N. 56 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 dicembre 2010
Ordinanza del 22 dicembre 2010 emessa dalla Corte di cassazione - sezioni unite civili - sui ricorsi riuniti proposti da Sorrentino Stefania ed altro contro Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Latina ed altri . Impiego pubblico - Dipendenti di pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazioni lavorative non superiori al cinquanta per cento di quelle a tempo pieno - Divieto di iscrizione all'albo professionale degli avvocati - Non applicabilita' a coloro che risultino gia' iscritti alla data di entrata in vigore della legge n. 339/2003 - Mancata previsione - Irragionevolezza - Violazione dei principi di certezza del diritto e di affidamento - Incidenza sul diritto al lavoro e sui principi di tutela del lavoro e di liberta' d'iniziativa economica privata. - Legge 25 novembre 2003, n. 339, artt. 1 e 2. - Costituzione, artt. 3, 4, 35 e 41.(GU n.15 del 6-4-2011 )
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria sul ricorso 16196-2010 proposto da: Sorrentino Stefania, elettivamente domiciliata in Roma, via Ugo De Carolis 145, presso lo studio dell'avvocato Masotti Giulio, che la rappresenta e difende, per delega a margine del ricorso;ricorrente; Contro consiglio dell'ordine degli avvocati di Latina,Procuratore generale dellA Repubblica presso la Corte d'appello di Roma, Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione; intimati; Sul ricorso 16676-2010 proposto da: Nardelli Lorenzo, elettivamente domiciliato in Roma, viale delle Milizie 96, presso lo studio dell'avvocato De Caro Flora, che lo rappresenta e difende, per delega a margine del ricorso; ricorrente; Contro Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Perugia, Procuratore generale presso la Suprema Corte di cassazione; intimati; Avverso le decisioni nn. 206/2009 depositata il 23 dicembre 2009 (ricorso r.g. n. 16196/2010), e n. 197/2009 depositata il 21 dicembre 2010 (ricorso r.g. n. 16676/2010), entrambe del Consiglio nazionale Forense; Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 7 dicembre 2010 dal Consigliere dott. Lucio Mazziotti Di Celso; Uditi gli avvocati Roberto Giansante per delega dell'avvocato Giulio Masotti, Flora De Caro; Udito il p.m. in persona dell'Avvocato Generale Dott. Domenico Iannelli, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi. Ritenuto in fatto I due ricorrenti in epigrafe indicati, Sorrentino Stefania e Nardelli Lorenzo. pubblici dipendenti a tempo parziale venivano iscritti nell'albo degli avvocati in virtu' della disposizione di cui all'art. 1, comma 56, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, che consentiva tale doppia attivita'. A seguito dell'entrata in vigore della legge 25 novembre 2003, n. 339, di modifica della precedente. i ricorrenti manifestavano la loro intenzione di continuare a mantenere il rapporto di pubblico impiego, esercitando nel contempo anche la professione di avvocato. I due C.O.A. interessati, ritenendo la sussistenza della incompatibilita', ordinavano la cancellazione dei ricorrenti dai rispettivi albi con decisioni che venivano impugnate davanti al Consiglio nazionale forense il quale rigettava tutti i ricorsi. Avverso le separate pronunce del CNF i soccombenti proponevano singoli ricorsi per cassazione affidati a numerosi motivi. Gli intimati di' ciascun ricorso (i COA di Perugia e di Latina) non hanno svolto attivita' difensiva in sede di legittimita'. In applicazione analogica dell'art. 335 c.p.c., e' stata disposta la riunione dei due ricorsi siccome implicanti la risoluzione di identiche questioni. Considerato in diritto Innanzitutto va rilevata l'infondatezza dei seguenti motivi dei due ricorsi che rivestono carattere preliminare in quanto eventualmente assorbenti rispetto alle altre censure perche' relativi all'asserita nullita' delle decisioni impugnate. 1) violazione di legge sostenendo che il CNF ha errato nel rigettare sollevata eccezione di nullita' del provvedimento di cancellazione adottato dal COA e notificato ad essa ricorrente in copia conforme senza la firma del Presidente (primo motivo del ricorso della Sorrentino); nullita' del provvedimento di cancellazione adottato dal COA per carenza di motivazione (secondo motivo del ricorso della Sorrentino): violazione dell'art. 37 r.d.l. n. 1578/1933 per omessa notifica al p.m. della delibera di avvio del procedimento di cancellazione dall'albo (quarto motivo del ricorso della Sorrentino e secondo motivo del ricorso del Nardelli): 4) violazione del principio di terzieta' del giudice e illegittimita' di composizione del CNF per essere questo composto in via esclusiva da avvocati portatori di un interesse di categoria volto alla eliminazione dal mercato di un concorrente (quinto motivo del ricorso della Sorrentino e primo motivo del ricorso del Nardelli). Con riferimento alle dette censure va rispettivamente rilevato: 1 ) La mancanza della sottoscrizione del presidente prescritta unitamente a quella del segretario dall'art. 44 r.d. n. 37/1934, non e' motivo di nullita' per quanto riguarda la copia e non l'originale del provvedimento, tenuto anche conto che chi ha ricevuto notizia del deposito dell'originale della decisione e' stato, quindi, messo in condizione di prendere visione dell'originale dell'atto e di farsi rilasciare specifica attestazione della mancanza di firma sull'originale; 2) I vizi del procedimento disciplinare nei confronti di un avvocato, svoltosi dinanzi al consiglio dell'ordine territoriale. stante la natura amministrativa e non giurisdizionale dello stesso, non sono sindacabili dalle Sezioni unite in sede di ricorso avverso la decisione del Consiglio nazionale forense, a meno che non si alleghi che essi abbiano dato luogo ad un vizio di motivazione della stessa decisione. Con riferimento alla motivazione della decisione del COA gli eventuali vizi e difetti ben possono essere rimediati dal CNF. Nella specie dalla lettura della decisione impugnata risulta evidente che il CNF ha esaminato nel merito la decisione del COA e l'ha ritenuta corretta dando al riguardo adeguata motivazione. 3) Secondo quanto disposto dall'art. 37 R.D.L. n. 1578/1933 la cancellazione dagli albi degli avvocati «e' pronunciata dal Consiglio dell'ordine, di ufficio e su richiesta del Pubblico Ministero» e le deliberazioni del Consiglio dell'ordine in materia di cancellazione vanno «notificate, entro quindici giorni, all'interessato ed al Pubblico Ministero presso la Corte d'appello d il Tribunale». Nel citato articolo e nella normativa speciale in questione non si rinviene alcuna espressa indicazione in ordine alla notifica al p.m. dell'avvio del procedimento di cancellazione che puo' essere richiesto dallo stesso p.m. ove ravvisi la sussistenza di una delle ipotesi previste dalla norma in esame. Al p.m. va solo notificata la deliberazione adottata al termine del procedimento di cancellazione e cio' in quanto il p.m. e' munito di potere autonomo di impugnazione. 4) Il Consiglio nazionale forense, allorche' pronuncia in materia disciplinare, e' un giudice speciale istituito con d.lgs. lgt. 23 novembre 1944. n. 382, e tuttora legittimamente operante giusta la previsione della VI disp. Transitoria della Costituzione. Le norme che lo concernono, nel disciplinare rispettivamente la nomina dei componenti del Consiglio nazionale ed il procedimento che davanti al medesimo si svolge, assicurano - per il metodo elettivo della prima e per la prescrizione, quanto al secondo, dell'osservanza delle comuni regole processuali e dell'intervento del p.m. - il corretto esercizio della funzione giurisdizionale affidata al suddetto organo in tale materia, con riguardo alla garanzia del diritto di difesa, all'indipendenza del giudice ed all'imparzialita' dei giudizi. Infatti, l'indipendenza del giudice consiste nella autonoma potesta' decisionale, non condizionata da interferenze dirette ovvero indirette di qualsiasi provenienza. E', pertanto, manifestamente infondata in riferimento agli artt. 24, 97 e 111 Cost., la questione di legittimita' costituzionale delle disposizioni sul procedimento disciplinare innanzi al predetto Consiglio Nazionale Forense, non potendo incidere sulla legittimita' costituzionale di detta normativa neanche la circostanza che al Consiglio spettino anche funzioni amministrative, in quanto, come evidenziato anche dalla Corte costituzionale, non e' la mera consistenza delle due funzioni a menomare l'indipendenza del giudice, bensi' il fatto che le funzioni amministrative siano affidate all'organo giurisdizionale in una posizione gerarchicamente sottordinata, essendo in tale ipotesi immanente il rischio che il potere dell'organo superiore indirettamente si estenda anche alle funzioni giurisdizionali (in tali sensi, tra le altre, Corte cost., sent. n. 73 del 1970, n. 128 del 1974. n. 284 del 1986: sentenze Sezioni Unite 3 maggio 2005 n. 9097; 23 marzo 2005, n. 6213; 11 gennaio 2005, n. 309; 22 luglio 2002, n. 10688; 11 febbraio 2002, n. 1904). Le altre numerose. articolate e complesse questioni prospettate dai ricorrenti riguardano essenzialmente - sia pur sotto profili ed aspetti diversi - l'interpretazione dell'art. 2 della legge n. 339/2003 e la sua conformita' a norme e principi comunitari e costituzionali. In relazione all'interpretazione del citato articolo nessun dubbio puo' sussistere che la disposizione riguarda proprio la situazione di coloro i quali. come gli attuali ricorrenti, «hanno ottenuto l'iscrizione all'albo degli avvocati successivamente alla data di entrata in vigore della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e risultano ancora iscritti». Nei confronti di costoro la legge prevede un periodo di transizione di tre anni entro il quale essi sono obbligati a compiere una scelta tra l'esercizio (esclusivo) della professione forense ovvero il ritorno al rapporto di lavoro pubblico a tempo pieno. Sulla base di un simile dato normativo non e' sostenibile (come prospettato dai ricorrenti con vari e diversi argomenti) una linea interpretativa diversa da quella che il testo impone con una formula sufficientemente chiara e che il C.N.F. ha adottato nelle decisioni impugnate. Non puo' quindi compiersi quella che la Corte costituzionale ha in piu' occasioni definito come la c.d. interpretazione adeguatrice, ossia tale da eliminare i dubbi di legittimita' costituzionale senza il ricorso alla Corte e tramite la normale attivita' ermeneutica del giudice. Vanno di conseguenza esaminate le questioni circa l'asserita violazione della normativa comunitaria con riferimento in particolare ai principi di eguaglianza, libera prestazione di servizi, tutela della concorrenza, diritti quesiti, ragionevolezza. Le dette questioni sono manifestamente infondate: la legge in esame (in particolare l'art. 2) e' rispettosa dei principi comunitari. Va posto in evidenza che la detta legge ha inciso sul modo di svolgere il servizio presso enti pubblici e non sulle modalita' di organizzazione della professione forense; da cio' l'estraneita' dei principi di concorrenza tra imprese e di libera circolazione degli avvocati nell'Unione europea. I dipendenti pubblici non svolgono servizi configuranti un'attivita' economica e la loro attivita' non puo' essere considerata come quella di un'impresa. La normativa dettata dalla legge n. 339/2003 tende poi a regolare non la concorrenza, tra gli avvocati bensi' a soddisfare l'interesse generale sia al corretto esercizio della professione forense sia alla fedelta' dei pubblici dipendenti. Il divieto in questione e' altresi' giustificato in considerazione dell'ottica del pubblico impiego e della garanzia che i dipendenti pubblici siano al solo servizio dell'interesse pubblico. Pertanto il legislatore non ha agito in modo irragionevole o al di fuori della sua sfera di competenza: ne consegue che la legge n. 339/2003 non e' incompatibile con le disposizioni invocate del Trattato. Con riferimento all'art. 6 della direttiva 77/249/CEE - che consente agli Stati membri di escludere dall'esercizio in regime di libera prestazione dei servizi solo gli avvocati dipendenti provenienti da altri Stati membri, i quali pretendano di difendere nel territorio dello Stato ospitante l'ente da cui dipendono - la legge n. 339/2003 e' conforme al dettato di tale direttiva in quanto rivolta solo agli avvocati italiani che siano anche pubblici dipendenti. cioe' ai soli avvocati pubblici dipendenti iscritti nell'albo forense italiano. La normativa nazionale non riguarda quindi gli avvocati iscritti negli albi di altri Stati membri. La direttiva non impedisce l'adozione di disposizioni nazionali come quelle dettate dalla legge n. 339/2003 che prevedano l'incompatibilita' tra iscrizione ad albi di avvocati e lo stato di dipendente pubblico a tempo parziale, trattandosi di situazione diversa da quella prevista dalla direttiva. In definitiva il diritto comunitario non disciplina materie giuridiche - quale quella contemplata dalla legge n. 339/2003 - nella quali si esercita il potere pubblico e che pertanto, in dette materie gli Stati membri possono legiferare in assoluta autonomia. Va aggiunto che il Giudice di pace di Cortona, con ordinanza del 19 giugno 2009, ha rimesso alla Corte di giustizia dell'Unione la questione pregiudiziale relativa al possibile contrasto della legge n. 339 del 2003 - nella parte in cui reintroduce il divieto di svolgimento della professione forense per i dipendenti pubblici part-time - con i principi comunitari in tema di tutela della concorrenza, liberta' di stabilimento. legittimo affidamento e protezione dei diritti quesiti. La Corte di giustizia. con sentenza 2 dicembre 2010, ha dichiarato che: gli articoli 3, n. 1, lett. g), CE. 4 CE, 10 CE, 81 CE e 98 CE non ostano ad una normativa nazionale che neghi ai dipendenti pubblici impiegati in una relazione di lavoro a tempo parziale l'esercizio della professione di avvocato, anche qualora siano in possesso dell'apposita abilitazione, disponendo la loro cancellazione dall'albo degli Avvocati; l'art. 8 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 febbraio 1998, 98/5/CE, volta a facilitare l'esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui e' stata acquistata la qualifica, deve essere interpretato nel senso che lo Stato membro ospitante puo' imporre agli avvocati ivi iscritti che siano impiegati - vuoi a tempo pieno vuoi a tempo parziale - presso un altro avvocato, un'associazione o societa' di avvocati oppure un'impresa pubblica o privata, restrizioni all'esercizio concomitante della professione forense e di detto impiego, sempreche' tali restrizioni non eccedano quanto necessario per conseguire l'obiettivo di prevenzione dei conflitti di interesse e si applichino a tutti gli avvocati iscritti in detto Stato membro. Tanto rilevato con riferimento all'asserito contrasto con le norme comunitarie, va osservato che i ricorrenti hanno anche in buona parte reintrodotto questioni gia' sottoposte all'esame del C.N.F. ed hanno censurato quest'ultimo per averne (a torto) escluso la rilevanza e non delibato la non manifesta infondatezza in relazione, in particolare, ai parametri di cui agli articoli 3, 4. 35 e 41 della Costituzione. Le dette questioni sono rilevanti e non manifestamente infondate. In relazione al quadro normativo di riferimento va richiamato l'art. 1, comma 56. della legge n. 662 del 1996 che stabilisce che l'art. 58, comma del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 e successive integrazioni, nonche' le ulteriori norme «che vietano l'iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno». La Corte costituzionale e' stata chiamata a pronunciarsi per due volte sulle disposizioni sopra indicate sotto diverse angolazioni. Con una prima sentenza, la n. 171 del 1999, la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi da 56 a 65, della legge n. 662 del 1996 - sollevata in via principale dalle Regioni Veneto e Lombardia per sospetta violazione del criterio di riparto delle competenze - affermando, tra l'altro, che la revisione dell'ordinamento del pubblico impiego attraverso la c.d. «privatizzazione» e' ispirata «da una prospettiva di maggiore valorizzazione dei risultati dell'azione amministrativa, alla luce di obiettivi di efficienza e di rigore di gestione». Con la successiva sentenza n. 189 del 2001 la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 56 e 56-bis, della legge n. 662 del 1996, sollevata sotto il profilo concernente la professione forense. La questione era stata sollevata. questa volta in via incidentale, dal C.N.F. nella sua qualita' di giudice a quo, con undici distinte ordinanze. Molteplici erano le violazioni costituzionali ivi prospettate, riassumibili, peraltro, in tre ordini di censure: violazione dell'art. 3 Cost. inteso come principio di uguaglianza. perche' il professionista pubblico dipendente potrebbe avvalersi di un bagaglio di nozioni tecniche e scientifiche, acquisite grazie all'ingresso nella pubblica amministrazione, non ottenibili da parte degli altri: violazione dell'art. 24 Cost., perche' la particolare posizione dell'avvocato dipendente pubblico ne porrebbe in dubbio l'indipendenza e l'autonomia presupposto dell'effettivita' del diritto di difesa: violazione del principio del diritto al lavoro di cui all'art. 4 Cost. e di quello del buon andamento della pubblica amministrazione di cui agli artt. 97 e 98 della Costituzione. La Corte ha respinto tutte le questioni. La pronuncia ha confermato che il disegno riformatore perseguito dal legislatore ha un obiettivo di maggiore efficienza dell'amministrazione. perseguibile anche tramite «una piu' flessibile utilizzazione del personale». Proprio l'espressa previsione di disposizioni volte a prevenire il possibile conflitto di interessi fa si' che la normativa in esame non presenti profili di irrazionalita'. La Corte ha inoltre respinto la questione di costituzionalita' sotto il profilo dell'art. 4 Cost. rilevando che la discrezionalita' del legislatore nel dettare norme di regolazione dell'accesso al lavoro e' stata esercitata «in modo tutt'altro che irragionevole, ove si consideri che le disposizioni denunciate sono intese a favorire l'accesso di tutti i soggetti in possesso dei prescritti requisiti alla libera professione e cioe' ad un ambito del mercato del lavoro che e' naturalmente concorrenziale». Con la legge n. 339 del 2003 il legislatore interviene nuovamente con una modifica di segno uguale e contrario rispetto a quella del 1996. La legge, che consta di tre articoli, non riguarda la generalita' delle professioni, bensi' soltanto, come risulta gia' dal titolo, la professione di avvocato, per la quale viene ripristinata l'incompatibilita'. L'art. 1, infatti, dispone che le norme contenute nell'art. 1, commi 56, 56-bis e 57, della legge n. 662 del 1996 non si applicano all'iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali «restano fermi i limiti e i divieti di cui al regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578». Il successivo art. 2 impone agli avvocati dipendenti pubblici a tempo parziale che hanno ottenuto l'iscrizione sulla base della normativa del 19% di scegliere, nel termine di tre anni, fra il mantenimento del rapporto di pubblico impiego, che in questo caso ritorna ad essere a tempo pieno (comma 2), ovvero il mantenimento dell'iscrizione all'albo degli avvocati, con contestuale cessazione del rapporto di pubblico impiego (comma 3). In questo secondo caso l'ormai ex dipendente conserva per cinque anni il diritto alla riammissione (comma 4). L'art. 2, comma 2, inoltre, dispone che, in caso di mancato esercizio dell'opzione tra libera professione e pubblico impiego, i consigli dell'ordine territoriali provvedano d'ufficio alla cancellazione. Anche questo intervento legislativo giunge all'esame della Corte costituzionale. la quale si pronuncia con la sentenza n. 390 del 2006. Si trattava di una controversia promossa da un dipendente pubblico che, essendo in possesso dell'abilitazione all'esercizio della professione forense, aveva chiesto all'amministrazione di essere ammesso a trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, allo scopo di esercitare la professione di avvocato. Di fronte al rigetto, egli si era rivolto al tribunale di Cuneo il quale ha sollevato la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1 della legge n. 339 del 2003. In detto giudizio. quindi, non si doveva esaminare il caso - oggi all'esame di queste Sezioni Unite - del professionista che, legittimamente iscritto in base alla legge n. 662 del 1996, e' stato cancellato dall'albo a seguito della modifica legislativa in commento. La Corte ha dichiarato non fondata la questione definendo. in prime luogo, «priva di consistenza» la censura di disparita' di trattamento prodotta dalla legge n. 339 in relazione all'ordinamento comunitario, poiche' l'art. 8 della direttiva n. 98/5 cit, cui e' stata data attuazione tramite l'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 96 del 2001, estende agli avvocati di altri Stati membri le norme sulle incompatibilita' dettate per gli avvocati nazionali, e quindi la disciplina dell'art. 3 del r.d.1. n. 1578 del 1933. Quanto, poi, al punto centrale della questione - cioe' quello della intrinseca irragionevolezza di una disciplina che ripristina un regime di incompatibilita' che era stato rimosso pochi anni prima - la Corte ha osservato, innanzitutto, che «la non irragionevolezza di una disciplina non, esclude la non irragionevolezza di una opposta disciplina», in quanto il legislatore conserva la propria liberta' di porre successivi regimi anche contrastanti tra loro. In altre parole, il fatto che la legge abbia regolato una certa materia in un dato modo e che tale regolazione sia stata ritenuta conforme alla Costituzione non esclude che ad analogo esito la Corte costituzionale possa pervenire anche in riferimento ad una legge di contenuto contrario alla precedente. Oltre a cio', la sentenza ha notato che il divieto ripristinato dalla legge n. 339 del 2003 appare «coerente con la caratteristica - peculiare della professione forense (tra quelle il cui esercizio e' condizionato all'iscrizione in un albo) - dell'incompatibilita' con qualsiasi impiego retribuito». Cio' posto va innanzitutto sottolineato che la Corte costituzionale, con citate pronunce, non ha affrontato ne' il problema della legittimita' della legge n. 339/2003 nella parte in cui estende i suoi effetti anche a coloro che sono gia' iscritti negli albi degli avvocati ed esercitavano la professione, sulla base della disciplina preesistente, al momento della entrata in vigore della nuova legge, ne il problema della legittimita' del divieto, sopravvenuto a carico di costoro, di continuare l'esercizio dell'attivita' professionale gia' legittimamente intrapresa. In relazione a detti problemi il profilo di illegittimita' costituzionale della nuova legge e' rilevante e non manifestamente infondato con riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 41 Costituzione. Occorre premettere che, se e' vero che il legislatore ben puo' dettare nuove disposizioni normative contrastanti con quella in vigore, e' del pari vero che le nuove norme devono tener conto delle situazioni esistenti e dei rapporti giuridici in atto sorti nel precedente quadro normativo, oltre ad essere non irragionevoli in quanto frutto di nuove ragioni ed esigenze - e non possono violare norme e principi costituzionali o valori di rilievo costituzionale quali la certezza del diritto. Cio' vale in relazione sia a norme retroattive - che incidono direttamente su fatti e rapporti sorti nel passato modificando ex post gli effetti giuridici ad essi riconducibili - sia alle nuove norme che, dettate per operare solo per il futuro. hanno incidenza su rapporti che si prolungano nel tempo (rapporti di durata), alterando gli equilibri preesistenti, facendo venir meno o modificando profondamente situazioni giuridiche gia' acquisite. In proposito vanno evidenziali i seguenti punti fermi della giurisprudenza costituzionale nelle materie che sono al centro dei ricorsi in esame (essenzialmente tutela dell'affidamento e c.d. certezza del diritto): - non e' interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, salvo, qualora si tratti di disposizioni retroattive, il limite costituzionale della materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.). Dette disposizioni pero', al pari di qualsiasi precetto legislativo, non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi preesistenti frustrando cosi anche l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto (sentenze 349/1985; 821/1988); - l'irretroattivita', pur fuori del campo penale, rappresenta «una regola essenziale del sistema a cui, salva un'effettiva causa giustificatrice, il legislatore deve ragionevolmente attenersi, in quanto la certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillita' dei cittadini» (sentenze 155/1990; 473/1990; 390/1995); - interventi legislativi modificativi in peius di situazioni soggettive attinenti a rapporti di durata non possono arbitrariamente frustrare l'affidamento dei cittadini fondato sulla situazione normativa preesistente, senza violare il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione, nonche'. in ragione degli interessi nella specie coinvolti, gli artt. 4, 35 e 41 della stessa Costituzione, relativi alle garanzie del lavoro e della liberta' di iniziativa economica, anche sotto il profilo della concorrenza (sentenza 211/1997); - l'intervento legislativo diretto a regolare situazioni pregresse e' legittimo a condizione che vengano rispettati i canoni costituzionali di ragionevolezza e i principi generali di tutela dei legittimo affidamento e di certezza delle situazioni giuridiche (sentenze 24/2009; 74/2008 e 376/1995); la norma successiva non puo' tradire l'affidamento del privato sull'avvenuto consolidamento di situazioni sostanziali (sentenze 24/2009 e 156/2007); - al di fuori della materia penale (dove il divieto di retroattivita' della legge e' stato elevato a dignita' costituzionale dall'art. 25 Cost.), l'emanazione di leggi con efficacia retroattiva da parte del legislatore incontra una serie di limiti che attengono alla salvaguardia, tra l'altro, di fondamentali valori di civilta' giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generate di ragionevolezza e di eguaglianza, la tutela dell'affidamento nelle situazioni giuridiche legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (sentenza n. 282 del 2005 e, nello stesso senso, fra le molte, le sentenze n. 525 del 2000 e n. 416 del 1999). Nella specie - effettuato il necessario bilanciamento che si deve compiere tra il perseguimento dell'obiettivo della nuova legge e la tutela da riconoscere al legittimo affidamento nella sicurezza giuridica. nutrita da quanti, sulla base della normativa precedente, hanno conseguito una situazione sostanzialmente consolidata - il sacrificio imposto dalla legge 339/2003 ai soggetti che gia' si trovavano nello stato di avvocati part-time potrebbe rivelarsi ingiustificato e, percio', irragionevole traducendosi nella violazione del legittimo affidamento riposto nella possibilita' di proseguire nei tempo nel mantenimento di detto stato. Non e' da escludere che l'assetto degli interessi in questione sia stato realizzato con la nuova normativa in esame sacrificando situazioni soggettive ormai consumatesi: cio' potrebbe non corrispondere al piu' volte richiamato criterio di ragionevolezza. Del pari potrebbe ritenersi che l'affidamento degli avvocati part-time nella sicurezza giuridica sia stato leso dalla nuova per aver questa inciso, con regolamento irrazionale, su situazioni sostanziali fondate su leggi anteriori. Ben potrebbe quindi ravvisarsi la violazione - ad opera della legge 39/2003 - dei principi di legittimo affidamento e di «certezza del diritto» con riferimento alla posizione di coloro che avevano gia' effettuato la loro scelta sulla base della preesistente normativa dettata dalla legge 662/1996. La detta scelta - effettuata previa ponderata valutazione di conseguenze, portata e prospettive - e' stata compiuta sulla base di una precisa previsione normativa, ritenuta legittima dalla Corte Costituzionale, in virtu' di un nuovo indirizzo legislativo chiaramente e logicamente di lungo termine. Ne consegue che appare non manifestamente infondata la tesi dei ricorrenti secondo cui la nuova normativa dettata dalla legge del 2003 non avrebbe tenuto nel debito conto delle situazioni gia' in atto venutesi a creare in applicazione della precedente normativa, sconvolgendo in tal modo preesistenti e ormai consolidati equilibri. L'aspettativa dei ricorrenti alla conservazione dello status di dipendenti pubblici part-time e di avvocati (attivita', quest'ultima, esercitata in via continuativa per molti anni) era pervenuta ad un livello di consolidamento della propria scelta di vita di impiegato pubblico part-time e di avvocato - anche a seguito delle sopra citate pronunce della Corte costituzionale - cosi' elevato da creare quell'affidamento ritenuto dal giudice delle leggi di valore costituzionalmente protetto. I ricorrenti avevano acquisito la sicurezza della permanenza nel tempo dello status di impiegato pubblico part-time e di avvocato. Risultano palesi gli effetti pregiudizievoli per soggetti che avevano: fatto sicuro e giustificato affidamento di mantenere nel tempo la nuova situazione lavorativa; effettuato investimenti per iniziare la nuova attivita' professionale; modificato il proprio stile di vita; sacrificato possibili miglioramenti nella carriera di pubblico dipendente. Ne discende la lesione di legittime aspettative e di affidamento nella certezza del diritto e nella sicurezza giuridica. In questa prospettiva non appare sufficiente ad escludere la detta lesione la deroga temporale prevista dall'art. 2 della legge 339/2003 in ordine all'efficacia del regime di incompatibilita' con la concessione di un termine di tre anni per esercitare l'opzione imposta tra pubblico impiego ed esercizio della professione forense e con possibilita' nei successivi cinque anni di essere riammessi in servizio. Si tratta di una misura inidonea da sola ad evitare il sorgere del dubbio circa il «vulnus» ai segnalati principi costituzionali riducendosi la tutela ai pubblici dipendenti iscritti all'albo degli avvocati ad un limitato periodo con successivo ripristino di un divieto rimosso da una precedente legge. Donde sembra sussistere la necessita' di proporre alla Corte costituzionale i rilevati dubbi di legittimita' costituzionale. Si deve dunque concludere per la rilevanza e la non manifesta infondatezza della prospettata questione di illegittimita' costituzionale degli articoli 1 e 2 della legge n. 339 - sia in relazione ai parametri (articoli 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, sia in riferimento a quelli della ragionevolezza intrinseca della legge, sub art. 3 cpv. Costituzione - nella parte in cui non prevedono che il regime di incompatibilita' stabilito nell'art. 1 non si applichi ai dipendenti pubblici a tempo parziale ridotto non superiore al 50 per cento del tempo pieno, gia' iscritti negli albi degli avvocati alla data di entrata in vigore della medesima legge n. 339 del 2003, prevedendo invece, all'art. 2, solo un breve periodo di «moratoria» per l'opzione imposta tra impiego ed esercizio della professione. Va infine conseguentemente accolta l'istanza formulata dai ricorrenti di sospendere l'efficacia delle impugnate decisione del C.N.F. dovendo ravvisarsi i presupposti di tale sospensione come ampiamente - e con ricchezza di argomentazioni - sostenuto dagli istanti; e' infatti evidente il danno grave che deriva ai ricorrenti dalla efficacia del provvedimento di cancellazione dall'albo degli avvocati adottato in applicazione di una norma la cui conformita' a norme e principi costituzionali e' stata rimessa al giudice delle leggi.
P.Q.M. La Corte: riunisce i ricorsi: visti gli artt. 134 Cost. e 23 e ss. Legge 11 marzo 1953, n. 87; dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli articoli 1 e 2 della legge n. 339 del 2003 nella parte in cui non prevedono che il regime di incompatibilita' stabilito nell'art. 1 non si applichi ai dipendenti pubblici a tempo parziale ridotto non superiore al 50 per cento del tempo pieno, gia' iscritti negli albi degli avvocati alla data di entrata in vigore della medesima legge n. 339 del 2003, prevedendo invece, all'art. 2, solo un breve periodo di "moratoria" per l'opzione imposta fra impiego ed esercizio della professione per contrasto, nei sensi di cui in motivazione, con gli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione; dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il presente procedimento sino all'esito del giudizio incidentale di legittimita' costituzionale; dispone, altresi', che la presente ordinanza sia notificata a cura della Cancelleria, alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonche' comunicata al Presidente della Camera e del Senato della Repubblica; dispone la sospensione dell'esecuzione delle impugnate decisioni del C.N.F. nei confronti dei ricorrenti. Roma, 7 dicembre 2010 Il presidente: Vittoria