N. 328 ORDINANZA (Atto di promovimento) 3 marzo 2009

Ordinanza del 3 marzo 2009 emessa dal Tribunale  di  Firenze  -  Sez.
distaccata di Pontassieve nel procedimento penale a carico di Rubegni
Alberto ed altri. 
 
Reati  e  pene  -  Impossessamento  abusivo  di  acque  pubbliche   -
  Configurazione, in  virtu'  del  d.lgs.  n.  152  del  1999,  quale
  illecito  amministrativo  -   Denunciata   depenalizzazione   della
  fattispecie  -  Violazione  del  principio  di   ragionevolezza   -
  Disparita' di  trattamento  di  condotte  identiche  relative  allo
  stesso bene giuridico, ancorche' poste in essere in momenti diversi
  - Disparita' di  trattamento  rispetto  a  beni  di  minore  valore
  sociale - Disparita' di trattamento rispetto ad altre  condotte  di
  impossessamento relative al  medesimo  bene  giuridico,  sanzionate
  penalmente. 
- Decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, art. 23, comma  4  (che
  ha sostituito l'art. 17 del regio  decreto  11  dicembre  1933,  n.
  1775), come sostituito dall'art. 7, comma 1, lett. b), del  decreto
  legislativo 18 agosto 2000, n. 258. 
- Costituzione, art. 3. 
(GU n.4 del 27-1-2010 )
 
                            IL TRIBUNALE 
 
    Letti gli atti del procedimento di cui in epigrafe, stralciato in
data odierna dal procedimento R.G. n. 535/2004, a carico di:  Rubegni
Alberto, Silva Carlo, Abbondanza Marco, Piscitelli Valerio, Guagnozzi
Giovanni, Zambon Franco, Miola Antonio, Longo Michele, Cece  Massimo,
Castellani Franco, Meistro Nicola, Frulloni  Giulio,  Cardu  Umberto,
Ottaviani  Claudio,  Marcheselli  Pietro   Paolo,   Gatto   Giuseppe,
Migliardi Carlo, Monti Climaco, Balest  Cristiano,  Soccol  Giovanni,
Polidori Giovanni, Geri Paolo, e  Trippi  Aldo,  imputati  tutti  del
reato di cui agli artt. 110, 81 cpv, 624 e 625 nn. 2, 5 e 7, 61 n.  7
c.p. in relazione  all'art.  95  r.d.  11  dicembre  1933,  n.  1775,
perche', con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno  criminoso,
in concorso tra loro, ciascuno nelle  rispettive  qualita'  ricoperte
nell'arco temporale indicato, al fine di trarne un ingiusto  profitto
(consistito nell'impiego gratuito di acqua pubblica a servizio  delle
proprie attivita' di cantiere con particolare riferimento all'impiego
di acqua negli  impianti  di  betonaggio  e  al  lavaggio  dei  mezzi
meccanici e in generale all'impiego di acque chiare  nelle  attivita'
di cantiere) si impossessavano di un quantitativo ingente e  comunque
stimabile in non meno di  cinque  milioni  di  metri  cubi  di  acqua
pubblica, prelevandola dalle falde sotterranee intercettate durante i
lavori di scavo nelle gallerie o estratta  mediante  perforazione  di
pozzi battuti allo  scopo,  ovvero  di  acqua  pubblica  superficiale
prelevandola dai corsi d'acqua limitrofi ai cantieri in assenza delle
prescritte  autorizzazioni  e  concessioni  del  Genio  Civile  della
Provincia di Firenze. Fatto aggravato: per averlo commesso in piu' di
tre persone, avvalendosi anche di numerose  maestranze  ignare  della
condotta materiale  illecita  a  cui  erano  adibiti;  per  il  mezzo
fraudolento costituito dalla posa di appositi impianti  di  pompaggio
canalizzazione e tubazione destinate al prelievo;  per  essere  stato
commesso  su  un  bene  destinato  a  pubblica  utilita';  per  avere
cagionato un  danno  patrimoniale  di  rilevante  entita'  con  grave
depauperamento delle risorse idriche  del  territorio  di  competenza
degli enti pubblici territoriali interessati e  seguito  specificato,
seppure in via approssimativa per ciascun cantiere. 
    Cantiere T12 Osteto: prelievo  max  di  3  1/sec  per  un  totale
massimo di 86.832 mc all'anno dalla apertura del  cantiere  nel  1998
all'aprile  del  2005,  con  esclusione  dell'anno  2001  in  cui  fu
richiesta la concessione. 
    Cantiere T13 Rovigo: prelievo  max  di  3  1/sec  per  un  totale
massimo di 86.832  mc  all'anno  di  apertura  del  cantiere  dal  29
settembre 1997 all'aprile del 2005, con esclusione dell'anno 2001  in
cui fu richiesta la concessione. 
    Cantiere T14 S. Pellegrino: prelievo max di 3 1/sec per un totale
massimo di 86.832  mc  all'anno  di  apertura  del  cantiere  dal  29
settembre 1997 all'aprile del 2005, con esclusione dell'anno 2001  in
cui fu richiesta la concessione. 
    Cantiere T16 Diaterna: prelievo max di 3 l/sec per un  totale  di
86.832 mc dall'anno 1999 all'aprile del 2005. 
    Cantiere T17 Castelvecchio: prelievo max di 3 1/sec per un totale
di 86.832 mc dall'anno di apertura del cantiere del 29 settembre 1997
all'aprile del 2005. 
    Cantiere T5 Carlone: prelievo max di 3 1/sec  per  un  totale  di
86.832 mc, dall'anno di apertura del  cantiere  del  15  maggio  1997
all'aprile del 2005. 
    Cantiere T7 Cardetole: prelievo max di 3 1/sec per un  totale  di
86.832 mc dall'anno di apertura  del  cantiere  del  15  maggio  1997
all'aprile del 2005. 
    Cantiere T10-bis S. Autodromo: prelievo max di  3  1/sec  per  un
totale di 86.832 mc dall'anno di apertura del cantiere del 15  maggio
1997 all'aprile del 2005. 
    Cantiere T10-ter S. Giorgio: prelievo  max  di  3  1/sec  per  un
totale di 86.832 mc dall'anno di apertura del cantiere del 15  maggio
1997 all'aprile del 2005. 
    Cantiere T11 Marzano: prelievo max di 3 1/sec per  un  totale  di
86.832 mc dall'anno di apertura  del  cantiere  del  15  maggio  1997
all'aprile del 2005. 
    Cantieri   di   Sesto   Fiorentino   il    prelievo    dell'acqua
complessivamente emunta da tre pozzi a servizio dei Cantieri T0, T1 e
FT2 dal 1999, in assenza di concessione al prelievo e' di 51.756 mc. 
    Per un totale stimabile in via  approssimativa  in  circa  cinque
milioni di metri cubi di acque. 
    Condotta criminosa  iniziata  nel  1997  in  Borgo  San  Lorenzo,
Scarperia, San Piero a Sieve Firenzuola,  Vaglia  e  zone  limitrofe,
proseguita dal 1999 anche in Sesto  Fiorentino,  e  in  flagranza  di
reato al 14 aprile 2005 relativamente ai seguenti cantieri. 
    Cantiere  T1  -  Sesto  Fiorentino  -  l'acqua  viene  utilizzata
nell'impianto di betonaggio. 
    Cantiere T5 -  Vaglia  e  San  Piero  a  Sieve  -  l'acqua  viene
utilizzata per l'impianto di betonaggio sito in comune  di  Vaglia  e
nel cantiere sito in comune di San Piero a Sieve per il lavaggio  dei
mezzi nei pressi dell'officina ed altri usi connessi all'impianto  di
depurazione. 
    Cantiere  T10-  bis  -  Scarperia  -  E'  attivo  e   funzionante
l'impianto di betonaggio che fornisce il calcestruzzo per  il  tratto
di galleria  dall'Autodromo  del  Mugello  fino  al  diaframma  verso
Osteto. 
    Cantiere T12 - Firenzuola  -  Il  cantiere  e'  ancora  attivo  e
l'acqua viene utilizzata  per  l'impianto  di  betonaggio  e  per  il
lavaggio degli automezzi che entrano in galleria. 
    Cantiere T13 - Firenzuola -  rimane  in  funzione  l'impianto  di
betonaggio anche in questo caso, oltre che per il betonaggio, l'acqua
e' utilizzata per il  lavaggio  dei  piazzali  di  cantiere  e  degli
automezzi. 
    Cantiere T16 - Firenzuola - E' attivo l'impianto di betonaggio ed
il cantiere. 
 
                        Osserva quanto segue: 
 
    Nell'ambito delle indagini svolte in relazione ai lavori eseguiti
dal Consorzio di imprese CAVET  per  la  realizzazione  della  tratta
ferroviaria di alta velocita' Firenze-Bologna la polizia  giudiziaria
rilevava numerosi episodi di  prelievo  di  acque  sotterranee  o  di
superficie, utilizzate dal Consorzio, o da altre ditte  appaltatrici,
per la produzione del  calcestruzzo  e  comunque  per  altri  usi  di
cantiere;  acque  successivamente,  per  la  parte  non  trasformata,
reimmesse sul territorio. A fronte di tale prelievo ed  utilizzo  non
risultano acquisite agli atti del processo, quantomeno a copertura di
tutti i prelievi, le autorizzazioni previste dal d.lgs.  n.  152/1999
(legge Galli),  qualificandosi  pertanto  il  prelievo  e  l'utilizzo
illeciti, poiche' non sottoposti al  regime  dei  controlli  pubblici
previsti dalla legge stessa ed al pagamento del  canone.  Da  qui  la
imputazione  elevata  dal  pubblico  ministero  di  furto  di   acque
pubbliche, continuato ed aggravato, in relazione alla quasi totalita'
dei cantieri gestiti  direttamente  o  indirettamente  dal  Consorzio
CAVET. Nella costruzione della accusa  la  condotta  addebitata  agli
imputati sopra indicati costituirebbe allo stato il delitto di furto,
racchiudendone tutti gli elementi costitutivi sia  sotto  il  profilo
della condotta materiale (impossessamento con  sottrazione  del  bene
pubblico  al  detentore),  sia   sotto   il   profilo   dell'elemento
psicologico  del  reato,  costituito  dal  fine  di  trarne  profitto
patrimoniale mediante l'impiego delle acque, senza alcun  costo,  nei
cantieri  del  Consorzio  ovvero  delle  ditte  a  questo  legate  da
contratti di  appalto.  Ritiene  peraltro  il pubblico  ministero non
applicabile al caso di specie  la  normativa  fissata  dall'art.  23,
comma quarto del d.lgs. n. 152/1999, la  quale  disciplina  una  mera
violazione amministrativa nel caso di  «derivazione  o  utilizzo»  di
acque pubbliche in assenza di  autorizzazione,  atteso  che  il  bene
giuridico protetto dalla norma  penale  sarebbe  affatto  diverso  da
quello presidiato dalla norma  amministrativa;  il  patrimonio  dello
Stato il primo, la regolamentazione a fini pubblici del  prelievo  di
acque, e la tutela della loro  salubrita',  il  secondo.  Da  qui  la
impostazione accusatoria che, nella sostanza, ipotizza un concorso di
norme sanzionatorie, l'una  penale  l'altra  amministrativa,  per  la
medesima condotta. 
    Diversa la impostazione della difesa degli imputati, la quale  si
e' accentrata preliminarmente sulla contestazione degli  elementi  di
ricostruzione storica del fatto posti a base  della  imputazione;  in
secondo momento sulla mancanza  di  uno  degli  elementi  costitutivi
della fattispecie di furto, ovverosia la detenzione del bene da parte
dello Stato; ed infine affermando la specialita'  della  disposizione
di cui all'art. 23, quarto comma del d.lgs. n. 152/1999 rispetto alla
norma generale di cui all'art. 624 c.p.; con la conseguenza, in  tale
ultima ipotesi, della irrilevanza della condotta di prelievo di acque
sotterranee  o  superficiali  per  fini  industriali,  anche  qualora
positivamente accertata, sotto il profilo della norma  incriminatrice
penale. 
    Deve osservarsi che il profilo di contestazione della imputazione
che la difesa degli imputati fonda sulla asserita  specialita'  della
norma di cui all'art. 23, quarto comma  del  d.lgs.  n.  152/1999,  e
della conseguente inapplicabilita' della fattispecie di cui  all'art.
624  c.p.  ai  fatti   oggetto   del   processo,   assume   carattere
pregiudiziale,  atteso  che  qualunque  verifica   in   fatto   della
imputazione deve presupporre  necessariamente  la  giurisdizione  del
Giudice penale in relazione ad una condotta che possa rientrare nella
previsione  astratta  di  una  fattispecie   di   reato,   altrimenti
realizzandosi   violazione   del   principio   costituzionale   della
separazione dei poteri. Ed infatti non vi sarebbe titolo  alcuno  per
questo Giudice nell'indagare in fatto situazioni  che  sfuggono  alla
rilevanza  penale,  e  vengono  disciplinate   esclusivamente   dalla
normativa amministrativa. Occorre quindi prendere le mosse dall'esame
di questo pregiudiziale profilo di contestazione dell'accusa. 
    Al fine dell'indagine richiesta a  questo  Giudice  in  punto  di
diritto  e'  indispensabile  preliminarmente   ripercorrere,   seppur
brevemente, l'excursus storico della normativa  di  disciplina  delle
acque. 
    Fino alla entrata in  vigore  nell'ordinamento  della  cosiddetta
legge «Galli» il testo di riferimento per la disciplina  delle  acque
era costituito dal r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, Testo Unico  delle
disposizioni di legge sulle acque,  e  che  all'art.  l  testualmente
recitava «Sono pubbliche tutte le acque sorgenti, fluenti e  lacuali,
anche  se  artificialmente  estratte  dal  sottosuolo,  sistemate   o
incrementate, le quali, considerate  sia  isolatamente  per  la  loro
portata o per l'ampiezza del  rispettivo  bacino  imbrifero,  sia  in
relazione al sistema idrografico al quale  appartengono,  abbiano  od
acquistino attitudine ad usi di pubblico generale interesse. 
    Le acque pubbliche sono  inscritte,  a  cura  del  ministero  dei
lavori  pubblici,  distintamente  per  provincie,   in   elenchi   da
approvarsi per decreto reale, su proposta  del  ministro  dei  lavori
pubblici, sentito il consiglio superiore dei lavori pubblici,  previa
la  procedura  da  esperirsi  nei  modi  indicati  dal  regolamento».
(Omissis). Sulla base della  normativa  sopra  richiamata,  le  acque
acquisivano pertanto il carattere della pubblicita', cosi' entrando a
far parte del demanio dello Stato, esclusivamente se classificate  di
«pubblico generale interesse», e previo  inserimento  negli  appositi
elenchi. Le acque cui non era riconosciuta tale rilevanza pubblica, e
che non erano inserite espressamente  negli  elenchi  previsti  dalla
legge,  seguivano  pertanto  la  disciplina  codicistica  di  diritto
privato, fissata dall'art. 840 del codice  civile.  A  seguito  della
piu'  recente  presa  di   coscienza   da   parte   degli   Organismi
internazionali   e   del   Legislatore   italiano   del   progressivo
depauperamento delle risorse idriche del pianeta,  veniva  introdotta
nell'ordinamento giuridico dello Stato la legge 5 gennaio 1994, n. 36
titolata «Disposizioni in materia di risorse idriche», normativa  che
ridefiniva interamente la disciplina sostanziale relativa alle  acque
pubbliche. In particolare all'art. 1 statuisce che  «tutte  le  acque
superficiali e sotterranee, ancorche' non  estratte  dal  sottosuolo,
sono pubbliche e costituiscono una risorsa che  e'  salvaguardata  ed
utilizzata secondo  criteri  di  solidarieta'.».  Con  l'introduzione
della  nuova  disciplina  si  perveniva  ad   un   vero   e   proprio
rovesciamento dei principi sottesi alla regolamentazione del prelievo
e dell'utilizzo delle acque,  passando  da  un  regime  ordinario  di
carattere privatistico, nel quale vi era necessita' di una  specifica
classificazione  da  parte   della   Pubblica   Amministrazione   per
qualificare un acqua di interesse pubblico, ad un regime  rigidamente
pubblico in ordine alla proprieta' della risorsa  idrica,  regime  in
cui tutte le acque superficiali e sotterranee sono  pubbliche,  senza
alcuna eccezione,  e  riservandosi  la  Pubblica  Amministrazione  la
discrezionalita' di disciplinare in maniera diversa esclusivamente il
loro  utilizzo,  a  seconda   dei   soggetti   e   delle   finalita'.
Successivamente  veniva  introdotto  nell'ordinamento  il  d.lgs.  n.
152/1999   titolato   «Disposizioni   sulla   tutela   delle    acque
dall'inquinamento   e   recepimento   della   direttiva    91/271/CEE
concernente  il  trattamento  delle  acque  reflue  urbane  e   della
direttiva   91/676/CEE   relativa   alla   protezione   delle   acque
dall'inquinamento  provocato  dai  nitrati   provenienti   da   fonti
agricole», il cui articolo 23, al comma quarto recita «L'articolo  17
del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775  (a)  e'  sostituito  dal
seguente: «Art. 17. - 1, Salvo quanto previsto dall'articolo 93 (e) e
dall'articolo 28, commi 3 e 4, della legge 5 gennaio 1994, n. 36  (f)
e'  vietato  derivare  o   utilizzare   acqua   pubblica   senza   un
provvedimento autorizzativo o concessorio dell'Autorita'  competente.
Nel caso di violazione del disposto del  comma  1,  l'amministrazione
competente  dispone  la  cessazione   dell'utenza   abusiva   ed   il
contravventore, fatti salvi ogni  altro  adempimento  o  comminatoria
previsti dalle leggi vigenti, e' tenuto al pagamento di una  sanzione
amministrativa pecuniaria da lire cinque  milioni  a  lire  cinquanta
milioni. Nei casi di particolare  tenuita'  si  applica  la  sanzione
amministrativa pecuniaria da lire cinquecentomila a lire tre milioni.
Alla sanzione prevista  dal  presente  articolo  non  si  applica  il
pagamento in misura ridotta di cui all'articolo  16  della  legge  24
novembre 1981, n. 689 (g). E' in ogni caso dovuta una somma  pari  ai
canoni non corrisposti. (Omissis)». 
    Successivamente alla entrata in vigore del d.lgs. n. 152/1999  si
pone oggettivamente  all'interprete  la  problematica  relativa  alla
individuazione della norma  sanzionatoria  applicabile  in  relazione
alle  condotte  di  impossessamento   di   acque   pubbliche   aventi
caratteristiche  analoghe  alla  condotta  descritta  nel   capo   di
imputazione. La Giurisprudenza di legittimita' con numerose pronunce,
e dopo una iniziale incertezza, si e'  consolidata  su  posizioni  di
sostanziale  abrogazione  della  rilevanza  penale   della   condotta
descritta, ed in ultimo, con la sentenza n. 25548/2007  della  quinta
Sezione penale della Corte di cassazione ha affermato  quanto  segue:
«il d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 23,  sanziona  specificamente
la condotta di impossessamento abusivo di acque pubbliche, ancorche',
come si vedra', solo  in  via  amministrativa;  si  pone  percio'  la
necessita' di verificare  se  quest'ultima  norma  non  sia  speciale
rispetto a quella dettata dall'art.  624  c.p.,  e  pertanto  l'unica
applicabile. L'indagine non puo' che partire dalla ricostruzione  del
sistema sanzionatorio nello specifico settore. Il  d.lgs.  11  maggio
1999, n. 152, art. 93 (T.U. sulle acque) dispone la libera  e  lecita
utilizzazione per usi domestici delle acque sotterranee da parte  del
proprietario  del  fondo,  purche'  vengano  osservate   le   cautele
prescritte dalla legge. Detta norma e' stata confermata  dalla  legge
n. 36 del 1994, art. 28 e dal d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 23.
Tale ultimo articolo, nel sostituire l'art. 17 del R.D. n.  1775  del
1933, ha poi disposto che la derivazione o utilizzazione  abusiva  di
acque pubbliche e' punita con la sanzione  amministrativa  pecuniaria
da L. 5 a 50 milioni, disposizione che deve intendersi riferita  solo
alle ipotesi di prelievo  per  uso  industriale,  come  nel  caso  di
specie, stante la legittimita' dell'utilizzazione per usi  domestici.
Il d.lgs. n. 152  del  1999,  art.  23,  che  vieta  di  «derivare  o
utilizzare acqua pubblica  senza  un  provvedimento  autorizzativo  o
concessorio dell'autorita' competente», la cui violazione  come  s'e'
osservato e' sanzionata  in  via  amministrativa,  costituisce  norma
speciale rispetto a quella generale di cui all'art. 624 c.p., dovendo
applicarsi il principio di specialita'  anche  in  caso  di  concorso
apparente di norme coesistenti, ancorche' detto rapporto si configuri
tra norma  penale  e  norma  amministrativa;  le  due  norme  infatti
regolano la stessa materia - e cioe'  l'impossessamento  di  un  bene
altrui  per  trarne  vantaggio  -  caratterizzandosi  la  fattispecie
amministrativa per due elementi  specializzanti,  e  cioe'  l'oggetto
dell'impossessamento (l'acqua pubblica)  ed  il  dolo  specifico  (la
finalita' industriale). Ne' pare condivisibile la tesi  contraria  di
chi sostiene l'effettivo concorso tra le due norme (Cass. 7  novembre
2002, n. 37237) rilevando che la prima  norma  tutela  la  salubrita'
delle acque e la seconda il bene affatto  diverso  della  proprieta'.
Infatti per stabilire se due disposizioni regolino o meno  la  stessa
materia, deve privilegiarsi la struttura della fattispecie  piuttosto
che il bene protetto (Cass. Sez. Unite 7 novembre 2000, n. 27;  Cass.
Sez. Unite 15 gennaio 2000, n. 35); ma valga  del  resto  considerare
che anche il d.lgs. n. 152 del 1999, art.  23  tutela  la  proprieta'
delle acque, sia pure sotto peculiare profilo.». 
    La Giurisprudenza richiamata afferma un principio di diritto  che
questo Giudice ritiene condivisibile, non ravvisando tra  la  ipotesi
prevista dall'art. 23 del d.lgs. n. 152/1999 e la fattispecie di  cui
all'art. 624 c.p.p. difformita' sotto il profilo del  bene  giuridico
protetto. Ed infatti, se la norma incriminatrice penale  e'  posta  a
presidio del patrimonio,  anche  la  disposizione  sanzionatoria  del
d.lgs.  n.  152/1999  presidia,  tra  l'altro,  anche  gli  interessi
patrimoniali dell'Erario  dello  Stato,  poiche',  subito  dopo  aver
indicato la sanzione irrogabile in caso di prelievo illecito  dispone
che e' in ogni caso dovuta  la  somma  di  denaro  corrispondente  ai
canoni evasi; canoni che rappresentano il  corrispettivo  del  valore
stimato del bene, cosi' come indicato espressamente dagli articoli 13
e 18 della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (legge Galli). Vi  e'  inoltre
da osservare che, nella fattispecie oggetto di processo, ad un  esame
della condotta descritta nel capo di  imputazione,  l'impossessamento
dell'acqua sotterranea e superficiale sarebbe stato realizzato  dagli
imputati con specifica finalita'  di  utilizzazione  industriale.  La
fattispecie  sanzionatrice  prevista  dall'art.  23  del  d.lgs.   n.
152/1999 descrive pertanto esattamente la  condotta  addebitata  agli
imputati,  sia  sotto  il  profilo  della  materialita'   del   fatto
(impossessamento  della  risorsa  idrica  mediante   sottrazione   al
patrimonio dello Stato), sia sotto il profilo della finalita' che  e'
indubitabilmente di utilizzazione industriale. 
    Tanto premesso in ordine alla ricostruzione  del  fatto  e  della
fattispecie giuridica,  e  ritenuto  che  ai  fatti  descritti  nella
imputazione, qualificati furti aggravati di  acque  pubbliche,  debba
altresi' applicarsi la  disciplina  dell'art.  23  comma  quarto  del
d.lgs. n.  152/1999  in  base  al  criterio  di  specialita'  fissato
dall'art. 9 della legge 24 novembre 1981,  n.  689,  con  conseguente
irrilevanza penale del fatto descritto dal pubblico ministero, questo
Giudice dubita della conformita'  ai  principi  costituzionali  della
disposizione di cui all'art. 23 d.lgs. n.  152/1999,  per  violazione
del  criterio  di  ragionevolezza  di  cui  all'art.  3  della  Carta
costituzionale. 
    In punto di ammissibilita' della questione di costituzionalita'. 
    Osserva  il  Tribunale  come  il   declassamento   della   tutela
dell'illecito prelievo di acque  pubbliche  sia  avvenuto  a  seguito
della entrata in vigore del d.lgs. n. 152/1999, essendo  di  pacifico
rilievo che  precedentemente  all'ottobre  dell'anno  2000  (data  di
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto, con le  modifiche
correttive  ed  integrative  disposte   dal   d.lgs.   n.   258/2000)
all'ipotesi di impossessamento per fini di vantaggio patrimoniale  di
acque pubbliche era applicabile la disciplina ordinaria dettata dalle
norme sul furto. Cosi' come  risulta  non  controverso  dalla  stessa
contestazione del reato effettuata agli imputati che la loro condotta
di illecito  impossessamento  delle  acque,  posta  in  essere  senza
apprezzabile  soluzione  di  continuita',   sarebbe   iniziata   fino
dall'anno  1997,  e  quindi  in   epoca   anteriore   alla   avvenuta
«depenalizzazione»  delle  condotte  descritte  (di  depenalizzazione
parla espressamente la Corte di legittimita' nella sentenza n.  39977
dell'11 ottobre 2005 della quinta Sezione). Sulla  base  dei  rilievi
sopra effettuati  deve  quindi  affermarsi  la  ammissibilita'  della
questione di costituzionalita' della disposizione depenalizzatrice  -
che quindi farebbe rivivere per  gli  imputati  l'effettivita'  della
norma incriminatrice penale -  non  ostandovi  il  principio  fissato
dall'art. 2 del codice penale,  norma  di  attuazione  del  principio
fissato dal secondo comma dell'art. 25 della Costituzione. E' infatti
da rilevare che la Corte costituzionale, nella sentenza  n.  394  del
novembre  2006  ha  affermato  quanto  segue:  «(...),   secondo   la
consolidata giurisprudenza di questa Corte, all'adozione di  pronunce
in malam partem in materia penale osta non gia' una ragione meramente
processuale - di irrilevanza, nel senso che l'eventuale decisione  di
accoglimento non potrebbe trovare comunque applicazione nel  giudizio
a quo - ma una ragione sostanziale, intimamente connessa al principio
della riserva di legge sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., in
base al quale «nessuno puo' essere punito se  non  in  forza  di  una
legge che sia  entrata  in  vigore  prima  del  fatto  commesso»  (ex
plurimis, tra le ultime, sentenze n. 161 del 2004 e n. 49  del  2002,
n. 508 del 2000; ordinanze n. 187 del 2005, n. 580 del 2000 e n.  392
del 1998; con particolare riguardo alla materia elettorale, ordinanza
n. 132 del 1995). Rimettendo  al  legislatore  -  e  segnatamente  al
«soggetto-Parlamento»,   in   quanto   rappresentativo    dell'intera
collettivita' nazionale (sentenza n. 487 del 1989) - la riserva sulla
scelta  dei  fatti  da  sottoporre  a  pena  e  delle  sanzioni  loro
applicabili, detto principio impedisce alla Corte sia di creare nuove
fattispecie criminose o di estendere  quelle  esistenti  a  casi  non
previsti; sia di incidere in  peius  sulla  risposta  punitiva  o  su
aspetti comunque inerenti alla  punibilita'  (e  cosi',  ad  esempio,
sulla disciplina della prescrizione e dei relativi atti  interruttivi
o sospensivi: ex plurimis, ordinanze n. 317 del 2000  e  n.  337  del
1999).  Questa  Corte  ha  peraltro  chiarito  che  il  principio  di
legalita' non preclude lo scrutinio di  costituzionalita',  anche  in
malam partem, delle c.d. norme penali di favore:  ossia  delle  norme
che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un  trattamento
penalistico   piu'   favorevole   di    quello    che    risulterebbe
dall'applicazione di norme generali o comuni. Di tale orientamento  -
che trova la sua prima compiuta enunciazione nella  sentenza  n.  148
del 1983 - questa Corte ha fatto ripetute applicazioni  (sentenze  n.
167 e n. 194 del 1993; n. 124 del 1990; n. 826 del  1988),  anche  in
rapporto a questioni di costituzionalita' omologhe a quelle  oggi  in
esame, dirette a conseguire una modifica peggiorativa del trattamento
sanzionatorio di determinate figure di  reato  (sentenza  n.  25  del
1994; v., altresi', le ordinanze n. 95 del 2004 e n.  433  del  1998,
con le quali la Corte ha scrutinato direttamente nel merito questioni
di tal fatta). Esso si connette all'ineludibile esigenza  di  evitare
la creazione di «zone franche» dell'ordinamento (cosi' la sentenza n.
148 del 1983), sottratte al controllo di costituzionalita', entro  le
quali il legislatore potrebbe di fatto  operare  svincolato  da  ogni
regola, stante l'assenza d'uno strumento che permetta alla  Corte  di
riaffermare  il  primato  della   Costituzione   sulla   legislazione
ordinaria.   Qualora   alla   preclusione    dello    scrutinio    di
costituzionalita'  in  malam  partem   fosse   attribuito   carattere
assoluto, si determinerebbe, in effetti, una  situazione  palesemente
incongrua: venendosi a riconoscere, in sostanza, che  il  legislatore
e' tenuto a rispettare i precetti costituzionali se  effettua  scelte
di aggravamento del trattamento penale, mentre  puo'  violarli  senza
conseguenze, quando dalle sue  opzioni  derivi  un  trattamento  piu'
favorevole. In accordo con l'esigenza ora evidenziata,  va  osservato
che il principio di legalita'  impedisce  certamente  alla  Corte  di
configurare nuove norme penali; ma non le preclude decisioni ablative
di norme che sottraggano determinati gruppi di soggetti o di condotte
alla sfera applicativa di una norma comune o comunque piu'  generale,
accordando loro un trattamento piu' benevolo  (sentenza  n.  148  del
1983): e cio' a prescindere dall'istituto o dal mezzo tecnico tramite
il quale tale trattamento si realizza (previsione di una scriminante,
di una causa di non punibilita', di una causa di estinzione del reato
o della pena, di una circostanza attenuante o di una figura  autonoma
di reato punita in modo piu' mite). In simili frangenti, difatti,  la
riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione resta salva:
l'effetto in malam partem non  discende  dall'introduzione  di  nuove
norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della  Corte,
la quale si limita a rimuovere la disposizione giudicata  lesiva  dei
parametri costituzionali; esso rappresenta, invece,  una  conseguenza
dell'automatica riespansione della norma generale o  comune,  dettata
dallo   stesso   legislatore,   al   caso   gia'   oggetto   di   una
incostituzionale   disciplina    derogatoria.    Tale    riespansione
costituisce una reazione naturale dell'ordinamento - conseguente alla
sua  unitarieta'  -  alla  scomparsa  della  norma  incostituzionale:
reazione che  si  verificherebbe  in  ugual  modo  anche  qualora  la
fattispecie derogatoria rimossa fosse piu' grave;  nel  qual  caso  a
riespandersi sarebbe la norma penale generale meno grave,  senza  che
in siffatto fenomeno possa ravvisarsi  alcun  intervento  creativo  o
additivo della Corte in materia  punitiva  (...)».  La  questione  di
costituzionalita'  che  questo  Giudice  intende  con   la   presente
ordinanza  sollevare  attiene   alla   previsione,   da   parte   del
legislatore, di una normativa  di  depenalizzazione  «di  favore»  in
relazione a determinati soggetti, con carattere  di  irragionevolezza
con   riferimento   alla   genaralita'   beni   giuridici    tutelati
dall'ordinamento, e pertanto deve ritenersi ammissibile. 
    Non manifesta infondatezza della questione di costituzionalita'. 
    La questione che questo Giudice intende portare  alla  attenzione
della Corte attiene ad una ipotesi di depenalizzazione della condotta
di illecito impossessamento di acque pubbliche per fini di  profitto,
effettuata  attraverso  la  introduzione  nell'ordinamento  giuridico
dello  Stato  di  una  norma  sanzionatrice  speciale  di   carattere
amministrativo.  La  giurisprudenza  della  Corte  costituzionale  e'
costante nel ritenere che «la configurazione delle ipotesi  criminose
e la determinazione delle sanzioni per  ciascuna  di  esse  rientrano
nella discrezionalita' del legislatore. Gli apprezzamenti  in  ordine
alla   "meritevolezza"   ed   al   "bisogno   di   pena"   -   dunque
sull'opportunita' del  ricorso  alla  tutela  penale  e  sui  livelli
ottimali della stessa - sono infatti, per  loro  natura,  tipicamente
politici: con la conseguenza che un sindacato sul merito delle scelte
legislative e' possibile solo ove  esse  trasmodino  nella  manifesta
irragionevolezza  o  nell'arbitrio  (ex  plurimis,  tra  le   ultime,
sentenze n. 144 del 2005 e n. 364 del 2004; ordinanze n. 109, n. 139,
n. 212 del 2004; n. 177, n. 206 e n.  234  del  2003),  come  avviene
allorquando  la  sperequazione  normativa  tra  fattispecie  omogenee
assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare  sorretta
da alcuna ragionevole  giustificazione  (con  riguardo  alla  materia
elettorale, sentenza n. 287  del  2001)»  (Corte  cost.  sentenza  n.
394/2006). Orbene,  proprio  alla  luce  delle  argomentazioni  della
sentenza sopra richiamata, ritiene  il  Giudicante  che  il  previsto
regime sanzionatorio della condotta di derivazione ed utilizzo a fini
industriali di acque pubbliche, giustificato da fini di profitto, sia
viziato da irragionevolezza e grave contraddizione con  alcune  norme
di  rango  costituzionale,  tanto  da  imporne  la  declaratoria   di
incostituzionalita'  per  violazione  dell'art.  3  Costituzione.  E'
proprio muovendo preliminarmente dall'esame  della  specificita'  del
bene giuridico oggetto di tutela che si apprezza la  irragionevolezza
della  disposizione  denunciata.  La  Corte  costituzionale,  con  la
sentenza n. 259/1996 aveva avuto modo di evidenziare  come  «(...)  I
criteri discretivi delle acque  pubbliche  e  private  hanno  subito,
sotto il profilo storico, dallo scorso secolo (e non solo in Italia),
una  evoluzione  progressiva  con  caratterizzazione   in   crescendo
dell'interesse pubblico, correlata all'aumento dei  fabbisogni,  alla
limitatezza delle disponibilita' e ai rischi concreti di penuria  per
i  diversi  usi  (residenziali,  industriali,   agricoli),   la   cui
preminenza e' venuta nel tempo ad assumere connotati  diversi.  Nello
stesso tempo, soprattutto sotto la spinta di una serie di  iniziative
in ambito europeo  (a  cominciare  dalla  Carta  europea  dell'acqua,
approvata il 16 maggio 1968 dal Consiglio d'Europa)  e  di  direttive
della Comunita'  europea,  e  della  raggiunta  consapevolezza  della
limitata disponibilita' idrica, e' emerso un maggiore  interesse  per
la  protezione  delle  acque.  In  particolare  l'attenzione  si   e'
soffermata  sull'acqua  (bene   primario   della   vita   dell'uomo),
configurata  quale  "risorsa"  da  salvaguardare,   sui   rischi   da
inquinamento, sugli sprechi  e  sulla  tutela  dell'ambiente,  in  un
quadro   complessivo   caratterizzato   dalla   natura   di   diritto
fondamentale a mantenere integro il patrimonio ambientale.  L'aumento
dei fabbisogni derivanti dai nuovi  insediamenti  abitativi  e  dalle
crescenti utilizzazioni residenziali anche a seguito delle tecnologie
introdotte nell'ambito domestico, accompagnato da un incremento degli
usi agricoli produttivi e di altri usi,  ha  indotto  il  legislatore
(legge 5 gennaio 1994, n.  36),  di  fronte  a  rischi  notevoli  per
l'equilibrio del bilancio idrico, ad adottare una serie di misure  di
tutela e di priorita' dell'uso delle acque intese come  risorse,  con
criteri di utilizzazione e di  reimpiego  indirizzati  al  risparmio,
all'equilibrio e  al  rinnovo  delle  risorse  medesime.  Di  qui  la
esigenza avvertita dallo stesso legislatore di un maggiore intervento
pubblico  concentrato  sull'intero  settore  dell'uso  delle   acque,
sottoposto al metodo della  programmazione,  della  vigilanza  e  dei
controlli, collegato ad  una  iniziale  dichiarazione  di  principio,
generale e programmatica (art. 1, comma 1,  della  legge  n.  36  del
1994), di pubblicita' di tutte le acque superficiali  e  sotterranee,
indipendentemente dalla estrazione dal sottosuolo. Tale dichiarazione
e' accompagnata dalla qualificazione  di  "risorsa  salvaguardata  ed
utilizzata secondo criteri  di  solidarieta'".  Questa  finalita'  di
salvaguardia viene, subito  dopo,  in  modo  espresso  riconnessa  al
diritto  fondamentale  dell'uomo   (e   delle   generazioni   future)
all'integrita' del patrimonio ambientale,  nel  quale  devono  essere
inseriti gli usi delle risorse idriche (art. 1, commi 2  e  3,  della
legge n. 36 del 1994) (...)». 
    Effettivamente la legge  n.  36/1994  ha  introdotto  un  sistema
amministrativo di controlli, a carattere preminentemente concessorio,
per la utilizzazione dell'acqua per fini diversi da quelli  domestici
(svincolati dal  regime  concessorio  per  espressa  disposizione  di
legge),  con   l'evidente   finalita'   di   rendere   obiettivamente
maggiormente incisivi sia i controlli di carattere pubblico  sull'uso
del bene ritenuto giustamente prezioso, sia al fine di sottoporre  il
suo concreto utilizzo  alla  valutazione  di  compatibilita'  con  la
conservazione  del   bene   medesimo,   realizzando   attraverso   il
provvedimento autorizzatorio di carattere discrezionale un  effettivo
bilanciamento degli interessi contrapposti all'utilizzo del  bene  ed
alla sua conservazione. Tale  quadro  di  riferimento  normativo  non
mutava, nella sostanza, neppure con la  introduzione  del  d.lgs.  n.
152/1999, se e' vero che quest'ultima disposizione di legge esordiva,
all'art.  1,  indicando  le  finalita'  che  la  nuova  normativa  di
prefiggeva: «Art. 1. Finalita' l. - Il presente decreto definisce  la
disciplina generale per la tutela delle acque superficiali, marine  e
sotterranee, perseguendo i seguenti obiettivi: a) prevenire e ridurre
l'inquinamento e attuare il risanamento dei corpi  idrici  inquinati;
b) conseguire il miglioramento dello stato delle  acque  ed  adeguate
protezioni di quelle destinate a particolari usi; c)  perseguire  usi
sostenibili e durevoli  delle  risorse  idriche,  con  priorita'  per
quelle   potabili;   d)   mantenere   la   capacita'   naturale    di
autodepurazione dei corpi idrici, nonche' la capacita'  di  sostenere
comunita' animali e vegetali ampie  e  ben  diversificate.  2.  -  Il
raggiungimento degli  obiettivi  indicati  al  comma  1  si  realizza
attraverso i seguenti strumenti: a) l'individuazione di obiettivi  di
qualita' ambientale e per specifica destinazione dei corpi idrici; b)
la  tutela  integrata  degli  aspetti  qualitativi   e   quantitativi
nell'ambito di ciascun bacino idrografico ed un adeguato  sistema  di
controlli e di sanzioni;  c)  il  rispetto  dei  valori  limite  agli
scarichi fissati dallo Stato, nonche' la definizione di valori limite
in relazione agli obiettivi  di  qualita'  del  corpo  recettore;  d)
l'adeguamento dei sistemi di fognatura, collettamento  e  depurazione
degli scarichi idrici, nell'ambito del servizio idrico  integrato  di
cui alla legge 5 gennaio 1994,  n.  36  (a); e)  l'individuazione  di
misure per la prevenzione e la riduzione dell'inquinamento nelle zone
vulnerabili e nelle aree sensibili;  f)  l'individuazione  di  misure
tese alla conservazione, al risparmio, al riutilizzo  ed  al  riciclo
delle risorse idriche.». 
    Non  soltanto  quindi  il   decreto   legislativo   si   inseriva
perfettamente nelle linee guida fissate dalla legge  n.  36/1994,  ma
con la sua introduzione veniva a delinearsi un sistema di tutela  del
bene giuridico costituito dalle acque pubbliche «rafforzato»,  ed  il
legislatore  evidenziava  una  volonta'  di   prestare   la   massima
attenzione alla gestione della risorsa idrica. Orbene in tale  quadro
normativo la previsione di una norma speciale  tesa  a  depenalizzare
l'impossessamento illecito, a fini di lucro, di un bene giuridico  di
notevole valore per la collettivita' si appalesa come  manifestamente
privo di razionalita' e di armonia con il sistema di tutele  dato.  E
tale  irragionevolezza  appare  ancor  piu'  eclatante  solo  che  si
raffronti la diminuita tutela del bene  pubblico  a  far  data  dalla
introduzione  nell'ordinamento  della  norma  speciale,  con   quella
apprestata precedentemente - e che interesserebbe i fatti oggetto del
processo in un arco temporale che va dall'anno 1997 all'anno  2000  -
rappresentata dalla norma incriminatrice penale. Norma incriminatrice
penale che, allo stato, continua a sanzionare condotte di aggressione
a beni patrimoniali di gran lunga inferiori, nella scala  dei  valori
fissata dal Legislatore, rispetto alla risorsa idrica. E  proprio  in
questi due aspetti evidenziati in ultimo che il Tribunale  coglie  il
primo profilo di incostituzionalita' della  disposizione  denunciata,
allorche'  non  soltanto  introduce  una  disparita'  di  trattamento
sanzionatorio  di  condotte  identiche  relative  allo  stesso   bene
giuridico, ancorche' poste in essere in momenti  diversi,  senza  che
emerga  ragione  a  fondamento,  ma  introduce  una   disparita'   di
trattamento  sanzionatorio  fra  beni  di  diverso  valore   sociale,
apprestando tutela diminuita proprio a quel bene che, con la medesima
legge, si intende tutelare piu' incisivamente; con aperta  violazione
del principio di ragionevolezza, quale articolazione del principio di
uguaglianza fissato dall'art. 3 della Carta costituzionale. 
    Ritiene peraltro  il  Tribunale  che  la  irragionevolezza  della
disposizione denunciata si colga anche in relazione ad altre condotte
di  impossessamento  relative  al  medesimo  bene  giuridico,  e   da
ritenersi ancora sanzionate dalla norma  incriminatrice  generale  di
cui  all'art.  624  c.p.  Ed  infatti  non  puo'  convenirsi  con  la
operazione  interpretativa  della  fattispecie  normativa  effettuata
dalla Corte di legittimita' nella sentenza n. 25548/2007 della quinta
Sezione penale allorquando la Corte afferma che «le due norme infatti
regolano la stessa materia - e cioe'  l'impossessamento  di  un  bene
altrui  per  trarne  vantaggio  -  caratterizzandosi  la  fattispecie
amministrativa per due elementi  specializzanti,  e  cioe'  l'oggetto
dell'impossessamento (l'acqua pubblica)  ed  il  dolo  specifico  (la
finalita' industriale).» Se tale sovrapposizione e' vera in relazione
a condotte  quali  quelle  contestate  agli  odierni  imputati,  deve
rilevarsi come, in linea generale, non vi sia alcuna  sovrapposizione
nella condotta materiale descritta dalle due norme, l'art. 624 c.p. e
l'art. 23 d.lgs. n. 152/1999, poiche' le condotte  di  derivazione  o
utilizzo   descrivono   solo   alcuni   dei   possibili    casi    di
impossessamento. Per la verita' soltanto la condotta  di  derivazione
descrive una modalita' di impossessamento,  poiche'  la  condotta  di
utilizzazione descrive un post factum rispetto all'impossessamento, e
piu' propriamente una finalita' di quest'ultimo; si utilizza un  bene
dopo  essersene  impossessati,  ovvero  ci  si  impossessa  per   poi
utilizzarlo. Se  tali  osservazioni  le  si  leggono  alla  luce  del
principio  di  tassativita'  degli  illeciti  amministrativi  fissato
dall'art. 1, comma secondo della legge n. 689/1981, si vedra' che  vi
possono essere casi di impossessamento  che  non  vengono  realizzati
attraverso una derivazione, o che non sono  finalizzati  all'utilizzo
industriale del bene, ma che sono comunque caratterizzati da fine  di
lucro, i quali necessariamente sfuggono alla previsione  della  norma
amministrativa,  e  ricadono  necessariamente  sotto  l'impero  della
fattispecie penale, questa volta essa stessa speciale  rispetto  alla
norma amministrativa. Si pensi,  a  mero  titolo  esemplificativo,  a
colui  che  effettuasse  la  trivellazione  di  un  pozzo  di   acque
sotterranee, perche' ritenute dotate di  caratteristiche  fisiche  di
pregio, al fine di farne mero commercio, anche eventualmente mediante
la pura e semplice cessione a terzi. In  tal  caso  l'impossessamento
non si realizzarebbe mediante derivazione, ne' avrebbe come finalita'
un utilizzo dell'acqua pubblica  a  fini  industriali  (utilizzo  che
presuppone quasi nella totalita' dei casi il rilascio del bene stesso
dopo il suo utilizzo), e  quindi  necessariamente  sarebbe  la  norma
penale a dispiegare i propri effetti, provvedendo  a  sanzionare  una
sfera di illecito che sfugge alla previsione amministrativa. 
    E' quindi alla luce di queste  considerazioni  che  il  Tribunale
coglie il secondo profilo di incostituzionalita'  della  disposizione
denunciata, allorche' il  Legislatore  introduce  una  disparita'  di
trattamento sanzionatorio di condotte di identico  disvalore  sociale
relative allo stesso bene giuridico, ancorche' poste  in  essere  con
motivazioni differenti, senza che emerga ragione a fondamento di tale
diversa valutazione. Non si vede quale sia la ragione  di  sanzionare
con pena criminale la condotta  di  colui  che  si  impossessa  della
risorsa idrica  per  farne  mero  commercio,  ed  ottenere  un  utile
patrimoniale  illecito,  rispetto  a  colui  che  si  impossessa  del
medesimo bene illecitamente e per fine di profitto, nel caso  in  cui
quest'ultimo sia rappresentato non dal prezzo della  vendita,  bensi'
dal vantaggio patrimoniale consistente nell'utilizzo del bene  in  un
processo industriale. 
    La rilevanza nel processo in corso. 
    I  fatti  reato  oggetto  della  causa  vengono  collocati  dalla
Pubblica accusa nella contestazione del delitto di furto aggravato  e
continuato  a  far  data  dall'anno  1997  (data  di   inizio   della
consumazione) e fino all'anno 2005 (data di presunta cessazione della
consumazione). Allo stato, nella vigenza della previsione della norma
ritenuta speciale, le condotte poste in essere  successivamente  alla
entrata  in  vigore  del  d.lgs.  n.  152/1999  risultano  penalmente
irrilevanti, e quelle poste in essere anteriormente a tale  data  non
punibili ex art. 2 comma secondo del  codice  penale.  La  espulsione
dall'ordinamento della disposizione denunciata di incostituzionalita'
consentirebbe la nuova espansione della norma incriminatrice  penale,
quantomeno per i fatti reato commessi tra il 1997  e  la  entrata  in
vigore della norma denunciata,  allo  stato  ancora  non  colpiti  da
termine  prescrizionale,  e  gia'  contestati  agli  imputati.  Nella
fattispecie oggetto della odierna ordinanza di rimessione si  discute
infatti di condotte poste in  essere  prima  dell'entrata  in  vigore
della norma ritenuta di  favore  (ergo,  quando  il  fatto  era  piu'
severamente punito), onde  il  principio  di  irretroattivita'  della
norma penale sfavorevole non  viene  affatto  in  rilievo.  Viene  in
considerazione, piuttosto, il distinto  principio  di  retroattivita'
della norma penale (o sanzionatoria di  carattere  non  penale)  piu'
mite: principio che trova espressione  nell'ordinamento  giuridico  a
livello di legge ordinaria, nell'art. 2, secondo  comma  e  seguenti,
del  codice  penale.  Sul  punto  ritiene  il  Tribunale  che,  nella
specificita' dei fatti oggetto di processo, si versi  in  ipotesi  di
irrilevanza di tale principio, e cio' secondo le  considerazioni  che
la Corte costituzionale ha gia' espresso in caso  di  successione  di
leggi penali nel tempo, ma che il Tribunale ritiene applicabili anche
alla ipotesi di successione di norma sanzionatoria di  carattere  non
penale, e del seguente tenore: «(...) e' giocoforza ritenere  che  il
principio di retroattivita' della norma  penale  piu'  favorevole  in
tanto e'  destinato  a  trovare  applicazione,  in  quanto  la  norma
sopravvenuta sia, di per se', costituzionalmente legittima. Il  nuovo
apprezzamento del disvalore del fatto,  successivamente  operato  dal
legislatore, puo' giustificare - in chiave di tutela del principio di
eguaglianza - l'estensione a ritroso del trattamento piu' favorevole,
a chi ha commesso il fatto violando scientemente la norma penale piu'
severa, solo a condizione che quella nuova valutazione non  contrasti
essa stessa con i precetti della Costituzione.  La  lex  mitior  deve
risultare, in altre parole, validamente  emanata:  non  soltanto  sul
piano  formale   della   regolarita'   del   procedimento   dell'atto
legislativo che l'ha introdotta  e,  in  generale,  della  disciplina
delle fonti (v., con  riferimento  alla  mancata  conversione  di  un
decreto-legge,  sentenza  n.  51  del  1985);  ma  anche  sul   piano
sostanziale  del   rispetto   dei   valori   espressi   dalle   norme
costituzionali. Altrimenti, non v'e' ragione per derogare alla regola
sancita dai citati art. 136, primo comma, cost. e  30,  terzo  comma,
della legge n. 87 del 1953, non potendosi  ammettere  che  una  norma
costituzionalmente illegittima - rimasta in vigore, in ipotesi, anche
per un  solo  giorno  -  determini,  paradossalmente,  l'impunita'  o
l'abbattimento della risposta punitiva,  non  soltanto  per  i  fatti
commessi quel giorno, ma con riferimento a tutti i  fatti  pregressi,
posti in essere nel vigore dell'incriminazione o  dell'incriminazione
piu' severa.» (sentenza n. 394/2006). 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visti gli artt. 1 legge cost. 9 febbraio 1948, n. 1 e 23 comma  2
legge 11 febbraio 1953, n. 87, dichiara ammissibile, rilevante e  non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 23 (Modifiche al regio decreto 11 dicembre 1933,  n.  1775)
del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152 recante: «Disposizioni
sulla  tutela  delle  acque  dall'inquinamento  e  recepimento  della
direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento  delle  acque  reflue
urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa  alla  protezione  delle
acque dall'inquinamento provocato dai nitrati  provenienti  da  fonti
agricole», a seguito delle disposizioni correttive ed integrative  di
cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 258, e segnatamente del
comma quarto nella parte in cui prevede che «Nel caso  di  violazione
del disposto del comma 1... (omissis) il contravventore, fatti  salvi
ogni altro adempimento o comminatoria previsti dalle  leggi  vigenti,
e' tenuto al pagamento di una sanzione amministrativa  pecuniaria  da
lire  cinque  milioni»,  a  lire  cinquanta  milioni  per  violazione
dell'art. 3 della Costituzione; 
    Dispone la sospensione del presente procedimento, stralciato  dal
procedimento principale, e l'immediata trasmissione degli  atti  alla
Corte costituzionale; 
    Dispone che la presente ordinanza sia notificata,  a  cura  della
cancelleria,  al  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  nonche'
comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della
Repubblica. 
        Firenze, addi' 3 marzo 2009 
 
                         Il giudice: Nencini