N. 21 ORDINANZA (Atto di promovimento) 5 novembre 2010
Ordinanza del 5 novembre 2010 emessa dal G:I.P. del Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di B.B. . Processo penale - Misure cautelari - Criteri di scelta delle misure - Applicazione o sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari o comunque con altra meno afflittiva in relazione alle fattispecie di cui all'art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 (Associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope) - Preclusione - Violazione del principio di ragionevolezza - Parita' di trattamento con i delitti, diversamente strutturati, di associazione di stampo mafioso - Lesione del principio di inviolabilita' della liberta' personale - Violazione del principio della presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva. - Codice di procedura penale, art. 275, comma 3, come modificato dall'art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, nella legge 23 aprile 2009, n. 38. - Costituzione, artt. 3, 13, primo comma, e 27, comma secondo.(GU n.7 del 9-2-2011 )
IL TRIBUNALE Vista la richiesta di' revoca o sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere cui e' attualmente sottoposto B. B. nata a No nel procedimento sopraindicato formulata dal difensore R. Brizio; Visto il parere contrario espresso dal P.M.; Osserva B.B. e' attualmente sottoposta alla misura cautelare della custodia in carcere a far data dal 22 aprile 2009 per i reati di cui agli artt. 74 e 73 d.P.R. n. 309/90 commessi a N. e S. dal 2006 fino alla data di esecuzione della misura cautelare. In particolare all'imputata B. sono attribuite la condotta di partecipe ad un'associazione a delinquere finalizzata all'acquisto ed alla successiva cessione di sostanze stupefacenti, nonche' plurimi episodi di acquisto e vendita di stupefacente commessi nell'arco temporale sopra descritto. Nei confronti dell'imputata e' stato celebrato il processo di primo grado con le forme del giudizio abbreviato, all'esito del quale, in data 16 giugno 2010, e' stata emessa sentenza di condanna alla pena complessiva di 9 anni di reclusione. Il difensore chiede la revoca della misura cautelare in corso o la sostituzione con misure cautelari meno afflittive, quali l'obbligo di presentazione alla P.G. o gli arresti domiciliari, ponendo a sostegno dell'intervenuta cessazione o affievolimento del pericolo di reiterazione di reati analoghi plurime circostanze quali l'efficacia deterrente del lungo periodo di detenzione finora patito dall'imputata, la sua incensuratezza, il comportamento sostanzialmente collaborativo tenuto nel corso del processo e l'esigenza di riallacciare i rapporti con i figli minori di dieci e nove anni ad oggi in affidamento in forza di provvedimento del Tribunale peri Minorenni, rapporti interrotti dall'inizio della carcerazione preventiva e la cui ripresa e' subordinata ad una sua collocazione alternativa al carcere. Il difensore ha prodotto una dichiarazione di disponibilita' ad accogliere la signora B. in regime di arresti domiciliari da parte della responsabile dell'istituto Missionario della Carita' sito in M. Ritiene questo giudice che le argomentazioni difensive poste a sostegno dell'istanza non siano idonee a convincere della cessazione delle esigenze cautelari a carico dell'imputata, anche con specifico riferimento all'art. 74 d.P.R. n. 309/1990, considerata la professionalita' dimostrata nella conduzione nella gestione delle attivita' di spaccio in cui si e' estrinsecata l'operativita' del sodalizio a cui la stessa ha partecipato, circostanze queste che non consentono, allo stato, di rinunciare ad ogni forma di cautela nei suoi confronti. Peraltro, le circostanze evidenziate dal difensore non possono non essere considerate quali elementi da valorizzare positivamente nell'ambito di una valutazione di affievolimento del quadro cautelare, anche in ragione delle peculiarita' della vicenda in cui si inseriscono le condotte di reato, che ha visto il vincolo associativo svilupparsi in ambito sostanzialmente familiare in un periodo nel quale quasi tutti gli associati erano anche consumatori di stupefacente: il lungo periodo di carcerazione patito - costituente per la signora B. la prima esperienza detentiva - la comprensione del disvalore delle proprie condotte e l'esigenza da tempo manifestata dalla donna di riprendere a svolgere il proprio ruolo genitoriale attraverso una progressiva ripresa di contatti con i figli minori sono tutti elementi che, valutati unitamente alla comprovata disponibilita' di un domicilio idoneo a garantire la lontananza della stessa dagli ambienti criminali in cui sono maturate le condotte in contestazione, inducono a ritenere, allo stato, adeguata a fronteggiare il sussistente pericolo di reiterazione di reati analoghi la misura cautelare degli arresti domiciliare presso l'istituto religioso indicato dal difensore. Risulta infatti conforme allo spirito delle norme in materia cautelare il fatto che il processo di graduale superamento dei fattori criminogeni e della conseguente pericolosita' sociale da parte dell'imputato venga accompagnato da misure cautelari via via attenuate durante le quali si' possa verificare la reale intenzione dello stesso di impostare il proprio futuro comportamento nel rispetto della legalita' e dei valori tutelati dal nostro ordinamento. Cio' posto si rileva che la normativa attualmente esistente in materia di criteri di scelta delle misure cautelari non consente, pur in presenza di un giudizio di affievolimento del quadro cautelare, di adottare il provvedimento di sostituzione richiesto dal difensore. L'ostacolo e' costituito dalla presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura della custodia cautelare in carcere, introdotta dalla recente modifica dell'art. 275, comma 3 c.p.p. operata dall'art. 2, comma 1, lett a) del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 - convertito con legge 23 aprile 2009 n. 45 - applicabile in caso di sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine ad una serie molto ampia di reati, individuati attraverso il rinvio ai delitti di cui all'art. 51 commi 3-bis e quater c.p.p. operato dalla norma in questione, tra i quali e' compreso quello di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/90 per cui si procede. La norma stabilisce una presunzione - relativa - di sussistenza di esigenze cautelari («salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari»), in presenza delle quali vi e' una presunzione legale assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare della custodia in carcere. Tale ultima disposizione pone, a parere di chi scrive, dubbi di legittimita' costituzionale che impongono la sospensione del procedimento e la rimessione degli atti all'esame della Corte costituzionale. La rilevanza della questione discende oltre che dalle argomentazioni sopra esposte in ordine alla valutazione di attenuazione delle esigenze cautelari che imporrebbero la sostituzione della misura cautelare in corso, anche dalla consolidata e condivisibile interpretazione della giurisprudenza di legittimita' secondo cui l'applicabilita' della disposizione di cui all'art. 275, terzo comma c.p.p., quale norma di carattere processuale ed in virtu' del principio tempus regit actum, si estende anche alla misure cautelari da adottare peri fatti delittuosi commessi anteriormente alla entrata in vigore della norma stessa (da ultimo Cass. 16 giugno 2008, n. 24433): cio' in ossequio alla distinzione tra norme sostanziali e norme processuali e per il carattere proprio della materia cautelare, caratterizzata dalla strumentalita' rispetto al procedimento di merito, dalla fluidita' e conseguente continua modificabilita' delle decisioni, perche' rivolte alla salvaguardia delle esigenze cautelari, in una visione sempre prognostica e sempre necessariamente aderente allo stato del procedimento. A parere di chi scrive non e' manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, c.p.p., per violazione degli artt. 3, 13 primo comma e 27 secondo comma della Costituzione. La norma in questione, nella parte in cui estendeva la presunzione assoluta di adeguatezza della misura di massima afflittivita' ai reati sessuali, e' gia' stata sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale che, con la pronuncia n. 265 del 2010, (G.U. 28 luglio 2010) ha dichiarato «l'illegittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche' in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure». La sentenza richiamata ha evidenziato la sussistenza di profili di contrasto della normativa in questione con gli artt. 3, 13 primo comma e 27 secondo comma della Costituzione sulla base di un percorso argomentativo che investe i principi cardine in materia di liberta' personale e misure cautelari. Partendo dal presupposto secondo cui i limiti di legittimita' costituzionale delle norme in materia di misure cautelari sono espressi dal principio di inviolabilita' della liberta' personale di cui all'art. 13 primo comma Cost. e dalla presunzione di non colpevolezza, in forza della quale l'imputato non e' considerato colpevole fini alla condanna definitiva, la Corte ha osservato che "l'apparente antinomia tra la presunzione di non colpevolezza e l'espressa previsione da parte della stessa carta Costituzionale di una detenzione ante iudicium e' in effetti solo apparente: giacche' e' proprio la prima a segnare, in negativo, i confini di ammissibilita' della seconda. Affinche' le restrizioni della liberta' personale dell'indagato o imputato nel corso del procedimento siano compatibili con la presunzione di non colpevolezza e' necessario che esse assumano connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena, irrogabile solo dopo l'accertamento definitivo della responsabilita': e cio', ancorche' si tratti di misure - nella loro specie piu' gravi - ad essa corrispondenti sul piano del contenuto affluivo. Il principio enunciato dall'art. 27, secondo comma, Cost. rappresenta, in altre parole, uno sbarramento insuperabile ad ogni ipotesi di assimilazione della coercizione processuale penale alla coercizione propria del diritto penale sostanziale, malgrado gli elementi che le accomunano. Da cio' consegue - come questa Corte ebbe a rilevare sin dalla sentenza n. 64 del 1970 - che l'applicazione delle misure cautelari non puo' essere legittimata in alcun caso esclusivamente da un giudizio anticipato di colpevolezza, ne' corrispondere -direttamente o indirettamente - a finalita' proprie della sanzione penale, ne', ancora e correlativamente, restare indifferente ad un preciso scopo (cosiddetto «vuoto dei fini»). Il legislatore ordinario e' infatti tenuto, nella tipizzazione dei casi e dei modi di privazione della liberta', ad individuare - soprattutto all'interno del procedimento e talora anche all'esterno (sentenza n. 1 del 1980) - esigenze diverse da quelle di anticipazione della pena e che debbano essere soddisfatte - entro tempi predeterminati (art. 13, quinto comma, Cost.) - durante il corso del procedimento stesso, tali da giustificare, nel bilanciamento di interessi meritevoli di tutela il temporaneo sacrificio della liberta' personale di chi non e' stato ancora giudicato colpevole in via definitiva. Ulteriore indefettibile corollario dei principi costituzionali di riferimento e' che la disciplina della materia debba essere ispirata al criterio del «minore sacrificio necessario» (sentenza n. 299 del 2005): la compressione della liberta' personale dell 'indagato o dell 'imputato va contenuta, cioe', entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari riconoscibili nel caso concreto. Sul versante della «qualita'» delle misure, ne consegue che il ricorso alle forme di restrizione piu' intense - e particolarmente a quella «massima» della custodia carceraria - deve ritenersi consentito solo quando le esigenze processuali o extraprocessuali, cui il trattamento cautelare e' servente, non possano essere soddisfatte tramite misure di minore incisivita'. Questo principio e' stato affermato in termini netti anche dalla Corte europea dei diritti dell 'uomo, secondo la quale, in riferimento alla previsione dell'art. 5, paragrafo 3, della Convenzione, la carcerazione preventiva «deve apparire come la soluzione estrema che si giustffica solamente allorche' tutte le altre opzioni disponibili si rivelino insufficienti» (sentenze 2 luglio 2009, Vafiadis contro Grecia, e 8 novembre 2007, Lelievre contro Belgio). Il criterio del "minore sacrificio necessario" impegna, dunque, in linea di massima, il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della "pluralita' graduata", predisponendo una gamma alternativa di misure, connotate da differenti gradi di incidenza sulla liberta' personale; dall'altra, a prefigurare meccanismi "individualizzati" di selezione del trattamento cautelare, parametrati sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete. Accanto al principio del «sacrificio minimo necessario», la Corte ha individuato quale tratto saliente della materia relativa alle misure cautelari l'assenza di presunzioni o automatismi, in quanto contrastanti con la necessita' di realizzare una «piena individualizzazione» della coercizione cautelare basata sulla valutazione del caso concreto, alla stregua dei principi di adeguatezza, proporzionalita' e minor sacrificio. E' in tale cornice che si inserisce la disciplina prevista dall'art. 275, terzo comma c.p.p., che, per taluni delitti analiticamente elencati, opera una duplice presunzione: la prima, a carattere relativo, riguarda la sussistenza di esigenze cautelari in assenza di prova della loro assenza; la seconda incide sulla scelta della misura cautelare adeguata a fronteggiare tali esigenze, scelta che viene sottratta all'apprezzamento del giudice ed affidata ad una valutazione legale e precostituita, svincolata dal caso concreto. La Corte rammenta che tale disciplina, derogatoria rispetto ai principi generali sopra ricordati, non era originariamente presente nell'impianto codicistico, ma e' stata via via inserita attraverso lo strumento della decretazione d'urgenza: in un primo tempo era stata introdotta la deroga con riferimento ai reati di criminalita' mafiosa ed altri gravi reati, deroga poi successivamente limitata ai soli reati di cui all'art. 416-bis c.p. o commessi avvalendosi della condizioni di cui all'art. 416-bis c.p. o al fine di agevolare le associazioni previste da tale articolo. Il vaglio costituzionale della norma novellata, effettuato dalla Corte con l'ordinanza n.450 del 1995, aveva consentito di delineare le condizioni di compatibilita' della disciplina derogatrice rispetto ai principi generali sopra enunciati. I giudici avevano escluso che, in relazione ai "reati di mafia" tale presunzione violasse gli artt. 3, 13 primo comma e 27 della Costituzione osservando che la scelta di affidare al giudice la valutazione circa l'adeguatezza delle misure cautelare, non e' scelta indefettibile, "potendo essere effettuata in termini generali dal legislatore, purche' nel rispetto del limite della ragionevolezza e del corretto bilanciamento degli interessi costituzionali coinvolti". Secondo la Corte la non irragionevolezza dell'esercizio della discrezionalita' legislativa era resa manifesta dalla "delimitazione della norma all'area dei delitti di criminalita' organizzata di tipo mafioso (..) atteso il coefficiente di pericolosita' per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere e' connaturato" (Ordinanza Corte Cost. n. 450/1995). Tale valutazione era stata condivisa dalla Corte di Strasburgo che - pronunciando su un ricorso volto a denunciare l'irragionevole durata della custodia cautelare in carcere applicata ad un indagato per il delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen. e la conseguente violazione dell'art. 5, paragrafo 3, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo - aveva ritenuto la disciplina in esame giustificabile alla luce "della natura specifica del fenomeno della criminalita' organizzata e soprattutto di quella di stampo mafioso", segnatamente in considerazione del fatto che la carcerazione provvisoria delle persone accusate del delitto in questione «tende a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine, al fine di minimizzare il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti" (sentenza 6.11.3003 Pantano contro Italia). La normativa introdotta dal D.L. 23 febbraio 2009 n.11 del 2009 compie, secondo i giudici della Corte costituzionale, un "salto di qualita' a ritroso" rispetto alla novella del 1995 in quanto "riespande l'ambito di applicazione della disciplina eccezionale ai procedimenti aventi ad oggetto numerosi altri reati, individuati in parte mediante diretto richiamo agli articoli di legge che descrivono le relative fattispecie e per il resto tramite rinvio "mediato" alle norme processuali di cui all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen.», facendo ricadere nell'operativita' della norma di cui all'art. 275 comma III c.p.p. «fattispecie penali eterogenee, poste a tutela di differenti beni giuridici assai diversamente strutturate e con trattamenti sanzionatori anche notevolmente differenziati.». La Corte costituzionale, chiamata a valutare la legittimita' di tale deroga in relazione ad una specifica categoria di reati (i reati sessuali) introdotta con la novella legislativa, ha ribadito e definitivamente cristallizzato il principio secondo cui "le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe' se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit»" e ha definito in positivo il contenuto del principio di ragionevolezza nella materia in questione affermando che, "l'irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia "agevole" formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa». Quindi ha spiegato i motivi per i quali tale generalizzazione sia possibile con riferimento ai reati di mafia in senso stretto, ribadendo le peculiarita' della struttura dei delitti di mafia e delle relative connotazioni criminologiche nel senso che l'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un'adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice - peculiarita' che consentono di enucleare la regola di esperienza di carattere generale secondo la quale soltanto la misura cautelare di massima afflittivita' puo' essere ritenuta idonea a fronteggiare le esigenze cautelari ed in particolare la necessita' di recidere i rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosita'. E' proprio partendo dal raffronto con tali caratteristiche strutturali che la Corte e' giunta ad una differente conclusione peri delitti sessuali che, pur odiosi e riprovevoli, sono governati da una regola di esperienza diversa, ossia quella secondo la quale i fatti concreti riferibili a tali fattispecie, sono molteplici, ricomprendono condotte nettamente differenti quanto a modalita' lesive del bene protetto e possono essere caratterizzati dal fatto di essere commessi all'interno di specifici contesti: presentano dunque disvalori differenziabili, ma soprattutto possono proporre esigenze cautelari suscettibili di essere soddisfatte con diverse misure. Le pronunce della Corte sopra analizzate consentono di enucleare precisi limiti rispetto ai quali misurare la costituzionalita' della disciplina derogatoria prevista dall'art. 275 comma III c.p.p. con riferimento ai reati introdotti dal D.L. del 2009 e, per cio' che qui interessa, al reato di cui all'art. 74 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/90. Si tratta di limiti negativi, che derivano dall'operativita' del principio di non colpevolezz,a per cui la deroga non puo' essere giustificata ne' dalla gravita' astratta del reato - rilevante nel giudizio di determinazione della pena, ma non idonea a fungere da elemento preclusivo ai fini della verifica della sussistenza di misure cautelari - ne' dalla necessita' di eliminare o ridurre l'allarme sociale cagionato dal reato, che e' funzione istituzionale della pena perche' presuppone la certezza circa il responsabile della persona che tale allarme ha provocato. Ma vi sono anche limiti positivi costituiti dal rispetto del principio di ragionevolezza posto alla base del giudizio di bilanciamento degli interessi tutelati dall'ordinamento, che viene declinato dalla Corte nel senso di ragionevole possibilita', in relazione a specifiche fattispecie criminose, di enucleare regole di esperienza di carattere generale che consentano di formulare a priori una valutazione di adeguatezza della sola misura cautelare carceraria ed escludere, al contempo, la ragionevole possibilita' di ipotizzare accadimenti contrari a quelli considerati dalla regola di esperienza: si tratta di una "prova di resistenza" da effettuarsi sulla base delle caratteristiche strutturali delle fattispecie criminose prese in considerazione e che la Corte ha affrontato e superato con riferimento ai delitti di mafia. Il delitto di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/90 e' una figura speciale del delitto di associazione a delinquere che si differenzia da questo solo per la specificita' del programma criminoso, costituito dalla commissione di piu' delitti tra quelli previsti dall'art. 73 d.P.R. n. 309/90. Le caratteristiche strutturali di tale figura criminosa, per il resto, non divergono da quelle proprie del reato associativo comune, come e' agevole desumere dalle plurime e ncordi pronunce della Suprema Corte che ne hanno delineato i tratti distintivi sottolineando come gli elementi essenziali siano costituiti dal carattere indeterminato del programma criminoso e dalla permanenza della struttura, non essendo necessario un accordo consacrato in atti di costituzione, statuto, regolamento, iniziazione o in altre manifestazioni di formale adesione, ne' una vera e propria organizzazione con gerarchie interne e distribuzione di specifiche cariche e compiti, ma essendo sufficiente una generica forma organizzativa, sia pure imperfetta e rudimentale, deducibile dalla predisposizione di mezzi, anche semplici ed elementari, per il perseguimento del fine comune. Si tratta, dunque, di una fattispecie aperta nella quale, come insegna l'esperienza, ricadono una molteplicita' e varieta' di fenomeni criminali, anche molto differenti l'uno dall'altro, che vanno dal sodalizio operante a livello internazionale con ramificazioni in piu' Stati, strutturato secondo una vera e propria struttura imprenditoriale che controlla anche la produzione oltre che l'immissione dello stupefacente, a fenomeni intermedi di gruppi attivi in parti piu' o meno estese del territorio, che operano in regime di monopolio, in collegamento con canali di fornitura estranei al sodalizio, fino ad arrivare a gruppi radicati in ambiti locali molto ristretti, con organizzazione assai rudimentale (spesso limitata al possesso di autovetture o telefoni cellulare), ma comunque caratterizzati dalla c.d. affectio societatis che costituisce il nucleo essenziale del reato associativo comune, cosi' come di quello di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/90. La Corte di Cassazione ha ravvisato l'associazione per delinquere anche nel vincolo che accomuna, in maniera durevole, il fornitore della droga ed i venditori che la ricevono per immetterla nel consumo al minuto, non ritenendo di ostacolo alla costituzione del rapporto associativo la diversita' degli scopi personali e la differente utilita' che i singoli si propongono di ricavare, sempre che vi sia da parte di tutti la consapevolezza di operare nell'ambito di un'unica associazione e di contribuire con i ripetuti apporti alla realizzazione del fine comune di trarre profitto dal commercio della droga (Cass., Sez. 7 agosto 1996, Timpani). La stessa norma incriminatrice mostra di considerare la molteplicita' di forme di manifestazione di tale reato e la diversa rilevanza delle stesse sul piano della lesione degli interessi tutelati laddove, al comma VI, prevede l'ipotesi specifica dell'associazione costituita per commettere i fatti descritti dal comma V dell'art. 73, d.P.R. n. 309/90, con un rinvio alle sanzioni previste dall'art. 416 primo e secondo comma c.p. Appaiono quindi evidenti le differenze strutturali tra tali fattispecie e quelle proprie dei reati di mafia che giustificano, a giudizio della Corte costituzionale, la presunzione assoluta di cui all'art. 275 comma III c.p.p.: i reati previsti dall'art. 74 d.P.R. n. 309/90 non sono necessariamente connotati da forte radicamento del territorio, da fitti collegamenti personali o da particolare forza intimidatrice. Difettano soprattutto le peculiarita' dell'associazione mafiosa, peculiarita' storiche e sociologiche prima ancora che giuridiche, che consistono nell'adesione, senza possibilita' di recesso, ad un sistema illegale parallelo a quello dello Stato, consolidato nel tempo e preesistente nella sua struttura essenziale rispetto ai singoli fenomeni associativi, basato su regole proprie ed alternative a quelle democratiche e che, attraverso attivita' criminose che coinvolgono i piu' svariati settori della vita pubblica e privata, mira ad interferire con le istituzioni per assicurarsi potere e stabilita'. Sono queste le caratteristiche che rendono possibile, per i reati di mafia, enucleare una regola generale di esperienza secondo la quale soltanto la custodia cautelare in carcere e' strumento idoneo a preservare le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che simili reati mettono a rischio. Tale generalizzazione non appare possibile per i reati di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/90 per i quali, invece, si possono ragionevolmente ipotizzare situazioni di gravita' e complessita' differenziata, che incidono in maniera nettamente differente sul bene giuridico tutelato costituito dall'ordine pubblico; situazioni che, sotto il profilo cautelare, possono essere fronteggiate anche con misure cautelari diverse, in una valutazione che tenga conto di plurimi elementi, anche sopravvenuti rispetto al momento applicativo della misura, quali ad esempio l'allentarsi dei legami tra gli associati in ragione di prolungate detenzioni, o il superamento di condizioni personali, quali lo stato di tossicodipendenza, che talvolta favoriscono la creazione di gruppi criminali dediti allo spaccio. Accadimenti, questi, che non sono invece ragionevolmente ipotizzabili per i reati di mafia che, secondo una regola generale di esperienza, presuppongono un patto inscindibile tra gli associati che resiste agli ostacoli costituiti dalle vicende giudiziarie e che presuppone una radicale scelta di vita alternativa alla legalita'. Una regola generalizzata di esperienza che giustifichi la presunzione di adeguatezza di cui all'art. 275 comma III c.p.p. con riferimento ai reati di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/90 non si puo' neppure trarre dal carattere di reato associativo che li accomuna a quelli di mafia. Diversamente non si giustificherebbe l'esclusione dal novero dei reati introdotti dalla novella del 2009 dei reati associativi comuni in relazione ai quali tale presunzione non opera( fatta eccezione per ipotesi prevista dal comma VI dell'art. 416 c.p.) Non e', dunque, su tale elemento strutturale che puo' fondarsi una giustificazione della disciplina derogatoria. Ne' si possono operare generalizzazioni in ragione della natura dei reati-scopo propri dell'associazione di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/90 e della tutela particolarmente rigorosa approntata dal legislatore al bene della salute pubblica messo a repentaglio da un fenomeno oramai capillare come quello dello spaccio di stupefacente, posto che, come ricordato dalla Corte Costituzionale, la gravita' astratta del reato, sia in rapporto alla misura della pena, sia alla natura dell'interesse tutelato non puo' costituire una preclusione ai fini della verifica del grado delle esigenze cautelari e della scelta della misura piu' idonea a fronteggiarle, rilevando invece ai fini della commisurazione della sanzione o dell'esclusione o limitazione di benefici o riti premiali - quali ad esempio l'accesso al c.d. patteggiamento allargato o la concessione dell'indulto ai sensi dell'art. 1, comma 11, lett. b) legge n. 241/2006 - istituti che attengono alla fase del giudizio di colpevolezza e che esulano dalla materia cautelare. Alla luce delle considerazioni sopra esposte ritiene questo giudice che la norma di cui all'art. 275 comma III c.p.p. contrasti con il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, in quanto appare irragionevole l'estensione della presunzione di adeguatezza della sola misura cautelare carceraria ai reati di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/90, traducendosi nella previsione di un uguale trattamento di situazioni differenti tra loro senza che vi siano fondate ragioni per impedire la "piena individualizzazione" della coercizione cautelare. Di conseguenza la norma lede il principio di inviolabilita' della liberta' personale tutelato dall'art. 13 Costituzione perche' impone il massimo sacrificio di tale bene primario all'esito di un giudizio di bilanciamento di interessi non corretto, in quanto non rispettoso del principio di ragionevolezza. La norma contrasta, infine, con la presunzione di non colpevolezza prevista dall'art. 27 comma II della Costituzione perche', vanificando il principio di adeguatezza in difetto di una ratio collegata alla struttura della fattispecie criminose di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/90, affida al regime cautelare funzioni proprie della sanzione penale che, per essere inflitta, richiede un giudizio definitivo di responsabilita'. Per questi motivi si impone la rimessione della questione alla Corte costituzionale, con conseguente sospensione del procedimento ed immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
P.Q.M. Visti gli artt. 299 c.p.p., 1 legge cost. 9 febbraio 1948, 23 legge 11 marzo 1953 n. 87, Solleva d'ufficio questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 275, comma terzo, c.p.p. cosi' come modificato dal decreto-legge 23 febbraio 2009 n. 11, convertito con legge 23 aprile 2009 n. 45, nella parte in cui non consente l'applicazione o la sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari o comunque con altra meno affittiva in relazione alle fattispecie di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/90 per violazione degli artt. 3, 13 comma 1 e 27 secondo comma della Costituzione; Sospende il procedimento in corso; Ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina la notificazione della presente ordinanza alla parti del procedimento; Ordina altresi' la notificazione della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri, e la sua comunicazione ai presidenti di Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati. Manda alla cancelleria per gli adempimenti conseguenti. Torino, addi' 4 novembre 2010 Il Giudice: Gallo