N. 91 ORDINANZA 11 - 27 marzo 2009

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Impiego pubblico - Dipendenti di pubbliche  amministrazioni  a  tempo
  parziale ridotto - Divieto  di  iscrizione  all'albo  professionale
  degli  avvocati  stabilito  con  la  legge  n.  339  del   2003   -
  Applicabilita' anche ai dipendenti gia' iscritti negli  albi  degli
  avvocati alla data di entrata in  vigore  della  predetta  legge  -
  Lamentata  violazione  del  diritto  al  lavoro,  dei  principi  di
  ragionevolezza, di tutela del lavoro e della liberta' di iniziativa
  economica privata - Riproposizione nel medesimo giudizio e da parte
  del medesimo rimettente  della  stessa  questione  gia'  dichiarata
  manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza  -  Manifesta
  inammissibilita'. 
- Legge 25 novembre 2003, n. 339, artt. 1 e 2. 
- Costituzione, artt. 3, 4, 35 e 41. 
(GU n.13 del 1-4-2009 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
composta dai signori: 
Presidente: Francesco AMIRANTE; 
Giudici: Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio  FINOCCHIARO,  Alfonso
  QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano  SILVESTRI,  Sabino
  CASSESE,  Maria  Rita  SAULLE,  Giuseppe   TESAURO,   Paolo   Maria
  NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO; 
ha pronunciato la seguente 
                              Ordinanza 
nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 1 e  2  della
legge 25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di  incompatibilita'
dell'esercizio della professione di avvocato), promosso dal Tribunale
di Napoli nel procedimento civile  vertente  tra  Brandi  Massimo  ed
altra e la Presidenza del Consiglio dei ministri con ordinanza del 24
giugno 2008, iscritta  al  n.  315  del  registro  ordinanze  2008  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, 1ª  serie
speciale, dell'anno 2008; 
    Visti gli atti di costituzione di Brandi Massimo  e  dell'ADIP  -
Avvocati dipendenti pubblici a  tempo  parziale,  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    Udito nell'udienza pubblica  del  24  febbraio  2009  il  giudice
relatore Paolo Maria Napolitano; 
    Uditi l'avvocato Daniele Perna per Brandi Massimo e per l'ADIP  -
Avvocati dipendenti pubblici a  tempo  parziale  e  l'avvocato  dello
Stato Sergio Sabelli per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
    Ritenuto che il Tribunale ordinario di Napoli, con ordinanza  del
24 giugno 2008, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41
della Costituzione, questione di  legittimita'  costituzionale  degli
artt. 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di
incompatibilita' dell'esercizio della professione di avvocato), nella
parte in cui prevedono, rispettivamente, che il divieto di  esercizio
della professione di avvocato  per  i  dipendenti  pubblici  a  tempo
parziale ridotto (non superiore al 50 per cento del tempo  pieno)  si
applichi anche ai dipendenti gia' iscritti negli albi degli  avvocati
alla data di entrata in vigore della medesima legge n. 339 del  2003,
e che solo per un breve periodo  di  tempo  e'  possibile  esercitare
l'opzione  imposta  fra   pubblico   impiego   ed   esercizio   della
professione; 
    che il rimettente riferisce  che  un  dipendente  dell'Avvocatura
dello Stato, con qualifica di operatore amministrativo e in  possesso
dell'abilitazione  all'esercizio  della  professione  forense,  aveva
chiesto all'amministrazione, ai sensi dell'art. 1,  comma  58,  della
legge 23 dicembre 1996, n. 662  (Misure  di  razionalizzazione  della
finanza pubblica), la trasformazione del proprio rapporto di lavoro a
tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo  parziale  (part-time),  al
fine di esercitare la professione di avvocato; 
        che l'amministrazione, con decreto del 16 dicembre 2002,  gli
aveva  negato  tale  trasformazione,  motivando  il  diniego  con  il
conflitto d'interessi che sarebbe scaturito  dalla  prosecuzione  del
rapporto di lavoro con l'Avvocatura e dal contestuale esercizio della
professione forense; 
        che il dipendente, lamentando  l'illegittimita'  del  diniego
opposto dall'amministrazione, poiche' questa,  ai  sensi  del  citato
art. 1, comma 58, avrebbe  solo  dovuto  prendere  atto  dell'opzione
formulata   dal   ricorrente,   chiedeva    dichiararsi    l'avvenuta
trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno con l'Avvocatura,
in rapporto di lavoro part-time, con condanna dell'amministrazione al
risarcimento del danno per perdita di chance; 
        che,  sempre  secondo  quanto  riferisce  il  rimettente,  la
Presidenza del consiglio dei Ministri si era  ritualmente  costituita
nel giudizio a quo, eccependo l'infondatezza delle  ragioni  poste  a
base della domanda e  concludendo  per  il  suo  rigetto,  e  si  era
altresi'  costituita,  in  qualita'   di   interventore   volontario,
l'associazione ADIP - Avvocati dipendenti pubblici a tempo  parziale,
chiedendo  che  venisse  sollevata  la  questione   di   legittimita'
costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge n. 339 del 2003; 
        che  il  rimettente  aveva  disposto  una  prima   volta   la
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ravvisando la  non
manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale
degli artt. 1 e 2 della legge n. 339 del  2003  in  riferimento  agli
artt. 3 e 4 della Costituzione; 
        che la questione era stata decisa dalla Corte  costituzionale
con pronuncia di inammissibilita' emessa in  data  22  novembre  2006
(sentenza n. 390 del 2006); 
        che il rimettente, dopo  aver  riassunto  il  procedimento  e
riesaminato gli atti, ha nuovamente ritenuto necessario sottoporre al
vaglio  della  Corte  la   questione   di   costituzionalita'   delle
disposizioni richiamate,  ancorche'  sotto  il  diverso  profilo  del
legittimo affidamento ingenerato in coloro che avevano gia' usufruito
della precedente possibilita' di esercitare la professione; 
        che il Tribunale di Napoli, nel  motivare  la  non  manifesta
infondatezza della questione, ricostruisce  l'evoluzione  legislativa
della  disciplina  della  compatibilita'  dell'impiego  pubblico  con
l'esercizio delle professioni evidenziando come il legislatore  abbia
progressivamente abbandonato l'originario criterio della esclusivita'
della prestazione a favore  della  pubblica  amministrazione  fino  a
consentire, con la legge n. 662 del  1996,  la  possibilita'  di  una
prestazione lavorativa part-time e del  contestuale  esercizio  delle
libere professioni; 
        che le disposizioni censurate, introdotte dalla legge n.  339
del 2003, hanno escluso la professione  di  avvocato  dall'ambito  di
applicazione dall'art. 1, commi 56,  56-bis  e  57,  della  legge  23
dicembre 1996, n. 662  (Misure  di  razionalizzazione  della  finanza
pubblica), ripristinando solo per  essa  il  preesistente  regime  di
generale ed assoluta incompatibilita' con la  titolarita'  di  uffici
pubblici, sia pure  ricoperti  con  rapporto  a  tempo  parziale  non
superiore al 50 per cento del tempo pieno; 
        che la ratio di quest'ultimo intervento legislativo, per quel
che e' possibile ricavare dai lavori  parlamentari,  risiede,  da  un
lato, nella  tutela  dell'indipendenza  della  figura  del  difensore
strettamente collegata al diritto  di  difesa  e,  dall'altro,  nella
tutela del  prestigio  del  difensore,  che  nel  caso  del  pubblico
dipendente   part-time   sarebbe   basato   non   piu'   «sulla   sua
professionalita', ma sul suo potere nell'ambito dell'amministrazione,
con  creazione  di  una  clientela  al  di  fuori  di  una   corretta
concorrenza professionale ed una commistione di interessi privati  in
attivita' pubbliche»; 
        che tanto la disciplina introdotta dalla  legge  n.  662  del
1996 quanto la successiva modifica introdotta dalla legge n. 339  del
2003 sono state sottoposte al  giudizio  di  costituzionalita'  sotto
diversi profili e con differenti prospettazioni; 
        che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 171 del 1999,
ha dichiarato infondate le questioni sollevate in via  principale  da
alcune Regioni relativamente ai commi 56 e 58 dell'art. 1 della legge
n. 662 del  1996  qualificando  le  suddette  norme  quali  «principi
fondamentali  della  legislazione  statale»,  idonei  come   tali   a
vincolare anche la potesta'  legislativa  delle  Regioni  e,  con  la
successiva sentenza n. 189  del  2001,  ha  dichiarato  infondate  le
questioni sollevate in via incidentale  nei  confronti  delle  stesse
disposizioni della legge n. 662 del 1996; 
        che la Corte, con la sentenza n. 390 del 2006, ha  dichiarato
infondata anche la questione di costituzionalita' degli artt. 1  e  2
della  legge  n.  339  del   2003,   ritenendo   non   manifestamente
irragionevole  la  scelta  del  legislatore  «di  escludere  la  sola
professione forense dal novero di quelle - e cioe' di tutte le  altre
per l'esercizio delle quali e' prescritta l'iscrizione in un  albo  -
alle quali i  pubblici  dipendenti  a  part-time  cosiddetto  ridotto
possono accedere», in quanto non puo' ritenersi  priva  di  qualsiasi
razionalita' la valutazione - operata dal legislatore -  di  maggiore
pericolosita' e frequenza dei possibili inconvenienti derivanti dalla
commistione tra pubblico impiego e professione  forense,  rispetto  a
quella che e' relativa all'esercizio delle altre libere professioni; 
        che, a parere del rimettente,  con  la  citata  sentenza,  la
Corte non si e' pronunciata sul diverso problema  della  legittimita'
costituzionale di tale disciplina nella parte in cui estende  i  suoi
effetti anche a coloro che  erano  gia'  iscritti  negli  albi  degli
avvocati ed esercitavano la professione sulla base  della  disciplina
preesistente e, quindi, sulla legittimita' del  divieto  sopravvenuto
di   continuare   l'esercizio   dell'attivita'   professionale   gia'
legittimamente intrapresa; 
        che, quanto alla non manifesta infondatezza,  il  rimettente,
dopo aver affermato di  essere  consapevole  che  il  legislatore  e'
libero di introdurre nuove disposizioni anche  opposte  a  quelle  in
vigore, purche' non contrastanti con le norme  costituzionali  e  non
irragionevoli,  tuttavia  precisa  che,  a  suo   parere,   data   la
continuita' dell'esperienza giuridica, il cambiamento e l'innovazione
non possono essere  espressione  semplicemente  di  «una  capricciosa
volubilita' del legislatore», «tanto piu' quando, come nella  specie,
e' in gioco un bene della vita, come  il  lavoro,  costituzionalmente
protetto e anzi cardine dell'intero sistema costituzionale (artt.  1,
4, 35 e 41 Cost.), strettamente connesso col  fondamentale  principio
di autodeterminazione del singolo»; 
        che tale principio acquisterebbe un  rilievo  costituzionale,
limitando la portata della discrezionalita' legislativa, allorche' il
cambiamento incida su situazioni e rapporti giuridici gia' in atto  e
non solo nel caso di norme propriamente  retroattive,  ma  anche  nei
casi, piu'  numerosi,  in  cui  la  nuova  disciplina,  pur  operando
tecnicamente solo per il futuro, produce i suoi effetti  su  rapporti
che si prolungano nel  tempo  (rapporti  di  durata),  alterando  gli
equilibri   preesistenti,   facendo   venir   meno   o    modificando
profondamente  situazioni  giuridiche  gia'   acquisite   e   tuttora
suscettibili di operare e di  essere  fatte  valere,  vulnerando,  in
sostanza, la stessa «certezza del diritto»; 
        che, in tale ipotesi,  la  liberta'  o  discrezionalita'  del
legislatore incontra il limite derivante dall'esigenza di tener conto
delle situazioni giuridiche soggettive «di  coloro  che  hanno  agito
facendo affidamento sul  quadro  normativo  in  vigore,  su  di  esso
misurando portata, effetti e prospettive del loro agire  e  del  loro
scegliere» in quanto «la "certezza del diritto" - valore unanimemente
considerato primario e di rilievo costituzionale - non consiste  solo
nel potere in ogni  momento  stabilire  con  sicurezza  quale  e'  la
normativa vigente e quali ne sono gli effetti, ma anche nel confidare
ragionevolmente nella stabilita' dell'ordinamento, e cioe' nel  fatto
che ogni cambiamento  di  regole  abbia  una  sua  oggettiva  ragione
giustificatrice e rispetti  le  legittime  aspettative  consolidatesi
sulla base delle regole preesistenti»; 
        che questo principio, secondo il Tribunale di Napoli, sarebbe
stato affermato dalla giurisprudenza costituzionale a  partire  dalla
sentenza n. 349 del 1985, riguardante  la  materia  pensionistica,  e
successivamente sarebbe stato ribadito  dalle  sentenze  n.  822  del
1988,  n.  573  del  1990,  n.  390  del  1995,  sempre  in   materia
pensionistica; 
        che, dunque, interventi legislativi modificativi in pejus  di
situazioni soggettive attinenti a  rapporti  di  durata  non  possono
arbitrariamente frustrare l'affidamento dei cittadini  fondato  sulla
situazione normativa  preesistente  senza  violare  il  principio  di
ragionevolezza di cui all'art.  3  della  Costituzione,  nonche',  in
ragione degli interessi nella specie coinvolti, gli artt. 4, 35 e  41
della stessa Costituzione, relativi alle garanzie del lavoro e  della
liberta' di  iniziativa  economica,  anche  sotto  il  profilo  della
concorrenza; 
        che, nel caso di specie, il legislatore  aveva  espressamente
consentito e anzi incoraggiato con le norme del 1996 la  possibilita'
che i pubblici dipendenti a tempo parziale non superiore  al  50  per
cento accedessero agli albi professionali, fra  cui  gli  albi  degli
avvocati,  salvo  poi,  con  la  legge  del  2003,  rovesciare   tale
impostazione, vietando l'accesso agli albi degli avvocati senza tener
conto della posizione di coloro che avevano gia' effettuato  la  loro
scelta sulla base della normativa preesistente,  facendo  affidamento
su disposizioni (quelle  contenute  nella  legge  n.  662  del  1996)
ritenute pienamente legittime dalle sentenze n. 89 del 2001 e n.  171
del 1999 della Corte costituzionale e, addirittura, da  quest'ultima,
riconosciute come «principi fondamentali», espressivi di  un  disegno
legislativo  organico  e  di  lungo   periodo,   volto   a   favorire
l'efficienza   amministrativa   e   la   concorrenza   nei    servizi
professionali; 
        che, pertanto, secondo il rimettente,  tale  affidamento  non
potrebbe essere frustrato  da  un  «estemporaneo»  ripensamento,  pur
legittimo, del legislatore mentre, nel necessario  bilanciamento  fra
la discrezionalita' del legislatore  e  le  aspettative  legittime  e
consolidate dei professionisti  gia'  iscritti  negli  albi,  non  si
possono che ritenere prevalenti queste ultime, imponendo di escludere
l'applicazione  (sostanzialmente  retroattiva)   del   nuovo   regime
restrittivo a coloro che gia' da  tempo  erano  iscritti  negli  albi
degli avvocati alla data di entrata in vigore della legge n. 339  del
2003; 
        che e' intervenuto in giudizio il  Presidente  del  Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la questione venga  dichiarata  inammissibile  o
infondata; 
        che la difesa statale richiama la sentenza n.  390  del  2006
con la quale la Corte  costituzionale  ha  definito  il  giudizio  di
legittimita' costituzionale delle stesse disposizioni della legge  n.
339 del 25 novembre 2003, promosso dallo stesso Tribunale nell'ambito
del medesimo giudizio, dichiarando l'inammissibilita' della questione
per la sua irrilevanza nel giudizio a quo; 
        che, a parere dell'Avvocatura  dello  Stato,  le  ragioni  di
inammissibilita' poste a base della citata pronuncia non  sono  state
prese  in  considerazione  dal  Tribunale  di   Napoli,   che   nella
motivazione della nuova ordinanza  di  rimessione  non  ha  apportato
alcun  argomento  idoneo  a  superare  l'effetto   preclusivo   della
segnalata insussistenza del requisito della rilevanza; 
        che, comunque, quanto rilevato nella sentenza n. 390 del 2006
sarebbe senz'altro riproponibile anche in riferimento alla  ordinanza
in esame la quale, quindi, dovrebbe essere dichiarata inammissibile; 
        che, nel merito, la difesa statale richiama  la  sentenza  n.
390  del  2006  con  la  quale  la  Corte  ha  gia'  dichiarato   non
manifestamente irragionevole la scelta operata dal  legislatore,  non
potendo ritenersi priva di qualsiasi razionalita' una valutazione  di
maggiore pericolosita' e frequenza di inconvenienti  derivanti  dalla
specifica «commistione» tra pubblico  impiego  e  libera  professione
forense, a differenza di tutte le altre attivita'  professionali  per
l'esercizio delle quali e' prescritta l'iscrizione in un albo; 
        che, quanto alla disciplina transitoria, l'art. 2 della legge
n.  339  del  2003  avrebbe  comunque   riconosciuto   la   posizione
differenziata  di  coloro  che  gia'  avevano  esercitato   l'opzione
attribuendo loro la facolta' di scegliere  tra  il  mantenimento  del
rapporto di impiego e l'esercizio della professione forense entro  il
termine di 36 mesi dall'entrata in vigore della legge stessa; 
        che si sono costituiti il ricorrente nel giudizio  principale
e  l'interveniente  ADIP  (Avvocati  dipendenti  pubblici   a   tempo
parziale),    entrambi    ribadendo    le    ragioni    a    sostegno
dell'illegittimita' costituzionale delle norme impugnate; 
        che   le   parti   ritengono   superabile   il   profilo   di
inammissibilita'  rilevato  dalla  Corte  nella  precedente  sentenza
perche'  il  ricorrente,  a  seguito   del   procedimento   cautelare
conclusosi  favorevolmente,  era  gia'  iscritto   all'Ordine   degli
Avvocati di Isernia; 
        che, inoltre, quanto  alla  non  manifesta  infondatezza,  le
parti  sviluppano  le   stesse   argomentazioni   dell'ordinanza   di
rimessione; 
        che, in prossimita' dell'udienza, il ricorrente nel  giudizio
a  quo  ha  presentato  una  memoria  con  la  quale  aggiunge   alle
argomentazioni gia' esposte circa la rilevanza e la fondatezza  della
questione, quella della possibile disparita' di  trattamento  che  si
sarebbe venuta a determinare nell'ambito dei  dipendenti  pubblici  a
seguito dell'approvazione del decreto legge 25 giugno  2008,  n.  112
(Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la  semplificazione,
la competitivita', la stabilizzazione della  finanza  pubblica  e  la
perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla  legge
6 agosto 2008, n. 133, che, all'art. 72, ha previsto la  possibilita'
di richiedere  l'esonero  dal  servizio  nel  corso  del  quinquennio
antecedente  la  data  di  maturazione   della   anzianita'   massima
contributiva di  40  anni  con  un  trattamento  temporaneo  pari  al
cinquanta per cento di quello complessivamente goduto; 
        che, in tal modo, si sarebbe determinata  una  disparita'  di
trattamento tra i  dipendenti  pubblici  che  godono  del  50%  della
retribuzione   complessiva    ai    quali,    come    incentivo    al
prepensionamento, viene data la possibilita' di  svolgere  un  lavoro
autonomo (come la professione di avvocato) senza alcuna  limitazione,
e coloro che, come il ricorrente, hanno chiesto  il  collocamento  in
part time proprio  al  fine  di  poter  svolgere  la  professione  e,
successivamente, si sono visti negare questo loro diritto dalla legge
censurata; 
        che, infine,  la  difesa  della  parte  privata  richiama  la
sentenza della V sezione della Corte europea dei diritti dell'uomo in
data 19 luglio 2007 con la quale si e' riaffermato il principio della
certezza del diritto come patrimonio comune  della  tradizione  degli
Stati  contraenti,  principio  che   sopporta   eccezioni   solo   se
giustificate dal sopraggiungere di rilevanti  circostanze  di  ordine
sostanziale; 
        che, in prossimita' dell'udienza, anche l'associazione  degli
avvocati dipendenti pubblici  a  tempo  parziale  ha  presentato  una
memoria con la quale ha ribadito le proprie argomentazioni a sostegno
della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione; 
        che, secondo l'associazione, la fattispecie in esame  sarebbe
analoga a quella decisa con la sentenza n. 399 del 2008 con la  quale
la Corte, nel dichiarare  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.
86, comma 1, del  decreto  legislativo  10  settembre  2003,  n.  276
(Attuazione delle deleghe in materia di  occupazione  e  mercato  del
lavoro, di cui alla legge 14  febbraio  2003,  n.  30),  ha  ritenuto
irragionevole la norma in relazione al sacrificio degli interessi che
le parti avevano regolato nel rispetto della disciplina precedente; 
    Considerato che il Tribunale ordinario  di  Napoli  ha  sollevato
questione di legittimita' costituzionale degli  artt.  1  e  2  della
legge 25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di  incompatibilita'
dell'esercizio della professione di avvocato),  nella  parte  in  cui
prevedono,  rispettivamente,  che  il  divieto  di  esercizio   della
professione di avvocato per i dipendenti pubblici  a  tempo  parziale
ridotto (non superiore al 50 per cento del tempo pieno)  si  applichi
anche ai dipendenti gia' iscritti negli albi degli avvocati alla data
di entrata in vigore della medesima legge n. 339 del 2003  e  che  e'
possibile  esercitare  l'opzione  imposta  fra  pubblico  impiego  ed
esercizio della professione solo entro un breve periodo di tempo; 
        che, a parere del rimettente, le norme censurate violerebbero
gli articoli 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, in particolare perche'
«data la continuita'  dell'esperienza  giuridica,  il  cambiamento  e
l'innovazione devono trovare fondamento in nuove ragioni o  in  nuovi
apprezzamenti lato sensu politici, e non possono  essere  espressione
semplicemente di una capricciosa volubilita' del legislatore: e  cio'
tanto piu' quando, come nella specie, e' in gioco un bene della vita,
come  il  lavoro,  costituzionalmente   protetto   e   anzi   cardine
dell'intero  sistema  costituzionale,   strettamente   connesso   col
fondamentale principio di autodeterminazione del singolo»; 
        che, secondo il  Tribunale  di  Napoli,  sarebbe  violato  il
legittimo affidamento di coloro che avevano gia' effettuato  la  loro
scelta sulla base della  normativa  preesistente,  espressiva  di  un
disegno legislativo organico e di lungo  periodo,  volto  a  favorire
l'efficienza   amministrativa   e   la   concorrenza   nei    servizi
professionali e ritenuta costituzionalmente legittima dalle  sentenze
n. 89 del 2001 e n. 171 del 1999 di questa Corte; 
        che la questione e' manifestamente inammissibile; 
        che il medesimo rimettente ha gia'  sollevato  sotto  diverso
profilo, nel corso dello  stesso  grado  di  giudizio,  questione  di
costituzionalita' degli artt. 1 e 2 della legge n. 339 del 2003; 
        che, con la sentenza n. 390 del 2006, la  predetta  questione
e' stata  dichiarata  manifestamente  inammissibile  per  difetto  di
rilevanza in quanto il giudizio  a  quo  aveva  origine  dal  rifiuto
dell'Amministrazione di consentire la trasformazione del rapporto  di
lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale,  rifiuto
fondato sul disposto dell'art. 58 della legge 23  dicembre  1996,  n.
662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), a norma del
quale l'Amministrazione ha il potere di negare il suo  consenso  alla
domanda del dipendente ove cio' «comporti un conflitto  di  interessi
con la specifica attivita' di servizio svolta dal  dipendente»  senza
che, pertanto, venga in rilievo il  divieto  di  iscrizione  all'albo
degli avvocati introdotto dalla legge n. 339 del 2003, ove il diniego
dell'Amministrazione sia ritenuto legittimo; 
        che, anche a prescindere dalla circostanza che il  rimettente
non  attribuisce  l'adeguato  rilievo  alla  doppia  tutela  prevista
dall'art. 2 della legge in questione a favore dei soggetti  che  solo
dopo un ampio termine dall'entrata in vigore  della  nuova  normativa
sono tenuti ad effettuare la scelta tra  le  due  attivita'  ritenute
incompatibili (cioe' fino a tre anni per l'esercizio  dell'opzione  e
fino ai  cinque  anni  successivi  per  l'eventuale  riammissione  in
servizio),  in  ogni  caso,  secondo   la   costante   giurisprudenza
costituzionale,  «in  presenza  di  una  pronuncia  avente  contenuto
decisorio, come e' quella che abbia accertato un difetto di rilevanza
non modificabile dal giudice a quo, non  e'  consentito  al  medesimo
rimettente riproporre nel  medesimo  giudizio  la  stessa  questione,
poiche' cio' si concreterebbe  nella  impugnazione  della  precedente
decisione della Corte, inammissibile alla stregua  dell'ultimo  comma
dell'art. 137 della Costituzione» (ordinanze nn. 417 e 333 del  2008;
n. 63 del 2004, n. 87 del 2000)»; 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti  alla
Corte costituzionale. 
                          Per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
    Dichiara  la  manifesta  inammissibilita'  della   questione   di
legittimita' costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 25 novembre
2003, n. 339 (Norme in  materia  di  incompatibilita'  dell'esercizio
della professione di avvocato), sollevata, in riferimento agli  artt.
3, 4, 35 e 41 della Costituzione, dal Tribunale ordinario  di  Napoli
con l'ordinanza in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'11 marzo 2009. 
                       Il Presidente: Amirante 
                      Il redattore: Napolitano 
                      Il cancelliere: Di Paola 
    Depositata in cancelleria il 27 marzo 2009. 
              Il direttore della cancelleria: Di Paola