N. 39 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 dicembre 2010
Ordinanza del 13 dicembre 2010 emessa dal G.U.P. del Tribunale di Venezia nel procedimento penale a carico di Ooh ed altri. Reati e pene - Sequestro di persona a scopo di estorsione - Trattamento sanzionatorio - Pena minima di venticinque anni di reclusione - Mancata previsione della circostanza attenuante di cui all'art. 3 della legge n. 718 del 1985, se il fatto e' di lieve entita' - Eccessiva afflittivita' - Violazione del principio di ragionevolezza e del principio della finalita' rieducativa della pena. - Codice penale, art. 630. - Costituzione, artt. 3 e 27, comma terzo.(GU n.11 del 9-3-2011 )
IL TRIBUNALE Premesso che: in data 9 aprile 2010 il Gip del Tribunale di Venezia ha emesso decreto di giudizio immediato nei confronti di Ooh T., e V.C. e N.C.T. per il delitto di cui all'art. 630, comma 1 c.p. - sequestro di persona a scopo di estorsione - in danno di I.K.N. che conducevano in un appartamento sito in Padova, dove lo trattenevano dalle ore 2 alle ore 21 del 27 dicembre 2009, allo scopo di conseguire l'ingiusto profitto della somma di euro 2.100 quale prezzo della sua liberazione; gli imputati e i difensori hanno fatto richiesta, nei termini, di rito abbreviato, che il giudice ha ammesso; la discussione si e' svolta all'udienza del 10 novembre e si e' conclusa in data odierna; nelle conclusioni, i difensori hanno sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 630 c.p. Osserva in fatto che: la questione non e' manifestamente infondata; il codice penale puniva il delitto di sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, di cui all'art. 630 c.p. con la reclusione da otto a quindici anni, oltre alla multa; il capoverso prevedeva una pena da 12 a 18 anni, se il colpevole conseguiva l'intento; l'articolo e' stato poi sostituito dall'art. 2 d.-l. 21 marzo 1978, n. 59 convertito con modificazioni nella legge 18 maggio 1978, n. 191 nel modo seguente: «art. 630 (Sequestro di persona a scopo di estorsione). Chiunque sequestra una persona allo scopo di conseguire, per se' o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione, e' punito con la reclusione da venticinque a trenta anni. Se dal sequestro deriva comunque la morte, quale conseguenza non voluta dal reo, della persona sequestrata, il colpevole e' punito con la reclusione di anni trenta. Se il colpevole cagiona la morte del sequestrato si applica la pena dell'ergastolo ...»; e quindi dalla legge 30 dicembre 1980, n. 894 nella formulazione vigente; la pena minima edittale e' stata aumentata da otto a venticinque anni, per la reazione ferma e decisa dello Stato al grave e dilagante fenomeno dei sequestri di persona consumati da potenti e feroci organizzazioni criminali che chiedevano come riscatto somme elevatissime e non avevano nessuna pieta' per gli ostaggi sottoposti a trattamenti inumani e spesso scomparsi per sempre, anche dopo il pagamento del riscatto; non v'e' dubbio, ritiene questo giudice, che la pena edittale sia adeguata alla gravita' dei fatti criminosi appena descritti e che, benche' l'industria dei sequestri appaia oggi in disarmo, occasionalmente ancora si verificano; e' pertanto ragionevole che la norma rimanga nell'ordinamento, con intera la sua efficacia dissuasiva; e tuttavia, nella fattispecie del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione rientrano fatti di ben minore gravita', quale quelli, ad esempio, oggetto del presente procedimento, che si riassumono; nella notte tra il 26 e il 27 dicembre 2009, due cittadine nigeriane O.B. e A.I. chiedono l'intervento della polizia, che giunge presso il circolo C.L., di P.; le donne raccontano che il cognato di Aik N., era stato affrontato da alcune persone armate che lo avevano picchiato e portato via a bordo di un'autovettura tg. .........; l'auto e' subito rintracciata, ma le tre persone a bordo risultano estranee ai fatti; intanto all'utenza cellulare di A., giungono varie telefonate con la richiesta di un riscatto di 2.100 euro, che la donna si dichiara disposta a pagare; l'appuntamento e' fissato nei pressi del locale «...» di via ... E. ..., dove giunge l'imputato Ooh T. nel quale le nigeriane riconoscono uno degli aggressori e che viene pertanto, tratto in arresto; intanto all'utenza cellulare di O. B. giungono altre telefonate, alcune dallo stesso I., altre dall'utenza n. ..., che e' in uso, come ritiene O., al capo dei sequestratori; le intercettazioni telefoniche prontamente avviate, rivelano che la vittima si sta dirigendo all'«...» dove gli equipaggi della polizia convergono, accompagnati da A.I. che ben conosce I.; verso le 21,20 del 27 dicembre, infatti, A. lo indica agli agenti mentre sta per entrare nel locale, accompagnato da due giovani di colore che, probabilmente accortisi della polizia, salgono in auto e cercano di allontanarsi, mentre I. rimane da solo; gli agenti riescono a bloccare la vettura e identificano i due giovani, in uno solo dei quali, l'imputato, E. V. C. I. indica uno dei sequestratori, mentre esclude che l'altro abbia in alcun modo partecipato all'aggressione; anche A.I. riconosce in E. uno di quelli che avevano portato via I. dal locale; I. accompagna la polizia nell'appartamento dov'era stato costretto in una stanza chiusa a chiave; i presenti sono estranei ai fatti; la polizia vi recupera, pero', un permesso di soggiorno intestato a N. C. T. che I. indica come una delle persone che lo hanno portato via dal locale C. I. e che verra' tratto in arresto, il 4 gennaio 2010, a seguito delle intercettazioni telefoniche disposte sull'utenza a lui in uso, comunicata agli inquirenti da E., tramite il suo difensore; I. dichiara di essere giunto a P., da N., dove abita, la sera del 26 dicembre, per salutare la cognata J., insieme alla quale si stava trattenendo all'«...» qui era stato avvicinato da un connazionale, tale C., come poi ha saputo chiamarsi, il quale prima ha cominciato a fargli domande e poi ha iniziato a colpirlo con pugni e calci; era intervenuta piangendo la cognata, alla quale C. aveva detto che se non gli avesse portato la soma di 2.000 euro lo avrebbe ucciso durante la notte; quindi, minacciandolo con un'arma, con l'aiuto di altri nigeriani, lo aveva fatto uscire dal locale e costretto a salire su un «...» ovvero un taxi abusivo condotto da un nigeriano; lo aveva condotto in un appartamento e costretto a telefonare per chiedere alla cognata di consegnare il danaro; e' rimasto nell'abitazione anche il pomeriggio, poi con la scusa che aveva bisogno di mangiare li ha convinti ad accompagnarlo fuori e si sono diretti - i sequestratori erano in cinque - in tram alla stazione ferroviaria; hanno raggiunto l'... che si trova nei pressi e quando uno di loro, accortosi della presenza della polizia, voleva costringerlo a salire su un ..., non ha obbedito; la polizia ha fermato la vettura, quindi gli agenti gli si sono avvicinati; alle contestazioni degli agenti, spiega di avere solo un rapporto di normale amicizia con tale I. al quale C. fornisce sostanze stupefacenti; probabilmente C. ha creduto che fosse complice di I. e pretendeva da lui la somma di cui I. era rimasto debitore; il fatto e' sicuramente lieve, se valutato in rapporto al paradigma del sequestro di persona che ha spinto il legislatore degli anni 1978-1980 a portare da otto a venticinque anni la pena minima prevista per tale reato; si consideri, infatti, che il sequestro e' stato occasionale, frutto di un incontro fortuito, senza organizzazione di mezzi e predisposizione di covi; la vittima e' stata portata e tenuta in una normale abitazione e senza particolari precauzioni, tanto che ha potuto accompagnarvi la polizia; ha potuto usare il telefono cellulare ed e' stata portata all'«...» con i mezzi pubblici e libera nella persona; e' stata pretesa quale prezzo della liberazione una somma, tutto sommata modesta, che gli imputati credevano fosse loro dovuta, sia pure per affari illeciti; gli imputati hanno agito a volto scoperto e nessuno di lo o era armato al momento dell'arresto; non v'e' prova che l'arma di cui si parla agli atti fosse vera e, in proposito non vi e' alcuna contestazione; se la pena deve essere adeguata alla gravita' del reato e alla capacita' a delinquere degli imputati, ex art. 133 c.p., la pena minima di anni venticinque di reclusione, che e' superiore alla pena massima prevista dal codice penale, il quale all'art. 23 stabilisce che la pena della reclusione si estende da 15 giorni a 24 anni, pare, a questo giudice eccessiva e del tutto irragionevole; se gli imputati avessero ucciso I., la notte del 27 dicembre 2009 avrebbero meritato, in mancanza di aggravanti, una pena da 21 a 24 anni; avendolo sequestrato per meno di 24 ore e senza infierire, al di la dell'aggressione iniziale, sono meritevoli, a giudizio del legislatore del 1980, di almeno 25 anni di reclusione; i tentativi dei giudici di merito di una interpretazione «equitativa» della norma sono stati censurati dalla Corte di cassazione che, nella sentenza a sezioni unite del 17, 12, 2003 n. 962, ha osservato che «la figura delineata dall'art. 630, comma 1, c.p., piuttosto che essere l'unione di due modelli criminosi "semplici'', il sequestro di persona e l'estorsione, risulta composta dall'elemento oggettivo del sequestro di persona, arricchito con elementi propri dell'estorsione. Rispetto all'estorsione, invero, il verificarsi del "danno'' ed il conseguimento del "profitto ingiusto'' non costituiscono eventi in senso naturalistico necessari per la sussistenza del reato: mentre il danno finisce per identificarsi nella lesione arrecata dalla condotta all'interesse protetto, il profitto ingiusto e' solo oggetto del dolo specifico e rimane privo di rilevanza agli effetti della consumazione del reato. In questo senso si puo' parlare piu' propriamente - come evidenzia la dottrina - di fattispecie «a doppia specialita'» o a «specialita' reciproca». In particolare, il legislatore ha ritenuto di dare funzione qualificante e specializzante del reato proprio all'elemento soggettivo: non puo' non essere evidenziata la funzione svolta nel delitto in esame dal dolo specifico ... Se, invero, tale reato ha natura plurioffensiva, poiche' l'oggetto della tutela penale si identifica sia nella liberta' personale, sia nell'inviolabilita' nel patrimonio, il tratto che ha sempre costituito il suo elemento fondante e' la «mercificazione della persona umana»: la persona e' strumentalizzata in tutte le sue dimensioni, anche affettive e patrimoniali, rispetto al fine dell'agente; e', in altre parole, resa merce di scambio contro un prezzo, come risulta dalla stretta correlazione posta tra il fine del sequestro, che e' il profitto ingiusto, e il suo titolo, cioe', appunto, il prezzo della liberazione (v. Cass. sez. 3, 24 giugno 1997, n. 8048, ric. PM in proc. Breshani ed altri, RV 209224). A ben vedere, quando un soggetto viene tenuto sotto sequestro - inteso essenzialmente come privazione della liberta' di movimento nello spazio secondo l'autonoma scelta di ciascuno - e per la sua liberazione viene preteso un prezzo, l'azione tipica delineata dall'art. 630 c.p. risulta pienamente configurata, con la sua carica intenzionale di conseguimento di un profitto; se tale profitto e' ingiusto il reato si perfeziona. La scomposizione di un fatto unitario, come tale previsto dall'art. 630 c.p., nei due reati semplici di cui agli artt. 605 e 629 c.p., mostra di confondere il movente retrostante col dolo specifico, fin dall'inizio ben delineato. Come ha correttamente rilevato l'ordinanza di rimessione, invero, l'opposta soluzione e' basata su di una lettura della norma che sovrappone due elementi, i quali nella norma sono distinti: l'ingiusto profitto ed il prezzo. Il prezzo e' la controprestazione che viene imposta quale corrispettivo della liberazione della persona: prezzo e liberazione sono i due poli dello specifico sinallagma. La ricerca di questo corrispettivo puo' pero' essere volta a conseguire sia il vantaggio che deriva direttamente dal prezzo (e quindi ad ottenere un profitto comunque ingiusto), sia il vantaggio che deriva da un rapporto pregresso. Se la pretesa dell'agente ha titolo, come nella specie, in un negozio avente causa illecita, il profitto perseguito e' ingiusto; e non si vede perche' se ad essa si accompagni la segregazione del soggetto passivo, e la liberazione di questo sia condizionata al pagamento di un prezzo, la condotta del sequestratore debba essere scissa in due fatti-reato - sequestro di persona ed estorsione - il secondo dei quali presuppone comunque l'ingiustizia del profitto. Il binomio normativo "ingiusto profitto come prezzo della liberazione'' non esclude che il perseguimento del prezzo del riscatto tragga il movente da preesistenti rapporti illeciti, limitandosi a collegare l'azione ricattatrice alla prospettiva della liberazione del sequestrato». Dell'esattezza giuridica della sentenza delle Sezioni Unite e' difficile dubitare e tuttavia in alcune decisioni ritorna il tentativo di «distinguere» probabilmente per determinare la pena in modo adeguato alla reale gravita' del fatto commesso. Ad esempio, la Corte d'Appello di Roma, sezione 3ª, nella sentenza 30 giugno 2010, n. 4699, ha deciso che «il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione non e' integrato qualora l'ingiusto profitto, elemento essenziale, costitutivo della fattispecie, sia collegato ad una causa preesistente, ancorche' illecita. Nel caso di specie gli imputati si erano recati presso i locali della societa' ove lavorava la persona offesa chiedendo che fosse pagata la somma di euro 200,00 per dei lavori in precedenza effettuati per la societa' medesima, mentre la persona offesa aveva offerto loro la somma di euro 20,00, gli imputati l'avevano quindi caricata su un furgone segregandola in una casupola e chiedendo ai familiari la somma di euro 200.000 quale prezzo per la liberazione. La Corte d'Appello di Roma ha ritenuto sussistente il reato di cui all'art. 605, comma 1 c.p. e non il diverso delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione; a ben vedere, il legislatore e' sempre stato attento, nella formazione penale, ogni qualvolta il minimo edittale previsto sia elevato ad introdurre specifiche attenuanti al fine di adeguare la pena alla reale gravita' del fatto concreto; ad esempio, l'art. 609-bis, ultimo comma c.p. prevede che «nei casi di minore gravita' la pena e' diminuita in misura non eccedente i due terzi»; l'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990 stabilisce che «quando .... i fatti ... sono di lieve entita', si applicano le pene da uno a sei anni e della multa ...»; l'art. 5 della legge 2 ottobre 1967, n. 895 recita: «le pene stabilite negli articoli precedenti possono essere diminuite .... quando ... il fatto debba ritenersi di lieve entita';» l'art. 311 c.p. prevede la specifica attenuante della lieve entita' del fatto, per i delitti contro lo Stato, previsti dal titolo I del c.p., ivi compreso, quindi, il sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione ex art. 289-bis c.p.; anche la legge 26 novembre 1985, n. 718, di ratifica della Convenzione Internazionale firmata a New York in data 18 dicembre 1979 contro la cattura degli ostaggi, prevede, all'art. 3: «Chiunque, fuori dei casi indicati negli articoli 289-bis e 630 c.p., sequestra una persona o la tiene in suo potere minacciando di ucciderla, di ferirla o di continuare a tenerla sequestrata al fine di costringere un terzo, sia questi uno Stato, una organizzazione internazionale tra piu' Governi, una persona fisica, o giuridica, od una collettivita' di persone fisiche, a compiere un qualsiasi atto o ad astenersene, subordinando la liberazione della persona sequestrata a tale azione od omissione, e' punita con la reclusione da venticinque a trent'anni. Si applicano i commi secondo, terzo, quarto e quinto dell'art. 289-bis c.p. Se il fatto e' di lieve entita' si applicano le pene previste dall'art. 605 c.p. aumentate dalla meta' a due terzi»; l'art. 630 c.p. non prevede alcuna simile attenuante; la pena minima edittale, di anni 25 di reclusione, superiore al massimo assoluto della pena della reclusione, prevista dal codice nella misura di anni 24, diventa, dunque, troppo affittiva ed irragionevole, nel momento in cui l'assenza di una specifica attenuante nei casi in cui il fatto sia lieve (naturalmente in relazione al fatto reato «meritevole» di una pena minima di anni 25 di reclusione) non consente di modulare la pena in rapporto al reale disvalore del fatto commesso e finisce, cosi', per contrastare con gli artt. 3 e 27, comma 3 della Costituzione; con l'art. 3 della Costituzione perche' e' irragionevole punire con una pena minima edittale di anni 25 di reclusione il reato ex art. 630 c.p. senza prevedere una specifica attenuante con minimo edittale inferiore ove il fatto sia lieve; nella sentenza del 19-25 luglio 1994, n. 341, la Corte costituzionale considera che «... si puo' osservare in primo luogo come il principio secondo cui appartiene alla discrezionalita' del legislatore la determinazione della quantita' e qualita' della sanzione penale costituisce un dato costante della giurisprudenza costituzionale che deve essere riconfermato: non spetta infatti alla Corte rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore, ne' stabilire quantificazioni sanzionatorie. Tuttavia, come e' stato sottolineato soprattutto nella giurisprudenza piu' recente, alla Corte rimane il compito di verificare che l'uso della discrezionalita' legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza. In particolare, con la sentenza n. 409 del 1989 la Corte ha definitivamente chiarito che "il principio di uguaglianza, di cui all'art. 3, primo comma, della Costituzione, esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali; ... le valutazioni all'uopo necessarie rientrano nell'ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio puo' essere censurato, sotto il profilo della legittimita' costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza'' (v. pure nello stesso senso sentenze nn. 343 e 422 del 1993). Infatti, piu' in generale, "il principio di proporzionalita' ... nel campo del diritto penale equivale a negare legittimita' alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalita' statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all'individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla societa' sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni» (sentenza n. 409 del 1989); ancora, nella sentenza 28 giugno-12 luglio 1995, n. 313, la Corte costituzionale precisa: «Perche' sia dunque possibile operare uno scrutinio che direttamente investa il merito delle scelte sanzionatorie operate dal legislatore, e' pertanto necessario che l'opzione normativa contrasti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza, vale a dire si appalesi, in concreto, come espressione di un uso distorto della discrezionalita' che raggiunga una soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura per cosi' dire sintomatica di "eccesso di potere'' e, dunque, di sviamento rispetto alle attribuzioni che l'ordinamento assegna alla funzione legislativa. Non e', quindi, qualsiasi mutamento del costume o della coscienza collettiva a poter indurre nuove gerarchie di valori idonee a compromettere, sul piano della ragionevolezza costituzionalmente rilevante, la ponderazione che dei beni coinvolti sia stata operata in sede normativa attraverso l'individuazione delle condotte penalmente rilevanti e la determinazione del conseguente trattamento sanzionatorio, giacche', ove cosi' fosse, alla relativita' di un giudizio di valore - quello legislativo - finirebbe ineluttabilmente per sovrapporsi un controllo di ragionevolezza anch'esso relativo e, come tale, idoneo a realizzare una funzione eminentemente "creativa'' che sicuramente fuoriesce dai compiti riservati a questa Corte. L'apprezzamento in ordine alla manifesta irragionevolezza della quantita' o qualita' della pena comminata per una determinata fattispecie incriminatrice finisce, dunque, per saldarsi intimamente alla verifica circa l'effettivo uso del potere discrezionale, nel senso che, ove uno o piu' fra i valori che la norma investe apparissero sviliti al punto da risultare in concreto compromessi ad esclusivo vantaggio degli altri, sara' la stessa discrezionalita' a non potersi dire correttamente esercitata, proprio perche' carente di alcuni dei termini sui quali la stessa poteva e doveva fondarsi»; con l'art. 27, comma 3 della Costituzione perche' e' in tal modo impedito al giudice di osservare nella determinazione della pena il principio di proporzione con la gravita' del fatto reato e della capacita' a delinquere; si smarrisce in tal modo la finalita' rieducativa della pena; nella sentenza del 26 giugno-2 luglio 1990, n. 313 la Corte ha osservato che «la necessita' costituzionale che la pena debba "tendere'' a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualita' essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue. Cio' che il verbo "tendere'' vuole significare e' soltanto la presa d'atto della divaricazione che nella prassi puo' verificarsi tra quella finalita' e l'adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione: com'e' dimostrato dall'istituto che fa corrispondere benefici di decurtazione della pena ogni qualvolta, e nei limiti temporali, in cui quell'adesione concretamente si manifesti (liberazione anticipata). Se la finalita' rieducativa venisse limitata alla fase esecutiva, rischierebbe grave compromissione ogniqualvolta specie e durata della sanzione non fossero state calibrate (ne' in sede normativa ne' in quella applicativa) alle necessita' rieducative del soggetto. La Corte ha gia' avvertito tutto questo quando non ha esitato a valorizzare il principio addirittura sul piano della struttura del fatto di reato (cfr. sentenza n. 364 del 1988). Dev'essere, dunque, esplicitamente ribadito che il precetto di cui al terzo comma dell'art. 27 della Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli dell'esecuzione e della sorveglianza, nonche' per le stesse autorita' penitenziarie. Del resto, si tratta di un principio che, seppure variamente profilato, e' ormai da tempo diventato patrimonio della cultura giuridica europea, particolarmente per il suo collegamento con il "principio di proporzione'' fra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, ed offesa, dall'''altra''»; non v'e' dubbio che nel momento in cui il legislatore ha aumentato la pena per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, da 8 a 25 anni di reclusione "dimenticando'' di configurare una specifica attenuante per i fatti lievi, al contrario di quanto ha disposto per altri reati - e si richiama espressamente l'art. 3 della legge 26 novembre 1985, n. 718 che in una fattispecie analoga al delitto ex art. 630 c.p. di contro ad una pena da venticinque a trent'anni di reclusione, prevede, al comma 3: "Se il fatto e' di lieve entita' si applicano le pene previste dall'art. 605 c.p. aumentate dalla meta' a due terzi.'' - ha fatto cattivo uso della propria discrezionalita', sanzionando con la medesima elevatissima pena fatti reato di gravita' assai diversa, con cio' frustrando anche il fine rieducativo della pena; l'art. 630 c.p. contrasta con gli artt. 3 e 27 comma 3 della Costituzione, nella parte in cui non prevede la circostanza attenuante di cui all'art. 3 della legge 26 novembre 1985, n. 718: «se il fatto e' di lieve entita' si applicano le pene previste dall'art. 605 c.p. aumentate dalla meta' ai due terzi»; la questione e' rilevante; ove la Corte dichiarasse l'incostituzionalita' della norma nel senso sopra indicato questo giudice potrebbe ritenere sussistente, per i motivi sopra specificati, la invocata attenuante e condannare gli imputati ad una pena effettivamente adeguata ex art. 133 c.p. al reale disvalore e gravita' del fatto commesso;
P. Q. M. Visto 1'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 630 c.p. nella parte in cui non prevede la circostanza attenuante di cui all'art. 3 della legge 26 novembre 1985, n. 718: «se il fatto e' di lieve entita' si applicano le pene previste dall'art. 605 c.p. aumentate dalla meta' ai due terzi»; Sospende il procedimento; Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e manda alla cancelleria per la notificazione al Presidente del Consiglio dei ministri e per la comunicazione ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato. Venezia, 13 dicembre 2010 Il giudice: Galasso