N. 39 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 dicembre 2010

Ordinanza del 13 dicembre 2010 emessa dal  G.U.P.  del  Tribunale  di
Venezia nel procedimento penale a carico di Ooh ed altri. 
 
Reati e  pene  -  Sequestro  di  persona  a  scopo  di  estorsione  -
  Trattamento sanzionatorio - Pena  minima  di  venticinque  anni  di
  reclusione - Mancata previsione della circostanza attenuante di cui
  all'art. 3 della legge n. 718 del 1985, se il  fatto  e'  di  lieve
  entita' - Eccessiva afflittivita' -  Violazione  del  principio  di
  ragionevolezza e del principio della  finalita'  rieducativa  della
  pena. 
- Codice penale, art. 630. 
- Costituzione, artt. 3 e 27, comma terzo. 
(GU n.11 del 9-3-2011 )
 
                            IL TRIBUNALE 
 
    Premesso che: 
        in data 9 aprile 2010 il Gip  del  Tribunale  di  Venezia  ha
emesso decreto di giudizio immediato nei confronti di Ooh T., e  V.C.
e N.C.T. per il delitto di cui all'art. 630, comma 1 c.p. - sequestro
di persona a scopo di estorsione - in danno di I.K.N. che conducevano
in un appartamento sito in Padova, dove lo trattenevano dalle  ore  2
alle ore 21 del 27 dicembre 2009, allo scopo di conseguire l'ingiusto
profitto  della  somma  di  euro  2.100  quale   prezzo   della   sua
liberazione; 
        gli  imputati  e  i  difensori  hanno  fatto  richiesta,  nei
termini, di rito abbreviato, che il giudice ha ammesso; 
        la discussione si e' svolta all'udienza del 10 novembre e  si
e' conclusa in data odierna; 
        nelle conclusioni, i difensori hanno sollevato  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 630 c.p. 
    Osserva in fatto che: 
        la questione non e' manifestamente infondata; 
        il codice penale puniva il delitto di sequestro di persona  a
scopo di rapina o di estorsione, di cui  all'art.  630  c.p.  con  la
reclusione da otto a quindici anni, oltre alla  multa;  il  capoverso
prevedeva una pena da 12  a  18  anni,  se  il  colpevole  conseguiva
l'intento; 
        l'articolo e' stato poi sostituito dall'art. 2 d.-l. 21 marzo
1978, n. 59 convertito con modificazioni nella legge 18 maggio  1978,
n. 191 nel modo seguente: «art. 630 (Sequestro di persona a scopo  di
estorsione). 
    Chiunque sequestra una persona allo scopo di conseguire, per  se'
o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della  liberazione,  e'
punito con la reclusione da venticinque a trenta anni. 
    Se dal sequestro deriva comunque la morte, quale conseguenza  non
voluta dal reo, della persona sequestrata, il colpevole e' punito con
la reclusione di anni trenta. 
    Se il colpevole cagiona la morte del sequestrato  si  applica  la
pena dell'ergastolo ...»; 
        e  quindi  dalla  legge  30  dicembre  1980,  n.  894   nella
formulazione vigente; 
        la  pena  minima  edittale  e'  stata  aumentata  da  otto  a
venticinque anni, per la reazione ferma e decisa dello Stato al grave
e dilagante fenomeno dei sequestri di persona consumati da potenti  e
feroci organizzazioni criminali che chiedevano  come  riscatto  somme
elevatissime e non avevano nessuna pieta' per gli ostaggi  sottoposti
a trattamenti inumani e spesso scomparsi per sempre,  anche  dopo  il
pagamento del riscatto; 
        non v'e' dubbio, ritiene questo giudice, che la pena edittale
sia adeguata alla gravita' dei fatti  criminosi  appena  descritti  e
che, benche'  l'industria  dei  sequestri  appaia  oggi  in  disarmo,
occasionalmente ancora si verificano; e' pertanto ragionevole che  la
norma  rimanga  nell'ordinamento,  con  intera   la   sua   efficacia
dissuasiva; 
        e tuttavia, nella  fattispecie  del  reato  di  sequestro  di
persona a scopo di estorsione rientrano fatti di ben minore gravita',
quale quelli, ad esempio, oggetto del presente procedimento,  che  si
riassumono; 
        nella notte tra il 26 e il 27 dicembre  2009,  due  cittadine
nigeriane O.B. e A.I. chiedono l'intervento della polizia, che giunge
presso il circolo C.L., di P.; le donne raccontano che il cognato  di
Aik N., era stato affrontato da alcune persone armate che lo  avevano
picchiato e portato via a  bordo  di  un'autovettura  tg.  .........;
l'auto e' subito rintracciata, ma le tre persone  a  bordo  risultano
estranee ai fatti; intanto all'utenza cellulare di A., giungono varie
telefonate con la richiesta di un riscatto  di  2.100  euro,  che  la
donna si dichiara disposta a pagare; l'appuntamento  e'  fissato  nei
pressi del locale «...» di via ... E. ..., dove giunge l'imputato Ooh
T. nel quale le nigeriane riconoscono  uno  degli  aggressori  e  che
viene pertanto, tratto in arresto; intanto all'utenza cellulare di O.
B.  giungono  altre  telefonate,  alcune  dallo  stesso   I.,   altre
dall'utenza n. ..., che e' in uso,  come  ritiene  O.,  al  capo  dei
sequestratori; 
        le intercettazioni telefoniche prontamente avviate,  rivelano
che la vittima si sta dirigendo all'«...» dove  gli  equipaggi  della
polizia convergono, accompagnati da A.I. che ben conosce I.; verso le
21,20 del 27 dicembre, infatti, A. lo indica agli agenti  mentre  sta
per entrare nel locale, accompagnato da due giovani  di  colore  che,
probabilmente accortisi della polizia, salgono in auto e  cercano  di
allontanarsi, mentre  I.  rimane  da  solo;  gli  agenti  riescono  a
bloccare la vettura e identificano i due giovani,  in  uno  solo  dei
quali, l'imputato, E. V. C. I. indica uno dei  sequestratori,  mentre
esclude che l'altro abbia in alcun modo partecipato  all'aggressione;
anche A.I. riconosce in E. uno di quelli che avevano portato  via  I.
dal locale; 
        I. accompagna  la  polizia  nell'appartamento  dov'era  stato
costretto in una stanza chiusa a chiave; i presenti sono estranei  ai
fatti; la polizia  vi  recupera,  pero',  un  permesso  di  soggiorno
intestato a N. C. T. che I. indica come  una  delle  persone  che  lo
hanno portato via dal locale C. I. e che verra' tratto in arresto, il
4 gennaio 2010, a seguito delle intercettazioni telefoniche  disposte
sull'utenza a lui in uso, comunicata agli inquirenti da  E.,  tramite
il suo difensore; 
        I. dichiara di essere giunto a P., da N., dove abita, la sera
del 26 dicembre, per salutare la cognata J., insieme  alla  quale  si
stava  trattenendo  all'«...»  qui  era  stato   avvicinato   da   un
connazionale, tale C., come poi ha saputo chiamarsi, il  quale  prima
ha cominciato a fargli domande e poi ha iniziato a colpirlo con pugni
e calci; era intervenuta piangendo la cognata, alla  quale  C.  aveva
detto che se non gli avesse portato la soma di 2.000 euro lo  avrebbe
ucciso durante la  notte;  quindi,  minacciandolo  con  un'arma,  con
l'aiuto di altri nigeriani,  lo  aveva  fatto  uscire  dal  locale  e
costretto a salire su un «...» ovvero un taxi abusivo condotto da  un
nigeriano; lo  aveva  condotto  in  un  appartamento  e  costretto  a
telefonare per chiedere alla cognata  di  consegnare  il  danaro;  e'
rimasto nell'abitazione anche il pomeriggio, poi  con  la  scusa  che
aveva bisogno di mangiare li ha convinti ad accompagnarlo fuori e  si
sono diretti - i  sequestratori  erano  in  cinque  -  in  tram  alla
stazione ferroviaria; hanno raggiunto l'... che si trova nei pressi e
quando uno di loro, accortosi della presenza  della  polizia,  voleva
costringerlo a salire su un ...,  non  ha  obbedito;  la  polizia  ha
fermato la vettura, quindi gli agenti gli si  sono  avvicinati;  alle
contestazioni degli agenti, spiega  di  avere  solo  un  rapporto  di
normale  amicizia  con  tale  I.  al  quale  C.   fornisce   sostanze
stupefacenti; probabilmente C. ha creduto che fosse complice di I.  e
pretendeva da lui la somma di cui I. era rimasto debitore; 
        il fatto e' sicuramente lieve, se  valutato  in  rapporto  al
paradigma del sequestro di persona che ha spinto il legislatore degli
anni 1978-1980 a portare da otto a venticinque anni  la  pena  minima
prevista per tale reato; 
        si consideri, infatti, che il sequestro e' stato occasionale,
frutto di un incontro  fortuito,  senza  organizzazione  di  mezzi  e
predisposizione di covi; la vittima e' stata portata e tenuta in  una
normale abitazione e senza  particolari  precauzioni,  tanto  che  ha
potuto  accompagnarvi  la  polizia;  ha  potuto  usare  il   telefono
cellulare ed e' stata portata all'«...» con i mezzi pubblici e libera
nella persona; e' stata pretesa quale prezzo  della  liberazione  una
somma, tutto sommata modesta, che gli imputati credevano  fosse  loro
dovuta, sia pure per affari illeciti;  gli  imputati  hanno  agito  a
volto scoperto e nessuno di lo o era armato al momento  dell'arresto;
non v'e' prova che l'arma di cui si parla agli atti fosse vera e,  in
proposito non vi e' alcuna contestazione; 
        se la pena deve essere adeguata alla  gravita'  del  reato  e
alla capacita' a delinquere degli imputati, ex art. 133 c.p., la pena
minima di anni venticinque di reclusione, che e' superiore alla  pena
massima prevista dal codice penale, il quale all'art.  23  stabilisce
che la pena della reclusione si estende da 15 giorni a 24 anni, pare,
a questo giudice eccessiva e del tutto irragionevole; se gli imputati
avessero ucciso I., la notte del 27 dicembre 2009 avrebbero meritato,
in mancanza di aggravanti,  una  pena  da  21  a  24  anni;  avendolo
sequestrato  per  meno  di  24  ore  e  senza  infierire,  al  di  la
dell'aggressione  iniziale,   sono   meritevoli,   a   giudizio   del
legislatore del 1980, di almeno 25 anni di reclusione; 
        i tentativi dei giudici  di  merito  di  una  interpretazione
«equitativa»  della  norma  sono  stati  censurati  dalla  Corte   di
cassazione che, nella sentenza a sezioni unite del 17,  12,  2003  n.
962, ha osservato che «la figura delineata dall'art.  630,  comma  1,
c.p.,  piuttosto  che  essere  l'unione  di  due  modelli   criminosi
"semplici'', il sequestro di persona e l'estorsione, risulta composta
dall'elemento oggettivo del  sequestro  di  persona,  arricchito  con
elementi propri dell'estorsione. Rispetto all'estorsione, invero,  il
verificarsi del "danno'' ed il conseguimento del "profitto ingiusto''
non costituiscono eventi in  senso  naturalistico  necessari  per  la
sussistenza del reato: mentre  il  danno  finisce  per  identificarsi
nella lesione arrecata  dalla  condotta  all'interesse  protetto,  il
profitto ingiusto e' solo oggetto del dolo specifico e  rimane  privo
di rilevanza agli effetti della consumazione del reato. 
    In  questo  senso  si  puo'  parlare  piu'  propriamente  -  come
evidenzia la dottrina - di fattispecie «a  doppia  specialita'»  o  a
«specialita' reciproca». In particolare, il legislatore  ha  ritenuto
di dare funzione qualificante  e  specializzante  del  reato  proprio
all'elemento soggettivo: non puo' non essere evidenziata la  funzione
svolta nel delitto in esame dal dolo specifico ... Se,  invero,  tale
reato ha natura plurioffensiva, poiche' l'oggetto della tutela penale
si identifica sia nella liberta' personale,  sia  nell'inviolabilita'
nel patrimonio, il tratto che ha sempre costituito  il  suo  elemento
fondante e' la «mercificazione della persona umana»:  la  persona  e'
strumentalizzata in  tutte  le  sue  dimensioni,  anche  affettive  e
patrimoniali, rispetto al fine dell'agente; e', in altre parole, resa
merce di  scambio  contro  un  prezzo,  come  risulta  dalla  stretta
correlazione posta tra il fine del  sequestro,  che  e'  il  profitto
ingiusto,  e  il  suo  titolo,  cioe',  appunto,  il   prezzo   della
liberazione (v. Cass. sez. 3, 24 giugno 1997, n.  8048,  ric.  PM  in
proc. Breshani ed altri, RV 209224). 
    A ben vedere, quando un soggetto viene tenuto sotto  sequestro  -
inteso essenzialmente come privazione  della  liberta'  di  movimento
nello spazio secondo l'autonoma scelta di ciascuno -  e  per  la  sua
liberazione  viene  preteso  un  prezzo,  l'azione  tipica  delineata
dall'art. 630 c.p. risulta pienamente configurata, con la sua  carica
intenzionale di conseguimento di un profitto;  se  tale  profitto  e'
ingiusto il  reato  si  perfeziona.  La  scomposizione  di  un  fatto
unitario, come tale  previsto  dall'art.  630  c.p.,  nei  due  reati
semplici di cui agli artt. 605 e 629 c.p., mostra  di  confondere  il
movente  retrostante  col  dolo  specifico,   fin   dall'inizio   ben
delineato. 
    Come ha correttamente rilevato l'ordinanza di rimessione, invero,
l'opposta soluzione e' basata su  di  una  lettura  della  norma  che
sovrappone  due  elementi,  i  quali  nella  norma   sono   distinti:
l'ingiusto profitto ed il prezzo. Il prezzo e'  la  controprestazione
che  viene  imposta  quale  corrispettivo  della  liberazione   della
persona: prezzo  e  liberazione  sono  i  due  poli  dello  specifico
sinallagma. La ricerca di  questo  corrispettivo  puo'  pero'  essere
volta a conseguire sia  il  vantaggio  che  deriva  direttamente  dal
prezzo (e quindi ad ottenere un profitto comunque ingiusto),  sia  il
vantaggio  che  deriva  da  un  rapporto  pregresso.  Se  la  pretesa
dell'agente ha titolo, come nella specie, in un negozio avente  causa
illecita, il profitto perseguito e' ingiusto; e non si  vede  perche'
se ad essa si accompagni la segregazione del soggetto passivo,  e  la
liberazione di questo sia condizionata al pagamento di un prezzo,  la
condotta del sequestratore debba essere scissa in due  fatti-reato  -
sequestro di persona ed estorsione - il secondo dei quali  presuppone
comunque l'ingiustizia del profitto. 
    Il  binomio  normativo  "ingiusto  profitto  come  prezzo   della
liberazione''  non  esclude  che  il  perseguimento  del  prezzo  del
riscatto  tragga  il  movente  da  preesistenti  rapporti   illeciti,
limitandosi a collegare l'azione ricattatrice alla prospettiva  della
liberazione del sequestrato». 
    Dell'esattezza giuridica della sentenza delle  Sezioni  Unite  e'
difficile  dubitare  e  tuttavia  in  alcune  decisioni  ritorna   il
tentativo di «distinguere» probabilmente per determinare la  pena  in
modo adeguato alla reale gravita' del fatto commesso. Ad esempio,  la
Corte d'Appello di Roma, sezione 3ª, nella sentenza 30  giugno  2010,
n. 4699, ha deciso che «il delitto di sequestro di persona a scopo di
estorsione non e' integrato  qualora  l'ingiusto  profitto,  elemento
essenziale, costitutivo della fattispecie, sia collegato ad una causa
preesistente, ancorche' illecita. Nel caso di specie gli imputati  si
erano recati presso i locali della societa' ove lavorava  la  persona
offesa chiedendo che fosse pagata la somma di  euro  200,00  per  dei
lavori in precedenza effettuati per la societa' medesima,  mentre  la
persona offesa aveva  offerto  loro  la  somma  di  euro  20,00,  gli
imputati l'avevano quindi caricata su un furgone segregandola in  una
casupola e chiedendo ai familiari la  somma  di  euro  200.000  quale
prezzo per la liberazione. La Corte d'Appello  di  Roma  ha  ritenuto
sussistente il reato di cui all'art. 605,  comma  1  c.p.  e  non  il
diverso delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione; 
        a ben vedere, il legislatore e' sempre stato  attento,  nella
formazione penale, ogni qualvolta il  minimo  edittale  previsto  sia
elevato ad introdurre specifiche attenuanti al fine  di  adeguare  la
pena alla reale gravita' del fatto concreto; 
        ad esempio, l'art. 609-bis, ultimo  comma  c.p.  prevede  che
«nei casi di minore gravita' la  pena  e'  diminuita  in  misura  non
eccedente i due terzi»;  l'art.  73,  comma  5,  d.P.R.  n.  309/1990
stabilisce che «quando .... i fatti ... sono  di  lieve  entita',  si
applicano le pene da uno a sei anni e  della  multa  ...»;  l'art.  5
della legge 2 ottobre 1967, n. 895 recita: «le pene  stabilite  negli
articoli precedenti possono essere diminuite .... quando ... il fatto
debba ritenersi  di  lieve  entita';»  l'art.  311  c.p.  prevede  la
specifica attenuante della lieve entita' del  fatto,  per  i  delitti
contro lo Stato, previsti  dal  titolo  I  del  c.p.,  ivi  compreso,
quindi, il sequestro di persona a scopo di terrorismo o di  eversione
ex art. 289-bis c.p.; 
        anche la legge 26 novembre 1985, n. 718,  di  ratifica  della
Convenzione Internazionale firmata a New York  in  data  18  dicembre
1979 contro la cattura degli ostaggi, prevede, all'art. 3: «Chiunque,
fuori dei casi indicati negli articoli 289-bis e 630 c.p.,  sequestra
una persona o la tiene in suo potere  minacciando  di  ucciderla,  di
ferirla o di continuare a tenerla sequestrata al fine di  costringere
un terzo, sia questi uno Stato, una organizzazione internazionale tra
piu' Governi, una persona fisica, o giuridica, od  una  collettivita'
di persone fisiche, a compiere un qualsiasi atto  o  ad  astenersene,
subordinando la liberazione della persona sequestrata a  tale  azione
od  omissione,  e'  punita  con  la  reclusione  da   venticinque   a
trent'anni. 
    Si applicano i commi secondo, terzo, quarto  e  quinto  dell'art.
289-bis c.p. Se il fatto e' di lieve entita'  si  applicano  le  pene
previste dall'art. 605 c.p. aumentate dalla meta' a due terzi»; 
        l'art. 630 c.p. non prevede alcuna simile attenuante; la pena
minima edittale, di anni  25  di  reclusione,  superiore  al  massimo
assoluto della pena  della  reclusione,  prevista  dal  codice  nella
misura  di  anni   24,   diventa,   dunque,   troppo   affittiva   ed
irragionevole,  nel  momento  in  cui  l'assenza  di  una   specifica
attenuante nei casi in  cui  il  fatto  sia  lieve  (naturalmente  in
relazione al fatto reato «meritevole» di una pena minima di  anni  25
di reclusione) non consente di modulare la pena in rapporto al  reale
disvalore del fatto commesso e finisce, cosi',  per  contrastare  con
gli artt. 3 e 27, comma 3 della Costituzione; 
        con l'art. 3  della  Costituzione  perche'  e'  irragionevole
punire con una pena minima edittale di anni 25 di reclusione il reato
ex art. 630 c.p. senza prevedere una specifica attenuante con  minimo
edittale inferiore ove il fatto sia lieve; 
        nella sentenza del  19-25  luglio  1994,  n.  341,  la  Corte
costituzionale considera che «... si puo' osservare  in  primo  luogo
come il principio secondo cui appartiene  alla  discrezionalita'  del
legislatore  la  determinazione  della  quantita'  e  qualita'  della
sanzione penale costituisce un  dato  costante  della  giurisprudenza
costituzionale che deve essere riconfermato: non spetta infatti  alla
Corte rimodulare le scelte punitive effettuate dal  legislatore,  ne'
stabilire quantificazioni  sanzionatorie.  Tuttavia,  come  e'  stato
sottolineato soprattutto  nella  giurisprudenza  piu'  recente,  alla
Corte   rimane   il   compito   di   verificare   che   l'uso   della
discrezionalita' legislativa in  materia  rispetti  il  limite  della
ragionevolezza. In particolare, con la sentenza n. 409  del  1989  la
Corte ha definitivamente chiarito che "il principio  di  uguaglianza,
di cui all'art. 3, primo comma, della Costituzione, esige che la pena
sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso,  in  modo
che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo  alla  funzione  di
difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali; ...
le valutazioni all'uopo necessarie rientrano nell'ambito  del  potere
discrezionale  del  legislatore,  il  cui   esercizio   puo'   essere
censurato,  sotto  il  profilo  della  legittimita'   costituzionale,
soltanto nei casi in cui non sia stato  rispettato  il  limite  della
ragionevolezza'' (v. pure nello stesso senso sentenze nn. 343  e  422
del  1993).   Infatti,   piu'   in   generale,   "il   principio   di
proporzionalita' ... nel campo del diritto penale equivale  a  negare
legittimita' alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee
a  raggiungere  finalita'   statuali   di   prevenzione,   producono,
attraverso  la   pena,   danni   all'individuo   (ai   suoi   diritti
fondamentali)  ed  alla  societa'  sproporzionatamente  maggiori  dei
vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la  tutela  dei
beni e valori offesi dalle predette incriminazioni» (sentenza n.  409
del 1989); 
        ancora, nella sentenza 28 giugno-12 luglio 1995, n.  313,  la
Corte costituzionale precisa: «Perche' sia dunque  possibile  operare
uno  scrutinio  che  direttamente  investa  il  merito  delle  scelte
sanzionatorie operate dal legislatore,  e'  pertanto  necessario  che
l'opzione normativa contrasti in modo manifesto con il  canone  della
ragionevolezza,  vale  a  dire  si  appalesi,   in   concreto,   come
espressione di un uso distorto della discrezionalita'  che  raggiunga
una soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura
per cosi' dire sintomatica di "eccesso  di  potere''  e,  dunque,  di
sviamento rispetto alle attribuzioni che l'ordinamento  assegna  alla
funzione legislativa. Non e', quindi, qualsiasi mutamento del costume
o della coscienza collettiva  a  poter  indurre  nuove  gerarchie  di
valori  idonee  a  compromettere,  sul  piano  della   ragionevolezza
costituzionalmente rilevante, la ponderazione che dei beni  coinvolti
sia stata operata in sede normativa attraverso l'individuazione delle
condotte penalmente rilevanti e  la  determinazione  del  conseguente
trattamento  sanzionatorio,   giacche',   ove   cosi'   fosse,   alla
relativita' di un giudizio di valore - quello legislativo - finirebbe
ineluttabilmente  per  sovrapporsi  un  controllo  di  ragionevolezza
anch'esso relativo e, come tale, idoneo  a  realizzare  una  funzione
eminentemente  "creativa''  che  sicuramente  fuoriesce  dai  compiti
riservati a questa Corte. L'apprezzamento in  ordine  alla  manifesta
irragionevolezza della quantita' o qualita' della pena comminata  per
una  determinata  fattispecie  incriminatrice  finisce,  dunque,  per
saldarsi intimamente alla verifica circa l'effettivo uso  del  potere
discrezionale, nel senso che, ove uno o piu'  fra  i  valori  che  la
norma investe apparissero sviliti al punto da risultare  in  concreto
compromessi ad esclusivo  vantaggio  degli  altri,  sara'  la  stessa
discrezionalita' a non potersi dire correttamente esercitata, proprio
perche' carente di alcuni dei termini sui quali la  stessa  poteva  e
doveva fondarsi»; 
        con l'art. 27, comma 3 della Costituzione perche' e'  in  tal
modo impedito al giudice di osservare nella determinazione della pena
il principio di proporzione con la gravita' del fatto reato  e  della
capacita' a  delinquere;  si  smarrisce  in  tal  modo  la  finalita'
rieducativa della pena; 
        nella sentenza del 26 giugno-2 luglio 1990, n. 313  la  Corte
ha osservato che «la necessita'  costituzionale  che  la  pena  debba
"tendere'' a rieducare, lungi dal  rappresentare  una  mera  generica
tendenza riferita al solo  trattamento,  indica  invece  proprio  una
delle qualita' essenziali e generali che caratterizzano la  pena  nel
suo  contenuto  ontologico,  e  l'accompagnano   da   quando   nasce,
nell'astratta previsione normativa, fino  a  quando  in  concreto  si
estingue. Cio' che il verbo "tendere'' vuole significare e'  soltanto
la presa d'atto della divaricazione che nella prassi puo' verificarsi
tra quella finalita'  e  l'adesione  di  fatto  del  destinatario  al
processo di rieducazione:  com'e'  dimostrato  dall'istituto  che  fa
corrispondere benefici di decurtazione della pena ogni  qualvolta,  e
nei  limiti  temporali,  in  cui  quell'adesione   concretamente   si
manifesti  (liberazione  anticipata).  Se  la  finalita'  rieducativa
venisse   limitata   alla   fase   esecutiva,   rischierebbe    grave
compromissione ogniqualvolta  specie  e  durata  della  sanzione  non
fossero  state  calibrate  (ne'  in  sede  normativa  ne'  in  quella
applicativa) alle necessita' rieducative del soggetto. 
    La Corte ha gia' avvertito tutto questo quando non ha  esitato  a
valorizzare il principio addirittura sul piano  della  struttura  del
fatto di reato (cfr. sentenza n. 364 del 1988). 
    Dev'essere, dunque, esplicitamente ribadito che  il  precetto  di
cui al terzo comma dell'art. 27 della Costituzione vale tanto per  il
legislatore quanto per i giudici  della  cognizione,  oltre  che  per
quelli dell'esecuzione e della sorveglianza, nonche'  per  le  stesse
autorita' penitenziarie. 
    Del resto, si tratta di  un  principio  che,  seppure  variamente
profilato, e' ormai  da  tempo  diventato  patrimonio  della  cultura
giuridica europea, particolarmente per il  suo  collegamento  con  il
"principio di proporzione'' fra qualita' e quantita' della  sanzione,
da una parte, ed offesa, dall'''altra''»; 
        non v'e' dubbio che nel momento  in  cui  il  legislatore  ha
aumentato la pena per il delitto di sequestro di persona a  scopo  di
estorsione,  da  8  a  25  anni  di  reclusione  "dimenticando''   di
configurare una specifica attenuante per i fatti lievi, al  contrario
di quanto ha disposto per altri reati - e si  richiama  espressamente
l'art. 3 della legge 26 novembre 1985, n. 718 che in una  fattispecie
analoga al delitto ex  art.  630  c.p.  di  contro  ad  una  pena  da
venticinque a trent'anni di reclusione, prevede, al comma 3:  "Se  il
fatto e' di lieve entita' si applicano le pene previste dall'art. 605
c.p. aumentate dalla meta' a due terzi.''  -  ha  fatto  cattivo  uso
della  propria  discrezionalita',   sanzionando   con   la   medesima
elevatissima pena fatti reato di gravita'  assai  diversa,  con  cio'
frustrando anche il fine rieducativo della pena; 
        l'art. 630 c.p. contrasta con gli artt. 3 e 27 comma 3  della
Costituzione,  nella  parte  in  cui  non  prevede   la   circostanza
attenuante di cui all'art. 3 della legge 26 novembre  1985,  n.  718:
«se il fatto e' di  lieve  entita'  si  applicano  le  pene  previste
dall'art. 605 c.p. aumentate dalla meta' ai due terzi»; 
        la questione e' rilevante; 
        ove la Corte dichiarasse  l'incostituzionalita'  della  norma
nel  senso  sopra   indicato   questo   giudice   potrebbe   ritenere
sussistente, per i motivi sopra specificati, la invocata attenuante e
condannare gli imputati ad una pena effettivamente adeguata  ex  art.
133 c.p. al reale disvalore e gravita' del fatto commesso; 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visto 1'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 630 c.p. nella parte in cui non
prevede la circostanza attenuante di cui all'art. 3  della  legge  26
novembre 1985, n. 718: «se il fatto e' di lieve entita' si  applicano
le pene previste dall'art. 605 c.p.  aumentate  dalla  meta'  ai  due
terzi»; 
    Sospende il procedimento; 
    Ordina la trasmissione degli atti  alla  Corte  costituzionale  e
manda  alla  cancelleria  per  la  notificazione  al  Presidente  del
Consiglio dei ministri e per la  comunicazione  ai  Presidenti  della
Camera dei Deputati e del Senato. 
      Venezia, 13 dicembre 2010 
 
                         Il giudice: Galasso