro reintegrazione nel posto di lavoro, con risarcimento del danno commisurato alla retribuzione globale di fatto dalla scadenza del contratto alla effettiva reintegra, con versamento dei contributi previdenziali; in via subordinata chiedevano condannarsi la convenuta al pagamento delle retribuzioni per i periodi non lavorati dal momento della messa a disposizione delle loro energie lavorative; chiedevano inoltre dichiararsi la nullita' dei recessi del 9 gennaio 2008, con tutela reale e vittoria spese, con distrazione. La Coop. soc. a r.l. Futura Lavoro si costituiva regolarmente in giudizio con memoria depositata in data 27 marzo 2008 esponendo: che il relazione al primo contratto gli istanti erano stati assunti per l'appalto ottenuto dalla Sibaritide S.p.A., titolare del servizio, per la sistemazione dell'Area di Pregio esistente nel territorio del comune di Rossano, non eseguibile con personale a tempo indeterminato ex LSU, che si occupava della diversa attivita' di manutenzione del verde pubblico e canile municipale, genus del tutto differente da quello in cui erano occupati gli istanti; che mai questi avevano lavorato nei periodi non dedotti in contratto ed in particolare dal 30 settembre 2007 all'11 ottobre 2007, periodo nel quale pare gli stessi avessero lavorato su disposizione di un funzionario della S.p.A. Sibaritide, probabilmente non a conoscenza del termine del contratto di lavoro stipulato con la convenuta; che mai gli istanti avevano lavorato dopo la cessazione dell'ultimo contratto e che non erano stati assunti altri lavoratori a termine; che la mancata apposizione delle ragioni giustificatrici del termine era il frutto di un mero disguido dell'ufficio amministrativo; che per il Vergadoro il contratto, della durata di soli tre giorni, poteva anche non rivestire la forma scritta, per cui non era necessaria la indicazione delle ragioni giustificatrici; che comunque gli istanti non avevano impugnato il primo contratto (del 27 agosto 2007 per il Calabro' e del 6 settembre 2007 per il Vergadoro) ed avevano accettato le nuove assunzioni per cui non potevano piu' impugnare il primo contratto, per rinuncia a fare valere la invalidita' dei primi; che invece gli altri contratti contenevano le ragioni giustificatrici alla apposizione del termine, sussistenti; che non era vero il ricorso indiscriminato a contratti a termine, considerato che gli istanti erano stati assunti nel solo periodo dalla fine di agosto al dicembre 2007; che era altresi' lecito il recesso operato al fine di tutelarsi da eventuali conseguenze pregiudizievoli; che era impossibile la collocazione degli istanti in altre occupazioni; che era al di sotto dei limiti numerici di personale per la applicabilita' della tutela reale a fronte dei recessi; che in ipotesi di declatoria di nullita' della apposizione del termine, la eventuale tutela risarcitoria non poteva travalicare la data del recesso. Tanto premesso concludeva per il rigetto delle domande, con vittoria spese. D i r i t t o Questo giudice dubita della costituzionalita' dell'art 4-bis del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 introdotto dalla legge 6 agosto 2008 n. 133 che operando la conversione del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, ha modificato l'art. 21 dello stesso d.-l., introducendo il comma 1-bis dell'ar.t 21 che cosi' statuisce: Dopo l'art. 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e' inserito il seguente: «Art. 4-bis. (Disposizione transitoria concernente l'indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine). - 1. Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro e' tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni.». L'art. 4-bis del decreto legislativo n. 368/2001 prevede quindi che nei giudizi in corso, come quello di cui e' causa, in ipotesi di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, in ipotesi di declatoria di nullita' della clausola oppositiva del termine sia possibile fare luogo solo ad una tutela risarcitoria. La questione e' rilevante nella controversia in esame. Infatti la disposizione e' applicabile ratione temporis, trattandosi come detto di giudizio in corso al 21 agosto 2008, data di entrata in vigore della disposizione sospettata di incostituzionalita'. E' altresi' rilevante dovendosi dare atto che in relazione alla posizione del ricorrente Vergadoro ed in particolare alla deduzione della convenuta che, per la durata del primo contratto a termine non fosse necessaria la forma scritta, deve evidenziarsi che lo stesso e' stato stipulato per il periodo dal 6 settembre 2007 al 10 settembre 2007, poi prorogato fino al 30 settembre 2007: conseguenzialmente allo stato appare necessaria la forma scritta perche' il rapporto e' stato di durata superiore a dodici giorni (art. 1, comma 1, d.lgs. n. 368/01). Sia con riferimento a detto contratto che al primo del ricorrente Calabro', (dal 27 agosto 2007 al 10 settembre 2007, poi prorogato fino al 30 settembre 2007) deve rilevarsi che ai sensi dell'art. 1 del d.lgs. n. 368/2001 e' consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo e (comma 2) l'apposizione del termine e' priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1. Nel caso di specie non vi e' alcuna specificazione delle ragioni per cui, salvo piu' approfondita valutazione da effettuarsi all'esito della discussione orale e della pronuncia della sentenza definitiva, la conseguenza appare essere quella della nullita' della clausola oppositiva del termine. L'accoglimento delle doglianze relative alla apposizione del termine al primo contratto rende irrilevante l'esame di qualsiasi altra doglianza in relazione agli altri contratti a termine. La conseguenza della nullita' della clausola oppositiva del termine era costituita, prima della introduzione dela norma qui sospettata di incostituzionalita', dalla declatoria della natura a tempo indeterminato del rapporto di lavoro. Infatti la nullita' del termine apposto al contratto non puo' inficiare l'intero negozio perche' lo stesso non si riferisce ad un elemento principale del negozio giuridico, a cui inerisce, e non vi e' connessione inscindibile tra il termine e le altre clausole contrattuali (come per esempio se si trattasse di contratto a termine per prestazioni che normalmente non possono trovare collocazione presso la convenuta). Il riferimento che si deve fare nel valutare la possibile nullita' dell'intero contratto e' alla funzione del contratto, alla volonta' oggettivizzata nel regolamento contrattuale e non una indagine psicologica (cosi' gia' Cass. 180/47, da ultimo Cass. civ., sez. II, 5 maggio 2003, n. 6756: In tema di contratti, agli effetti della disposizione contenuta nell'art. 1419 c.c. sulla nullita' parziale, la prova che le parti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte affetta da nullita', con conseguente estensione della invalidita' all'intero contratto, deve essere fornita dall'interessato ed e' necessario al riguardo un apprezzamento in ordine alla volonta' delle parti quale obiettivamente ricostruibile sulla base del concreto regolamento di interessi, rimesso al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimita', se adeguatamente e razionalmente motivato); si deve quindi verificare se il contratto, rispetto agli interessi nel concreto perseguiti, fosse utile all'atto della sua stipula (cass. sent. n. 536/67). In questo senso e' evidente la non estensibilita' della nullita', considerato che la clausola nulla (quella relativa al termine) non era essenziale al perseguimento dello scopo nel concreto perseguito. Da rilevarsi che detta interpretazione trova conferma nel recente orientamento della Corte di cassazione, come espresso con la sentenza n. 12985/08. Deve solo osservarsi che la condotta degli istanti che non avevano impugnato il primo contratto ed avevano accettato le nuove assunzioni costituisce obbligo da parte degli stessi per ridurre le conseguenze della mora accipiens della convenuta, per soddisfare alle loro esigenze alimentari e per realizzare il loro diritto al lavoro, di rilievo costituzionale per cui non puo' configurare alcuna rinuncia. Non resterebbe quindi che dichiarare la nullita' del termine apposto ai primi contratti in atti e per l'effetto dichiarare che inter partes intercorre un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con decorrenza dalla prima assunzione di ciascuno degli istanti, quantomeno fino al recesso di cui alla raccomandata del 9 gennaio 2008. Di ostacolo a dette ordinarie conseguenze, ordinarie perche' tale rimane per i processi non in corso la disciplina prevista, e' costituita dalla disposizione in esame che prevede, come conseguenza della declatoria di nullita', non la prosecuzione del rapporto di lavoro con diritto alle retribuzioni infratemporalmente maturate, ma nella ipotesi come quella di cui e' causa, di violazione dell'art. 1 del d.lgs. n. 368/2001, che il datore di lavoro sia tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. La questione e' altresi' rilevante anche sul piano processuale perche', a fronte della previsione di cui all'art. 4-bis, gli istanti sono posti processualmente di fronte ad una duplice alternativa: richiedere di poter modificare, ex art. 420, comma 1 c.p.c., su autorizzazione di questo giudice, le conclusioni di cui alla loro domanda a causa dell'intervento normativo, ovvero non modificarle di modo che la domanda e' da ritenersi sopravvenutamente inammissibile, perche' la loro originaria richiesta non e' piu' ammissibile. L'art. 4-bis conduce quindi o ad una autorizzazione, previa richiesta, di modifica della domanda o, in mancanza, ad una pronuncia di inammissibilita', mentre la sua eventuale declatoria di incostituzionalita' ad una decisione di merito in relazione all'originario petitum. Detta disposizione e' ad avviso di questo giudice non immune da plurimi ed articolati sospetti di illegittimita' costituzionale per violazione degli articoli 3, 24, 11, 41 e 102 103 104 e 111 della Carta costituzionale. La stessa non puo' costituire oggetto di disapplicazione da parte del giudice remittente per contrasto con l'Ordinamento comunitario (direttiva del Consiglio, del 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) ed in particolare per violazione della clausola di non regresso perche' (Corte di giustizia, sentenza del 22 novembre 2005 nella causa n. 144/2004) e' possibile prevedere una riforma peggiorativa della protezione offerta ai lavoratori nel settore dei contratti a tempo determinato perche' non e', in quanto tale, vietata dall'accordo quadro quando non e' in alcun modo collegata con l'applicazione di questo. Nel caso di specie non si tratta di una riforma peggiorativa che trova la sua causa o la sua occasione nella applicazione dell'accordo quadro suddetto. Inoltre una eventuale disapplicazione porterebbe ad una applicazione orizzontale degli effetti della direttiva. In ultimo deve ricordarsi che vi e' questione di disapplicazione delle norme interne in relazione a direttiva c.d. self executing successiva a disposizione con essa in contrasto. Nel caso di specie di contro, ove il contrasto dovesse ritenersi, si tratterebbe piu' chiaramente, di volontaria infrazione agli obblighi comunitari, in attuazione della sovranita' nazionale: lo Stato italiano avrebbe scelto di sottrarsi volontariamente agli obblighi comunitari, cosi' violando l'art. 11 della Carta costituzionale. Parimenti non vi e' allo stato elusione del principio di effettivita' nel perseguimento degli scopi della citata Direttiva (art. 249, terzo comma, CE; Corte di giustizia CE sentenze rese nelle cause C-212/04 180/04) considerato che la minaccia rappresentata dalla declatoria di nullita' del termine apposto al contratto di lavoro e della conseguente declaratoria che il rapporto di lavoro e' ad inizio a tempo indeterminato, e' solo occasionalmente attenuata dalla disposizione in esame, in un momento solo successivo a quello in cui il deterrente costituito dalla minacciata trasformazione ha esaurito i suoi effetti: ovviamente dette conclusioni possono radicalmente mutare a fronte di plurime reiterazioni della disposizione qui sospettata, eventualmente effettuate in seguito alla verifica, con le organizzazioni sindacali dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente piu' rappresentative sul piano nazionale e della valutazione circa una sua ulteriore vigenza (art. 21, comma 4, d.l. n. 112/2008 come convertito con la legge n. 133/2008). Le plurime reiterazioni infatti potrebbero manifestare l'intenzione dello Stato italiano di sostituire, nei fatti, la efficacia deterrente costituita dalla minacciata declatoria della natura a tempo indeterminato del rapporto con la meno efficace sanzione prevista dall'art. 4-bis in parola, obbligando questo giudice a verificare la compatibilita' della reiterazione con le disposizioni comunitarie (In particolare, tale potere discrezionale non deve essere esercitato dalle autorita' nazionali in modo tale da condurre ad una situazione che possa generare abusi e pertanto ostacolare il detto obiettivo: punto 82 della sentenza della Corte di giustizia del 4 luglio 2006 nella causa C-212/04): Art. 3 della Costituzione. Con riferimento al possibile contrasto della disposizione sospettata con l'art. 3 della Costituzione, deve evidenziarsi che la sanzione introdotta dall'art. 4-bis del d.lgs. n. 368/2001 e' destinata a operare nei soli confronti dei lavoratori con cause in corso alla data di pubblicazione della legge n. 133/2008. Diversamente nei confronti di quattro categorie di soggetti essa non opera: coloro i quali hanno intrapreso cause conclusesi con sentenza passata in giudicato; coloro i quali hanno ottenuto sentenza, non in giudicato, ma per la quale non penda appello o ricorso in cassazione, non potendosi dire in questi casi tecnicamente esistente una causa in corso; coloro i quali, con causa in corso alla data di entrata in vigore dell'art. 4-bis, vedano estinto il giudizio e poi ripropongano la controversia; coloro i quali vengano ad agire in giudizio dopo l'entrata in vigore della legge n. 133/2008. Come e' dato vedersi il legislatore ha adottato criterio del tutto casuale in relazione al quale, invero, questo giudice non e' in grado di trovare alcuna giustificazione plausibile. Pare quindi evidente il contrasto con l'art. 3 Cost. che impone identico trattamento a parita' di situazioni, consentendo differenti trattamenti ove gli stessi dipendano da una ragionevole giustificazione, meritevole di tutela sulla scorta di valori costituzionalmente rilevanti (a differenza di quanto previsto dall'art. 24 dello Statuto Albertino che faceva sempre «salve le eccezioni determinate dalle leggi») e proporzionalmente alla diversita' della situazione stessa. Nel caso di specie la diversita' di sanzione e' prevista addirittura non a seconda della data di attivazione del procedimento giudiziario (cosi' alcuni commentatori ed alcune recenti ordinanze di remissione alla Corte costituzionale in relazione alla norma qui sospettata), ma in relazione alla mera formale presenza di causa in corso: si escludono come detto, tra l'altro, anche le cause per le quali decorrano i termini di impugnazione, ma la stessa non sia stata ancora proposta, con criterio che non appare rispondere ad alcun canone di ragionevolezza. Infatti la legittimita' costituzionale di discipline differenziate del lavoro a termine, giustificate dalle peculiari caratteristiche dei singoli rapporti di lavoro, e' stata del resto. riconosciuta da questa Corte (sentenza n. 80 del 1994, ordinanza n. 347 del 1988) (cosi' la Corte costituzionale nella sentenza n. 410/2000), ma nel caso di specie non vi e' alcuna giustificazione fondata su peculiari caratteristiche del rapporto di lavoro, ma in relazione a parametro, come detto, del tutto casuale. Art. 111 della Costituzione. La norma censurata appare essere ad avviso di questo giudice anche in contrasto con il disposto di cui all'art. 111 della Costituzione, interpretato anche alla luce dell'art. 6 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo, che impongono una ragionevole durata del processo. Ritiene questo giudice che la stessa debba essere interpretata come ragionevole durata temporale dell'intero iter necessario per giungere ad una decisione di merito, ovvero come una decisione strumentale alla tutela della propria posizione giuridica. Sulla base dei principi indicati devono essere ritenute non conformi a Costituzione tutte quelle disposizioni che impongano un inutile prolungamento dell'iter procedurale teso a giungere ad una decisione di merito. Nel caso di specie la disposizione in esame impone a coloro abbiano causa pendente di ricercare l'estinzione del giudizio (ad esempio ove la controparte sia contumace), al fine di riproporre successivamente la domanda ed ottenere una ordinaria pronuncia di nullita' del termine apposto al contratto di lavoro e di prosecuzione dello stesso, in luogo della piu' ridotta tutela prevista dall'art. 4-bis. Articoli 24 e 111 della Costituzione. A fronte della previsione di cui alla richiamata disposizione il lavoratore con causa in corso e' posto processualmente di fronte ad una duplice alternativa: modificare, ex art. 420, comma 1 c.p.c., su autorizzazione del giudice, le conclusioni a causa dell'intervento normativo, con una scelta obbligata dalla nuova disposizione, ovvero non modificarle di modo che' la domanda diviene sopravvenutamente inammissibile. Nella prima ipotesi lo stesso e' indotto ad una attivita' processuale, altrimenti non necessaria, non possibile ed evidentemente non voluta, visto che la nuova disposizione riduce drasticamente la sua tutela, con violazione dell'art 24 della Costituzione ed in particolare del comma 2, obbligando una scelta processuale in forza della disposizione normativa sopravvenuta. Nella seconda ipotesi il lavoratore puo' scegliere di non modificare le conclusioni, cosi' determinando una sentenza di inammissibilita' sopravvenuta del ricorso, sentenza processuale che non precluderebbe la riproposizione della azione tendente all'accertamento della nullita' del termine, al fine di ottenere una pronuncia con gli effetti ordinari e non quelli di cui alla disposizione qui in esame. E' evidente il sospetto di illegittimita' costituzionale per violazione dell'art. 24 e dell'art. 111 della Costituzione. Il primo appare violato venendosi ad indurre il lavoratore a non perseguire piu' la tutela dei propri diritti, nel processo in corso, per effetto di una disposizione normativa e della condotta processuale necessariamente collegata alla stessa, al fine di potere accedere alla tutela «ordinaria»: infatti la mancata modifica della domanda e delle conclusioni determina una maggiore tutela, per effetto della pronuncia processuale cui andra' incontro, che non gli preclude la possibilita' di accedere alla tutela «ordinaria»; il secondo appare violato ove lo stesso venga interpretato nel senso che il giusto processo deve tendere ad una ragionevole durata dell'iter complessivo necessario a giungere ad una decisione di merito ovvero come una decisione strumentale alla tutela della propria posizione giuridica. Infatti il processo e quindi le regole preposte al suo funzionamento in tempi ragionevoli non possono essere ritenute sterili disposizioni tese alla durata di un simulacro fine a se stesso, ma, considerato che la funzione del processo e' dirimere controversie, devono essere intese quali regole preposte alla decisione definitiva della controversia sostanziale (pronuncia di merito). Ancora deve rilevarsi come al lavoratore e' preclusa, in forza del combinato disposto articoli 420 e 437 c.p.c., la modifica della domanda in appello, di tal che la disposizione sospettata finisce con il condurre ad una certa pronuncia di inammissibilita' sopravvenuta, con evidenti effetti sulle spese affrontate in quel giudizio, e con il determinare la necessita' per il lavoratore di proporre un nuovo giudizio al fine di vedere tutelati i propri diritti, con violazione dell'art. 111 della Costituzione. Articoli 4, 35, 41, 43 e 53 della Costituzione. Ancora appaiono esservi dubbi di legittimita' costituzionale in ordine agli articoli 4, 35, 41 e 42 della Costituzione. Sul punto deve darsi atto del peculiare meccanismo risolutorio del contratto di lavoro previsto dall'art. 4-bis del d.lgs. n. 368/2001. La sentenza che dichiara la nullita' del termine apposto al contratto di lavoro e' sentenza appunto dichiarativa, che non fa quindi altro che accertare la illegittimita' della apposizione del termine e la circostanza che il contratto di lavoro deve ritenersi sin dall'inizio a tempo indeterminato. Cosi' posta la questione, e' evidente che la disposizione sospettata incide sul piano degli effetti del contratto, prevedendo una ipotesi di risoluzione dello stesso per factum principis. Da rilevarsi altresi' che la condanna ad una indennita' compresa tra le 2,5 e le 6 mensilita' di retribuzione ha effetto dalla data della sentenza e non dalla data della illegittima apposizione del termine o della cessazione del rapporto di lavoro considerato che bisogna avere riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 che prevede che gli interessi sulla indennita' ivi prevista decorrano dalla scelta tra la obbligazione alternativa ivi prevista, la quale trova la sua genesi nella sentenza del giudice. L'effetto determinato dall'art. 4-bis in esame e' quindi quello di risolvere il contratto in forza di previsione legislativa e di determinare l'estinzione del diritto di credito del lavoratore alle retribuzioni infratemporalmente maturate, che gli spettano dal momento della messa a disposizione delle proprie energie lavorative a quello della effettiva riammissione in servizio (cfr. sentenze costanti della Corte di cassazione). A fronte di cio' l'indennizzo indicato. E' evidente che detta disposizione ha un immediato effetto sulla autonomia privata tutelata dall'art. 41, comma 1, della Costituzione, per cui pare evidente il contrasto con detta disposizione nella misura in cui prevede una ipotesi di risoluzione del contratto di lavoro indipendentemente dalla manifestazione di una volonta' delle parti, incidendo direttamente sul piano del loro regolamento negoziale: a fronte di cio' non e' evincibile alcun interesse costituzionalmente apprezzabile, salvo tutelare il datore di lavoro che ha violato disposizioni imperative, anche di rilievo comunitario (Direttiva citata), e che abbia per mero caso la relativa causa pendente al 21 agosto 2008 (data di entrata in vigore dell'art 4-bis ex art. 1, comma 4 della legge n. 133/2008 pubblicata in Gazzetta Ufficiale 21 agosto 2008). La disposizione in esame priva una parte, ovvero il prestatore di lavoro, anche della retribuzione gia' maturata, in sostanza di gran lunga maggiore del limite massimo previsto dalla disposizione in parola, basti tenere conto che tra la data della interruzione del rapporto di lavoro a termine e la prima udienza necessariamente maturano almeno tre mesi e dieci giorni di retribuzione (sessanta giorni per i tempi dovuti al tentativo obbligatorio di conciliazione e quaranta giorni ex art. 415 c.p.c.), ovvero un lasso di tempo di per se' superiore all'indennizzo minimo, ma solitamente di gran lunga superiore all'indennizzo massimo; priva altresi' il prestatore di lavoro del lavoro stesso, con violazione degli articoli 4 e 35 della Costituzione, avendo il legislatore, con la disposizione sospettata, proposto condizioni che elidono questo diritto, gia' presente nel patrimonio delle posizioni giuridiche del lavoratore, in assenza di apprezzabile giustificazione (sul limite della non arbitrarieta' o manifesta irragionevolezza della scelta operata nella tutela del lavoro Corte costituzionale Ordinanza n. 254 del 1997: il criterio accolto e' frutto di scelte discrezionali del legislatore medesimo al quale soltanto spetta di stabilire non solo in ordine all'an, ma anche in ordine ai presupposti del diritto all'assunzione, con il solo limite della non arbitrarieta' o manifesta irragionevolezza della scelta operata). E' evidente che la disposizione in parola modifica radicalmente l'assetto dei rapporti tra datore di lavoro e lavoratore, privando quest'ultimo delle retribuzioni dovute dalla data di messa a disposizione delle proprie energie lavorative a quella di effettiva reintegra, nonche' della sussistenza stessa del rapporto di lavoro. A fronte di detta privazione il legislatore ha previsto un indennizzo. La Carta costituzionale prevede poche e circoscritte ipotesi in cui una persona possa essere privata di diritti, ovvero obbligata a prestazioni e cio' sempre in favore dello Stato (art. 53, obbligo di concorrere alle spese pubbliche), ovvero anche di privati (articoli 42 e 43), ma sempre a fronte di specifici motivi d'interesse generale. Nel caso di specie invece la disposizione in esame, per determinati e casuali soggetti, ha previsto che questi siano privati di diritti gia' entrati nel loro patrimonio (la sentenza che accerta la nullita' del termine ha come detto valore solo dichiarativo), in relazione ad interessi non pubblici, ma di interessi personali di altra categoria di soggetti privati. Si tratta quindi di una disposizione latu sensu ablatoria, adottata al di fuori delle ipotesi previste dalla Costituzione, che impone un sacrificio ad una categoria di soggetti, in favore di altra categoria, per il soddisfacimento di interessi personali di questi e non della collettivita'. L'effetto e' quindi quello di una disposizione con efficacia retroattiva che viola un fondamentale valore di civilta' giuridica e principio generale dell'ordinamento, cui il legislatore deve, in linea di principio, attenersi, che, pur non elevato a dignita' costituzionale, salva la previsione dell'art. 25 Cost. relativo alla materia penale, consente al legislatore ordinario emanare norme retroattive solo ove esse trovino adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si pongano in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente protetti cosi' da incidere arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti (sent. n. 229 del 1999, n. 432 del 1997, n. 153 e 6 del 1994, n. 283 del 1993, n. 419 del 2000). Articoli 101, 102 e 104 della Costituzione. L'efficacia retroattiva della disposizione sospettata incide sul diritto alla tutela giurisdizionale, perche' espressamente prevede che abbia efficacia sui giudizi pendenti di tal che' appare lesiva della funzione giurisdizionale (articoli 101, 102 e 104 cost.), in quanto il legislatore ha agito non «sul piano astratto delle fonti normative senza ingerirsi nella specifica risoluzione delle concrete fattispecie in giudizio (sent. n. 229 del 1999, n. 432 del 1997, n. 397 del 199 e n. 402 del 1993)» (cosi' testualmente la sentenza n. 419 del 2000) e neppure sui giudizi proposti da una certa data in poi, purche' non relativi a situazioni gia' definite con giudicato sostanziale. La disposizione ha efficacia solo sui processi attualmente pendenti, con ricorso ad un criterio di diritto processuale (come individuato nella presente ordinanza con riferimento alla violazione dell'art. 3 della Costituzione), per cui ha efficacia solo con riferimento a specifiche controversie, individuabili proprio con riferimento alla circostanza che vi sia attualmente esercizio della funzione giurisdizionale: si ha quindi uno specifico effetto solo su giudizi processualmente pendenti e non su una categoria astratta di casi perche' il legislatore ha agito non sul piano astratto delle fonti normative, ma si e' ingerito nella specifica risoluzione delle concrete fattispecie in giudizio, ovvero solo quelle pendenti. Tanto premesso gli atti vanno rimessi al giudice delle leggi per le sue valutazioni in merito.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, nei termini di cui in motivazione, la questione di costituzionalita' dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368/2001, introdotto dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 che in sede di conversione del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, per violazione degli articoli 3, 4, 24, 35, 41, 43, 53, 101, 102, 104 e 111 della Costituzione. Sospende il giudizio in corso e dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri ed alle parti in causa. Cosi' deciso in Rossano, il 17 novembre 2008. Il giudice: Coppola