N. 369 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 aprile 2010
Ordinanza del 12 aprile 2010 emessa dal Giudice di pace di Valdagno nel procedimento penale a carico di Kuffour Victoria Osei. Straniero - Reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato - Previsione come reato del fatto dello straniero che si trattiene nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del testo unico dell'immigrazione - Violazione dei principi di uguaglianza, ragionevolezza, colpevolezza, offensivita', proporzionalita', sussidiarieta' e solidarieta' sociale. - Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, art. 10-bis, aggiunto dall'art. 1, comma 16, lett. a), della legge 15 luglio 2009, n. 94. - Costituzione, artt. 2, 3, 10, 13 e 27.(GU n.49 del 9-12-2010 )
IL GIUDICE DI PACE Nel proc. n. 2/10 R.G. - R.G.N.R. 1352/09 P.M. a carico di Kuffour Victoria Osei, nata a Koforidua (Ghana) il 13 marzo 1966, con domicilio in Cornedo Vicentino (Vicenza), via Bellini n. 25, difesa d'ufficio dall'avv. Andrea Bertollo di Vicenza, imputato del reato di cui all'art. 10-bis del d.lgs. n. 286/1998, perche' faceva ingresso o comunque si tratteneva nel territorio dello Stato illegalmente. Fatto accertato in Cornedo Vicentino (Vicenza) il 23 ottobre 2009. Fatto e rilevanza della questione di costituzionalita'. L'imputato e' stato controllato e denunciato dalla polizia giudiziaria per la contravvenzione di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello stato italiano. Quindi, e' stato tratto a giudizio a seguito di richiesta di fissazione udienza per presentazione immediata ai sensi dell'art. 20 bis del d.lgs. n. 274/2000. Applicazione della norma nel caso di specie imporrebbe a questo giudice l'applicazione della sanzione penali all'imputato e quindi senz'altro rilevante appare nel giudizio in corso la questione sulla legittimita' costituzionale dell'art. 10-bis del d.lgs. n. 286/1998. Motivazione e non manifesta infondatezzadella questione di costituzionalita'. Il giudice di pace di Valdagno ritiene sussistano i presupposti per sollevare d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 10 bis del d.lgs. n. 286/1998, introdotto dall'art. 1, comma 16 della legge 15 luglio n. 94, il quale - introduce nel nostro ordinamento il reato di cd «clandestinita'». Questa norma, che ha innovato il t.u. immigrazione, infatti, inserendo una norma, la cui rubrica recita «Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato» e prevede che, salvo che il fatto costituisca piu' grave reato, lo straniero, che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, nonche' di quelle di cui all'art. 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68, e' punito con l'ammenda da 5.000 a 10.000 euro. La fattispecie in esame punisce l'ingresso illecito o la permanenza illegale sul nostro territorio da parte di soggetti stranieri clandestini. La finalita' primaria del Legislatore pare essere quella di creare un fortissimo deterrente psicologico nei confronti di soggetti, che intendono entrare o rimanere clandestinamente in Italia, munendo di sanzione penale la permanenza clandestina nel nostro territorio da parte di stranieri. L'illecito in esame si applica al soggetto che, nonostante la mancanza del permesso di soggiorno o comunque titolo equivalente, abbia fatto ingresso o si trovi sul territorio dello Stato. Rientrano in tale ipotesi non solo gli extracomunitari clandestini entrati illegalmente o quelli gia' espulsi, ma anche il comunitario allontanato dal territorio dello stato o l'immigrato in genere che, a qualunque titolo, abbia fatto i scadere il permesso di soggiorno a tempo determinato. L'illecito in esame si consuma nel momento in cui o il clandestino entri illegittimamente in Italia o nel momento in cui scada il precedente e valido titolo di soggiorno e lo stesso, nonostante cio', si trattenga sul nostro territorio. Il fatto e' quindi oggettivo ed a nulla rileva la consapevolezza o meno del reo, trattandosi di condotta punibile a titolo di colpa, in quanto reato contravvenzionale. Non viene quindi punito solo un comportamento c.d. attivo del soggetto, cioe' l'ingresso nel territorio dello Stato italiano, ma anche un semplice status, connesso al trattenimento nel territorio dello Stato, in mancanza di valido titolo giustificativo, a seguito dell'entrata in vigore della norma, che trasforma un comportamento in essere, che prima di questa entrata in vigore era penalmente irrilevante, in un comportamento sanzionabile. La norma e' percio' applicabile a tutti i cittadini extracomunitari illegalmente presenti nel territorio dello Stato al momento della entrata in vigore della legge. A seguito dell'accertamento dell'illecito in esame, il reo viene condannato al pagamento di una ammenda compresa tra € 5.000 ed € 10.000. A tale ammenda, come si evince dal primo capoverso del punto 1 dell'art 10-bis t.u. immigrazione, non si applica l'oblazione prevista dall'art. 162 del codice penale. Appare di immediata intuizione che l'ammenda nella stragrande maggioranza dei casi sara' difficilmente recuperabile, ferma restando la presenza di un giudizio immediato avanti al giudice di pace. Questo nuovo reato trova un precedente sempre nel t.u. immigrazione, che all'art. 14 prevede l'ipotesi dello straniero, che si trattiene illecitamente nel territorio dello Stato italiano, rendendosi inadempimente all'obbligo di lasciare il territorio a seguito di provvedimento del Questore. In simile ipotesi il reo e' esplicitamente informato della normativa vigente e il trattenersi sul territorio e' palesemente una ipotesi piu' grave, rispetto alla nuova figura contravvenzionale (che puo' essere commessa anche nella ignoranza della norma, pur se non rilevante e non esimente). Si evidenzia che l'art. 14 prevede la pena detentiva, ma ammette un giustificato motivo, che il nuovo art. 10-bis, al contrario, non ammette. Il nuovo reato, pertanto, pur assumendo una funzione sussidiaria rispetto alla ipotesi piu' grave di cui all'art. 14, e collocandosi in una posizione di minore gravita', viene punito per la sua oggettivita' senza possibilita' alcuna di giustificato motivo (al di fuori di quanto gia' espresso in ordine allo stato di necessita' ed alla richiesta di protezione internazionale); quindi ad una ipotesi meno grave, pertanto, non viene riconosciuta una esimente, esplicitamente ammessa per il reato piu' grave. Al riguardo si rammenta che la Corte costituzionale (sentenze n. 5/2004 e n. 22/2007) ha sottolineato il rilievo che la esimente puo' avere ai fini della «tenuta costituzionale» di disposizioni del genere di quella ora introdotta. Sia durante i lavori parlamentari che successivamente alla sua promulgazione ed entrata in vigore, la legge 15 luglio 2009 n. 94 e' stata oggetto di critiche e di severe osservazioni, in particolare con riguardo alle disposizioni riguardanti l'introduzione delle nuove figure di reato, ritenute incostituzionali e comunque incompatibili con i principi, che governano il nostro Paese. Lo stesso Presidente della Repubblica in sede di promulgazione della norma ha rivelato di «non poter restare indifferente dinanzi a dubbi di irragionevolezza e di insostenibilita' che un provvedimento di rilevante complessita' ed evidente delicatezza solleva per taluni aspetti, specie sul piano giuridico.» Il nuovo reato colpisce una condotta che non ha una reale pericolosita' sociale, in quanto non lede propriamente il bene della sicurezza pubblica. Il reato di clandestinita' punisce semplicemente una condizione, uno status soggettivo che di per se' non crea alcun danno o pericolo a terzi: lo straniero irregolare non viene, infatti, punito perche' pone in essere condotte che mettono a repentaglio la sicurezza di altri, ma solamente per quella che e' la sua posizione. Questo reato, cosi' come e' stato concepito, presenta aspetti analoghi a quello di mendicita', reato gia' dichiarato incostituzionale: in precedenza si colpivano, infatti, coloro che chiedevano l'elemosina, non tanto per la pericolosita' di questi soggetti, ma proprio per il loro status di questuante. Altro aspetto critico del reato de quo e' la rilevante differenza con cui viene trattata la clandestinita' rispetto a tutti gli altri reati che prevedono la pena dell'ammenda: per questi, infatti, e' istituita l'oblazione, possibilita' che permette di estinguere il reato nel caso in cui il condannato riesca a pagare almeno un terzo dell'ammenda. Per il reato di clandestinita', invece, l'oblazione e' esplicitamente esclusa determinando in questo modo una grande ingiustizia, in quanto priva gli immigrati di un diritto riconosciuto, all'opposto, a tutti gli altri cittadini, violando quindi in questo modo il principio di uguaglianza. Il reato di cui si discute e' assolutamente incostituzionale, in quanto viola diversi articoli della nostra Costituzione e principi elevati a rango costituzionale dalla stessa Corte costituzionale. Parametri di incostituzionalita'. 1) In primis, tale reato incide sull'art. 3 della Costituzione, sul principio di uguaglianza, in quanto la legge punisce indiscriminatamente ed automaticamente tutti senza considerare l'eventuale esistenza di situazioni legittimanti la presenza sul nostro territorio. Si prevede, infatti, la punibilita'.«dello straniero inottemperante all'ordine di allontanamento del questore», solamente quando il medesimo si trattenga nel territorio dello Stato oltre il termine stabilito e senza la previsione di un giustificato motivo. Si verifica pertanto una vera e propria discriminazione sociale. Cio' che viene sanzionato, infatti, e' solo apparentemente una condotta, perche' il vero oggetto dell'incriminazione, come precedentemente sottolineato, e' la semplice condizione personale dello straniero, caratterizzata dal mancato possesso di un certificato, che permetta l'ingresso e la successiva permanenza nel territorio dello Stato, condizione sociale propria di una categoria di persone. 2) La norma de quo contrasta anche con il principio di ragionevolezza, sempre sancito dall'art. 3 della Costituzione, nelle sue diverse manifestazioni - adeguatezza dei mezzi ai fini, proporzionalita', rispetto sostanziale dei valori fondamentali della Costituzione, razionalita' finalistica - che secondo l'elaborazione giurisprudenziale della Corte costituzionale deve essere principio basilare nell'esercizio dell'attivita' legislativa in materia penale. La norma e', poi, irragionevole, in quanto priva di fondamento giustificativo, poiche' la sua sfera applicativa e' destinata a sovrapporsi integralmente a quella dell'espulsione quale misura amministrativa. Il ruolo di extrema ratio che deve rivestire la sanzione penale impone che essa sia utilizzata, nel rispetto del principio di proporzionalita', solo in mancanza di altri strumenti idonei al raggiungimento dello scopo. L'ammenda da € 5.000,00 ad € 10.000,00, infatti, pare assolutamente irragionevole e sproporzionata, in quanto viene a colpire prevalentemente soggetti, che si sono avvicinati al nostro paese, perche' spinti dalla disperazione e quindi gia' a priori nell'impossibilita' di far fronte a tale sanzione pecuniaria di natura penale. Con cio' non si vuole negare che rientri tra i compiti delle istituzioni pubbliche «regolare la materia dell'immigrazione, in correlazione ai molteplici interessi pubblici da essa coinvolti ed ai gravi problemi connessi a flussi migratori incontrollati» (Corte Cost., sent. n. 5 del 2004), ma nell'adempimento di tali compiti il legislatore deve attenersi alla rigorosa Osservanza dei principi fondamentali del sistema penale e, ferma restando la sfera di discrezionalita' che gli compete, deve orientare la sua azione a canoni di razionalita' finalistica 3) Oltre al mancato rispetto del principio di uguaglianza, nel caso della norma in esame si ha la violazione anche del principio di colpevolezza, dotato di rango costituzionale attraverso il principio di personalita' della responsabilita' penale ex art. 27 comma 1 della Costituzione, perche' la condizione di immigrato irregolare viene in questo modo associata ad un comportamento socialmente pericoloso a prescindere dai singoli casi individuali. Questo Giudice ritiene che l'ingresso o la presenza illegale del singolo straniero non rappresentano, di per se', fatti lesivi di beni meritevoli di tutela penale, ma sono l'espressione di una condizione individuale, la condizione di migrante: la relativa incriminazione, pertanto, assume un connotato discriminatorio ratione subiecti contrastante non solo con il principio di eguaglianza, ma con la fondamentale garanzia costituzionale in materia penale, in base alla quale si puo' essere puniti solo per fatti materiali. Al riguardo, si rammenta che la Corte costituzionale (sent. 78 del 2007) ha gia' escluso che la condizione di mera irregolarita' dello straniero sia sintomatica di una pericolosita' sociale dello stesso, sicche' la criminalizzazione di tale condizione si rivela anche su questo terreno priva di fondamento giustificativo. Si consideri poi che, come detto, non si tiene in alcuna considerazione la possibilita' dell'assenza del giustificato motivo quale elemento costitutivo del reato. Il legislatore e' pertanto legittimato a ricorrere alla pena solamente in relazione ad offese a beni giuridici arrecate colpevolmente, offese personalmente rimproverabili al proprio autore. Tale principio e' inoltre strettamente correlato alla funzione generalpreventiva della pena: essendo l'obiettivo della comminatoria legale delle pene l'orientamento delle scelte di comportamento dei consociati, gli effetti motivanti perseguiti possono essere raggiunti soltanto se il fatto vietato e' frutto di una libera scelta dell'agente o e' almeno dallo stesso evitabile con la dovuta diligenza. Nella stragrande maggioranza dei casi l'ingresso e il trattenimento «illegale» nel territorio dello Stato e' l'effetto della disperazione e della ricerca di'condizioni migliori di vita, che ogni essere umano ha diritto di raggiungere, senza che un semplice trasferimento territoriale possa essere considerato fatto penalmente rilevante. 4) Nell'art. 10 bis del d.lgs. n. 286/1998 e' dato vedere anche una lesione del principio di offensivita', in quanto non puo' esservi reato senza offesa ad un bene giuridico, cioe' ad una situazione di fatto o giuridica, offendibile per effetto di un comportamento dell'uomo. Nessuno puo' essere punito per quello che e' o per quello che vuole, ma solamente per i fatti commessi che ledano o pongano in pericolo l'integrita' di un bene giuridico. La stessa Corte costituzionale ha attribuito al principio di offensivita' rango costituzionale come vincolo per il legislatore, sostenendo che quest'ultimo puo' reprimere con la pena soltanto fatti offensivi di beni giuridici (C. cost., 24 luglio 1995, n. 360). 5) Si intravede poi una violazione del principio di proporzione, ricavabile dall'art. 27 Costituzione e ad anche dall'art. 97 Costituzione, per quanto attiene al paramento del buon andamento, in relazione al comportamento ed all'organizzazione degli uffici giudiziari, come apparato burocratico, necessario per accertare e sanzionare questi reati, tale principio, infatti, viene leso nel momento in cui i vantaggi per la societa', ossia la prevenzione di fatti socialmente pericolosi, perseguiti attraverso le comminatorie di pena non sono controbilanciati con i costi immanenti alla pena stessa, in termini di sacrificio per i beni della liberta' personale, del patrimonio, dell'onore, ecc. In questi, come in altri casi similiari, il legislatore deve rinunciare ad attribuire rilevanza penale a quei fatti che cagionano a livello sociale un danno non equivalente a detti valori e che possono comportare delle disfunzioni nel sistema di organizzazione della giustizia, anche in relazione al personale (Uffici Giudiziari) e costi, che devono poi essere impegnati, per sanzionare questi fatti di dubbio disvalore penale e pregiudizio effettivo per la collettivita'. Si pensi solo al fatto che l'introduzione del reato in esame, inoltre, produrrebbe una crescita abnorme di ineffettivita' del sistema penale, gravato di centinaia di migliaia di ulteriori processi privi di reale utilita' sociale e condannato per cio' alla paralisi. Ne' questo effetto sarebbe scongiurato dalla attribuzione della relativa cognizione al giudice di pace (con alterazione degli attuali criteri di ripartizione della competenza tra magistratura professionale e magistratura onoraria e snaturamento della fisionomia di quest'ultima): da un lato perche' la paralisi non e' meno grave se investe il settore di giurisdizione del giudice di pace, dall'altro per le ricadute sul sistema complessivo delle impugnazioni, gia' in grave sofferenza. Senza dimenticare i costi di questi accertamenti penali, che sono poi destinati a non portare nulla in termine di incasso delle ammende irrogate, stante l'insolvenza conclamata ed a priori di questi soggetti, che sconsigliano anche un eventuale recupero coattivo di queste sanzioni pecuniarie. Cio' posto, si deve ritenere che sia senz'altro conforme a Costituzione solo le offese sufficientemente gravi, arrecate colpevolmente a beni giuridici degni di tutela, meritano il ricorso alla pena. Ne consegue il divieto per il legislatore di fare ricorso alla pena in relazione a tipi di fatti per i quali la pena non sia in grado di produrre alcun effetto di prevenzione generale, ma al contrario produca l'effetto opposto. Il principio di proporzione e' ancorato alla Costituzione, rappresentando infatti il prius logico del principio di rieducazione del condannato sancito dall'art. 27 comma 3 della Costituzione. 6) Nel caso in esame viene violato anche il principio di sussidiarieta', in quanto la pena non e' ne' proporzionata alla gravita' del fatto, ne' risulta necessaria, come ultima ratio. Tale principio e' ricollegato al principio enunciato dall'art. 13 comma 1 della Costituzione, che riconosce il carattere inviolabile alla liberta' personale. Dovrebbero essere estranei alla sfera del penalmente rilevante anche fatti di notevole gravita' quando l'effetto di dissuadere i consociati dal commetterli possa essere comunque raggiunto attraverso interventi di politica sociale o la previsione di sanzioni meno invasive di quella penale. La Costituzione impone al legislatore di fare della pena un uso il piu' possibile limitato, solamente come strumento residuale, in assenza di altri strumenti idonei ad assicurare una pari tutela al bene giuridico. Il ricorso alla pena, infatti, si legittima nel nostro ordinamento solamente per finalita' di prevenzione generale, entro i limiti imposti dal principio della rieducazione del condannato. Si rammentano al riguardo le parole espressa dalla Corte costituzionale con riguardo al reato di mendicita': «Gli squilibri e le forti tensioni che caratterizzano le societa' piu' avanzate producono condizioni di estrema emarginazione, si' che (...) non si puo' non cogliere con preoccupata inquietudine l'affiorare di tendenze, o anche soltanto tentazioni, volte a ''nascondere'' la miseria e a considerare le persone in condizioni di poverta' come pericolose e colpevoli». Queste parole con le quali la Corte costituzionale dichiaro' l'illegittimita' del reato di «mendicita'» di cui all'art. 670, comma 1, cod. pen. (sent. n. 519 del 1995) offrono ancora oggi una guida per affrontare questioni come quella dell'immigrazione con strumenti adeguati allo loro straordinaria complessita' e rispettosi delle garanzie fondamentali riconosciute dalla Costituzione a tutte le persone. 7) Collegandoci a quanto da ultime esposto, entra in gioco anche la violazione del principio di solidarieta' sociale art. 2 e 3 comma 1 e 2 della Costituzione, poiche' l'introduzione di questa figura di reato determina ed induce ad una condizione di isolamento e di rifiuto da parte della societa' nei confronti dell'immigrato. La norma in esame prevede l'indiscriminata illiceita' penale del soggiorno illegale nel territorio dello Stato dei soggetti migranti, i quali sono solitamente motivati dalla ricerca di migliori condizioni di vita rispetto alla poverta' ed alle oppressioni sofferte nei propri Paesi, e questo provoca una variazione radicale del modo di pensare e di rapportarsi dei cittadini e della societa' con quelle persone con grandi difficolta' di vita, in condizioni di poverta', che necessiterebbero di solidarieta', sostegno ed accoglienza, e che invece rischiano di trovarsi di fronte ad atteggiamenti duri, severi e diffidenti. Vi e' il pericolo che quella societa' aperta e solidale, basata sull'accoglienza, sul sostegno e sull'emancipazione di coloro che hanno bisogno di aiuto e si trovano in situazioni svantaggiate, poco favorevoli, si trasformi in una societa' chiusa, pronta ad emarginare tutto cio' che insospettisce, e di cui si diffida, unga'societa' in cui si diffondo comportamenti ostili ed aggressivi nei confronti del «diverso». E' noto che l'art. 2 della Costituzione riconosce diritti di rango ultra costituzionale, prescindendo dalla qualifica di cittadino, a favore di chiunque sia un essere umano, qualificando tali diritti con il termine inviolabili. Ebbene tra questi diritti inviolabili, che non sono nominati, ma sono notoriamente ricavabile dalle principali Convenzioni internazionali sulla salvaguardia dei diritti umani, si stagliano quelli fondati sui principi della solidarieta' politica, economica e sociale, che non possono quindi essere contraddetti dalla previsione di un comportamento penalmente sanzionabile, che secondo l'art. 10-bis verrebbe a colpire prima di tutto proprio soggetti bisognosi di questa solidarieta', che per tale ragione raggiungono le nostre coste, mettendo a rischio l'unica cosa, che gli resta, cioe' la propria vita umana e che appena raggiungono la loro ancora di salvezza, verrebbero per cio' solo ad essere penalmente sanzionati. 8) Viene chiamato in causa anche l'art. 10 cost. in quanto la configurazione come reato del soggiorno non regolare dello straniero nel territorio dello Stato contrasta con i principi affermati in materia di immigrazione nel diritto internazionale generalmente riconosciuto, e con il diritto di libera circolazione e di soggiorno dei cittadini comunitari sancito nell'art. 18 del Trattato Istitutivo della Comunita' europea, venendo percio' a violare il principio costituzionale, secondo cui l'Italia si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute.
P. Q. M. Visti gli artt. 137 della Costituzione, 1 della legge cost. 9 febbraio 1948 n. 1, 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87, ritenuta la rilevanza e non manifesta infondatezza, solleva d'ufficio questione di legittimita' costituzionale dell'art. 10-bis del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, introdotto dall'art. 1 comma 16 della legge 15 luglio 2009 n. 94, nella parte in cui prevede come reato il fatto dello straniero che si trattiene nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del medesimo testo unico, con riferimento agli artt. 2, 3, 10, 13 e 27 della Costituzione, nonche' dei principi costituzionali di ragionevolezza della legge penale e di offensivita' e degli principi espressi nella presente ordinanza. Ordina l'immediata trasmissioni degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso. Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Valdagno (Vicenza), addi' 15 marzo 2010 Il giudice di pace: Lequaglie