N. 73 SENTENZA 22 - 26 febbraio 2010

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Processo penale - Dibattimento - Ammissione di nuove prove  -  Potere
  del giudice, secondo l'interpretazione della Corte  di  cassazione,
  di disporre d'ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di prova anche in
  deroga   al   regime   delle   decadenze   processuali    e    sia,
  conseguentemente, mancata ogni acquisizione probatoria - Denunciata
  violazione dei principi di terzieta' e di imparzialita' del giudice
  - Esclusione - Non fondatezza della questione. 
- Cod. proc. pen., art. 507. 
- Costituzione, art. 111. 
(GU n.9 del 3-3-2010 )
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente: Francesco AMIRANTE; 
Giudici: Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA,  Alfio  FINOCCHIARO,  Franco
  GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano  SILVESTRI,  Sabino  CASSESE,  Maria
  Rita  SAULLE,  Giuseppe   TESAURO,   Giuseppe   FRIGO,   Alessandro
  CRISCUOLO, Paolo GROSSI; 
ha pronunciato la seguente 
 
                              Sentenza 
 
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 507 del  codice
di  procedura  penale  promosso  dal  Tribunale  di  Torino,  sezione
distaccata di Moncalieri, nel procedimento penale a carico di  C.  A.
con ordinanza del 21 gennaio 2009, iscritta al n.  207  del  registro
ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 34, 1ª serie speciale, dell'anno 2009; 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella Camera di consiglio del 10 febbraio 2010  il  giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Con ordinanza dibattimentale emessa il 21 gennaio 2009 in un
processo per lesioni personali aggravate e continuate,  il  Tribunale
di  Torino,  sezione  distaccata  di  Moncalieri,  ha  sollevato,  in
riferimento   all'art.   111   della   Costituzione,   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 507  del  codice  di  procedura
penale, nella parte in cui - secondo l'interpretazione accolta  dalle
sezioni unite della Corte di cassazione  -  consente  al  giudice  di
disporre l'assunzione di nuovi mezzi di prova anche quando si  tratti
di prove dalle quali le parti sono decadute per mancato  o  irrituale
deposito della lista prevista dall'art. 468  cod.  proc.  pen.  e,  a
seguito di tale decadenza,  non  vi  sia  stata  alcuna  acquisizione
probatoria. 
    Il  giudice  rimettente  riferisce  che  la  richiesta  di  prova
testimoniale   del   pubblico   ministero   era   stata    dichiarata
inammissibile, a causa del tardivo deposito di detta lista. La  parte
pubblica aveva quindi chiesto che la prova  fosse  ammessa  ai  sensi
dell'art. 507 cod. proc.  pen.  -  in  forza  del  quale,  «terminata
l'acquisizione delle prove,  il  giudice,  se  risulta  assolutamente
necessario, puo' disporre anche  di  ufficio  l'assunzione  di  nuovi
mezzi di prove» - senza peraltro indicare ne' le ragioni del  mancato
tempestivo deposito della lista ne' quelle della assoluta  necessita'
di assunzione delle testimonianze.  All'istanza  si  era  opposta  la
difesa, eccependo l'illegittimita'  costituzionale  della  norma  ora
citata per violazione dell'art. 111, secondo comma, Cost. 
    Al riguardo, lo stesso rimettente ricorda preliminarmente come in
ordine  all'interpretazione  dell'art.  507  cod.  proc.   pen.   sia
prevalso,    dopo    iniziali     oscillazioni     giurisprudenziali,
l'orientamento meno restrittivo, fatto proprio  dalle  sezioni  unite
della Corte di cassazione nella sentenza 6 novembre 1992-21  novembre
1992, n. 11227, secondo il  quale  il  potere  previsto  dalla  norma
censurata puo' essere esercitato dal  giudice  anche  in  rapporto  a
prove dalle quali le parti siano decadute (in particolare, per omessa
o irrituale presentazione della lista di cui all'art. 468 cod.  proc.
pen.): dovendo intendersi per prove «nuove» tutte quelle non  assunte
in precedenza, e non gia' soltanto quelle sopravvenute o scoperte nel
corso del dibattimento.  Ne',  d'altro  canto  -  sempre  secondo  le
sezioni unite - assumerebbe valenza ostativa la circostanza  che  sia
mancata qualsiasi acquisizione probatoria ad iniziativa delle  parti:
la locuzione «terminata l'acquisizione delle prove» non indicherebbe,
infatti, il presupposto per l'esercizio del potere in  questione,  ma
solo  il  tempo  dell'istruzione  dibattimentale  a   partire   dalla
conclusione  del  quale  -  nell'ipotesi   normale   in   cui   detta
acquisizione vi sia stata - possono essere introdotte  e  assunte  le
nuove prove. 
    L'interpretazione ora ricordata - prosegue  il  rimettente  -  e'
stata avallata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 111  del
1993, che ha dichiarato non  fondata  la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 507 cod. proc. pen. (oltre che dell'art. 468
dello stesso codice), in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 76, 77,
101, 102, 111 e 112 Cost. 
    Nell'occasione, la  Corte  ha  osservato  che,  se  e'  vero  che
l'esigenza di accentuare la terzieta'  del  giudice  ha  condotto  ad
introdurre nel nuovo  codice  di  rito  un  criterio  di  separazione
funzionale delle  fasi  processuali,  concepito  come  strumento  per
favorire la  dialettica  del  contraddittorio  e  la  formazione  nel
giudice  di  un  convincimento  libero  da  influenze  pregresse,  e'
altrettanto  vero,  tuttavia,  che  tale  opzione  non   poteva   far
trascurare che fine primario del processo penale e' pur sempre quello
della ricerca della verita' e che ad  un  ordinamento  improntato  al
principio di legalita' (art. 25, secondo comma, Cost.)  -  che  rende
doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate -  nonche'
al connesso principio di obbligatorieta' dell'azione penale, non sono
consone  norme  processuali  che  ostacolino  in  modo  irragionevole
l'accertamento del fatto storico, necessario  per  pervenire  ad  una
giusta decisione. Risulterebbe del resto contraddittorio, da un lato,
garantire l'effettiva obbligatorieta' dell'azione  penale  contro  le
negligenze e le deliberate inerzie del pubblico ministero, conferendo
al giudice per le indagini preliminari  il  potere  di  disporre  che
questi formuli l'imputazione (art. 409, comma 5, cod. proc. pen.), e,
dall'altro lato,  negare  al  giudice  dibattimentale  il  potere  di
supplire ad analoghe condotte della medesima parte pubblica. Sicche',
in conclusione, una interpretazione dell'art.  507  cod.  proc.  pen.
diversa da  quella  adottata  dalle  sezioni  unite  della  Corte  di
cassazione  si  sarebbe  posta  in  contrasto  non  soltanto  con  la
direttiva recata dall'art. 2, numero  73,  della  legge  16  febbraio
1987, n. 81 (Delega  legislativa  al  Governo  della  Repubblica  per
l'emanazione del nuovo codice di procedura penale), ma  anche  con  i
richiamati precetti costituzionali. 
    Il dibattito, mai del tutto sopito, sulla corretta esegesi  della
norma censurata - continua il giudice a quo - e'  tornato,  peraltro,
«di  attualita'»  a  fronte  del  nuovo  testo  dell'art.  111  Cost.
introdotto dalla legge costituzionale 23  novembre  1999,  n.  2,  il
quale, nei commi primo e secondo, stabilisce che «la giurisdizione si
attua mediante il giusto processo regolato dalla legge» e  che  «ogni
processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di
parita', davanti ad un giudice terzo e imparziale». 
    Le sezioni unite della Corte di cassazione  sono  state,  quindi,
nuovamente chiamate  a  dirimere  il  contrasto  insorto  -  sia  pur
«episodicamente» - nell'ambito delle sezioni semplici, in ordine alla
possibilita' di esercizio dei poteri probatori  di  natura  officiosa
del giudice nei casi di inerzia  delle  parti.  Con  la  sentenza  17
ottobre 2006-18 dicembre 2006, n. 41281, dette  sezioni  unite  hanno
peraltro escluso  che  sull'assetto  codicistico  abbia  influito  la
riforma dell'art. 111 Cost.: la quale avrebbe accentuato, bensi',  il
principio fondante del processo accusatorio  -  la  formazione  della
prova nel contraddittorio delle parti - ma senza innovare  quanto  al
principio dispositivo, che, pur ispirando i sistemi  accusatori,  non
li caratterizza in modo altrettanto «decisivo». Secondo la  Corte  di
cassazione, d'altronde, il potere previsto dall'art. 507  cod.  proc.
pen. - esercitabile solo in  caso  di  «assoluta  necessita'»  -  non
rappresenterebbe un residuo del  modello  inquisitorio,  ma  varrebbe
piuttosto ad assicurare un processo veramente  «giusto»,  posto  che,
quanto piu' ampie sono le informazioni probatorie a disposizione  del
giudice, tanto piu' e' probabile che la sentenza sia equa e  aderente
ai fatti. Ne' l'acquisizione  d'ufficio  delle  prove  da  parte  del
giudice farebbe venir  meno  la  sua  terzieta':  non  comprendendosi
perche' non debba essere considerato «terzo» un  giudice  scrupoloso,
il quale intenda evitare di giudicare con informazioni insufficienti,
quando sarebbe possibile colmare le lacune esistenti. 
    Tanto  premesso,  il  giudice  a  quo  reputa  di  dover  aderire
all'interpretazione dominante dell'art. 507 cod. proc.  pen.,  stante
l'«autorevolezza» della decisione ora  ricordata.  Assume,  tuttavia,
che in tale lettura la norma censurata si porrebbe in  contrasto  con
l'art. 111 Cost., in quanto lesiva  del  principio  di  terzieta'  ed
imparzialita' del giudice: principio che  rappresenta  l'«ineludibile
strumento» di attuazione e garanzia del «giusto  processo»  delineato
dalla Carta costituzionale. 
    Ad  avviso  del  rimettente,  non  sarebbe  infatti   convincente
l'affermazione secondo  la  quale  sarebbe  maggiormente  «terzo»  un
giudice  che  acquisisca  d'ufficio  l'intero  materiale  probatorio,
rispetto ad  un  giudice  il  quale  valuti  gli  elementi  di  prova
sottoposti alla sua attenzione dalle parti nel rispetto del codice di
rito,  e   decida,   solo   all'esito   dell'effettivo   espletamento
dell'istruzione dibattimentale, se sia indispensabile  provvedere  ad
una integrazione degli anzidetti elementi. 
    Nell'escludere la lesione del principio  costituzionale  evocato,
la  Corte  di  cassazione  non  avrebbe,  in  effetti,  tenuto  conto
adeguatamente del fatto che, nel caso di specie - tutt'altro che raro
nella pratica - il giudice non si trova di  fronte  ad  un  materiale
probatorio insufficiente o lacunoso, ma all'«inesistenza della  prova
a causa dell'inammissibilita' della lista testimoniale» del  pubblico
ministero. 
    Ne' gioverebbe far leva, in senso  contrario,  sulla  circostanza
che il potere previsto dall'art. 507 cod. proc. pen. e'  esercitabile
solo in caso di «assoluta necessita'». In mancanza di  assunzione  di
prove dell'accusa, l'assoluta necessita'  sarebbe,  infatti,  «in  re
ipsa», essendo evidente che, ove non si avvalesse di detto potere, il
giudice dovrebbe pronunciare una sentenza di assoluzione per  carenza
di prova del fatto contestato. 
    La modifica dell'art. 111 Cost., d'altro canto, se  pure  non  ha
costituzionalizzato il principio dispositivo nel processo penale,  ha
comunque circondato di garanzie oggettive e soggettive l'acquisizione
delle prove  legittimamente  utilizzabili  per  l'affermazione  della
responsabilita'   penale.   Tali   garanzie   verrebbero,   tuttavia,
«inevitabilmente meno» alla luce dell'interpretazione  censurata,  la
quale avrebbe un effetto «abrogante» non soltanto dell'art. 468  cod.
proc. pen. - vanificando la sanzione di inammissibilita' ivi prevista
-  ma  anche  dello  stesso  art.   507   cod.   proc.   pen.   Detta
interpretazione consentirebbe, difatti, al  giudice  -  ed  anzi  gli
imporrebbe (in forza  del  richiamo  all'obbligatorieta'  dell'azione
penale e alla funzione fondamentale del processo  penale  di  ricerca
della verita') - di disporre l'assunzione d'ufficio delle  prove  non
solo nel caso di tardiva presentazione della lista dei testimoni,  ma
anche quando questa non sia stata depositata affatto. E cio', persino
se nel fascicolo del dibattimento non sia  presente  alcun  atto  che
consenta  al  giudice  di  orientarsi   nella   vicenda   processuale
sottoposta al suo esame: con la conseguenza che egli si troverebbe ad
esercitare  il  potere  in  questione  senza  essere   a   conoscenza
dell'identita' dei testimoni, della loro qualifica, delle circostanze
su cui sono chiamati a deporre e, dunque, senza essere  in  grado  di
effettuare una  seria  e  motivata  valutazione  sulla  «rilevanza  e
pertinenza» della prova. 
    2.  -  Nel  giudizio  di  costituzionalita'  e'  intervenuto   il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione  sia
dichiarata inammissibile o infondata. 
    La difesa erariale rileva che la  Corte  costituzionale,  con  la
sentenza n. 111 del 1993, si e' gia' espressa in materia,  affermando
che, se pure il diritto alla prova delle parti ha un  ruolo  centrale
nella struttura del processo (come  attesta  il  rigoroso  regime  di
decadenza dalle prove), non e', tuttavia, possibile da  cio'  dedurre
che tale regime abbia anche un effetto  preclusivo  dell'introduzione
ad iniziativa del giudice delle prove necessarie  per  l'accertamento
dei fatti, rispetto alle quali le parti siano rimaste inerti o  dalle
quali siano decadute. 
    Oltre che da  un  complesso  di  ulteriori  previsioni  -  quali,
segnatamente, quelle degli artt. 189, 190, comma  2,  508,  comma  1,
511, 511-bis e 603, comma 3, cod. proc. pen. - e'  soprattutto  dallo
stesso art. 507 cod. proc. pen. che si  desume  l'inesistenza  di  un
potere dispositivo delle parti in materia di  prova:  norma,  questa,
che - come gia' affermato dalla Corte costituzionale  nella  sentenza
n.  241  del  1992  -  conferisce  al  giudice  il  potere-dovere  di
integrazione, anche d'ufficio, delle prove  nell'ipotesi  in  cui  la
carenza o l'insufficienza,  per  qualsiasi  ragione,  dell'iniziativa
delle parti impedisca al dibattimento di  assolvere  la  funzione  di
assicurare  la  piena  conoscenza  dei  fatti   del   processo,   per
consentirgli di pervenire ad una giusta decisione. 
    La disposizione censurata - connettendosi  alla  lata  previsione
della direttiva enunciata all'art. 2, numero 73, della  legge  delega
n. 81 del 1987 («potere del giudice di disporre l'assunzione di mezzi
di prova») - e' stata, in effetti, introdotta «con una  visione  piu'
realistica della funzione del giudice, che puo' e deve  essere  anche
di supplenza dell'inerzia delle parti». Secondo la citata sentenza n.
111  del  1993,  «il  legislatore  delegante  ha  cioe'   esattamente
considerato -  in  armonia  con  l'obiettivo  di  eliminazione  delle
disuguaglianze di fatto posto dall'art. 3, secondo comma, Cost. - che
la ''parita' delle armi'' delle parti normativamente  enunciata  puo'
talvolta non trovare concreta verifica nella realta' effettuale,  si'
che il fine  della  giustizia  della  decisione  puo'  richiedere  un
intervento riequilibratore del giudice atto a supplire  alle  carenze
di taluna di esse, cosi' evitando assoluzioni o condanne immeritate». 
    Ne' - secondo l'Avvocatura generale  dello  Stato  -  inciderebbe
sulla validita' di tali conclusioni la modifica  apportata  al  testo
dell'art. 111  Cost.  dalla  legge  costituzionale  n.  2  del  1999,
trattandosi di modifica  che  -  per  le  ragioni  evidenziate  dalle
sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza n.  41281  del
2006, citata dallo stesso rimettente - non ha  influito  sull'assetto
codicistico per l'aspetto considerato. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - Il Tribunale di Torino, sezione  distaccata  di  Moncalieri,
dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 507 del codice  di
procedura penale, nella parte  in  cui  -  secondo  l'interpretazione
accolta dalle sezioni unite della Corte di cassazione ed  alla  quale
il rimettente reputa di  dover  aderire  -  consente  al  giudice  di
disporre l'assunzione di nuovi mezzi di prova anche quando si  tratti
di prove dalle quali le parti sono decadute per mancato  o  irrituale
deposito della lista prescritta dall'art. 468 cod. proc.  pen.  e,  a
seguito di tale decadenza, sia mancata ogni acquisizione probatoria. 
    Ad avviso del giudice a quo, la norma  censurata  violerebbe,  in
tale lettura, il principio di terzieta' ed imparzialita' del giudice,
sancito dall'art. 111 della Costituzione quale «cardine» del  «giusto
processo».  Detto  principio  rimarrebbe,  infatti,   inevitabilmente
compromesso  allorche'  il  giudice  non  si  limiti  ad   integrare,
all'esito   dell'istruzione   dibattimentale,   elementi   di   prova
insufficienti o lacunosi sottoposti alla sua attenzione dalle  parti,
ma acquisisca d'ufficio l'intero materiale probatorio  necessario  ai
fini della decisione. 
    Ne' rileverebbe, in senso contrario, la circostanza che il potere
previsto dall'art. 507 cod. proc. pen. sia esercitabile solo in  caso
di «assoluta necessita'»: giacche', in mancanza di prove dell'accusa,
l'assoluta necessita' sarebbe «in re ipsa», essendo evidente che, ove
non si avvalesse di  detto  potere,  il  giudice  dovrebbe  assolvere
l'imputato per carenza di prova del fatto contestato. 
    In tal modo, verrebbero  anche  meno  le  «garanzie  oggettive  e
soggettive» con le quali il nuovo testo dell'art. 111 Cost.  circonda
l'acquisizione   delle   prove   legittimamente   utilizzabili    per
l'affermazione della responsabilita' penale. Non  soltanto,  infatti,
la sanzione di inammissibilita' prevista  dall'art.  468  cod.  proc.
pen. rimarrebbe vanificata, ma il giudice sarebbe costretto  in  ogni
caso ad assumere d'ufficio le prove: e cio', anche  quando  la  lista
delle prove orali, anziche' essere depositata  in  ritardo,  non  sia
stata depositata affatto e non si  rinvenga,  nel  fascicolo  per  il
dibattimento,   alcun   elemento   orientativo,    con    conseguente
insussistenza delle condizioni per effettuare una  seria  e  motivata
valutazione sulla «rilevanza e pertinenza» della prova. 
    2. - La questione non e' fondata. 
    3. - Nel formulare il quesito di  costituzionalita',  il  giudice
rimettente mostra, in effetti, di muovere dall'implicito  presupposto
che il potere di ammissione delle prove previsto dall'art.  507  cod.
proc.  pen.   abbia   carattere   necessariamente   officioso.   Tale
convinzione contrasta, tuttavia, con il  dato  normativo,  dal  quale
emerge inequivocamente, al contrario, che il  potere  in  discussione
puo' essere esercitato dal giudice sia d'ufficio che  su  istanza  di
parte. Lo attestano le parole «anche d'ufficio», presenti nella norma
censurata, e - ancor piu' chiaramente - le previsioni  dell'art.  151
disp. att. cod. proc. pen., essenziali per una corretta esegesi della
disciplina e che, nel regolare l'ordine  di  assunzione  delle  nuove
prove disposte ai sensi dell'art. 507 cod.  proc.  pen.,  distinguono
specificamente, da  un  lato,  la  situazione  attinente  alle  prove
«richieste dalle parti» (comma 1), che devono essere assunte  secondo
l'ordine previsto dall'art. 496 del codice; dall'altro, la situazione
delle prove orali introdotte d'ufficio  dal  giudice  (comma  2),  il
quale da' inizio egli stesso direttamente alla relativa assunzione e,
a seconda dell'esito di essa (favorevole o  no  all'una  o  all'altra
parte), stabilisce poi quale delle due debba condurre l'esame diretto
(ai  sensi  dell'art.  498  cod.  proc.  pen.),  restando  ovviamente
all'altra il diritto all'eventuale controesame. 
    Nella fattispecie oggetto del giudizio a quo e che  ha  suscitato
il dubbio di costituzionalita', si verte, in effetti, nella prima  di
queste due ipotesi. Non si tratta, cioe', di  prove  individuate  dal
giudice, da lui introdotte e alla assunzione delle quali egli  stesso
dovrebbe, almeno in un primo momento, dare corso. Si tratta,  invece,
di prove (nella specie, testimoniali) ricercate da  una  delle  parti
(nella specie, il pubblico ministero) e di cui e' la parte medesima a
chiedere l'ammissione, sia pure non piu' - a  causa  dell'intervenuta
decadenza per tardivo deposito della lista - nell'esercizio pieno del
diritto alla prova previsto dall'art. 190, comma 1, cod.  proc.  pen.
(che imporrebbe al giudice di ammettere le prove stesse, purche'  non
manifestamente irrilevanti o superflue), quanto piuttosto in base  al
diverso e piu' restrittivo criterio considerato dalla norma censurata
(l'assoluta necessita' dell'acquisizione). 
    In questa situazione - indipendentemente da  ogni  considerazione
circa il problema della compatibilita' col  parametro  costituzionale
evocato degli interventi probatori officiosi del  giudice  (tema  sul
quale questa Corte ebbe  a  prendere  posizione,  anteriormente  alla
modifica dell'art. 111 Cost., con la sentenza n. 111 del 1993)  -  il
vulnus lamentato dal giudice a quo  resta  escluso  per  una  ragione
pregiudiziale: e, cioe', che non risulta  configurabile  neppure  una
reale deroga al principio dispositivo, in base al quale il giudice e'
chiamato a giudicare sulla base di quanto allegato  e  provato  dalle
parti. Manca, di conseguenza, in radice la possibilita' di ipotizzare
una lesione del principio di imparzialita' del  giudice  -  principio
cui ineriscono, piu' che  a  quello  di  terzieta',  le  censure  del
rimettente, in  quanto  relative  al  rapporto  tra  giurisdizione  e
decisione - con riguardo al rischio, anche soltanto astratto, di  una
impropria assunzione da parte del giudice di  compiti  dell'accusa  o
della  difesa,  atta  a  trasformarlo  in  un  «alleato»  dell'uno  o
dell'altro dei contendenti. 
    Irrilevante, a tali fini, e' che il parametro  di  esercizio  del
potere previsto dall'art. 507 cod. proc. pen. sia  distinto,  e  piu'
rigoroso, di quello che  presiede  in  via  ordinaria  all'ammissione
delle prove in virtu' dell'art. 190, comma 1, cod. proc. pen. E cio',
specie ove  si  consideri  che,  secondo  quanto  affermato  in  piu'
occasioni dalla giurisprudenza di legittimita' (sia pure  nell'ambito
di un panorama interpretativo non privo di oscillazioni), ove ricorra
il presupposto dell'assoluta necessita' dell'assunzione,  l'esercizio
del potere in discorso - segnatamente se sollecitato dalle parti - e'
doveroso   per   il   giudice,   non   essendo   rimessa   alla   sua
discrezionalita' la  scelta  tra  l'acquisizione  della  prova  e  il
proscioglimento (o la condanna) dell'imputato (si  tratta,  dunque  -
non diversamente da quello previsto  dall'art.  190,  comma  1,  cod.
proc. pen. - di un potere-dovere). 
    Ne' vale obiettare che, allorche' il giudice ripristina,  tramite
l'applicazione dell'art. 507 cod. proc. pen., poteri probatori da cui
una parte e' decaduta, finisce inevitabilmente per  favorire  questa,
collaborando, di fatto - laddove essa  si  identifichi  nel  pubblico
ministero - alla costruzione della piattaforma probatoria d'accusa in
una situazione nella quale dovrebbe altrimenti  assolvere  l'imputato
per carenza di prova del fatto contestato. Vero  e'  che  l'esercizio
del potere di cui all'art. 507 cod. proc.  pen.  puo'  ridondare,  in
concreto, a potenziale vantaggio della parte che sollecita  la  prova
(peraltro, solo in via di ipotesi, la cui realizzazione  e'  comunque
sempre  legata  al  concreto  risultato  probatorio,  al  quale  puo'
concorrere e sul quale  puo'  incidere  la  controparte  mediante  il
controesame). Ma cio'  non  puo'  essere  concepito  come  indice  di
«parzialita'»: l'ammissione di una prova a richiesta di  parte  giova
sempre, per definizione, a chi, avendo formulato la richiesta  stessa
(tempestiva o tardiva che  sia),  si  veda  accordato  uno  strumento
argomentativo da impiegare a sostegno della propria tesi e pur sempre
sottoposto alla verifica della escussione dialettica  dibattimentale.
La prospettiva del giudice e', in effetti, diversa  da  quella  della
parte: il giudice ammette la prova in  quanto  risponda  al  criterio
legale, parametrato sulla sua idoneita' a  permettere  una  decisione
causa cognita (nella specie, in termini  di  indispensabilita');  che
poi la prova, una volta introdotta nel processo,  torni  a  beneficio
della parte istante e' una delle possibili conseguenze naturali,  non
un  dato  che  entri  nella  valutazione  del  giudice  in  sede   di
ammissione. 
    4. - Nelle considerazioni che precedono e' gia' insita, per altro
verso, l'infondatezza dell'ulteriore assunto del rimettente,  secondo
il  quale  l'interpretazione  censurata  vanificherebbe  la  sanzione
dell'inammissibilita', prevista dall'art. 468, comma  1,  cod.  proc.
pen. per il mancato o irrituale deposito della  lista  dei  testimoni
(ovvero dei periti, dei consulenti tecnici o delle  persone  indicate
nell'art. 210 cod. proc. pen.) di cui  le  parti  intendano  chiedere
l'esame. 
    A prescindere dalla scarsa  pertinenza  di  tale  deduzione  alla
censura di compromissione dell'imparzialita' del giudice  -  evocando
essa, semmai, un profilo di incongruenza del  sistema  -  le  sezioni
unite della Corte di cassazione hanno adeguatamente  evidenziato,  in
entrambe le pronunce citate dallo stesso giudice a  quo  (sentenze  6
novembre 1992-21  novembre  1992,  n.  11227  e  17  ottobre  2006-18
dicembre 2006, n. 41281),  che  diritto  delle  parti  alla  prova  e
potere(-dovere) di ammissione della prova ai sensi dell'art. 507 cod.
proc. pen. hanno parametri diversi: negativo il primo (non  manifesta
superfluita'  o   irrilevanza);   positivo   la   seconda   (assoluta
necessita'). 
    L'esercizio del potere di cui all'art. 507 cod.  proc.  pen.  non
«neutralizza», pertanto, la sanzione di inammissibilita',  in  quanto
la parte decaduta ai sensi dell'art. 468, comma 1,  cod.  proc.  pen.
rischia di vedersi comunque denegata, o ristretta, l'ammissione delle
prove a suo favore: e cio', anche nel caso in cui non  vi  sia  stata
alcuna precedente acquisizione probatoria. 
    5.  -  Ovviamente   si   deve   rispettare   il   principio   del
contraddittorio e il diritto di difesa, assicurando  alla  parte  che
subisce il recupero della  prova  avversaria  (nel  caso  di  specie,
l'imputato) adeguati strumenti «di reazione», che gli  consentano  di
contrastare le conseguenze di comportamenti della controparte elusivi
del divieto di prove a sorpresa, ad evitare le quali  e'  preordinata
la discovery prevista dall'art. 468, comma 1, cod. proc. pen. 
    Al riguardo, e' pacifico nella giurisprudenza di legittimita' - e
viene rimarcato anche dalle sezioni unite della Corte  di  cassazione
nelle sentenze dianzi citate - che, pur in assenza  di  una  espressa
indicazione normativa in tale senso, nel caso di esercizio del potere
qui in esame, spetta ad ogni  parte  con  interesse  contrapposto  il
diritto alla prova contraria ai sensi dell'art. 495,  comma  2,  cod.
proc. pen.; diritto del quale devono essere garantiti,  peraltro,  in
concreto, anche le condizioni e i tempi di esercizio, secondo  quanto
gia'  previsto  dall'art.  6,  comma  3,  lettere  b)  e  d),   della
Convenzione europea dei diritti  dell'uomo  e  dall'art.  111,  terzo
comma, Cost. 
    6. - Ogni altro rilievo proposto dal giudice a quo  con  riguardo
al parametro  costituzionale  evocato  non  risulta  pertinente  alla
situazione di specie. 
 
                          Per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    Dichiara non fondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art.  507  del  codice  di  procedura  penale,   sollevata,   in
riferimento all'art. 111 della Costituzione, dal Tribunale di Torino,
sezione  distaccata  di  Moncalieri,  con  l'ordinanza  indicata   in
epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010. 
 
                       Il Presidente: Amirante 
 
 
                         Il redattore: Frigo 
 
 
                      Il cancelliere: Di Paola 
 
        Depositata in cancelleria il 26 febbraio 2010. 
 
              Il direttore della cancelleria: Di Paola