N. 34 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 ottobre 2010

Ordinanza del 21 ottobre 2010 emessa dal  Tribunale  di  Catania  sul
ricorso proposto da C. P. ed altri contro Societa' Cooperativa UMR  -
Unita' Medicina della Riproduzione. 
 
Procreazione medicalmente assistita - Accesso alle tecniche - Divieto
  assoluto di ricorrere alla fecondazione medicalmente  assistita  di
  tipo  eterologo  e  previsione  di  sanzioni  nei  confronti  delle
  strutture che dovessero praticarla - Contrasto con le  norme  della
  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti   dell'uomo   che
  stabiliscono il diritto al rispetto della vita privata e  familiare
  e il divieto di discriminazione, come interpretate in rapporto alla
  fecondazione eterologa dalla Corte EDU nel caso S.H. e altri contro
  Austria -  Conseguente  violazione  di  obblighi  internazionali  -
  Discriminazione fra coppie sterili in base al grado di infertilita'
  ed alle disponibilita' finanziarie - Contrasto  con  la  finalita',
  perseguita dalla legge, di risolvere i problemi  procreativi  della
  coppia - Irragionevolezza  sotto  piu'  profili  -  Violazione  del
  diritto    alla    formazione    di    una    famiglia    e    alla
  maternita'/paternita' - Lesione del diritto  alla  vita  privata  e
  familiare e del diritto di identita' e di autodeterminazione  delle
  coppie   infertili   o   sterili   -    Possibile    compromissione
  dell'integrita' fisio-psichica delle coppie stesse. 
- Legge 19 febbraio 2004, n. 40, artt. 4, comma 3, 9, commi  1  e  3,
  limitatamente alle parole "in violazione del divieto  dell'art.  4,
  comma 3", e 12, comma 1. 
- Costituzione, artt. 2, 3, 31, 32, primo e  secondo  comma,  e  117,
  primo comma, in relazione agli artt. 8 e 14 della  Convenzione  per
  la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali
  [come interpretati dalla sentenza 1° aprile 2010  della  Corte  EDU
  (sez. 1^), nel caso S.H. e altri contro Austria]. 
(GU n.10 del 2-3-2011 )
 
                            IL TRIBUNALE 
 
    Nel procedimento n. 7305/10 R.G. ex art. 700 c.p.c. promosso ante
causam da C. P. e R. G., con gli  avvocati  Maria  Paola  Costantini,
Sebastiano Papandrea, prof. Marilisa D'Amico, Ileana Alesso e Massimo
Clara, ricorrenti; 
    Contro  societa'  cooperativa  UMR  -   Unita'   medicina   della
riproduzione,  in  persona  del  legale  rappresentante  G.  A.   con
l'avvocato Franco Luciano Arona, resistente. 
    Letti gli atti,  esaminati  i  documenti,  a  scioglimento  della
riserva formulata  il  21  settembre  2010,  ha  emesso  la  seguente
ordinanza. 
    I ricorrenti, C.p R. (n. 14 marzo 74) e R.  G.  (n.  13  febbraio
1971), coniugati dal 2005, affermano di essere  coppia  infertile  ai
sensi della legge n. 40 del 2004, essendo  stata  accertata,  per  il
partner femminile,  ancora  trentaseienne,  una  sterilita'  assoluta
causata da menopausa precoce. 
    Dopo essersi rivolti a vari specialisti,  contattavano  prima  il
Centro del dott. G. di Ragusa il quale suggeriva un  unico  tentativo
di «bombardamenti ormonali», quindi, si  rivolgevano  al  Centro  UMR
specializzato in medicina della riproduzione, del quale e'  direttore
responsabile il dott.  A.  G.  che  nel  confermare  la  diagnosi  di
infertilita' dovuta  a  menopausa  precoce  dichiarava  che  riteneva
inutile e potenzialmente  dannoso  per  la  salute  della  sig.ra  C.
procedere con ulteriori cure ormonali sicche' l'unica via  seriamente
percorribile per risolvere i problemi d'infertilita' era  il  ricorso
alla c.d. «ovodonazione»; i coniugi R.  C.,  si  rivolgevano,  a  tal
fine, al predetto centro UMR, chiedendo  che  venisse  eseguita  tale
tecnica. 
    Il  dott.  G.  A.  direttore  responsabile  del  Centro,  odierno
resistente, pur concordando con il fatto che, nel caso in  questione,
l'unico modo per  ottenere  una  gravidanza  fosse  il  ricorso  alla
donazione di ovociti,  si  rifiutava  di  eseguire  tale  intervento,
ostando in  Italia  il  divieto  di  fecondazione  c.d.  «eterologa»,
secondo il dettato dell'art. 4, comma 3, della legge n. 40/2004  (che
vieta, appunto, il ricorso a tecniche  di  procreazione  medicalmente
assistita di tipo eterologo). 
    Tuttavia, i ricorrenti invitavano il dott. G. a voler  rivalutare
la  loro  situazione  ed  a  procedere  alla   tecnica   della   c.d.
«ovodonazione»,  confortati,  nella  loro  richiesta,  dalla  recente
sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo  (S.  H.  e  altri
contro Austria n. 57813/00) che ha dichiarato la  contrarieta'  della
legge austriaca sulla fecondazione medicalmente assistita agli  artt.
8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo,  nella  parte
in cui vieta, appunto, la fecondazione di tipo eterologo. 
    Ad avviso dei  ricorrenti,  affinche'  i  diritti  dell'uomo  non
abbiano una valenza diversa in Italia rispetto all'Austria, la  legge
n. 40 del 2004  necessita  di  un'interpretazione  costituzionalmente
orientata, in modo da  raggiungere  l'obiettivo  di  interpretare  le
norme primarie in conformita' sia alla Carta costituzionale, che alla
Convenzione europea dei diritti dell'uomo. 
    Hanno proposto, a tal fine, ricorso nei confronti del Centro  UMR
specializzato  in  medicina  della  riproduzione,  in   persona   del
direttore dott. G. A., sostenendo la necessita',  proprio  alla  luce
della recente sentenza della Corte europea dei  diritti  dell'uomo  e
dei principi da essa introdotti, di una rilettura del divieto di  cui
all'art. 4, comma 3, della legge italiana n. 40 del 2004, incentrata,
soprattutto, su una valorizzazione del combinato disposto degli artt.
4 e 5 della legge de quo. 
    Secondo l'art. 5, infatti, che disciplina i requisiti di  accesso
alle tecniche  di  fecondazione  assistita,  «fermo  restando  quanto
stabilito dall'art. 4, comma 1, possono  accedere  alle  tecniche  di
procreazione medicalmente assistita coppie di  maggiorenni  di  sesso
diverso, coniugate o  conviventi,  in  eta'  potenzialmente  fertile,
entrambi viventi». 
    L'art. 4, comma 1, richiamato dall'art. 5, definisce le cause  di
infertilita'  e  sterilita'  che  possono   essere   risolte   grazie
all'accesso  alle  tecniche  di  fecondazione  assistita,  mentre  il
divieto di fecondazione eterologa previsto dall'art. 4, comma  3  non
e' oggetto di alcun rinvio esplicito da parte dell'art. 5. 
    Per tale ragione, deve  ammettersi,  ad  avviso  dei  ricorrenti,
l'esistenza di uno spazio per una deroga al divieto di eterologa, che
si apre nel caso di coppie in grado di soddisfare i  requisiti  dello
stesso art. 5 (dunque, giova ripetere, coppie che  siano  maggiorenni
di sesso diverso, coniugate  o  conviventi,  in  eta'  potenzialmente
fertile, entrambi  viventi),  non  esistendo,  per  tali  coppie,  un
divieto espresso di fecondazione eterologa. 
    Sulla base della lettura costituzionalmente orientata prospettata
dai ricorrenti puo' accedere alla fecondazione assistita chi soddisfi
i requisiti soggettivi dell'art. 5,  indipendentemente  dal  tipo  di
tecnica, omologa o eterologa, di cui si chiede l'accesso. 
    Ferme restando tali  considerazioni,  parte  ricorrente  ritiene,
comunque, che i  rilevanti  vizi  di  ragionevolezza,  illogicita'  e
contraddittorieta' insiti nella interpretazione rigida  delle  citate
norme, si pongano  irrimediabilmente  in  contrasto  con  i  principi
costituzionali previsti dagli artt. 2, 3, 31, 32 e  con  l'art.  117,
primo comma della Costituzione. 
    Se l'art. 4, comma 3 della legge n. 40 vietasse davvero  in  modo
generalizzato la fecondazione eterologa, esso darebbe  adito  ad  una
discriminazione arbitraria tra coppie tutte infertili a  seconda  del
grado di infertilita': le coppie in cui uno dei coniugi  e'  incapace
di produrre  gameti  fecondabili  artificialmente  sarebbero  escluse
dalle tecniche di  fecondazione  assistita  mentre  tutte  le  coppie
affette da meno gravi  forme  di  infertilita'  sarebbero  capaci  di
beneficiare dei rimedi della legge n. 40. 
    Una  simile  interpretazione  condurrebbe,  pertanto,  secondo  i
ricorrenti, ad una violazione dell'art. 2 della Cost. che sancisce il
diritto di identita' e di autodeterminazione, dell'art. 3 della Cost.
che sancisce  il  principio  di  uguaglianza  ma  anche  degli  altri
parametri  costituzionalmente  evocati,  minando  il   diritto   alla
maternita' di cui all'art. 31  Cost.,  il  diritto  alla  salute  dei
componenti della coppia di cui all'art. 32 Cost., nonche' l'art. 117,
primo comma Cost.,  per  violazione  della  Convenzione  europea  dei
diritti dell'uomo. 
    I  ricorrenti  hanno  concluso  domandando   che,   ritenuta   la
sussistenza del fumus boni  juris  (sulla  base  dell'interpretazione
costituzionalmente orientata della normativa) e del periculum in mora
(stante  l'eta'  del  componente  di  sesso  femminile  della  coppia
coinvolta e della loro storia clinica, avendo gia' sostenuto  terapie
ormonali, tutte totalmente infruttuose,  oltre  che  dannose  per  la
salute) fosse ordinato in via d'urgenza ex art. 700 c.p.c. al  Centro
di procreazione assistita UMR di «eseguire a favore  dei  ricorrenti,
secondo l'applicazione delle metodiche della procreazione  assistita,
la c.d. fecondazione eterologa e nel caso di specie la  donazione  di
gamete femminile, secondo le migliori e accertate  pratiche  mediche,
applicando le procedure dettate dalla scienza medica  per  assicurare
il miglior successo della tecnica in considerazione dell'eta' e dello
stato di salute dei pazienti». 
    Nel  caso,  poi,  di  interpretazione   rigida   della   suddetta
normativa, chiedevano che, stante  la  sostenuta  incostituzionalita'
della normativa medesima, fosse ritenuta non manifestamente infondata
la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  4,  comma  3
della legge n. 40 del 2004 per violazione degli artt. 2, 3, 31, 32  e
117, primo comma della Costituzione. 
    Si costituiva in giudizio la  societa'  cooperativa  UMR-  Unita'
medicina della riproduzione, in persona del legale rappresentante  G.
A. dichiarando la propria disponibilita' ad applicare l'unica tecnica
di P.M.A. indicata per il caso specifico, che prevede  l'utilizzo  di
ovuli provenienti da una donatrice, a condizione che venisse  rimosso
l'ostacolo legislativo costituito dall'art. 4, comma 3 della legge n.
40 del 2004. 
    Intervenivano,  inoltre,  per  sostenere  le  domande  di   parte
ricorrente, l'associazione «HERA O.N.L.U.S.»,  l'associazione  «s.o.s
infertilita' O.N.L.U.S.» e l'associazione «Menopausa Precoce». 
    All'udienza del 21 settembre 2010  il  giudice  si  riservava  di
decidere sulla richiesta cautelare e  sulla  richiesta  di  sollevare
questione di legittimita' costituzionale. 
 
                             Motivazione 
 
1. Rilevanza della questione di legittimita' costituzionale 
    Cio' premesso si osserva che la legge n.  40  del  2004  ha  come
finalita' quella di favorire la soluzione  di  problemi  riproduttivi
derivanti dalla sterilita' o dall'infertilita' umana, consentendo  il
ricorso alla procreazione  medicalmente  assistita,  alle  condizioni
stabilite dalla legge stessa, che  assicura  i  diritti  di  tutti  i
soggetti coinvolti, compreso il concepito. 
    Il ricorso alla P.M.A., in particolare, e' consentito qualora non
vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause  di
sterilita'   o   infertilita'   e   solo   quando    sia    accertata
l'impossibilita' di rimuovere altrimenti le  cause  impeditive  della
procreazione ed e' comunque circoscritto ai casi di sterilita'  o  di
infertilita' inspiegate documentate da atto medico nonche' ai casi di
sterilita' o di infertilita' da causa accertata e certificata da atto
medico. 
    L'art.  4,  nell'individuare  in  astratto  i  casi  in  cui   e'
consentito il ricorso alle tecniche di P.M.A., stabilisce,  al  comma
2, che le stesse siano applicate in base al principio di  gradualita'
al fine di evitare il  ricorso  ad  interventi  aventi  un  grado  di
invasivita' tecnico e psicologico piu'  gravoso  per  i  destinatari,
ispirandosi al principio di minore  invasivita'  e  con  il  consenso
informato degli interessati, secondo specifiche modalita'. 
    Lo stesso art. 4 al comma  3  stabilisce,  poi,  il  divieto  del
ricorso a tecniche di procreazione  medicalmente  assistita  di  tipo
eterologo. 
    L'art. 5 disciplina i  requisiti  di  accesso  alle  tecniche  di
fecondazione  assistita,  specificando  che  «fermo  restando  quanto
stabilito dall'art. 4, comma 1, possono  accedere  alle  tecniche  di
procreazione medicalmente assistita coppie di  maggiorenni  di  sesso
diverso, coniugate o  conviventi,  in  eta'  potenzialmente  fertile,
entrambi viventi». 
    Nel caso in esame i soggetti ricorrenti  soddisfano  i  requisiti
richiesti. La ricorrente, infatti, risulta,  come  da  documentazione
medica  in  atti,  affetta  da  accertata  sterilita'  secondaria  da
menopausa precoce. Essi, inoltre, sono maggiorenni, di sesso diverso,
coniugati  nel  2005  (come  da  certificato  in  atti)  e  in   eta'
potenzialmente fertile (C. P., e' del  1974,  mentre  R.  G.  e'  del
1971). 
    Le  problematiche  mediche,  presenti   nel   caso   in   oggetto
(infertilita'   risolvibile   solo   attraverso   il   ricorso   alla
fecondazione di tipo eterologo per come  pacificamente  emerge  dalla
documentazione in atti), non possono, pero', essere risolte alla luce
della disciplina dettata dalla legge n. 40 del 2004 atteso il divieto
posto dall'art. 4, comma 3 della legge in esame. 
    Non e' possibile infatti ad  avviso  del  decidente  superare  il
divieto  de  quo  attraverso   l'interpretazione   costituzionalmente
orientata  della  legge  n.  40  suggerita  dai  ricorrenti,  poiche'
l'assenza di un rinvio esplicito da parte dell'art. 5, sui  requisiti
soggettivi della coppia, al divieto di eterologa, non rileva in alcun
modo rispetto alla perdurante efficacia del divieto in questione  nei
confronti di chi soddisfi tali requisiti. 
    Infatti, in primo luogo, l'art. 4, comma  3,  e  l'art.  5  della
legge n. 40 sono due norme  non  sovrapponibili,  poiche'  hanno  due
oggetti diversi, dunque non possono essere legate da un  rapporto  di
principio - deroga. 
    Su altro versante, il rinvio esplicito dell'art. 5 al  solo  art.
4, comma 1, e' del tutto insufficiente a sorreggere l'interpretazione
conforme a Costituzione,  poiche'  e'  giustificato  dalla  peculiare
circostanza che l'art. 4, comma 1, pur non disciplinando i  requisiti
di accesso  alla  fecondazione  assistita,  dia  una  definizione  di
infertilita', al contrario del comma 3 dell'art. 4, che si  limita  a
sancire il divieto della tecnica eterologa. 
    Inoltre, a precludere l'accesso a  tale  tecnica  procreativa  e'
posta anche la sanzione, che secondo il dettato dell'art. 12, comma 1
e 8, si applica a chiunque (eccetto che ai componenti  della  coppia)
usa a fini procreativi gameti esterni alla coppia richiedente. 
    Peraltro i ricorrenti hanno domandato, in via subordinata,  sotto
il profilo del fumus borri juris, che,  ritenuta  non  manifestamente
infondata la questione di costituzionalita' della  norma  citata  per
violazione degli artt. 2, 3, 31, 32 e 117, primo comma, della  Cost.,
il procedimento in esame venisse sospeso, per rimettere gli atti alla
Corte costituzionale ai sensi dell'art. 23 della legge n. 87/1953. 
    Detta domanda e' ammissibile anche in questa sede cautelare  ante
causam posto che il giudice della cautela puo'  ritenersi  giudice  a
quo, svolgendosi il procedimento cautelare in  contraddittorio  pieno
tra le parti, sussistendo contrapposizione di interessi (che nel caso
di specie e'  ravvisabile,  per  i  ricorrenti,  nell'interesse  alla
prestazione medica richiesta, per il resistente nell'interesse a  non
incorrere nelle sanzioni previste per la violazione  della  normativa
de qua) che solo l'intervento del giudice, seppure in via  cautelare,
puo' risolvere. 
    Anche il giudice della cautela, inoltre, nel caso in cui  ravvisi
il contrasto della  normativa  da  applicare  con  i  principi  della
Costituzione e non ritenga che detto contrasto sia superabile con una
lettura costituzionalmente  orientata,  e'  tenuto  a  richiedere  il
controllo del Giudice costituzionale (cfr, Corte cost. n. 457/1993  e
n. 186/1976) e cio' al fine di evitare che, riservando il rilievo  di
incostituzionalita' al giudizio di  merito,  si  finisca  per  negare
giustizia a chi versa in particolari condizioni,  che  impongono  una
decisione d'urgenza. 
    La  Corte  costituzionale,  secondo  un  suo  ormai   consolidato
orientamento, ha, anche recentemente, riaffermato che le questioni di
legittimita' costituzionale possano essere sollevate  anche  in  sede
cautelare a certe condizioni:  «La  giurisprudenza  di  questa  Corte
ammette la possibilita' che siano sollevate questioni di legittimita'
costituzionale in sede cautelare, sia quando il giudice non  provveda
sulla domanda, sia quando conceda la relativa  misura,  purche'  tale
concessione non si risolva  nel  definitivo  esaurimento  del  potere
cautelare del quale in quella sede il giudice  fruisce  (sentenza  n.
161 del 2008 e ordinanze n. 393 del 2008 e n.  25  del  2006).  Nella
specie, i procedimenti cautelari sono ancora in corso ed i giudici  a
quibus non hanno esaurito la  propria  potestas  iudicandi:  risulta,
quindi, incontestabile la loro legittimazione a  sollevare  in  detta
fase le questioni di costituzionalita' delle disposizioni di cui sono
chiamati a fare applicazione (sentenza n. 161 del 2008)».  (C.  cost.
n. 151 del 2009). 
    E sotto questo profilo si rileva come sussista nel caso di specie
anche il periculum in mora stante l'eta' avanzata per l'accesso  alla
P.M.A.  della  ricorrente,  gia'  trentaseienne,  stante  l'accertata
incidenza dell'eta' sul  successo  della  P.M.A.  e  stante  i  tempi
processuali solitamente necessari  per  ottenere  una  pronuncia  nel
merito idonea a rimuovere gli ostacoli  che  si  frappongono  ad  una
produttiva procedura medica, secondo quanto indicato dai ricorrenti e
risultante dalla documentazione scientifica prodotta, oltre che dalle
espresse ammissioni di parte resistente. 
    La domanda cautelare non potrebbe essere accolta sulla base della
normativa vigente e risulta pienamente giustificata la posizione  del
dott. G. che, pur non opponendosi alla richiesta dei  ricorrenti,  si
e'  rifiutato  di  eseguire  la  P.M.A.  a   favore   degli   stessi.
Indubbiamente, infatti, ove il sanitario procedesse con  le  tecniche
di fecondazione di tipo eterologo incorrerebbe nel  divieto  previsto
dalla  legge  e  nelle  conseguenti   sanzioni,   dovendo   procedere
all'impianto di gameti femminili di donatrice esterna alla coppia. 
    Nel caso in esame, i  requisiti  richiesti  dalla  giurisprudenza
costituzionale sussistono in quanto  questo  giudice  a  quo  non  ha
ancora esaurito il proprio potere cautelare ed anzi, proprio al  fine
di poterlo correttamente esercitare nel procedimento a  quo,  Ritiene
di sollevare la questione di legittimita' costituzionale. 
    Cio' premesso, si ritiene, che i dubbi di costituzionalita' della
normativa de quo, evidenziati dai ricorrenti, siano, in buona  parte,
non manifestamente infondati. 
2.  Non  manifesta  infondatezza  della  questione  di   legittimita'
costituzionale 
    2.1. Contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost. 
    Le norme di cui all'art.  4,  comma  3,  art.  9,  commi  1  e  3
limitatamente alle parole «in violazione  del  divieto  dell'art.  4,
comma 3», e  all'art.  12,  comma  1,  della  legge  n.  40/2004,  si
ritengono  contrastanti  con  l'art.  117,  primo  comma  Cost.   per
violazione degli artt. 8  e  14  della  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo. 
    L'art. 8 CEDU, infatti, tutela il diritto al rispetto della  vita
privata e familiare, vietando le ingerenze dell'autorita' pubblica in
tale ambito, e l'art. 14 pone il divieto di discriminazione:  poiche'
la disparita' di trattamento fra coppie con problemi riproduttivi  in
relazione alla possibilita' di ricorso alla fecondazione medicalmente
assistita si ritiene riconducibile a tali disposizioni convenzionali,
le norme citate della legge  n.  40  del  2004  devono  ritenersi  in
contrasto con la Convenzione europea per la salvaguardia dei  diritti
dell'uomo e, per il tramite dell'art. 117 Cost., anche  in  contrasto
con la nostra Costituzione. 
    A supporto di tale tesi deve citarsi un recente intervento  della
prima sezione della Corte europea per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo che autorevolmente, nel risolvere - anche se con  pronuncia
ancora non definitiva - alcuni casi sottoposti alla  sua  attenzione,
interpreta gli artt. 8 e 14 della convenzione proprio nel senso sopra
riportato. 
    In primo luogo, e' necessario sottolineare come uno dei due  casi
concreti sottoposti all'attenzione della Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo nel caso S.H. e altri  c.  Austria  e'  identico  a  quello
sottoposto all'esame di questo giudice a  quo:  l'impossibilita'  per
una coppia, in cui il partner femminile non e' in grado (o non lo  e'
piu') di produrre ovociti, di ricorrere all'ovodonazione, in presenza
di un divieto assoluto della propria normativa nazionale di  accedere
a tale tecnica di procreazione assistita. 
    Con la sentenza del 1° aprile 2010, la prima sezione della  Corte
europea dei diritti dell'uomo (caso  S.H.  e  altri  c.  Austria)  ha
applicato gli artt. 8 e 14 della convenzione, in relazione alle norme
nazionali austriache  in  tema  di  procreazione  assistita  di  tipo
eterologo. 
    La Corte ha ritenuto che il diritto di una coppia a concepire  un
figlio, e a far  uso  a  tal  fine  della  procreazione  medicalmente
assistita, rientri nell'ambito del diritto  al  rispetto  della  vita
privata e familiare, tutelato dall'art. 8 della  convenzione,  e  che
l'esercizio di tale diritto (come di tutti i diritti  tutelati  dalla
convenzione) debba essere consentito dagli Stati aderenti alla  CEDU,
senza alcuna discriminazione e disparita' di trattamento, cosi'  come
previsto dall'art. 14 della convenzione  stessa.  La  Corte  ricorda,
anzitutto, come la notevole discrezionalita' che gli  Stati  aderenti
alla convenzione hanno in tema di regolamentazione della procreazione
medicalmente assistita non comporta automaticamente la ragionevolezza
di  qualunque  scelta  legislativa  effettuata   in   proposito.   In
particolare, una volta che si sia deciso di consentire il  ricorso  a
tali pratiche, la disciplina dettata  a  tale  scopo  deve  risultare
coerente. 
    La Corte, al  fine  di  valutare  la  razionalita'  della  scelta
legislativa adottata dallo Stato in materia,  sottolinea  il  proprio
ruolo anche nell'attento  esame  delle  argomentazioni  discusse  nel
processo legislativo affermando che: «... una  volta  che  sia  stata
adottata la decisione di permettere la  procreazione  artificiale,  e
nonostante il largo margine di discrezionalita' lasciato  agli  Stati
contraenti, il quadro normativo escogitato a tale scopo dovra' essere
definito in maniera coerente, in  modo  da  consentire  una  adeguata
considerazione  dei  differenti  interessi  legittimi  coinvolti  nel
rispetto degli obblighi derivanti dalla convenzione. Cio' non  esenta
la Corte dall'esaminare attentamente le argomentazioni  discusse  nel
processo legislativo (...)». 
    Occorre, preliminarmente, osservare che la legislazione austriaca
in materia di procreazione medicalmente assistita - su cui  la  Corte
europea si e' pronunciata - e' in parte  diversa  dalla  legislazione
italiana, in quanto la legge austriaca vieta,  in  via  generale,  la
fecondazione eterologa - non diversamente da  quanto  previsto  dalla
nostra  normativa  interna  -  ma  con  l'importante   deroga   della
fecondazione in vivo tramite  sperma  di  un  donatore,  che  e',  al
contrario, ammessa (invece  in  Italia  il  divieto  di  fecondazione
eterologa e' assoluto e non ammette deroghe, al pari  di  soli  altri
due Paesi europei: Lituania e Turchia). 
    Nonostante le differenze fra le due normative, la  Corte  enuclea
un principio ed effettua una serie di considerazioni  a  sostegno  di
tale principio, rigettando del  pari  ogni  argomentazione  contraria
proposta, che appaiono pienamente applicabili anche  alla  disciplina
italiana in materia di procreazione assistita. 
    La  disparita'  di  trattamento  fra  chi  puo'   accedere   alla
procreazione assistita per avere un figlio senza bisogno di donazione
di ovuli (ammessa) e chi, del pari sterile, invece, non puo' accedere
alla  procreazione  assistita  per  poter  avere  un  figlio  perche'
necessiterebbe della donazione di ovuli (vietata) e' giustificata dai
governi,  austriaco  e  tedesco,  mediante  il  ricorso   ad   alcune
argomentazioni che non vengono considerate sufficienti  dalla  Corte.
Tali  argomenti  riguardano  la  preoccupazione  di  non   instaurare
relazioni familiari atipiche, l'esigenza di proteggere  il  benessere
del  figlio  assicurando  con  chiarezza  l'identita'  della   madre,
l'interesse del figlio ad essere  informato  sulle  sue  origini,  il
pericolo di un rifiuto di un figlio affetto da malattie genetiche  da
parte della madre biologica che non sia anche la madre  genetica,  il
rischio di sfruttamento delle donne. 
    Le ragioni che hanno portato il legislatore italiano a vietare la
procreazione  medicalmente  assistita  di  tipo  eterologo  rientrano
proprio fra quelle sottoposte  alla  Corte  a  giustificazione  della
disparita' di trattamento fra le coppie  che  possono  accedere  alla
procreazione assistita in  quanto  non  necessitano  di  ricorrere  a
donatori estranei alla coppia (fecondazione di  tipo  omologo)  e  le
coppie che  non  possono  accedervi  stante  la  loro  necessita'  di
ricorrere all'ovodonazione (fecondazione  di  tipo  eterologo).  Tali
ragioni sono contenute in alcuni degli atti  dei  lavori  preparatori
che hanno portato all'approvazione della legge italiana 40  del  2004
sulla procreazione medicalmente  assistita  e  sono  solo  alcune  di
quelle paventate dai  governi  tedesco  e  austriaco.  Si  tratta  in
particolare della garanzia  dell'unitarieta'  della  famiglia  e  del
rispetto dell'identita' del figlio (si  vedano  a  tal  proposito  la
relazione alla proposta di legge presentata alla Camera dei  deputati
il 5 marzo 2002 e la relazione di maggioranza della  XII  commissione
permanente affari sociali presso la Camera del 26 marzo 2002). 
    A conclusione del proprio iter  argomentativo  la  Corte  europea
ritiene  che  il  Governo  austriaco   non   abbia   presentato   una
giustificazione  ragionevole  ed  obiettiva  per  la  differenza   di
trattamento fra la coppia ricorrente - che, nel realizzare il proprio
desiderio di un figlio, e' ostacolata dal divieto della donazione  di
ovuli per la procreazione artificiale ai sensi della legge  austriaca
(fecondazione eterologa) - e, dall'altra, una coppia  che  puo'  fare
uso delle tecniche della  procreazione  artificiale  senza  ricorrere
alla donazione di ovuli (fecondazione omologa), e che di  conseguenza
vi  sia  stata  una  violazione  dell'art.  14   della   convenzione,
considerato in congiunzione con l'art. 8. 
    Come puo' rilevarsi  il  principio  in  questione  e'  pienamente
applicabile anche al caso sottoposto  a  questo  giudice,  stante  la
similitudine  dei  casi  considerati  e  l'identita'  delle   ragioni
giustificatrici  del  divieto  di  eterologa  alla  base  sia   della
normativa  italiana  che  di  quella   austriaca,   oggetto   diretto
dell'esame della Corte europea e censurata dalla stessa. 
    Stante la portata della pronuncia della CEDU, si pone, allora, un
serio problema  di  costituzionalita'  della  normativa  interna  per
contrasto con il diritto internazionale pattizio ex art.  117,  primo
comma Cost. 
    E' necessario, conseguentemente, valutare quale tipo di strumento
sia  esperibile  da  questo  giudice  al  fine   di   porre   rimedio
all'antinomia fra sistema nazionale e sopranazionale. 
    Gli strumenti che il giudice possiede a tal fine sono  costituiti
dall'istituto dell'interpretazione conforme  della  norma  interna  a
quella sopranazionale, la  disapplicazione  della  norma  interna  in
contrasto con il diritto comunitario, la proposizione della questione
di legittimita' costituzionale. 
    Per  quanto  riguarda   lo   strumento   della   disapplicazione,
quest'ultimo potrebbe essere esperito  solo  qualora  la  convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali possa considerarsi alla stregua  di  un  atto  normativo
comunitario. 
    In passato non vi erano dubbi circa la mancanza di tale  qualita'
in capo alla convenzione EDU,  o  comunque  essi  sono  stati  presto
superati. 
    Piu' di recente,  pero',  ha  cominciato  a  farsi  strada  nella
giurisprudenza, soprattutto amministrativa, una tendenza ad  adottare
soluzioni diverse in materia:  occorre,  infatti,  segnalare  che  il
Consiglio di Stato, con decisione 2 marzo 2010, n. 1220, sez. IV,  ed
il Tar Lazio, sentenza 18 maggio 2010, n. 11894, hanno  ritenuto  che
il giudice nazionale possa, per effetto dell'entrata  in  vigore  del
Trattato di Lisbona (nel dicembre del 2009),  applicare  direttamente
la convenzione europea (e, in  particolare,  secondo  il  TAR  Lazio,
bisognerebbe disapplicare il diritto interno con  essa  contrastante,
«a maggior ragione quando la Corte europea si  sia  gia'  pronunciata
sulla questione»). 
    Piu' precisamente, l'argomentazione dei giudici amministrativi si
incentra sul nuovo art.  6  del  Trattato  UE,  come  modificato  dal
Trattato di Lisbona, secondo  cui  l'Unione  europea  «aderisce  alla
convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali» e  «i  diritti  fondamentali  garantiti  dalla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali e risultanti  dalle  tradizioni  costituzionali
comuni  fanno  parte  del  diritto  dell'Unione  in  quanto  principi
generali». 
    Si  deve  pero'  osservare  che  se  e'  vero  che  il   trattato
dell'Unione europea, per come modificato  dal  Trattato  di  Lisbona,
consente l'adesione dell'Unione alla CEDU  e'  vero  anche  che  tale
adesione deve ancora avvenire, secondo le procedure del protocollo n.
8 annesso al Trattato. 
    In effetti, la tesi della non avvenuta «comunitarizzazione» delle
norme CEDU, sembra dover essere accolta anche  in  considerazione  di
un'altra disposizione  introdotta  dal  trattato  di  Lisbona  ovvero
l'art.  47  Trattato  UE  secondo  cui  «L'Unione   ha   personalita'
giuridica» di diritto internazionale. 
    La lettura  combinata  di  tale  ultimo  precetto  con  l'art.  6
relativo  all'adesione  della  Unione  europea  alla  CEDU  porta  ad
affermare che le norme  CEDU  vengono  in  rilievo  nel  Trattato  di
Lisbona quali precetti ai  quali  un  nuovo  soggetto  internazionale
(l'Unione europea) con distinta e riconosciuta personalita' giuridica
ex art. 47 citato, intende uniformarsi per il  tramite,  appunto,  di
un'apposita sua adesione alla CEDU. 
    Tale assunto, a ben vedere, porta a  ritenere  non  condivisibile
l'equiparazione delle  norme  CEDU  alle  norme  comunitarie  poiche'
diverso e' il relativo fondamento giuridico, non potendosi ricondurre
l'art. 6 citato, seppure modificativo del Trattato UE, ad un  assenso
dell'Italia  (soggetto  internazionale  distinto  dall'UE)  a  quelle
limitazioni di  sovranita'  ex  art.  11  Cost.,  o  a  quell'obbligo
internazionale ex art. 117 Cost. 
    A diverse conclusioni poteva giungersi se  fosse  stata  prevista
espressamente, nel Trattato di Lisbona,  l'equiparazione  del  valore
giuridico tra le nonne comunitarie e quelle della  CEDU,  cosi'  come
invero avvenuto per le disposizioni della  Carta  di  Nizza,  laddove
l'art. 6 del Trattato UE recita che «L'Unione riconosce i diritti, le
liberta' e i principi sanciti nella Carta  dei  diritti  fondamentali
dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007
a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati». 
    A tutto cio' si aggiunga, infine, che la Corte costituzionale  ha
confermato  il  proprio  orientamento,  secondo  cui  il  giudice  ha
l'obbligo di sollevare questione di legittimita' costituzionale della
norma interna di cui dubiti la  compatibilita'  con  la  CEDU,  anche
successivamente  all'entrata  in  vigore  del  Trattato  di  Lisbona,
incidentalmente affermando che il giudice nazionale «non  ...  [puo']
disapplicare la norma interna contrastante» (C. cost. 93 del 2010). 
    Escluso, dunque, allo stato la  possibilita'  di  ricorrere  alla
disapplicazione,  il  giudice  puo'  solo  esperire   i   consolidati
strumenti  della  interpretazione  convenzionalmente  conforme  della
norma sospettata di illegittimita' o, nell'impossibilita' di  questa,
della   sollecitazione   di   una   pronuncia   sulla    legittimita'
costituzionale della norma stessa. 
    Questo e' l'iter piu' volte indicato dalla  Corte  costituzionale
al giudice a quo che debba valutare la compatibilita'  di  una  norma
nazionale con la CEDU. 
    Infatti, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, e poi
con le successive sentenze n. 317, n. 311 del 2009 e n. 39  del  2008
la giurisprudenza della Corte costituzionale  e'  rimasta  ferma  nel
ritenere che le  nonne  della  CEDU  -  anche  nel  significato  loro
attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo,  specificamente
istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione (art.  32,
paragrafo  1,  della   Convenzione)   -   integrano,   quali   «norme
interposte», il  parametro  costituzionale  espresso  dall'art.  117,
primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione  della
legislazione   interna   ai   vincoli   derivanti   dagli   «obblighi
internazionali»; e, dunque, «al giudice comune spetta interpretare la
norma interna in  modo  conforme  alla  disposizione  internazionale,
entro i limiti nei quali cio' e' permesso dai testi  delle  norme»  e
qualora cio' non sia possibile, ovvero  dubiti  della  compatibilita'
della norma interna con la disposizione  convenzionale  «interposta»,
egli  deve  investire  questa  Corte  delle  relative  questioni   di
legittimita' costituzionale  rispetto  al  parametro  dell'art.  117,
primo comma. (C. cost. n. 349 del 2007 e n. 348 del 2007). 
    Se il tentativo di interpretazione convenzionalmente conforme non
e' effettuato  dal  remittente,  la  Corte  costituzionale  ben  puo'
dichiarare inammissibile la questione di legittimita'  costituzionale
sollevata in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost.,  come  del
resto la Corte ha ribadito nella sentenza n. 239  del  2009:  «Questa
Corte ha espressamente affermato che, in  presenza  di  un  apparente
contrasto fra disposizioni legislative interne  ed  una  disposizione
della CEDU, anche quale interpretata dalla Corte di Strasburgo,  puo'
porsi un dubbio  di  costituzionalita',  ai  sensi  del  primo  comma
dell'art. 117 Cost., solo se non  si  possa  anzitutto  risolvere  il
problema in via interpretativa» (C. cost. n. 239 del 2009); e ancora:
«nel caso in cui si profili un  eventuale  contrasto  tra  una  norma
interna e una norma della CEDU, il  giudice  nazionale  comune  deve,
quindi,  preventivamente  verificare   la   praticabilita'   di   una
interpretazione  della  prima  conforme  alla  norma   convenzionale,
ricorrendo a tutti  i  normali  strumenti  di  ermeneutica  giuridica
(...), e, ove tale soluzione risulti impercorribile (non potendo egli
disapplicare la  norma  interna  contrastante),  deve  denunciare  la
rilevata  incompatibilita'  proponendo  questione   di   legittimita'
costituzionale in riferimento al parametro dianzi indicato» (C. cost.
n 93 del 2010). 
    Tornando, dunque, al caso sub iudice e procedendo al tentativo di
interpretazione conforme, si deve rilevare, come  sopra  evidenziato,
che il divieto di fecondazione eterologa per come posto dall'art.  4,
comma 3 della legge n. 40 del 2004, non lascia possibilita' alcuna di
interpretazione  diversa  e  plausibile:  il  divieto  e'  netto   ed
esplicito  («e'  vietato  il  ricorso  a  tecniche  di   procreazione
medicalmente assistita di tipo eterologo»), ribadito  incidentalmente
in altre norme (art. 9, comma l e 3) e corredato di apposite sanzioni
(art. 12, comma 1). 
    A questo punto, esclusa  la  possibilita'  di  un'interpretazione
delle norme citate conforme  alla  Convenzione  europea  dei  diritti
dell'uomo secondo la lettura data dalla Corte di  Strasburgo,  spetta
senz'altro a questo giudice a quo rinviare la  questione  alla  Corte
costituzionale perche' ne  vagli  la  compatibilita'  a  Costituzione
ritenendo questo giudice che  la  normativa  nazionale  si  ponga  in
violazione degli arti. 8 e 14 della Convenzione europea  dei  diritti
dell'uomo da interpretarsi conformemente a quanto gia'  statuito  con
la piu' volte richiamata sentenza della CEDU. 
    2.2. Contrasto con gli artt. 3 e 31 Cost. 
    L'insieme delle norme considerate ad avviso di questo  remittente
si pone, anche, in contrasto con gli arti. 3 e 31 della Costituzione. 
    Dall'art. 3 discendono, come ben noto, tanto il principio di  non
discriminazione che quello di ragionevolezza. Tali limiti imposti  al
legislatore comportano che lo stesso, pur essendo nella condizione di
disciplinare le materie che sono attribuite alla  sua  competenza  in
modo libero, tuttavia, non puo' escludere  determinati  soggetti  dal
godimento di specifiche situazioni, o imporre agli stessi divieti, in
modo discriminatorio, a maggior ragione quando tali  situazioni  sono
costituzionalmente rilevanti. 
    Attraverso il principio d'eguaglianza e di verifica che la  legge
disponga un trattamento pari, per posizioni eguali,  e  differenziato
per situazioni diverse, si e' estrapolato dalla Costituzione un 
    «canone di coerenza dell'ordinamento giuridico», incentrato sulla
clausola  generale  della  ragionevolezza,  grazie  al  quale  si  e'
progressivamente esteso il giudizio  di  legittimita'  costituzionale
sull'azione del legislatore, in termini di  logicita'  interna  della
normativa,  razionalita'  delle  deroghe  apportate,  giustificazione
delle differenze di trattamento. 
    Il legislatore puo', cosi', imporre  limiti  ai  diritti  e  agli
interessi dei soggetti  in  base  alle  finalita'  che  si  intendono
perseguire  con  l'esercizio  del  potere  legislativo  ma  non  puo'
trattare diversamente determinati soggetti rispetto ad altri  che  si
trovino nella medesima  situazione,  a  meno  che  la  disparita'  di
trattamento non sia giustificata in modo ragionevole:  «il  principio
di eguaglianza e' violato anche quando la legge, senza un ragionevole
motivo, faccia un trattamento diverso a cittadini che si  trovino  in
situazione eguale «(C. cost. n. 15 del 1960); e, ancora,  per  citare
un altro esempio in tal senso: «il principio di cui all'art. 3  Cost.
e' violato non solo quando  i  trattamenti  messi  a  confronto  sono
formalmente   contraddittori   in   ragione   dell'identita'    delle
fattispecie,  ma  anche  quando  la  differenza  di  trattamento   e'
irrazionale secondo le regole del  discorso  pratico,  in  quanto  le
rispettive fattispecie, pur diverse, sono  ragionevolmente  analoghe»
(C. cost. n. 1009 del 1988). 
    Inoltre, quello alla creazione di  una  famiglia  costituisce  un
diritto fondamentale oltre  che  interesse  pubblico  riconosciuto  e
tutelato ex artt. 2 e 31 Cost., come  affermato  dalla  stessa  Corte
costituzionale (C. cost. n. 46 del 1993), dunque,  la  soluzione  dei
problemi riproduttivi mediante la procreazione medicalmente assistita
e' una situazione immediatamente  riconducibile  nell'alveo  di  tale
diritto fondamentale e del diritto alla maternita'/paternita'. 
    Nel caso in esame deve, in primo luogo, ricordarsi che  obiettivo
dichiarato dal legislatore, all'art. 1 della legge n. 40 del 2004, e'
quello di favorire la soluzione dei problemi  riproduttivi  derivanti
dalla sterilita' o dall'infertilita' umana, mediante il ricorso  alla
procreazione medicalmente assistita, che e' espressamente consentita. 
    Cio' alle condizioni e secondo le modalita' previste dalla  legge
n. 40, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso
il concepito. 
    In linea di massima, quindi, i limiti e le  condizioni  poste  al
ricorso alla procreazione  assistita  sembrerebbero  essere  imposti,
sulla base della disposizione appena citata, dalla superiore esigenza
di tutela della salute e dignita' dei soggetti coinvolti, tra cui  la
legge  annovera  anche  il  concepito  ed  il  legislatore  aggiunge,
inoltre, che il ricorso alla procreazione medicalmente  assistita  e'
consentito qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per
rimuovere le cause di sterilita' o infertilita'. 
    L'art. 4, comma 3 della stessa legge vieta, poi,  un  particolare
tipo di pratica medica volta alla soluzione dei problemi riproduttivi
derivanti da sterilita' e infertilita', e cioe' pone  il  divieto  di
procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo. 
    Tale divieto e' poi considerato dal punto di vista  sanzionatorio
dall'art. 12, comma  1  che  pero'  colpisce  solo  le  condotte  dei
sanitari e con sanzione amministrativa. 
    Per la coppia che trasgredisce il divieto non e' prevista  alcuna
sanzione e anzi gli effetti dell'eventuale violazione sono, non  solo
pienamente riconosciuti nel senso che l'art. 9 prevede che il  figlio
nato in seguito  a  procreazione  assistita  di  tipo  eterologo  sia
legittimo, ma vieta  altresi'  la  possibilita'  del  disconoscimento
della paternita' e dell'anonimato della madre da parte  dei  genitori
biologici ma non genetici,  ed  esclude  qualsiasi  legame  giuridico
parentale rispetto ai donatori di gameti. 
    Con l'introduzione di tale divieto, a parere del  remittente,  si
violano gli artt. 3 e 31  Cost.  non  solo  sotto  il  profilo  della
disparita'  di  trattamento  ma  anche   sotto   il   profilo   della
ragionevolezza della normativa de qua. 
    Vengono,  infatti,  trattate  in  modo  diverso  le  coppie   con
problematiche di procreazione, a seconda del tipo di  sterilita'  che
le colpisce. 
    Paradossalmente  proprio  le  coppie  che  presentano  un  quadro
clinico piu' grave sono quelle escluse dall'accesso alla procreazione
medicalmente assistita. 
    E, a questo proposito, si puo' rilevare come  la  sentenza  della
Corte europea dei diritti  dell'uomo  introduca  ulteriori  e  solidi
argomenti  a  sostegno  della  violazione  dell'art.  3  Cost.,   con
riferimento alla violazione del principio di non discriminazione.  Le
argomentazioni proposte dalla Corte EDU circa la violazione dell'art.
14 della convenzione europea possono essere del pari formulate  anche
con riferimento all'art. 3 della Costituzione, visto che le due norme
introducono il medesimo principio nei due ordinamenti. 
    La  Corte  Edu,  come  visto,  ha  ritenuto  che  il  divieto  di
eterologa, comportando una disparita' di trattamento fra coppie,  non
presentasse alcuna ragionevole e  obiettiva  giustificazione  e  che,
pertanto, si ponesse in contrasto con gli artt. 8 e 14 della Cedu. 
    La  Corte  ha  ritenuto,  infatti,  che  vi  sia  discriminazione
rispetto alle coppie che possono soddisfare il proprio  desiderio  di
avere un figlio senza dover ricorrere alla  donazione  di  ovuli  (si
confronti il punto n. 85 della pronuncia). Nel caso S. H. e altri  c.
Austria la Corte non individua una giustificazione ragionevole a tale
discriminazione creata dal legislatore austriaco. 
    Infatti, secondo la Corte stessa il  Governo  austriaco,  con  le
argomentazioni  esposte,  non  ha  presentato  una   «giustificazione
ragionevole ed oggettiva in merito alla  disparita'  di  trattamento»
della coppia che chiede di ricorrere alla donazione di ovuli,  a  cui
viene impedito di realizzare il proprio desiderio di avere un figlio,
rispetto alla coppia che puo' fare ricorso a tecniche di procreazione
artificiale,  senza  ricorrere  alla   donazione   di   ovuli:   cio'
conducendo, pertanto, alla dichiarazione di violazione degli artt.  8
e 14 della Convenzione. 
    L'art. 4, comma 3 e', inoltre, irragionevole perche' si  pone  in
contrasto  con  la  stessa  finalita'  dichiarata  dalla  legge   (di
risolvere i problemi procreativi della coppie),  pur  non  ledendo  i
diritti dichiarati oggetto di tutela (la salute  e  la  dignita'  dei
soggetti coinvolti). 
    Tornando alle  argomentazioni  CEDU,  per  la  Corte  il  divieto
assoluto del ricorso all'eterologa mediante donazione di ovuli, posto
dal  legislatore  austriaco,  oltre  a  non  essere   una   soluzione
razionale, non e' un  mezzo  proporzionato  rispetto  alle  finalita'
perseguite, fra cui quella di impedire la realizzazione di  parentele
atipiche,  che  nell'ordinamento  italiano  e'  stata  la  principale
giustificazione al divieto di eterologa. Infatti, esaminando gli atti
parlamentari, si puo' individuare la ragione principale  opposta  dai
sostenitori del divieto de quo: la necessita' di tutelare l'identita'
genetica del nascituro, cioe' la  sua  riconducibilita'  genetica  ai
genitori. 
    E' lecito, a questo punto, chiedersi se  tale  situazione  assuma
nel nostro sistema, da leggersi comunque sempre  in  una  prospettiva
europea, un rilievo tale da rendere giustificabile e  ragionevole  la
creazione di una situazione di disuguaglianza fra soggetti,  violando
cosi'  l'art.  3   della   Cost.   in   relazione   ad   un   diritto
costituzionalmente tutelato  quale  quello  alla  formazione  di  una
famiglia e alla maternita'/paternita'. 
    E cio' in un sistema  tra  l'altro  che  conosce  altri  istituti
giuridici  che  prevedono  la  possibilita'  di  una  discrepanza  da
genitorialita' genetica e genitorialita' legittima, quale l'adozione,
e in cui, quindi, con la piena parificazione del figlio  adottato  ai
figli nati dalla coppia, prevale una idea dei rapporti di  filiazione
che pone a fondamento delle relazioni giuridiche familiari i rapporti
affettivi (la comunita' di affetti) e l'assunzione di responsabilita'
(ponendo solo  sullo  sfondo  e  non  come  necessita'  la  relazione
biologica, che e' anzi rescindibile rispetto ai genitori  di  origine
dell'adottato). 
    Specie quest'ultimo obiettivo, che si sostanzia nella  necessita'
di impedire che vi possano essere persone con una madre biologica  ed
una genetica, non viene  ritenuto  «degno  di  pregio»  dalla  Corte.
Infatti, il fatto che gia' sia prevista, in Austria  (cosi'  come  in
molti ordinamenti, fra cui quello italiano), una ipotesi in cui, come
l'adozione,  esistono  relazioni  genitoriali   diverse   da   quelle
biologiche, porta a ritenere tale giustificazione non  sufficiente  a
legittimare il divieto di donazione di ovociti. 
    In altre parole, esistendo altre  ipotesi,  ritenute  ammissibili
nell'ordinamento di riferimento,  di  «parentele  atipiche»,  non  e'
possibile sostenere che il  fine  di  prevenirne  l'insorgenza  possa
assurgere a giustificazione del divieto di procreazione eterologa. 
    Si  segnala   inoltre   un   ulteriore   possibile   profilo   di
irragionevolezza della normativa de  qua  e  di  discriminazione  fra
coppie sterili: a ben vedere  il  divieto  di  fecondazione  di  tipo
eterologo per la coppia opera solo sul piano dei principi, in  quanto
come visto non e' sanzionato in alcun modo. 
    La coppia puo', infatti, ricorrere  alla  procreazione  eterologa
(anche in Italia senza incorrere in sanzioni), vedere riconosciuti  e
tutelati pienamente i suoi effetti nell'ordinamento italiano, ma  non
puo' rivolgersi per effettuare tale tipo di pratica medica a sanitari
che operino sul territorio italiano, in quanto questi ultimi (e  solo
loro), altrimenti, andrebbero incontro a sanzioni amministrative. 
    Cio' comporta un'ulteriore discriminazione  fra  coppie  sterili:
quelle che, per le loro condizioni economiche  non  floride,  possono
rivolgersi solo a sanitari operanti sul nostro territorio  nazionale,
non potrebbero, proprio per questo,  ricorrere  a  tutti  i  tipi  di
pratiche mediche volte a superare i problemi di procreazione,  atteso
il divieto per i medici italiani  di  praticare  interventi  di  tipo
eterologo; al contrario le coppie piu' facoltose potrebbero ricorrere
a tutte le tecniche di fecondazione rivolgendosi a sanitari  operanti
all'estero. 
    2.3. Contrasto con l'art. 2 Cost. 
    L'art. 4, comma 3, l'art. 9,  commi  1  e  3  limitatamente  alle
parole «in violazione del divieto dell'art. 4, comma 3» e l'art.  12,
comma 1, della legge n. 40/2004  contrastano,  anche,  con  l'art.  2
della  Costituzione,  laddove  il  divieto  oggetto  di  censura  non
garantisce alle coppie, cui viene diagnosticato un quadro clinico  di
sterilita' o infertilita' irreversibile, il proprio diritto alla vita
privata  e  familiare,  e  il  proprio  diritto  di  identita'  e  di
autodeterminazione. 
    La decisione da parte delle coppie sterili o infertili di far uso
della procreazione  artificiale  riguarda,  infatti,  la  sfera  piu'
intima della persona, incidendo direttamente sulla stessa liberta' di
autodeterminarsi; ma tale diritto, inevitabilmente,  e'  condizionato
dai limiti determinati  dalla  patologia  di  cui  le  coppie  stesse
soffrono, trovandosi,  in  presenza  del  divieto  di  donazione  dei
gameti, nell'impossibilita' di poter fondare una famiglia e quindi di
poter costruire liberamente la propria vita ed esistenza. 
    Tali diritti sono enucleabili dall'art. 2 Cost., in primo  luogo,
perche'  tradizionalmente  interpretato  in  modo  aperto,  ma  anche
perche'  tali  diritti  sono  espressamente  previsti   dalle   norme
internazionali convenzionali e comunitarie sui diritti umani, che non
possono non essere  considerati  quale  strumento  interpretativo  ed
evolutivo dei diritti umani tutelati dalla Costituzione. 
    Si ricordi,  infatti,  che  la  Carta  dei  diritti  fondamentali
dell'Unione europea del  2000  -  che  ha  la  stessa  efficacia  dei
Trattati Istitutivi - all'art.  7  prevede  che  «Ogni  individuo  ha
diritto al rispetto della propria vita privata  e  familiare»,  cosi'
come l'art. 8 della CEDU, dopo aver enunciato  il  medesimo  diritto,
aggiunge che «non puo' esservi ingerenza di  una  autorita'  pubblica
nell'esercizio di tale diritto», se non in casi  eccezionali  qualora
vi siano altri diritti o interessi di rango uguale o superiore. 
    Conforta tale ricostruzione - secondo cui il diritto di identita'
e di autodeterminazione della coppia viene compromesso dal divieto di
accesso ad un certo tipo  di  fecondazione  necessaria  per  il  caso
concreto - quanto da ultimo espresso dalla Corte di Strasburgo. 
    La Corte, infatti, ha chiarito che occorre garantire,  in  quanto
rientrante nel diritto al rispetto della  vita  privata  e  familiare
tutelato dalla convenzione dei diritti dell'uomo,  il  diritto  della
coppia di scegliere  di  diventare  genitori  anche  ricorrendo  alle
tecniche di fecondazione assistita:  «il  diritto  di  una  coppia  a
concepire un figlio e  a  far  uso  a  tal  fine  della  procreazione
assistita dal punto di vista medico rientra nell'ambito dell'art.  8,
in quanto  tale  scelta  e'  chiaramente  un'espressione  della  vita
privata e familiare» (Corte europea dei diritti dell'uomo, caso  S.H.
e altri contro Austria n. 57813/00). 
    Nel caso di specie, allora, occorre  garantire  il  diritto  alla
vita privata - intesa come diritto a scelte intime  e  private  senza
ingerenza di alcuna autorita' - e di autodeterminazione della  coppia
che voglia  avere  figli  e  che  possegga  i  requisiti  soggettivi,
previsti dalla legge n. 40/2004, ma che debba ricorrere,  in  ragione
del proprio quadro clinico alle tecniche di fecondazione eterologa. 
    2.4. Contrasto con gli artt. 3 e 32 Cost. 
    Le norme di cui all'art.  4,  comma  3,  art.  9,  commi  1  e  3
limitatamente alle parole «in violazione  del  divieto  dell'art.  4,
comma 3», e  all'art.  12,  comma  1,  della  legge  n.  40/2004,  si
ritengono, infine, contrastanti anche con gli  artt.  3  e  32  della
Costituzione, in quanto con il divieto di fecondazione  eterologa  si
rischia  di  compromette  l'integrita'  fisio-psichica  delle  coppie
infertili o sterili. 
    Infatti, come nel caso sottoposto all'esame di questo giudice, le
coppie con problemi di fertilita' potrebbero  essere  costrette,  nei
casi in cui, in base a valutazioni di  tipo  medico  scientifico,  si
dovesse accertare che l'unico metodo sicuro atto a risolvere  i  loro
problemi procreativi fosse  il  ricorso  alla  fecondazione  di  tipo
eterologo, a sottoporsi a delle pratiche mediche meno  indicate,  dai
risultati piu' incerti e magari pericolosi per la salute,  stante  il
divieto di ricorrere alla metodologia scientifica nel  caso  concreto
piu' adatta e piu' sicura da un punto di vista medico. 
    In tal  modo  si  limita  irragionevolmente,  in  definitiva,  la
liberta', e il dovere, del medico di suggerire e  praticare  la  cura
nel caso concreto piu' efficace sia  in  relazione  ai  risultati  da
raggiungere, che in relazione alla tutela della salute. 
    A  tal  proposito,  deve  sottolinearsi  come  la  scelta  di  un
protocollo medico codificato e generalizzato non puo' essere  rimessa
al legislatore poiche' la Corte costituzionale ha gia' affermato, con
la sentenza n. 282/2002, come il diritto ad essere curato  secondo  i
canoni della scienza dell'arte medica non possa  essere  limitato  da
una pratica medica prevista legislativamente, atteso che «la  pratica
terapeutica si pone..all'incrocio fra due diritti fondamentali  della
persona malata: quello ad  essere  curato  efficacemente,  secondo  i
canoni della scienza e dell'art medica; e quello ad essere rispettato
come  persona,  in  particolare  nella  propria   integrita'   fisica
psichica.  Salvo  che  entrino  in  gioco  altri  diritti  o   doveri
costituzionali, non e' di norma  il  legislatore  a  poter  stabilire
direttamente e specificatamente quali siano le pratiche  terapeutiche
ammesse, con quali limiti e a quali condizioni.  Poiche'  la  pratica
dell'arte  medica  si  fonda  sulle   acquisizioni   scientifiche   e
sperimentali, che sono in continua evoluzione, la regola di fondo  in
questa materia e' costituita dall'autonomia e  dalla  responsabilita'
del medico che, sempre con il consenso  del  paziente,  opera  scelte
professionali   basandosi   sullo   stato    delle    conoscenze    a
disposizione.». 
    Argomentazioni simili possono trarsi anche dalla recente sentenza
della Corte costituzionale  n.  151  del  2009  nella  parte  in  cui
ribadisce:   «(...)   che   la   giurisprudenza   costituzionale   ha
ripetutamente posto l'accento sui limiti  che  alla  discrezionalita'
legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali,  che
sono in continua evoluzione e sulle quali  si  fonda  l'arte  medica:
sicche', in materia di pratica terapeutica, la regola di  fondo  deve
essere la autonomia e la responsabilita'  del  medico,  che,  con  il
consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali». 
    E non puo' esservi dubbio che le  tecniche  di  P.M.A.  siano  da
qualificarsi come rimedi terapeutici sia in relazione ai beni che  ne
risultano implicati (cfr. Corte cost. n. 559/1987 e n. 185/1998)  sia
perche' implicano un trattamento da eseguirsi sotto diretto controllo
medico, coperto da SNN e diretto a superare una causa patologica  che
impedisce la procreazione, oltre  che  a  contrastare  le  sofferenze
connesse  alla  difficolta'  di  realizzarsi  pienamente   diventando
genitore. 
    Inoltre,  per  sfuggire  al  divieto  di  fecondazione  eterologa
previsto nel nostro paese, molte  coppie  sono  costrette  a  recarsi
all'estero, in quei paesi dove tale tecnica e'  ammessa,  affrontando
sia il disagio psicologico ed emotivo di allontanarsi dal luogo degli
affetti per ottenere cio' che in Italia e' concesso solo alle  coppie
con meno  gravi  forme  d'infertilita',  sia  il  rischio  di  essere
contagiati da malattie trasmesse dal donatore o dalla donatrice,  per
carenza di controlli e di informazioni. 
    Si legittima, cosi', questo «turismo procreativo»,  che  mette  a
repentaglio  la  stessa  integrita'  psicofisica  della   coppia   in
violazione dei limiti imposti dal rispetto della  persona  umana,  in
palese difformita' ad un caposaldo della nostra Carta  costituzionale
quale   la   tutela   della   salute,   come   diritto   fondamentale
dell'individuo ed interesse della collettivita'. 
    Tutto cio' premesso deve  sollevarsi  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 4,  comma  3,  dell'art.  9,  commi  1  e  3
limitatamente alle parole «in violazione  del  divieto  dell'art.  4,
comma 3» e dell'art.  12,  comma  1,  della  legge  n.  40/2004,  per
contrasto con gli artt. 117, 2, 3, 31 e 32,  primo  e  secondo  comma
Cost. nella parte in cui  impongono  il  divieto  di  ricorrere  alla
fecondazione medicalmente assistita di  tipo  eterologo  e  prevedono
sanzioni nei confronti delle strutture che dovessero praticarla. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Ritenuta la rilevanza e non manifesta infondatezza, rimette  alla
Corte costituzionale  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 4, comma 3, dell'art. 9, commi 1  e  3  limitatamente  alle
parole «in violazione del divieto dell'art. 4, comma 3»  e  dell'art.
12, comma 1, della legge n. 40/2004, per contrasto con gli artt. 117,
2, 3, 31 e 32, commi 1 e 2 Cost., nella parte  in  cui  impongono  il
divieto di ricorrere alla fecondazione medicalmente assistita di tipo
eterologo e prevedono sanzioni  nei  confronti  delle  strutture  che
dovessero praticarla; 
    Sospende il giudizio e  dispone  l'immediata  trasmissione  degli
atti alla Corte costituzionale; 
    Ordina che, a cura della cancelleria, la presente  ordinanza  sia
notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei  ministri  e
sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
 
        Cosi' deciso in Catania, il 21 ottobre 2010. 
 
                        Il giudice: Distefano