N. 294 SENTENZA 4 - 8 ottobre 2010

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Impiego pubblico - Sospensione ex lege dal  servizio  dei  dipendenti
  pubblici  a  seguito  di  condanna,  anche  non   definitiva,   per
  determinati delitti - Irrilevanza dell'intervenuta  estinzione  del
  reato  per  prescrizione  -  Eccezione  di  inammissibilita'  della
  questione per irrilevanza della normativa impugnata - Reiezione. 
- Legge 27 marzo 2001, n. 97, art. 4, comma 1. 
- Costituzione, artt. 3, 4, 24, 35, 36 e 97. 
Impiego pubblico - Sospensione ex lege dal  servizio  dei  dipendenti
  pubblici  a  seguito  di  condanna,  anche  non   definitiva,   per
  determinati delitti - Irrilevanza dell'intervenuta  estinzione  del
  reato per prescrizione -  Denunciata  violazione  dei  principi  di
  ragionevolezza,  di  proporzionalita'  e  di  uguaglianza,  nonche'
  asserita lesione del diritto di difesa  e  dell'effettivo  e  pieno
  diritto al lavoro  ed  alla  giusta  retribuzione  -  Richiesta  di
  intervento  in  materia   riservata   alla   discrezionalita'   del
  legislatore   -   Carente   descrizione   della    fattispecie    -
  Inammissibilita' della questione. 
- Legge 27 marzo 2001, n. 97, art. 4, comma 1. 
- Costituzione, artt. 3, 4, 24, 35, 36 e 97. 
(GU n.41 del 13-10-2010 )
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente: Francesco AMIRANTE; 
Giudici: Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco
  GALLO, Luigi MAZZELLA, Giuseppe TESAURO,  Paolo  Maria  NAPOLITANO,
  Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI. 
ha pronunciato la seguente 
 
                              Sentenza 
 
nel giudizio di legittimita' costituzionale  dell'art.  4,  comma  1,
della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento
penale e procedimento disciplinare ed effetti  del  giudicato  penale
nei  confronti  dei  dipendenti  delle  amministrazioni   pubbliche),
promosso dal Tribunale amministrativo regionale  della  Campania  nel
procedimento vertente tra S. S. e l'Universita' degli Studi di Napoli
«Federico II» con ordinanza del 2 ottobre 2008 iscritta al n. 94  del
registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 14, 1ª serie speciale, dell'anno 2009. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  S.  S.  nonche'  l'atto   di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    Udito nell'udienza pubblica del  21  settembre  2010  il  Giudice
relatore Paolo Grossi; 
    Uditi gli avvocati Giuseppe Abbamonte e Mario Sanino per S. S.  e
l'avvocato dello Stato Paola Palmieri per il Presidente del Consiglio
dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.  -  Il  Tribunale  amministrativo  regionale  della   Campania
solleva, in riferimento agli artt. 3,  4,  24,  35,  36  e  97  della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  4,
comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97  (Norme  sul  rapporto  tra
procedimento  penale  e  procedimento  disciplinare  ed  effetti  del
giudicato penale nei confronti dei dipendenti  delle  amministrazioni
pubbliche),  «nella  parte  in  cui   prevede   -   indipendentemente
dall'intervenuta estinzione del reato per  prescrizione  -  che  "Nel
caso di condanna anche non  definitiva,  ancorche'  sia  concessa  la
sospensione condizionale della pena, per alcuno dei delitti  previsti
dall'art. 3, comma 1, i dipendenti  indicati  nello  stesso  articolo
sono sospesi dal servizio"». 
    Premette, in fatto, il Tribunale rimettente che il giudizio a quo
e'  stato  introdotto  da  un  ricorso  proposto  da  un   professore
universitario, condannato, con sentenza dell'11  febbraio  2008,  per
concorso in peculato, limitatamente ad un  episodio  commesso  il  30
marzo  1995.  Segnala  al  riguardo  il  giudice  rimettente  che  il
Tribunale  penale,  «pronunciando  su  una  specifica  eccezione  del
collegio difensivo, ha definito la cronologia della  prescrizione  in
riferimento alle diverse tipologie di imputazione in  contestazione»,
sicche', in applicazione dei parametri cosi' definiti, il  reato  per
il quale e' stata pronunciata condanna viene  a  prescriversi  il  18
marzo 2008. Disposta la  sospensione  dal  servizio  da  parte  della
autorita' amministrativa, il ricorrente  e'  insorto,  lamentando  la
illegittimita'  del  provvedimento,  in  quanto  -  fra   l'altro   -
l'illecito deve ritenersi estinto  per  il  decorso  dei  termini  di
prescrizione. 
    Disattesa la possibilita'  di  accedere  ad  una  interpretazione
«adeguatrice» del disposto normativo  sollecitata  dalla  difesa  del
ricorrente,  il  Tribunale  reputa  la  disposizione   censurata   in
contrasto con piu' parametri costituzionali. Richiamati,  infatti,  i
principi  posti  a  fondamento  delle  sentenze   di   questa   Corte
soffermatesi sul tema (si citano, in particolare, la sentenza n.  145
del 2002 e quelle n. 206 del 1999 e n. 239 del 1996), si  sottolinea,
anzitutto, la «incondizionata automaticita'»  della  sospensione  dal
servizio prevista dalla norma, in presenza del «solo dato formale  di
una  condanna  penale  e  senza  che  assumano  rilievo   fattispecie
estintive del reato gia' incontrovertibilmente  maturate  al  momento
dell'applicazione della misura e che valgono a svuotare di  contenuto
la  sua  effettiva  ragion  d'essere».  Sottolinea  in  proposito  il
rimettente che nella stessa motivazione della sentenza di condanna si
indica in dodici anni e sei mesi il termine massimo  di  prescrizione
del reato per il  quale  e'  intervenuta  condanna,  al  quale  vanno
aggiunti ulteriori 180 giorni per i rinvii dovuti ad astensione degli
avvocati;  sicche'  la  combinazione  di   tali   dati,   «attraverso
un'operazione aritmetica, consente di fissare al  18  marzp  2008  il
termine di maturazione della prescrizione del reato». In conclusione,
l'accertamento  della  sopravvenuta  estinzione   del   reato   resta
confinato «nei limiti di una semplice presa d'atto,  con  conseguente
radicale esclusione di qualsivoglia  apprezzamento  (da  parte  della
Pubblica Amministrazione) di natura valutativa». Da cio'  la  censura
di irragionevolezza della norma, giacche' la congruita' della  misura
obbligatoria della sospensione «puo'  astrattamente  dirsi  garantita
dal presupposto processuale della intervenuta condanna,  fintantoche'
la  detta  pronuncia  valga  a  reggere  un  effettivo  giudizio   di
disvalore». Al contrario, tale rapporto di congruita', cosi' come  la
proporzionalita' tra la misura cautelare e le esigenze che  con  essa
si intendono fronteggiare, inevitabilmente si altera nell'ipotesi  in
cui  «per  cause  oggettive  ed  immediatamente  percepibili   (quale
giustappunto  e'  la  prescrizione),  quella  pronuncia   elevata   a
presupposto  assorbente   per   l'applicazione   della   misura   non
costituisce piu',  al  di  la'  degli  aspetti  formali,  espressione
attuale di un giudizio di accertamento di offese (punibili) ai valori
dell'ordinamento».  In  sostanza,  l'automatismo  della   sospensione
finirebbe per ancorarsi al solo presupposto formale di una  pronuncia
di condanna, non piu' in grado di  esprimere  un  disvalore  tale  da
presupporre effettive esigenze cautelari. 
    A parere  del  Tribunale  rimettente,  dunque,  «il  mantenimento
dell'obbligo di produzione  degli  effetti  interdittivi,  pur  nella
descritta evenienza, viene a porsi in chiara ed aperta distonia con i
principi di ragionevolezza e proporzionalita' di cui agli artt.  3  e
97 della Costituzione». 
    Violato sarebbe anche il principio di uguaglianza, in  quanto  la
disciplina censurata equiparerebbe ai fini dell'automatismo cautelare
situazioni diverse, quali «le posizioni di coloro che hanno riportato
una condanna per un reato ancora "vivo" e quelle di chi,  invece,  e'
stato condannato per il medesimo reato, nel frattempo, pero', estinto
per prescrizione». 
    Ugualmente compromesso sarebbe il diritto di difesa,  «in  quanto
viene tolta in radice all'interessato la possibilita' di  far  valere
le   proprie   ragioni   avverso   l'applicazione   di   una   misura
particolarmente  invasiva  e  che  non   trova   piu'   una   diretta
giustificazione nella fattispecie ordinaria di  riferimento  (che  e'
quella di una  condanna  ancora  "vitale");  cosi'  come  compromessi
sarebbero  i  principi  sanciti  dagli  artt.  4,  35  e  36   Cost.,
considerati gli  effetti  pregiudizievoli  che  «la  (ingiustificata)
sospensione dal servizio esplica sul pieno ed effettivo esercizio del
diritto al lavoro e sul diritto alla giusta retribuzione». 
    Scandagliata, poi, la portata  modificativa  della  decisione  di
incostituzionalita' adottata con la sentenza  n.  145  del  2002,  il
giudice rimettente si e' ampiamente diffuso per sottolineare come per
la  individuazione  del  termine  di  prescrizione,  con  particolare
riferimento al caso di specie, tutti  gli  elementi  necessari  siano
offerti dalla pronuncia di condanna, senza che residui in  capo  alla
pubblica amministrazione alcun potere  valutativo.  Per  altro  verso
neppure potrebbe venire in discorso la immediata  declaratoria  della
causa di non punibilita' ex art. 129 del codice di procedura  penale,
giacche'   tale   meccanismo   segue   necessariamente   l'iter   del
procedimento e i relativi gradi di impugnazione.  Pertanto,  dopo  la
lettura del dispositivo della sentenza di  primo  grado,  il  sistema
processuale penale non  prevederebbe  meccanismi  che  consentano  di
rilevare immediatamente  la  causa  di  estinzione  del  reato  prima
dell'incardinamento del giudizio di appello; con la  conseguenza  che
l'amministrazione deve procedere alla sospensione dal servizio salvo,
poi, revocare la misura non appena verra'  -  magari  a  distanza  di
tempo  -  formalmente  rilevata  la  estinzione  del  reato.  Da  qui
l'esigenza di consentire alla amministrazione  di  procedere  ad  una
valutazione in concreto delle eventuali esigenze cautelari. 
    2. - Nel  giudizio  si  e'  costituita  la  parte  privata  S.S.,
depositando memoria nella quale si e' conclusivamente chiesto: 1)  in
via preliminare, di dichiarare inammissibile la questione, in  quanto
la norma impugnata  non  sarebbe  applicabile  nel  giudizio  a  quo,
trattandosi di dipendente cui e' ascritto un  fatto  commesso  presso
una amministrazione diversa da quella cui il ricorrente appartiene  e
che attualmente procede; 2) sempre in via preliminare, di  dichiarare
inammissibile  la  questione  per  mancata  sperimentazione  di   una
interpretazione adeguatrice, per la medesima ragione di cui al  punto
1); 3) in via gradata, di pronunciare una sentenza interpretativa  di
rigetto,  con  la  quale  si  affermi  che  la  norma  censurata   va
interpretata nel senso che essa non va applicata ad un dipendente cui
e' ascritto un fatto commesso in amministrazione  diversa  da  quella
cui egli attualmente appartiene e che procede per  un  fatto  per  il
quale  e'  gia'  stata  accertata  la   prescrizione;   4)   in   via
ulteriormente gradata, di pronunciare una sentenza  di  accoglimento,
che dichiari la illegittimita' costituzionale della norma  impugnata,
nella parte in cui essa non  esclude  l'applicabilita'  della  misura
della sospensione automatica anche al  caso  del  dipendente  cui  e'
ascritto un fatto commesso in amministrazione diversa da  quella  cui
egli attualmente appartiene e che procede per  un  fatto  di  cui  e'
stata gia' accertata la prescrizione. 
    La parte privata, dopo ampia narrativa dei  fatti  di  causa,  ha
svolto   diffusi   argomenti   a   conforto    della    tesi    della
inapplicabilita', nel caso di  specie,  della  norma  impugnata,  sul
rilievo che la stessa, attesa la natura di regola  eccezionale  e  di
stretta  interpretazione,  presuppone  che  il  fatto-reato  cui   la
sospensione obbligatoria si riferisce,  riguardi  lo  stesso  ufficio
presso il quale il dipendente si trova. Evenienza, questa, che  nella
specie non ricorre, in quanto la  parte  privata,  professore  presso
l'Universita' degli Studi di  Napoli  «Federico  II»,  ha  subito  la
condanna penale nella qualita' di sindaco del Comune di Pompei. 
    I rilievi svolti dal giudice a quo per  disattendere  la  analoga
questione gia' dedotta in sede di ricorso vengono  dunque  contestati
in forza di una lettura complessiva e sistematica della legge  n.  97
del 2001, la quale condurrebbe  a  concludere  che  -  contrariamente
all'assunto del  giudice  a  quo  -  il  legislatore  avrebbe  inteso
stabilire una "connessione qualificata" tra  la  condotta  penalmente
rilevante e l'ufficio dal quale il dipendente  deve  essere  sospeso.
Conclusione, questa, alla quale potrebbe pervenirsi  anche  in  forza
della sentenza n. 145 del 2002, che invece l'ordinanza di  rimessione
evoca per sostenere l'opposta tesi. 
    Sulla  questione  di  costituzionalita'  si  sottolineano,   poi,
ulteriori  profili.  La  previsione  di  una  sospensione  automatica
dall'impiego a seguito di una sentenza non  definitiva  risulterebbe,
infatti, di dubbia compatibilita' con il principio di presunzione  di
non colpevolezza, stante il  carattere  anticipatorio  degli  effetti
della condanna che  scaturiscono  da  tale  misura,  con  correlativa
compromissione,   anche,   del   diritto   di   difesa.   La   stessa
amministrazione, d'altra parte, dovra'  procedere  alla  sospensione,
senza poter valutare le implicazioni organizzative, a fronte  di  una
imprevedibile durata del provvedimento,  in  ipotesi  vanificabile  a
seguito di proscioglimento, con conseguente violazione dell'art.  97,
primo comma, Cost. 
    Si sottolineano, poi, numerosi aspetti di irragionevolezza  della
norma e di  disparita'  di  trattamento,  stante  la  varieta'  delle
situazioni che possono venire in discorso (concessione o  meno  della
sospensione  condizionale  della  pena;  reato  commesso  in  ufficio
pubblico  diverso  da  quello  di  appartenenza;   preclusione,   per
l'amministrazione, di valutare le circostanze del caso  concreto,  in
rapporto alle specifiche esigenze che la norma mira a presidiare).  A
conforto di tali censure, la memoria passa in analitica  rassegna  la
giurisprudenza costituzionale, evidenziando come dalla stessa  emerga
un  sostanziale  sfavore  riguardo  ai  generalizzati   provvedimenti
automatici di sospensione e destituzione  dal  servizio  di  pubblici
dipendenti, e segnalando anche, con riferimento alla sentenza n.  145
del 2002, come la Corte non si sia nel  frangente  pronunciata  sugli
ulteriori parametri evocati dal rimettente - per l'appunto, gli artt.
4, 24, 27, 35, 36 e 97 Cost. - in  ragione  dell'omessa  motivazione.
Parametri  che,  invece,  assumono   risalto   nel   panorama   della
giurisprudenza costituzionale in tema di sospensione  o  destituzione
di pubblici dipendenti a seguito di decisioni giudiziarie. 
    Si segnala, infine, la fondatezza dei dubbi di  costituzionalita'
prospettati dalla ordinanza di rimessione in riferimento  a  tutti  i
parametri evocati - cui viene  aggiunto  l'art.  27,  secondo  comma,
Cost. - e si sottolineano le peculiarita' della vicenda che ha  visto
il ricorrente condannato, che  avrebbero  potuto  essere  valorizzate
dalla delibazione della amministrazione  in  assenza  del  contestato
automatismo, nella specie illegittimo per  la  maturata  prescrizione
del reato. 
    3. - Nel giudizio  e',  infine,  intervenuto  il  Presidente  del
Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e  difeso  dalla  Avvocatura
generale dello Stato, la  quale  ha  concluso  chiedendo  dichiararsi
infondata la proposta questione. Osserva, infatti,  l'Avvocatura  che
la questione della prescrizione non e'  incontrovertibilmente  decisa
dal giudice di primo grado, potendo essere riconsiderata in  sede  di
appello o di cassazione. La "vitalita'" del fatto  reato  al  momento
della applicazione della sospensione, dunque, non puo' che  risultare
- contrariamente a quanto assume il giudice a quo - dalla sentenza di
condanna.  Ne'  la  amministrazione  puo'  compiere  una  valutazione
autonoma, posto che, anche a seguito della sentenza n. 145 del  2002,
la prescrizione puo' operare come causa di  sopravvenuta  inefficacia
della sospensione da servizio soltanto a seguito di una sentenza  che
la  dichiari.  Diversamente  -  conclude  l'Avvocatura  -  la  misura
assumerebbe  un  «carattere  discrezionale  e  finirebbe  per  essere
rimesso  alla  Pubblica  Amministrazione  una  competenza   riservata
all'Autorita'   giudiziaria,   con   una   evidente,    inammissibile
sovrapposizione di attribuzioni spettanti  invece  a  diversi  poteri
dello Stato». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.  -  Il  Tribunale  amministrativo  regionale  della  Campania,
chiamato a pronunciarsi sul ricorso  proposto  nell'interesse  di  un
professore universitario avverso il provvedimento di sospensione  dal
servizio  pronunciato  nei  suoi  confronti  dall'amministrazione  di
appartenenza, a seguito della condanna  in  primo  grado  subita  dal
ricorrente per il reato di concorso in  peculato,  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35,  36  e  97  della  Costituzione,
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 1,  della
legge 27 marzo 2001, n.  97  (Norme  sul  rapporto  tra  procedimento
penale e procedimento disciplinare ed effetti  del  giudicato  penale
nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), «nella
parte in cui prevede - indipendentemente dall'intervenuta  estinzione
del reato per prescrizione - che "Nel  caso  di  condanna  anche  non
definitiva, ancorche' sia concessa la sospensione condizionale  della
pena, per alcuno dei delitti previsti dall'articolo  3,  comma  1,  i
dipendenti  indicati  nello  stesso   articolo   sono   sospesi   dal
servizio"». 
    Il giudice rimettente, dopo aver premesso che nella  sentenza  di
condanna relativa  al  ricorrente,  il  giudice  penale  ha,  seppure
incidentalmente, in quanto chiamato a pronunciarsi su  una  eccezione
della difesa, provveduto a definire «la cronologia della prescrizione
in   riferimento   alle   diverse   tipologie   di   imputazione   in
contestazione», sicche' - puntualizza il giudice a quo - il reato per
il quale e' stata  pronunciata  la  condanna,  cui  si  riferisce  il
provvedimento di sospensione dal servizio oggetto di ricorso, viene a
prescriversi  il  18  marzo  2008,  afferma  che   «il   mantenimento
dell'obbligo degli effetti interdittivi» che scaturisce  dalla  norma
oggetto di  impugnativa,  verrebbe  a  porsi  in  contrasto,  in  una
evenienza  quale  e'  quella  descritta,  con   piu'   parametri   di
legittimita' costituzionale.  Risulterebbero  anzitutto  compromessi,
infatti, gli artt. 3 e 97 Cost., evocati con  specifico  riguardo  ai
principi  di  ragionevolezza  e  proporzionalita',   in   quanto   la
sospensione obbligatoria dal servizio che tragga  esclusivo  alimento
da una condanna «ormai irreversibilmente svuotata da  ogni  contenuto
sostanziale»,   finirebbe   con   il   risultare   «irragionevolmente
disancorata  dai  connotati  concreti  della  situazione  storica   -
significativamente mutata per effetto della  sopravvenuta  estinzione
del reato - in cui e' collocata». Sarebbe al tempo stesso compromesso
il principio di uguaglianza, giacche', agli effetti della sospensione
automatica,  si  equiparano  fra  loro  situazioni  eterogenee,   che
presentano un differenziato coefficiente  di  incidenza  rispetto  al
«giudizio  di  bilanciamento  che  regge  la  coerenza  della  misura
sospensiva», posto che non risulterebbero  fra  loro  comparabili,  a
quegli effetti, «le posizioni  di  coloro  che  hanno  riportato  una
condanna per un reato ancora "vivo" e quelle di chi, invece, e' stato
condannato per il medesimo reato, nel frattempo, pero',  estinto  per
prescrizione». Risulterebbe inoltre violato il diritto di difesa, sul
rilievo che all'interessato sarebbe precluso far  valere  le  proprie
ragioni contro l'applicazione  della  misura  della  sospensione  dal
servizio, senza che questa rinvenga ragion d'essere  nella  condanna,
proprio  perche'  non  piu'  "vitale",  e  si  lamenta,  infine,   la
compromissione anche degli artt. 4, 35 e 36 della Carta fondamentale,
considerato  il  pregiudizio  che  la  misura  sospensiva   determina
sull'effettivo e pieno diritto al lavoro ed alla giusta retribuzione. 
    2. - Occorre preliminarmente rilevare che  risulta  non  fondata,
agli effetti dell'odierno scrutinio, la eccezione di inammissibilita'
per irrilevanza della normativa impugnata che la difesa  della  parte
privata ha diffusamente articolato nel proprio atto di costituzione e
che si fonda, essenzialmente,  sulla  riproposizione  della  identica
quaestio gia' dedotta in sede giurisdizionale e disattesa dal giudice
a quo. In estrema sintesi, secondo la parte privata, nella specie non
troverebbe applicazione  la  normativa  oggetto  di  impugnativa,  in
quanto, riferendosi la condanna  penale  ad  un  fatto  commesso  dal
ricorrente non nella qualita' di professore universitario  -  cui  si
riferisce il  provvedimento  di  sospensione  censurato  -  ma  nella
diversa attribuzione di sindaco di  un  Comune,  non  potrebbe  farsi
riferimento alla sospensione prevista dall'art.  4,  comma  1,  della
legge  n.  97  del  2001,  dovendosi  altrimenti  procedere  ad   una
interpretazione adeguatrice della  disposizione  in  questione.  Tale
tesi, pero', e' stata,  come  si  e'  detto,  disattesa  dal  giudice
rimettente  sulla  base  di  una  motivazione,  la  quale,  ancorche'
contestata  dalla  parte  privata,  non  puo'  ritenersi,   in   se',
manifestamente implausibile. 
    3. - La questione proposta  dal  Tribunale  campano  e'  tuttavia
inammissibile per altro ordine  di  ragioni.  La  disciplina  oggetto
della odierna impugnativa e' stata gia' approfonditamente  scrutinata
da questa Corte nella sentenza  n.  145  del  2002,  della  quale  il
giudice a quo da' atto, ma dai cui principi non ha tratto  le  debite
conseguenze. Nella richiamata pronuncia, infatti, questa Corte ebbe a
dichiarare la illegittimita' costituzionale, «nei  sensi  di  cui  in
motivazione», dell'art. 4, comma 2, della legge n. 97 del 2001, nella
parte in cui disponeva che la sospensione dal servizio del dipendente
pubblico condannato anche non in via definitiva  per  taluni  delitti
perdesse efficacia decorso un periodo  di  tempo  pari  a  quello  di
prescrizione del reato. Il particolare dispositivo di  illegittimita'
costituzionale, attraverso un rinvio al contenuto della  motivazione,
dipese dal fatto che la Corte reputo' che il termine di  prescrizione
del reato, se assunto quale limite di durata della  misura  cautelare
della sospensione  dal  servizio,  doveva  ritenersi  «manifestamente
eccessivo, comportando, nel bilanciamento dei contrapposti interessi,
una  evidente  quanto  irragionevole  compressione  dei  diritti  del
singolo».  La  Corte  tuttavia  chiari'  che   la   declaratoria   di
illegittimita' costituzionale non rendeva la sospensione obbligatoria
dal servizio  priva  del  necessario  termine  di  durata,  potendosi
rinvenire nel sistema la previsione della durata  massima  di  cinque
anni della misura cautelare sospensiva contenuta nell'art.  9,  comma
2, della  legge  7  febbraio  1990,  n.  19  (Modifiche  in  tema  di
circostanze, sospensione condizionale della pena e  destituzione  dei
pubblici dipendenti), alla quale doveva attribuirsi «il carattere  di
una  vera  e  propria  clausola  di  garanzia,  avente  una   portata
generale». Concluse dunque la Corte che  l'art.  4,  comma  2,  della
legge  n.  97  del  2001,  doveva  essere  letto,  a  seguito   della
declaratoria di illegittimita'  costituzionale,  «nel  senso  che  la
sospensione dal servizio disposta a norma del comma 1 perde efficacia
se  per  il  fatto  e'  successivamente   pronunciata   sentenza   di
proscioglimento o di assoluzione anche  non  definitiva  e,  in  ogni
caso, decorsa una durata complessivamente non superiore a cinque anni
della sospensione, facoltativa o obbligatoria riferibile al  medesimo
procedimento penale». 
    La Corte, pero',  mise  a  fuoco  anche  due  altri  aspetti  che
assumono non poco risalto agli effetti della odierna questione. Nella
richiamata sentenza, infatti, la Corte  non  manco'  di  sottolineare
come  la  individuazione  del  termine  di  prescrizione  del   reato
comporti, a proposito dei numerosi elementi  interni  ed  esterni  al
reato stesso e che concorrono a determinare quel termine,  una  serie
di «valutazioni precluse  alla  pubblica  amministrazione,  che  solo
l'autorita' giudiziaria puo' compiere:  si  pensi  all'incidenza  sul
decorso della prescrizione delle circostanze aggravanti e  attenuanti
del reato. Con la  conseguenza  -  puntualizzo'  testualmente  questa
Corte - che la suddetta causa di cessazione di efficacia della misura
cautelare viene necessariamente a coincidere con quella rappresentata
dalla sentenza di proscioglimento». 
    Alla stregua di tali dicta, possono  dunque  gia'  trarsi  alcuni
corollari.  Anzitutto,  la  prescrizione  del  reato  non  puo'   che
coincidere con  la  sentenza  che  la  dichiari,  giacche'  non  puo'
annettersi alcun rilievo giuridico alla sussistenza ipotetica di  una
causa di estinzione  del  reato,  il  cui  ricorrere,  per  di  piu',
presuppone un accertamento su una complessa ed  articolata  gamma  di
elementi  di  commisurazione  -  alcuni  dei   quali   presupponenti,
addirittura, indagini di  fatto  (quale  lo  stesso  tempus  commissi
delicti)  -  che  non  possono  che  essere  svolti  dalla  autorita'
giudiziaria, all'interno del  processo.  In  secondo  luogo,  proprio
perche'  ontologicamente  privo  di  rilievo  giuridico  esterno   al
processo, deve necessariamente restare  al  di  fuori  del  perimetro
normativo qui in discorso qualsiasi accertamento  incidenter  tantum,
che, nell'individuare la "non  maturazione"  della  prescrizione,  ne
abbia (alla stregua di un  qualunque  obiter),  indicato  la  data  -
futura ed ipotetica -  in  cui  la  prescrizione  maturanda  potrebbe
essere dichiarata. In terzo ed ultimo luogo, quand'anche  si  volesse
assegnare a quell'accertamento incidentale un qualche  effetto,  esso
non potrebbe mai essere "esterno" al processo e tale  da  coinvolgere
una valutazione (in ipotesi, anche discorde) da parte della  pubblica
amministrazione. 
    A proposito, poi, del secondo  aspetto  messo  in  risalto  dalla
sentenza di cui innanzi si e' detto, va osservato che la Corte, nello
scrutinare, nei sensi innanzi descritti, la  disciplina  del  termine
massimo  di  sospensione  obbligatoria  dal  servizio  del   pubblico
dipendente condannato per taluni specifici  reati,  ha  fatta  salva,
ovviamente, «la possibilita' che il legislatore, nell'esercizio della
sua  discrezionalita'  ed  entro  i  limiti   di   ragionevolezza   e
proporzionalita' individuati da questa Corte,  disciplini  nuovamente
la materia, anche fissando termini massimi  eventualmente  differenti
rispetto a quello di cui al citato art. 9 della legge n. 19 del  1990
ovvero modulati in relazione alla gravita' del reato ed alla fase del
procedimento». Dunque, ci  si  muove  su  un  terreno  nel  quale  la
discrezionalita' normativa e' massima,  con  l'ovvia  conseguenza  di
rendere  la  questione  proposta,  gia'  solo  per  questo   profilo,
inammissibile, in quanto la soluzione additata dal giudice a quo, per
di piu' coinvolgente  -  al  di  la'  delle  peculiarita'  che  hanno
caratterizzato il caso di specie - una valutazione incidentale  della
pubblica  amministrazione  su  un  tema  (quale   e'   quello   della
sussistenza di una causa  estintiva  del  reato)  di  diritto  penale
sostanziale, comporta una gamma indefinita ed  indefinibile  di  piu'
opzioni alternative, tutte  costituzionalmente  compatibili  (fra  le
tante, l'ordinanza n. 270 del 2008). 
    4. - Accanto a cio', vanno considerati anche altri  profili  che,
invece,  il  Tribunale  rimettente  ha  totalmente  negletto  e   che
parimenti  incidono,  in   senso   negativo,   sul   versante   della
ammissibilita' del quesito. Posto, infatti, che la questione proposta
presuppone l'esistenza di una condanna non irrevocabile,  e,  dunque,
la pendenza di un giudizio di impugnazione, il giudice rimettente  ha
omesso  di  considerare  che  ciascuna  delle  numerose  "componenti"
normative  che  concorrono  alla  determinazione  dello  spirare  dei
termini  di  prescrizione  del  reato  -  ancorche'   incidentalmente
valutate dal giudice di primo grado - possono tutte  formare  oggetto
di nuovo esame in grado di appello o nel  giudizio  di  legittimita'.
Cosi', ad esempio, gli eventuali mutamenti in tema di  circostanze  o
di giudizio di valenza possono  influire  sul  tema,  cosi'  come  il
giudice della  impugnazione  puo'  assegnare  al  fatto  una  diversa
qualificazione giuridica, che rileva ai fini della prescrizione,  ove
ne ricorrano i presupposti.  Il  tutto,  non  senza  sottolineare  la
rilevanza che ai medesimi fini riveste anche la  natura  del  rimedio
impugnatorio  attivato  dalle  parti,  essendo  evidente  il  diverso
risalto  che  ciascun  profilo  puo'   assumere   a   seconda   delle
caratteristiche  di  devoluzione  tipiche  dei  vari  mezzi  e  delle
questioni che, in materia di prescrizione, sono  comunque  rilevabili
ex officio. 
    Inoltre, il giudice rimettente - il  quale  non  fornisce  alcuna
descrizione della "fattispecie" impugnatoria  relativa  alla  vicenda
penale su cui si innesta il quesito di legittimita' costituzionale  -
omette di considerare un ulteriore aspetto che  appare  dirimente  ai
fini della impossibilita', da parte di questa  Corte,  di  scrutinare
nel merito del dubbio di costituzionalita': e cioe' che  soltanto  il
giudice della impugnazione e'  in  grado  di  delibare  la  eventuale
prescrizione del  reato,  in  quanto  soltanto  in  presenza  di  una
impugnazione ammissibile (che certo la pubblica  amministrazione  non
puo' apprezzare incidentalmente) puo' farsi luogo  alla  declaratoria
di estinzione del reato, posto che, ove l'impugnazione risultasse per
qualsiasi causa inammissibile, la inammissibilita'  precluderebbe  la
declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, alla  luce  di
un consolidato  quadro  di  interpretazione  giurisprudenziale  ormai
assurto al rango di diritto vivente (Cass., Sez. un., 22 marzo  2005,
n. 23428; Cass., Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32). La questione e',
dunque,  inammissibile,   anche   per   carente   descrizione   della
fattispecie (fra le tante, le ordinanze n. 306 e n. 190 del 2009). 
 
                          Per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    Dichiara   inammissibile    la    questione    di    legittimita'
costituzionale dell'art. 4, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97
(Norme  sul  rapporto  tra   procedimento   penale   e   procedimento
disciplinare ed  effetti  del  giudicato  penale  nei  confronti  dei
dipendenti   delle   amministrazioni   pubbliche),   sollevata,    in
riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 36 e 97 della Costituzione,  dal
Tribunale amministrativo della Campania con l'ordinanza in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 4 ottobre 2010. 
 
                       Il Presidente: Amirante 
 
 
                        Il redattore: Grossi 
 
 
                      Il cancelliere: Di Paola 
 
    Depositata in cancelleria l'8 ottobre 2010. 
 
              Il direttore della cancelleria: Di Paola