N. 250 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 gennaio 2010

Ordinanza del 20 gennaio 2010 emessa  dal  G.U.P.  del  Tribunale  di
Modena nel procedimento penale a carico di Santi Pier Luigi ed altro. 
 
Processo penale - Giudizio abbreviato - Deposito del fascicolo  delle
  investigazioni difensive  e  richiesta  di  giudizio  abbreviato  -
  Mancata previsione di un termine processuale per  il  deposito  del
  fascicolo con la facolta' del pubblico ministero di  esercitare  il
  diritto alla controprova -  Lesione  del  principio  della  parita'
  delle parti. 
- Codice di procedura penale, artt. 391-octies e 442, comma 1-bis. 
- Costituzione, art. 111. 
(GU n.37 del 15-9-2010 )
 
                            IL TRIBUNALE 
 
    In data 17 dicembre 2007 il p.m. esercitava l'azione  penale  nei
confronti di Santi Pier Luigi  e  Santi  Giorgio  per  una  serie  di
violazioni al decreto legislativo n. 74/2000. 
    In particolare, al primo veniva contestato (capi A,  B  e  C)  di
avere indicato, nella sua qualita' di vice presidente del  CdA  della
societa' Interauto Import S.p.A. e  firmatario  delle  dichiarazioni,
nelle dichiarazioni dei redditi  2004,  2005  e  2006  una  serie  di
fatture - per operazioni inesistenti - quali elementi passivi fittizi
annotati  nel  conto  intestato  «provvigioni   a   procacciatori   e
segnalatori vendite» e  confluiti  nella  voce  del  conto  economico
«costi della produzione». 
    Al secondo veniva contestato  di  avere  emesso  i  tre  seguenti
gruppi di fatture, nella sua qualita' di legale rappresentante  della
societa' Interauto Import S.p.A., per operazioni inesistenti: a)  una
fattura nel 2005 (capo D); b) 61 fatture nel 2006  (capo  E);  c)  17
fatture nel 2007 (capo F). 
    La contestazione sub D riguarda una fattura  recante  la  causale
«addebito per collaborazione direzionale prestata durante i  mesi  da
maggio a settembre 2005 del nostro direttore generale  dott.  Michele
Hillebrand e direttore commerciale sig. Sassi Eugenio». 
    Le contestazioni sub E ed F - di  gran  lunga  le  piu'  gravi  -
ipotizzano una frode commerciale IVA della societa' Interauto  Import
S.p.A. nell'ambito  dei  rapporti  da  questa  intrattenuti  con  una
societa'  avente  sede  nella  Repubblica  di   San   Marino:   viene
contestato,  in  particolare,  il  noto   meccanismo   delle   «frodi
carosello» poste  in  essere  mediante  la  costituzione  di  diverse
societa', cosiddette «cartiera» una delle  quali  avente  sede  nella
Repubblica di San Marino e ad altre sul territorio nazionale. 
    In ipotesi di  accusa,  Interauto  S.p.A.  alimenta  il  circuito
commerciale attraverso numerose cessioni - puramente cartolari  -  di
autovetture alla societa' sanmarinese, ben sapendo, in  realta',  che
le stesse sono destinate effettivamente a rivenditori nazionali,  dai
quali incassavano l'IVA e provvedevano al relativo versamento. 
    Le  fonti  di  prova  sono  rappresentate  dalla   documentazioni
contabile sequestrata e  dalle  informative  del  Nucleo  di  Polizia
Tributaria della GdF di Modena che illustrano gli accertamenti svolti
ed il meccanismo ritenuto in frode all'erario. 
    Il giudice, ricevuta la richiesta di rinvio a giudizio, disponeva
la fissazione dell'udienza preliminare in camera di consiglio dando i
prescritti avvisi alle parti. 
    All'odierna udienza,  veniva  sollevata  d'ufficio  questione  di
legittimita' costituzionale della norma sopra indicata. 
    Il caso in  esame  puo'  essere  cosi  riassunto:  verificata  la
regolare costituzione del rapporto processuale, il difensore chiedeva
autorizzazione alla produzione del fascicolo  di  indagini  difensive
contenenti consulenza tecnica e due sentenze, una  della  Commissione
provinciale e l'altra della Commissione regionale Tributaria che,  in
accoglimento  dei  ricorsi   presentati   avverso   gli   avvisi   di
accertamento della Agenzia delle entrate in  relazione  alle  fatture
contestate ai capi d'accusa, ne disponeva l'annullamento  sulla  base
della  inidoneita'  degli   elementi   raccolti   a   comprovare   la
corresponsabilita' della societa' Interauto S.p.A.  nella  frode  iva
accertata, non ritenendo che si potesse dubitare  della  effettivita'
delle cessioni di autovetture oggetto di indagine. 
    La consulenza tecnica ha ad oggetto la descrizione del  Residence
Pineta dove  le  autovetture  venivano  parcheggiate  dalla  societa'
sanmarinese  e  che,  in  ipotesi   di   accusa,   dimostrebbero   il
coinvolgimento della societa' Interauto nel meccanismo fraudolento. 
    Il  giudice  ha  disposto  l'acquisizione  del  fascicolo   delle
indagini  difensive  nel   fascicolo   processuale   e,   in   rapida
successione, il difensore degli imputati, in esecuzione della procura
speciale conferita, chiedeva la definizione del procedimento  con  le
forme del rito abbreviato. 
    Tutto cio' premesso, sulla rilevanza della proponenda  questione,
ritiene  il  giudice  dell'udienza  preliminare  che   il   compendio
probatorio confluito nel fascicolo processuale attraverso le indagini
difensive  ritualmente  svolte  sia  potenzialmente   in   grado   di
sovvertire le conclusioni alle quali e' giunto il p.m. ma, nonostante
cio',  questi  non  abbia  alcun  potere   di   attivare   meccanismi
processuali di risposta e, in ultima analisi, il giudice,  incamerata
la rituale  richiesta  di  giudizio  abbreviato,  si  trovi  a  dover
decidere il merito della causa alla luce di una situazione di  chiara
asimmetria tra le parti processuali. 
    La questione e',  pertanto,  rilevante  perche'  il  giudizio  di
merito dipende direttamente dalla applicazione  delle  norme  che  si
censurano: art. 442 comma 1-bis e 391-octies c.p.p. 
    Venendo, infatti, al giudizio di non manifesta infondatezza della
questione  il  giudice  ravvisa  un  contrasto   con   il   principio
costituzionale del contraddittorio nella formazione della prova ed in
particolare nella «parita' delle armi» tra le parti processuali. 
    Il giudice non ignora che la Corte costituzionale e'  stata  piu'
volte  investita  del   tema   con   una   serie   di   pronunce   di
inammissibilita' non prive, pero', di indicazioni interpretative  che
acquistano nuova «luce» in  ragione  delle  specificazioni  contenute
nella recente sentenza della Corte costituzionale n. 184/2009. 
    E cosi' nella sentenza n. 245 del 2005 di puntualizzava che  «che
il rimettente,  nell'esprimere  le  ragioni  per  cui  il  potere  di
assumere, eventualmente anche d'ufficio, gli elementi necessari  alla
decisione, attribuito al giudice dall'art. 441, comma 5,  cod.  proc.
pen. , non sarebbe idoneo a rendere la disciplina censurata  conforme
a Costituzione,  trascura  di  considerare  che  nel  nuovo  giudizio
abbreviato il potere di integrazione probatoria e' configurato  quale
strumento di tutela dei valori costituzionali che  devono  presiedere
l'esercizio della funzione giurisdizionale, sicche'  proprio  a  tale
potere il giudice dovrebbe fare ricorso per assicurare il rispetto di
quei valori; che  inoltre  il  giudice  a  quo,  pur  richiamando  la
giurisprudenza di questa Corte in tema di "continuita' investigativa"
con riferimento alla possibilita' per la parte  privata  di  produrre
gli atti  delle  indagini  difensive  anche  nel  corso  dell'udienza
preliminare (sentenze n. 238 del 1991 e n. 16 del  1994),  omette  di
motivare sul  perche'  non  abbia  ritenuto  di  dare  attuazione  al
principio secondo  il  quale  a  ciascuna  delle  parti  va  comunque
assicurato il diritto di esercitare il  contraddittorio  sulle  prove
addotte "a sorpresa" dalla  controparte,  in  modo  da  "contemperare
l'esigenza  di  celerita'  con  la  garanzia  dell'effettivita'   del
contraddittorio", anche attraverso differimenti delle udienze congrui
rispetto "alle singole, concrete fattispecie"  (oltre  a  quelle  ora
citate, v.  sentenza  n.  203  del  1992);  che  prima  di  sollevare
questione di legittimita' costituzionale il rimettente avrebbe quindi
dovuto esplorare la concreta praticabilita' delle  soluzioni  offerte
dall'ordinamento al fine di porre  rimedio  alla  denunciata  anomala
sperequazione tra accusa e  difesa;  che  la  questione  va  pertanto
dichiarata manifestamente inammissibile». 
    Nella sentenza n. 62 del 2007 si affermava «che,  tuttavia,  onde
porre rimedio  alla  denunciata  incostituzionalita',  il  rimettente
prospetta  tre  diverse  soluzioni  in  rapporto  di   alternativita'
irrisolta,  invocando  una  pronuncia  che  vieti  al  difensore   di
depositare il fascicolo delle  investigazioni  difensive  e  chiedere
contestualmente  il  giudizio  abbreviato;  ovvero  che  consenta  al
giudice, nel caso di richiesta del rito  alternativo,  di  dichiarare
inutilizzabili  gli  atti  contenuti  nel  fascicolo  del  difensore;
ovvero, ancora, che  permetta  al  pubblico  ministero,  nell'ipotesi
considerata, di chiedere l'ammissione  della  prova  contraria;  che,
pertanto - in conformita'  alla  costante  giurisprudenza  di  questa
Corte  -  la  questione   deve   essere   dichiarata   manifestamente
inammissibile, in quanto prospettata in forma ancipite (ex  plurimis,
ordinanze n. 363 del 2005, n. 192 del 2004,  n.  299  e  n.  128  del
2003)». 
    Con sentenza n. 184 del 2009 la Corte ha risposto  negativamente,
dichiarando  la  questione  infondata,  alla  richiesta  del  giudice
remittente  di  dichiarare  inutilizzabili  gli  atti   di   indagine
difensiva  nel  giudizio  abbreviato.  Tale  sanzione,   secondo   il
remittente, era da ricollegare alla circostanza, ritenuta patologica,
che un atto formato  unilateralmente,  venisse  utilizzato  senza  il
consenso della parte rimasta esclusa dalla sua assunzione. 
    La Corte, invece, andando di contrario avviso  ha  affermato  «il
senso della scelta costituzionale [in relazione all'art.  111  Cost.,
n.  d.e.],  sul  versante  che   qui   interessa,   e'   in   realta'
immediatamente percepibile. Nel momento stesso  in  cui  prevede  una
deroga basata sul "consenso dell'imputato" (e non gia' sul  "consenso
delle parti" o  della  "parte  contro  interessata"),  ponendola  per
giunta al vertice della terna di ipotesi derogatorie ivi contemplate,
il quinto  comma  dell'art.  111  Cost.  rivela  chiaramente  che  il
principio  del  contraddittorio  nel  momento  genetico  della  prova
rappresenta  precipuamente   -   nella   volonta'   del   legislatore
costituente - uno  strumento  di  salvaguardia  "del  rispetto  delle
prerogative dell'imputato" (in questi termini, si veda la sentenza n.
29 del 2009). 
    Questa  ultima  previsione  non   implica,   tuttavia,   che   il
legislatore  ordinario  sia   tenuto   a   rendere   sistematicamente
disponibile  il  contraddittorio  nella   formazione   della   prova,
prevedendone  la  caduta  ogni  qualvolta  l'imputato  manifesti  una
volonta' in tale senso. L'enunciato normativo - "la  legge  regola  i
casi [...]" -  si  atteggia  difatti,  per  tale  verso,  in  termini
permissivi:  esso  legittima,  cioe',  il  legislatore  ordinario   a
prevedere ipotesi nelle quali il consenso  dell'imputato,  unitamente
ad altri presupposti, determina una piu' o meno ampia acquisizione di
elementi di prova formati unilateralmente; e  cio',  in  particolare,
ove  si  intenda  assecondare  esigenze  di   economia   processuale,
lasciando spazio - allorche' il soggetto, nel cui precipuo  interesse
la garanzia e' posta, ritenga di potervi  rinunciare  -  ad  istituti
idonei a contenere i tempi occorrenti per la definizione del processo
e le risorse in esso impiegate. Laddove e' peraltro implicito che  la
fattispecie debba essere comunque  configurata  in  maniera  tale  da
assicurare uno svolgimento equilibrato del processo, evitando che  la
rinuncia al contraddittorio  da  parte  dell'imputato  pregiudichi  a
priori la correttezza della decisione». 
    La Corte prosegue elencando vari casi di  accordo  tra  le  parti
sulla base cognitiva del giudizio e specificando che il principio  di
parita' non  impone  la  piena  reciprocita'  del  consenso  su  ogni
questione, perche' cio'  contrasterebbe  con  la  lettera  del  comma
quinto dell'art. 111 Cost. 
    Piuttosto la norma impegna «il legislatore ordinario  ad  evitare
che  i  presupposti  e  le  modalita'  operative  del  riconoscimento
all'imputato della facolta' di rinunciare alla formazione della prova
in  contraddittorio  determinino  uno  squilibrio  costituzionalmente
intollerabile tra le posizioni  dei  contendenti  o  addirittura  una
alterazione del sistema». 
    Orbene, nel giudizio abbreviato cosi' come strutturato  nel  caso
sottoposto al vaglio del remittente,  la  rinuncia  dell'imputato  al
contraddittorio attuata con la scelta del rito abbreviato  pregiudica
la correttezza della decisione «a priori» poiche' introduce  elementi
da sottoporre al p.m. e al  giudice  per  la  valutazione  del  tutto
svincolati  da  ogni  possibilita',   per   il   contraddittore,   di
dimostrarne la fallacia o l'inconsistenza o anche solo la ininfluenza
rispetto al quadro accusatorio complessivo. In definitiva, si crea un
evidente vulnus al principio della parita' delle parti. 
    Sul contenuto di tale principio vanno richiamate alcune importati
considerazioni svolte dalla Corte costituzionale con sentenza  n.  26
del 2007. 
    «Anche dopo la novella costituzionale, resta pertanto  pienamente
valida l'affermazione - costante nella giurisprudenza anteriore della
Corte (ex plurimis, sentenze n. 98 del 1994, n. 432 del 1992 e n. 363
del 1991; ordinanze n. 426 del 1998, n. 324 del 1994  e  n.  305  del
1992) - secondo la  quale,  nel  processo  penale,  il  principio  di
parita' tra accusa e difesa non comporta necessariamente  l'identita'
tra  i  poteri  processuali   del   pubblico   ministero   e   quelli
dell'imputato:  potendo  una  disparita'  di  trattamento  "risultare
giustificata, nei limiti della ragionevolezza,  sia  dalla  peculiare
posizione istituzionale del pubblico ministero,  sia  dalla  funzione
allo  stesso  affidata,  sia  da  esigenze  connesse  alla   corretta
amministrazione della giustizia" (ordinanze n. 46 del  2004,  n.  165
del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001). 
    Alla  luce  di  tale  consolidato  indirizzo,   le   fisiologiche
differenze che connotano le posizioni delle due parti necessarie  del
processo penale, correlate alle diverse condizioni di operativita'  e
ai differenti interessi dei  quali,  anche  alla  luce  del  precetti
costituzionali, le parti stesse sono portatrici -  essendo  l'una  un
organo pubblico che agisce nell'esercizio di un potere e a tutela  di
interessi collettivi; l'altra  un  soggetto  privato  che  difende  i
propri  diritti  fondamentali  (in   primis,   quello   di   liberta'
personale), sui quali inciderebbe una eventuale sentenza di  condanna
- impediscono di ritenere che il principio di parita' debba (e possa)
indefettibilmente tradursi, nella cornice di  ogni  singolo  segmento
dell'iter processuale, in un'assoluta simmetria di poteri e facolta'.
Alterazioni  di  tale  simmetria  -  tanto  nell'una  che  nell'altra
direzione (ossia tanto a vantaggio della parte pubblica che di quella
privata) - sono invece compatibili con il principio  di  parita',  ad
una duplice condizione: e, cioe', che esse,  per  un  verso,  trovino
un'adeguata  ratio  giustificatrice  nel  ruolo   istituzionale   del
pubblico ministero, ovvero  in  esigenze  di  funzionale  e  corretta
esplicazione della giustizia penale,  anche  in  vista  del  completo
sviluppo di finalita' esse pure costituzionalmente rilevanti; e,  per
un altro verso, risultino comunque contenute - anche in un'ottica  di
complessivo riequilibrio dei poteri, avuto riguardo  alle  disparita'
di segno opposto riscontrabili in fasi del procedimento  distinte  da
quelle in cui s'innesta la singola  norma  discriminatrice  avuta  di
mira (si vedano le sentenze n. 115 del 2001 e n. 98 del 1994) - entro
i limiti della ragionevolezza. 
    Tale vaglio di ragionevolezza  va  evidentemente  condotto  sulla
base del rapporto comparativo tra la ratio che  ispira,  nel  singolo
caso, la  norma  generatrice  della  disparita'  e  l'ampiezza  dello
"scalino" da essa  creato  tra  le  posizioni  delle  parti:  mirando
segnatamente  ad   acclarare   l'adeguatezza   della   ratio   e   la
proporzionalita'  dell'ampiezza  di   tale   "scalino"   rispetto   a
quest'ultima. Siffatta verifica non puo' essere pretermessa, se non a
prezzo di un sostanziale svuotamento, in parte  qua,  della  clausola
della parita' delle parti: non potendosi ipotizzare, ad esempio,  che
la posizione di vantaggio di cui  fisiologicamente  fruisce  l'organo
dell'accusa nella fase delle indagini preliminari,  sul  piano  della
ricchezza degli strumenti investigativi - posizione di vantaggio  che
riflette il ruolo istituzionale di detto organo, avuto riguardo anche
al  carattere  "invasivo"  e  "coercitivo"   di   determinati   mezzi
d'indagine - abiliti di per se'  sola  il  legislatore,  in  nome  di
un'esigenza di "riequilibrio", a qualsiasi deminutio, anche  la  piu'
radicale, dei poteri del pubblico ministero nell'ambito di  tutte  le
successive  fasi.  Una  simile  impostazione  -  negando,  di  fatto,
l'esistenza  di  limiti   di   compatibilita'   costituzionale   alla
distribuzione  asimmetrica   delle   facolta'   processuali   tra   i
contendenti - priverebbe di ogni  concreta  valenza  la  clausola  di
parita': risultato, questo, tanto meno accettabile a fronte della sua
attuale assunzione ad espresso ed autonomo precetto costituzionale. 
    Il principio  in  parola  non  e'  infatti  suscettibile  di  una
interpretazione riduttiva,  quale  quella  che  -  facendo  leva,  in
particolare, sulla connessione proposta dall'art. 111, secondo comma,
Cost. tra  parita'  delle  parti,  contraddittorio,  imparzialita'  e
terzieta' del giudice - intendesse negare alla parita' delle parti il
ruolo di connotato essenziale dell'intero  processo,  per  concepirla
invece come garanzia riferita al solo procedimento probatorio: e cio'
al fine di desumerne che l'unico mezzo d'impugnazione, del  quale  le
parti dovrebbero indefettibilmente fruire in modo paritario,  sia  il
ricorso per cassazione per violazione di  legge,  previsto  dall'art.
111, settimo comma, Cost. 
    Una simile ricostruzione  finirebbe  difatti  per  attribuire  al
principio di  parita'  delle  parti,  in  luogo  del  significato  di
riaffermazione processuale dei principi di cui all'art. 3 Cost.,  una
antitetica valenza derogatoria di questi ultimi: soluzione tanto meno
plausibile a fronte del tenore letterale della norma  costituzionale,
nella  quale  la  parita'  delle  parti  e'  enunciata  come   regola
generalissima, riferita indistintamente ad "ogni  processo"  e  senza
alcuna  limitazione  a  determinati  momenti  o   aspetti   dell'iter
processuale. Ne' puo' trarsi argomento, in contrario, dallo specifico
risalto che il legislatore  costituzionale  ha  inteso  assegnare  al
valore del  contraddittorio  nel  processo  penale,  attestato  dalle
puntuali "direttive" al riguardo impartite nel quarto  e  nel  quinto
comma dell'art. 111 Cost.: non potendosi ritenere,  anche  sul  piano
logico,  che   tale   distinto   valore   -   anziche'   affiancarsi,
rafforzandolo, al principio di parita' - sia destinato  ad  esplicare
un ruolo limitativo del  medesimo;  cosi'  da  legittimare  l'idea  -
palesemente inaccettabile rispetto ad altri tipi di processo,  quale,
ad esempio, il processo civile - per cui,  nel  processo  penale,  la
clausola di parita' opererebbe solo nei confini del  procedimento  di
formazione della prova». 
    Cio' posto, del problema della parita' delle parti  la  Corte  ha
dimostrato di essere pienamente consapevole e ha adottato un criterio
risolutivo - in chiave di compatibilita' costituzionale - che  impone
al giudice del caso concreto di modulare la risposta  processuale  al
fine di porre rimedio  alla  eventuale  sperequazione  tra  accusa  e
difesa che si presenti nei casi come quello ora sottoposto al  vaglio
di costituzionalita'. 
    In realta', ritiene il giudice - e cio' proprio alla  luce  delle
specificazioni contenute nella citata sentenza della Corte  cost.  n.
184/2009 e del  criterio  orientativo  contenuto  nella  sentenza  n.
27/2007  -  che  si  determini  uno   squilibrio   costituzionalmente
intollerabile tra i contendenti poiche' la produzione  del  fascicolo
delle  indagini  difensive  avviene  in  limine  con  successiva   ed
immediata richiesta di giudizio abbreviato. 
    Si e', pertanto, di presenza di una prova a sorpresa  che,  (piu'
facilmente  percepibile)  se  dotata   di   elementi   potenzialmente
suscettibili di porre in crisi l'impianto accusatorio del p.m.,  crea
uno squilibrio tra le parti che  non  puo'  essere  «sanato»  con  un
semplice rinvio dando «termine» al p.m. per prendere  cognizione  del
fascicolo delle indagini difensive e prepararsi alle conclusioni  per
il merito della causa. 
    La   modulazione   dell'udienza   preliminare   attraverso   tale
meccanismo processuale non colma, in altri termini, la situazione  di
impotenza processuale in cui si trova il p.m. in  un  momento  topico
del procedimento: l'organo inquirente, infatti, dovra'  discutere  il
merito  della  causa  senza  poter  dimostrare   con   propri   mezzi
processuali la fallacia della impostazione difensiva. 
    Posto che «a ciascuna  delle  parti  va  comunque  assicurato  il
diritto di esercitare  il  contraddittorio  sulle  prove  addotte  "a
sorpresa" dalla controparte, in modo da "contemperare  l'esigenza  di
celerita' con la  garanzia  dell'effettivita'  del  contraddittorio",
anche attraverso differimenti delle udienze  congrui  rispetto  "alle
singole, concrete fattispecie"» (Corte cost. n. 245/2005), non vi  e'
dubbio che l'insufficienza del rimedio processuale  del  differimento
dell'udienza emerge dalla circostanza che non si tratta  di  prendere
visione o cognizione di quanto prodotto, ma di consentire al p.m.  di
«misurarsi» su quella prova sul piano del contraddittorio, investendo
pertanto la  questione  proprio  ed  esclusivamente  un  problema  di
parita' tra le parti e di  equilibrio  dei  poteri  in  gioco  tra  i
contendenti. 
    Ne' puo' ritenersi - come sembra potersi dedurre  dalla  sentenza
della Corte cost. n. 245/2005 - che tale lacuna possa essere  colmata
dal giudice con l'attivazione del meccanismo  di  cui  all'art.  441,
comma  V  c.p.p.:  invero,  presupposti,   condizioni   e   finalita'
dell'istituto sono del tutto diversi dalla situazione processuale che
si sottopone al vaglio della Corte. 
    Essa  presuppone,  infatti,   l'apprezzamento   di   una   lacuna
probatoria (che  nella  situazione  processuale  in  esame  puo'  non
esservi anche alla  luce  dell'integrazione  istruttoria  proveniente
dalla difesa) e il carattere necessario  della  sua  acquisizione  ai
fini della decisione (requisito non richiesto per lo svolgimento e la
produzione di indagini difensive). 
    Di tali circostanza sembra essere pienamente consapevole la Corte
costituzionale che con la sentenza  n.  184/2009  ha  confermato  che
l'art. 111 Cost. «si  atteggia  in  termini  permissivi»:  autorizza,
cioe', il legislatore ordinario a prevedere ipotesi  nelle  quali  il
consenso dell'imputato determini una piu' o meno  ampia  acquisizione
di elementi di prova formati unilateralmente, ma nel caso di rinuncia
al contraddittorio, «lascia spazio ad istituti idonei a  contenere  i
tempi occorrenti per la definizione del processo e le risorse in esso
impiegate». 
    Significativa appare la circostanza che  la  Corte  prosegua  nel
citare varie  ipotesi  di  accordo  tra  le  parti  come  esempi  del
carattere «permissivo» dell'art. 111 Cost.  come  precisato,  ma  ne'
specifica gli «istituti idonei» di cui sopra, ne' vi inserisce l'art.
441 comma V c.p.p. 
    In realta',  allo  squilibrio  tra  le  parti  contendenti  sopra
denunciato si aggiunge  una  «alterazione  del  sistema»  cosi'  come
paventato dalla Corte costituzionale poiche'  il  meccanismo  attuato
dalla difesa si pone, a ben vedere,  in  chiave  di  chiara  elusione
della regola processuale di cui all'art. 438, quinto comma c.p.p. 
    L'imputato  potrebbe,  infatti,  richiedere  di  subordinare   il
giudizio abbreviato alla acquisizione  delle  prove  che  sono  state
assunte con gli strumenti di cui all'art. 391-bis  e  ss  c.p.p.:  ma
cio' comporterebbe per la difesa l'onere  di  dimostrare  che  quella
prova e' necessaria per  la  decisione  nonche'  compatibile  con  le
finalita' di economia processuale del procedimento; ma,  soprattutto,
esporrebbe l'imputato alla piena esplicazione del contraddittorio con
la possibilita' del p.m. di chiedere l'ammissione di prova contraria. 
    Tutti questi «paletti processuali» vengono elusi sistematicamente
dalla possibilita' di produrre al fascicolo processuale  le  indagini
difensive che si ritengono pertinenti e di rinunciare subito dopo  al
contraddittorio  con  la  richiesta  di   giudizio   abbreviato   non
condizionato. 
    Cio', all'evidenza, comporta un meccanismo di introduzione  degli
elementi di valutazione all'interno del  fascicolo  processuale  che,
senza controllo del giudice e  senza  poteri  processuali  del  p.m.,
determinano  una  alterazione  del  sistema   rispetto   all'impianto
originario del giudizio abbreviato cosi' come congeniato dagli  artt.
438-443 c.p.p. 
    L'alterazione della  simmetria  parte  pubblica-parte  privata  a
vantaggio di quest'ultima  e  derivante  dal  meccanismo  processuale
«produzione  fascicolo  indagini  difensive-richiesta   di   giudizio
abbreviato» non e' compatibile con  il  principio  di  parita'  delle
parti  poiche'  per  un  verso   non   trova   una   adeguata   ratio
giustificatrice del ruolo istituzionale del p.m. (che non  ha  poteri
processuali  autonomi  in  una  fase   determinante   dell'esito   di
giudizio);  per  altro  verso  non  e'  contenuta  entro  limiti   di
ragionevolezza poiche' crea uno «scalino» (Corte  cost.  n.  26/2007)
rilevante tra  opzioni  difensive  e  poteri  del  p.m.  nel  momento
decisivo della valutazione delle prove e della decisione  del  merito
della causa. 
    Lo squilibrio tra le parti contendenti  necessita,  a  parere  di
questo giudice, di un intervento additivo della Corte che,  incidendo
sull'art. 391-octies comma I c.p.p. e 442 comma I-bis c.p.p. - rilevi
la mancanza di un termine  per  la  presentazione  al  giudice  degli
elementi di  prova  a  favore  del  proprio  assistito  nel  caso  di
proposizione di giudizio abbreviato. 
    L'alterazione di sistema denunciata  impone,  d'altro  canto,  di
riconoscere,  in  caso  di  produzione  di  fascicolo  con   indagini
difensive e successiva richiesta di giudizio abbreviato, al  p.m.  di
richiedere l'ammissione a prova contraria. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visti gli artt. 136 Cost., 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Dichiara rilevante e non manifestamente  infondata  in  relazione
all'art. 111 Cost. la questione di legittimita' costituzionale  degli
art. 391-octies c.p.p. e 442 comma 1-bis c.p.p. nella  parte  in  cui
non  prevedono,  nell'ipotesi  di  deposito   del   fascicolo   delle
investigazioni  difensive  e  richiesta  di  giudizio  abbreviato  un
termine processuale per il deposito del  predetto  fascicolo  con  la
facolta' del p.m. di esercitare il diritto alla controprova. 
    Sospende il presente giudizio e  dispone  la  trasmissione  degli
atti alla Corte costituzionale. 
    Dispone che copia della presente ordinanza sia comunicata, a cura
della cancelleria, al Presidente  del  Senato,  al  Presidente  della
Camera dei deputati e al Presidente del Consiglio dei ministri. 
    Manda alla cancelleria per gli adempimenti di competenza. 
        Modena, addi' 20 gennaio 2010 
 
           Il Giudice per le indagini preliminari: Truppa