N. 86 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 dicembre 2010
Ordinanza del 20 dicembre 2010 emessa dal Tribunale di Trani nel procedimento civile promosso da Sergio Gianfranco contro Poste Italiane S.p.a.. Lavoro e occupazione - Contratto di lavoro a tempo determinato - Conversione in contratto a tempo indeterminato a causa dell'illegittima opposizione del termine - Condanna del datore di lavoro al risarcimento in favore del lavoratore - Prevista liquidazione da parte del giudice di una indennita' onnicomprensiva, determinata tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto - Contrasto con i principi di ragionevolezza e di effettivita' della tutela giurisdizionale - Sproporzione tra l'indennita' ed il danno effettivo, crescente con il perdurare dell'illecito - Violazione degli obblighi internazionali derivanti dalla CEDU (e, in specie, del diritto di ogni persona al giusto processo) - Interferenza sul potere giurisdizionale. - Legge 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5. - Costituzione, artt. 3, 11, 24, primo comma, 101,102, 111 e 117, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. Lavoro e occupazione - Contratto di lavoro a tempo determinato - Conversione in contratto a tempo indeterminato per illegittima opposizione del termine - Condanna del datore di lavoro al risarcimento in favore del lavoratore - Liquidazione dell'indennita' onnicomprensiva da parte del giudice - Prevista dimidiazione del limite massimo in presenza di contratti o accordi collettivi che prevedano l'assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori gia' occupati con contratto a termine nell'ambito di specifiche graduatorie - Prevista applicazione retroattiva della disciplina di cui ai commi 5 e 6 della "novella" - Contrasto con i principi di ragionevolezza e di effettivita' della tutela giurisdizionale - Sproporzione tra l'indennita' ed il danno effettivo, crescente con il perdurare dell'illecito - Violazione degli obblighi internazionali derivanti dalla CEDU (in specie, del diritto al giusto processo e del principio di parita' delle armi processuali) - Interferenza sulla funzione giurisdizionale. - Legge 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 6 e 7. - Costituzione, artt. 3, 11, 24, primo comma, 101,102, 111 e 117, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali.(GU n.21 del 18-5-2011 )
IL TRIBUNALE A scioglimento della riserva del 20 dicembre 2010, nella causa iscritta al numero n. 4571/2010 R.G., pendente tra Sergio Gianfranco (avv. Domenico Carpagnano) e la S.p.a. Poste Italiane (Avv. Francesca Nappi), ha pronunciato la seguente ordinanza di promuovimento del giudizio dinanzi alla Corte costituzionale, in ordine all'art. 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, con riferimento agli artt. 3, 11, 24, 101, 102, 111 e 117 della Costituzione. I n f a t t o Con domanda dell'11 agosto 2010, Sergio Gianfranco ha convenuto in giudizio la S.p.a. Poste Italiane, chiedendo l'accertamento dell'illegittimita' del termine apposto al contratto di lavoro sottoscritto il 5 aprile 2007, «ai sensi dell'art. 2 comma 1-bis del d.lgs. n. 368/2001 cosi' come modificato dalla legge 23 dicembre 2005, n. 266», in virtu' del quale ha prestato servizio, quale sportellista, presso l'Ufficio Postale di Andria 2, dal 6 aprile 2007 al 30 giugno 2007. Nella pendenza del giudizio, il 24 novembre 2010 e' entrata in vigore la legge n. 183/2010, il cui art. 32 ha previsto: a) al qunto comma che, «nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennita' onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604»; b) al sesto comma che, «in presenza di contratti ovvero di accordi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente piu' rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l'assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori gia' occupati con contratto a termine nell'ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell'indennita' fissata dal comma 5 e' ridotto alla meta'»; c) e al settimo comma, che «le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge» e che «con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennita' di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l'eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell'art. 421 del codice di procedura civile». Costituitasi in giudizio, la societa' Poste Italiane, per quanto qui rileva, ha invocato l'applicazione dell'art. 32 citato, ivi incluso il comma 6, «in quanto» avrebbe «stipulato (e "manterrebbe" in essere) accordi sindacali a livello nazionale che prevedono l'assunzione anche a tempo indeterminato di lavoratori gia' occupati con contratto a termine nell'ambito di specifiche graduatorie». All'udienza del 6 dicembre 2010, questo giudice ha pronunciato una sentenza parziale, con la quale ha dichiarato «la nullita' del termine apposto al contratto di lavoro sottoscritto dalle parti in data 5 aprile 2007», e «che tra la S.p.a. Poste Italiane e Sergio Gianfranco e' intercorso un rapporto a tempo indeterminato dalla data di assunzione (6 aprile 2007)», ordinando «alla prima di riammettere immediatamente in servizio il secondo» e, al contempo, con ordinanza di pari data, «impregiudicata ogni ulteriore valutazione», ha concesso «alle parti, ex art. 32, comma 7 del c.d. "Collegato Lavoro"», un termine per l'integrazione della domanda e delle eccezioni in ordine all'ammontare del risarcimento dovuto, rinviando «per la discussione sui restanti profili alla udienza del 20 dicembre 10». Nelle sue note difensive, il ricorrente ha sollevato una questione di legittimita' costituzionale, ritenendo che l'art. 32 della legge n. 183/2010 violi gli artt. 3, 11, 24, 101, 102, 111 e 117 Cost. I n d i r i t t o I. Preliminarmente, appare opportuno precisare che, in forza del d.lgs. n. 368/2001 (applicabile alla specie ratione temporis), prima dell'entrata in vigore dell'art. 32 della legge n. 183/2010, il giudice, nel caso in cui avesse accertato con sentenza la nullita' del termine apposto al contratto di lavoro, oltre a convertire il rapporto in un rapporto ab origine a tempo indeterminato, avrebbe dovuto, per diritto vivente, condannare il datore di lavoro a riammettere in servizio il lavoratore, a corrispondergli le retribuzioni a partire dall'atto di messa in mora, al netto dell'eventuale aliunde perceptum, e a regolarizzare la sua posizione contributiva. Ebbene, tale disciplina delle «conseguenze» del termine illegittimo - che, ai fini della determinazione del danno risarcibile, aveva il pregio di tenere conto di quanto ciascuna delle parti contrattuali avesse contribuito, con il suo comportamento, alla produzione del danno e di considerare in quale misura il lavoratore fosse stato effettivamente danneggiato (prevedendo che fosse portato in detrazione l'aliunde perceptum) - e' stata letteralmente travolta dall'art. 32 della legge n. 183/2010, che, a partire dalla sua entrata in vigore (24 novembre 2010), con una disposizione che, per espressa previsione normativa, trova «applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della ...legge» (comma 7), ha stabilito che, «nei casi di conversione del contratto a tempo determinato», tutto cio' che il lavoratore puo' pretendere (a parte la conversione e, quindi, la sua riammissione in servizio), e' un risarcimento del danno pari ad «un'indennita' onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604» (comma 5), addirittura ridotta, nel tetto massimo, «alla meta'», laddove si sia «in presenza di contratti ovvero di accordi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente piu' rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l'assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori gia' occupati con contratto a termine nell'ambito di specifiche graduatorie, ...». In sostanza, in virtu' di questo rinvio, il giudice di merito, nella quantificazione e nella liquidazione del danno, non solo e' obbligato ad avere «riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianita' di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti» (e cioe' a dei criteri che difficilmente sono in grado di fotografare il danno dal punto di vista di chi lo subisce), ma deve anche astenersi dall'accertare - essendo diventato irrilevante - quale possa essere stato il danno nel suo effettivo ammontare, dovendo comunque contenerlo entro il limite, «onnicomprensivo», minimo e massimo, fissato dalla legge. E tutto cio', senza che risulti chiaro l'interesse «superiore» da tutelare e cioe' quell'interesse che, in qualche modo, possa rendere equa e, comunque, giustificare la scelta del legislatore di negare al lavoratore cio' che, invece, viene garantito a qualsiasi altra parte contrattuale, ossia il diritto ad una tutela risarcitoria «integrale». In questo caso, la legge non e' intervenuta per sostenere la parte debole del rapporto, ma addirittura per toglierle cio' che, in applicazione dei principi generali del nostro ordinamento giuridico, aveva diritto a riceversi come ogni altro soggetto negoziale, finendo, in tal modo, per renderla piu' debole di quanto gia' non fosse. Per effetto della novella, il lavoratore illegittimamente assunto a termine finisce per diventare un moderno «capite deminutus», a cui vengono negati i diritti riconosciuti agli «uomini liberi»: il che comporta la violazione di una quantita' incredibile di norme costituzionali. II. Ad essere violato, primo fra tutti, e' l'art. 3 Cost., che, nella giurisprudenza costituzionale, e' la norma che non solo impedisce la codificazione di disposizioni discriminatorie, ma che pone anche un argine contro quelle che siano in grado di alterare l'armonia del sistema. Sotto questo profilo, a giudizio di questo tribunale, appare evidente l'irragionevolezza dell'estensione dei criteri di liquidazione del danno adottati dal legislatore con riferimento ai licenziamenti illegittimi, intimati nell'area di stabilita' obbligatoria, all'istituto del contratto a termine, in quanto, nei primi (a differenza che nel secondo), manca il diritto del prestatore ad una ricostruzione del rapporto di lavoro ed il danno che assume rilevanza e' quello che si produce alla data in cui il recesso viene intimato (e non gia' quello in cui il rapporto venga ripristinato), di tal che la durata del processo perde importanza (non essendo previsto il ripristino del rapporto ed essendo l'attualizzazione del credito risarcitorio comunque garantita dall'art. 429 c.p.c.). Nel contratto a termine, invece, essendo prevista la conversione del rapporto e la riammissione in servizio del lavoratore, con efficacia ex tunc, e, quindi, la ricostruzione del rapporto (cosi' come accade per i licenziamenti intimati in area di stabilita' reale), ai fini della determinazione del danno, la durata del processo viene ad assumere un'importanza fondamentale, posto che l'entita' del danno e' direttamente proporzionale alla durata del processo, nel senso che quanto piu' tempo il lavoratore dovra' attendere per ottenere una sentenza favorevole, tanto maggiore sara' il danno che andra' a subire. In questo senso, e' evidente che la norma di cui all'art. 32 legge n. 183/2010, omettendo di dare rilevanza alle lungaggini processuali e «contenendo» ingiustificatamente l'importo risarcibile, finisce per fame pagare il costo solo all'incolpevole lavoratore, nonostante che questi, anche volendolo - a differenza del datore di lavoro (che, cautelativamente, potrebbe anticipare la riammissione in servizio del prestatore, in attesa della pronuncia finale, in modo da evitare di dover pagare la retribuzione e i contributi senza riceversi la controprestazione lavorativa) - non possa porre in essere comportamenti «virtuosi», tesi cioe' a limitare l'entita' del danno risarcibile. Insomma, se i criteri di cui all'art. 8 della legge n. 604/1966 hanno un senso con riferimento a quelle situazioni nelle quali manchi il diritto al ripristino del rapporto, non ne hanno alcuno rispetto a quelle nelle quali l'ordinamento riconosca al lavoratore il diritto alla conversione, nelle quali ci si deve doverosamente porre il problema di chi debba ripagare il lavoratore per cio' che abbia perduto (retribuzioni e contributi) medio tempore e cioe' nel tempo necessario all'accertamento giudiziale dell'illegittimita' del termine. Irragionevole e' da ritenere, allora, la valorizzazione dei criteri di cui all'art. 8 della legge n. 604/1966, che porta a privilegiare un meccanismo che, con il riferimento al «numero dei dipendenti occupati», alle «dimensioni dell'impresa» e agli altri elementi indicati dalla norma, non e' assolutamente in grado di tenere conto del travaglio del lavoratore nel tempo necessario a conseguire la sentenza favorevole: travaglio, che, in quanto dipendente dall'estromissione dall'azienda e dalla sopravvenuta incapacita' del prestatore di produrre reddito, perche' possa essere ripristinato in termini di effettivita', merita, per forza di cose, di essere quantificato in maniera diversa. La forfetizzazione del risarcimento - peraltro secondo i criteri inappropriati di cui si e' detto - ha tutto il sapore di un inaccettabile «contentino» per il lavoratore, che ha come presupposto implicito il fatto che il mantenimento del diritto alla conversione del rapporto di lavoro sia, dopotutto, gia' sufficiente a ripagarlo della perdita del diritto alla retribuzione (nonostante l'atto di messa in mora) e, ancor prima (il che, se possibile, e' ancora piu' grave), di quello alla ricostruzione previdenziale del rapporto, visto che, da un lato, rende irrilevante il tempo che il prestatore e' costretto ad attendere per ottenere l'accertamento giudiziale dell'illegittimita' del termine e, dall'altro, finisce per monetizzare (il che e' veramente intollerabile) un diritto indisponibile (qual e' quello alla regolarizzazione contributiva), ricomprendendolo in quell'indennita' «onnicomprensiva» - che definire irrisoria appare un eufemismo - che, in forza dei commi 5 e 6 dell'art. 32 della legge n. 183/2010, puo' essere riconosciuta al prestatore di lavoro a titolo di risarcimento. Quella di cui al citato art. 32 e', allora, effettivamente una norma irrazionale ed irragionevole, che «rema» contro il sistema, nella misura in cui non solo non rimuove gli ostacoli alle disuguaglianze di fatto, ma anzi ne promuove delle altre per legge, senza che cio' sia giustificato da un interesse superiore, finendo, in tal modo, per negare al prestatore di lavoro subordinato cio' che, invece, l'ordinamento riconosce a tutti gli altri soggetti contrattuali nel caso di inadempimento delle loro controparti e cioe' il diritto al pieno risarcimento del danno subito. Per effetto della novella, se fino ad oggi il datore di lavoro, al pari del lavoratore, aveva interesse ad una sollecita definizione del giudizio, per evitare di dover pagare - a partire dall'atto di messa in mora - tutte le retribuzioni maturande fino alla sentenza e soprattutto i contributi previdenziali, da ora in poi sara' incentivato ad avere un comportamento dilatorio ed ostruzionistico e a ritardare, con ogni mezzo, il momento della definitiva pronuncia, potendo la sua condotta rilevare (ed essere «sanzionata») solo nella misura del risarcimento massimo previsto dalla norma, pari, nel caso di specie, ad un'indennita' onnicomprensiva non superiore a 6 «mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto». Anche per questo e' evidente come la forfetizzazione del risarcimento contraddica le finalita' perseguite, per lo meno a parole, da altra parte dell'art. 32 citato (quella che prevede una doppia decadenza, finalizzata ad ottenere una sollecita definizione dei contenziosi astrattamente attivabili dai lavoratori). Non ha alcun senso logico (prima ancora che giuridico) parlare di conversione (e, quindi, di ricostruzione ex tunc) di un rapporto, se a questa non si ricolleghi pure il diritto del lavoratore a percepire - cosi' come accade per i licenziamenti illegittimi intimati in area di stabilita' reale - tutte le retribuzioni (a partire dalla lettera di messa in mora e fino all'effettiva reintegra, al netto dell'aliunde perceptum) e, soprattutto, il diritto a beneficiare della regolarizzazione della posizione contributiva. Prima dell'entrata in vigore dell'art. 32 citato, se il lavoratore - dopo la sentenza accertativa dell'illegittimita' del termine - avesse rinunziato ai contributi previdenziali, la sua rinunzia non sarebbe stata opponibile all'Istituto di previdenza, in ragione della natura indisponibile di quel diritto. Oggi, invece, e' lo stesso legislatore che, con la norma in commento, ha finito per «declassare» il diritto all'accredito dei contributi, rendendo «disponibile» cio' che prima non era tale, finendo per provocare al lavoratore un danno che, com'e' facile intuire, e' ancor piu' grave della stessa perdita della retribuzione. E, nel caso di specie, la violazione dell'art. 3 Cost. non e' solo riconducibile all'irragionevolezza (di cui si e' dato conto) dell'intervento normativo - che ha finito per portare scompensi nella coerenza del sistema, «imbarbarendolo» - ma anche alle discriminazioni che ha provocato fra lavoratori e lavoratori, in presenza di situazioni «comparabili». A questo proposito, basti considerare che il lavoratore che ottenga incolpevolmente la pronuncia «favorevole» nei gradi successivi al primo e' chiaramente discriminato rispetto a chi, invece, l'abbia ottenuta gia' in primo grado, non solo perche' ha titolo di riceversi un'indennita' risarcitoria eguale, quantomeno nella misura massima, a quella assicurata a quest'ultimo (nonostante il maggiore «sforzo» processuale e la verosimile piu' lunga attesa), ma anche perche', a differenza del secondo, non puo' tenere fuori dall'indennita' «onnicomprensiva» le retribuzioni e i contributi successivi alla pronuncia di primo grado. Ne' puo' sfuggire che il trattamento riservato dall'art. 32 della legge n. 183/2010 ai lavoratori assunti a termine, nel caso in cui venga accertato il loro diritto alla conversione del rapporto (che, come gia' detto, nega sia il risarcimento del danno «effettivo», che la ricostruzione previdenziale del rapporto, anche per il periodo successivo alla messa in mora del datore di lavoro, anche quando al dipendente non possa essere mosso alcun rilievo e magari il protrarsi dei tempi del processo sia addebitabile in gran parte al comportamento dilatorio ed ostruzionistico del datore), non e' stato esteso dalla novella ad altre categorie di dipendenti, il cui rapporto sia parimenti temporaneo e comunque precario, benche', sotto il profilo dei tempi e della procedura di impugnazione, siano stati trattati dal legislatore in maniera identica. Si pensi, a tal proposito, ai rapporti irregolari cui fa cenno l'art. 32, terzo comma, lettera a), ai rapporti con i co.co.co., «anche nella modalita' a progetto» di cui alla successiva lettera b), ai rapporti di somministrazione di lavoro di cui al quarto comma, lettera d) e a quelli di fornitura di lavoro temporaneo di cui alla legge n. 196/1997, nonche' alle cessioni del contratto di cui alla lettera c) del 4° comma del cit. art. 32, per i quali, se il giudice accerta la violazione della norma, il lavoratore ha diritto alla ricostruzione del rapporto di lavoro, sia sotto il profilo retributivo che sotto quello contributivo, secondo le consuete regole generali. Sempre in punto di violazione dell'art. 3 Cost., va, infine, sottolineato come, argomentando dalla lettera del settimo comma dell'art. 32 legge n. 183/2010 (a mente del quale «ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennita' di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l'eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell'art. 421 del codice di procedura civile»), tanto in dottrina quanto in giurisprudenza si e' gia' sostenuto che il quinto ed il sesto comma della medesima disposizione di legge siano applicabili solo ai giudizi pendenti in primo grado, sia perche' la norma richiama solo l'art. 421 c.p.c. (e non anche l'art. 437 c.p.c.), sia perche', diversamente opinando, si violerebbe il principio devolutivo (che impone al giudice di decidere sulla base dei motivi di gravame), sia perche', per come e' strutturato, il processo in cassazione non lo rende possibile e sia perche' cio' che la disposizione consente e' solo l'integrabilita' delle «domande» e delle «eccezioni» e non anche dei «motivi di impugnazione». Da cio' deriva - ed e' il dato letterale della norma di cui al settimo comma dell'art. 32 cit. ad imporlo (salvo che non si vogliano proporre improbabili interpretazioni estensive e/o analogiche, che, per la specialita' della disposizione di legge, non sarebbero certamente consentite all'interprete) - che il lavoratore la cui causa penda in appello o in cassazione si ritrova a beneficiare di un trattamento di miglior favore rispetto a quello assicurato al lavoratore il cui giudizio sia ancora pendente in primo grado, determinando un inammissibile disparita' di trattamento, per violazione, ancora una volta, dell'art. 3 Cost. III. Altre norme che, ad avviso di questo giudice, appaiono violate dall'art. 32 della legge n. 183/2010 sono quelle di cui agli artt. 24, 101 e 102 Cost. Si e' gia' detto che, per diritto vivente, prima dell'entrata in vigore dell'art. 32 cit., laddove il giudice avesse accertato l'illegittimita' del termine, avrebbe dovuto convertire il rapporto e condannare il datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni dal momento in cui era stato messo in mora, al netto dell'aliunde perceptum, e alla ricostruzione previdenziale del rapporto. Essendo queste le conclusioni rassegnate dal ricorrente nella sua domanda giudiziale, appare evidente come l'art. 32 cit., nella misura in cui - con un atto d'imperio - le ha «ridimensionate» nei termini gia' innanzi riferiti, abbia finito per incidere sui principi della domanda e dell'interesse ad agire e, quindi, sul diritto all'azione, che trova la sua garanzia costituzionale nell'art. 24 Cost. Il legislatore della legge n. 183/2010, senza dettare una norma di interpretazione autentica (che pure sarebbe stata improponibile nella fattispecie in esame, vista l'uniformita' delle pronunzie giudiziali sull'argomento), stravolgendo le regole piu' elementari del nostro ordinamento giuridico, ha espressamente previsto che la novella retroagisca i suoi effetti, fino addirittura alla legge n. 230/1962, non piu' in vigore dal 2001, omettendo di considerare che la giurisprudenza costituzionale ha da tempo chiarito che le leggi retroattive trovano un limite invalicabile nei «principi generali di ragionevolezza e di uguaglianza» (di cui si e' gia' parlato nel paragrafo che precede), nella «tutela dell'affidamento legittimamente posto sulla certezza dell'ordinamento giuridico» e nel «rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario» (v. Corte cost. n. 525/2000), nonche' nella «salvaguardia, oltre che dei principi costituzionali, di altri fondamentali valori di civilta' giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza», «la tutela dell'affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto», «la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico» ed «il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario» (v. Corte cost. n. 209/2010). Se, come nel caso di specie, la norma si oppone «alle pretese oggetto delle controversie» ed impedisce, «negandone il fondamento, la realizzazione delle stesse», per il Giudice delle leggi «il vulnus all'art. 24 della Costituzione e' reso evidente dal fatto che il legislatore opera una sostanziale vanificazione della via giursdizionale, intesa quale mezzo al fine dell'attuazione di un diritto preesistente» (Corte cost. n. 103/1995). L'efficacia retroattiva dell'art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183/2010, in definitiva, lede il «canone generale di ragionevolezza» (art. 3 Cost.), «l'effettivita' del diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi» (art. 24, primo comma, Cost.) e «l'integrita' delle attribuzioni costituzionali dell'autorita' giudiziaria» (artt. 101 e 102 Cost.) IV. L'art. 32 legge n. 182/2010 viola anche gli artt. 117, 11 e 111 Cost. Com'e' noto, per la Consulta (v., da ultimo, Corte cost. n. 311/2009, che, a sua volta, richiama le precedenti sentenze nn. 348 e 349 del 2007), nel caso di contrasto di una norma nazionale con una norma CEDU, il giudice, se non e' in grado di comporlo per via interpretativa, e' tenuto a sollevare la questione di costituzionalita' «con riferimento al parametro dell'art. 117, primo comma, Cost.», spettando al Giudice delle leggi - una volta riconosciuta l'effettiva insanabilita' del contrasto «attraverso una interpretazione plausibile, anche sistematica, della norma interna rispetto alla norma convenzionale, nella lettura datane dalla Corte di Strasburgo» - il compito di dichiarare «l'illegittimita' costituzionale della disposizione interna», laddove il contrasto sia «determinato da un tasso di tutela della norma nazionale inferiore a quello garantito dalla norma CEDU». Ebbene, considerato che per la Corte europea il principio dello Stato di diritto e la nozione di processo equo, sancito dall'art. 6 della CEDU, vietano l'interferenza del legislatore nell'amministrazione della giustizia, quando sia destinata ad influenzare l'esito della controversia, salvo che vi siano motivi imperativi di interesse generale - essendo intollerabile, per il principio della parita' delle armi, che una parte possa essere posta in una condizione di sostanziale svantaggio rispetto al suo avversario (nei casi Raffineries Grecques Stran e Stratis Andreadis c. Grecia del 9 dicembre 1994, e Zielinski e altri c. Francia, del 28 ottobre 1999, per es., come ricordato dalla stessa Corte costituzionale, e' stata censurata «la prassi di interventi legislativi soipravvenuti, che modifichino retroattivamente in senso sfavorevole per gli interessati le disposizioni di legge attributive di diritti, la cui lesione abbia dato luogo ad azioni giudiziarie ancora pendenti all'epoca della modifica») - poiche', nella specie, mancano proprio quei "motivi imperativi di interesse generale» che avrebbero potuto giustificarla, appare evidente l'illegittimita' della norma di cui all'art. 32, commi 5, 6 e 7, nella misura in cui cancella, con efficacia retroattiva, una parte rilevante di diritti (il risarcimento effettivo e la regolarizzazione previdenziale del rapporto) comunque riconosciuti al lavoratore dalla previgente normativa. E quanto innanzi se valeva ieri, vale ancor di piu' oggi, visto che, con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona (che ha modificato l'art. 6 del Trattato UE), l'Unione ha aderito alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, stabilendo che detti diritti «fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generale». V. Oltre che non manifestamente infondata, la questione di costituzionalita' innanzi illustrata e' da ritenere anche rilevante nel giudizio a quo, in quanto solo l'espunzione dall'ordinamento giuridico, per effetto dell'accoglimento della sollevata questione di costituzionalita', dell'art. 32, commi 5, 6 e 7, sarebbe in grado di consentire al lavoratore ricorrente - al quale e' gia' stata riconosciuta da questo tribunale la conversione del rapporto con sentenza parziale n. 6952 del 6 dicembre 2010 - di beneficiare della regolarizzazione della sua posizione contributiva e del risarcimento «effettivo» (rectius: integrale) del danno subito, nella misura delle retribuzioni maturate, al netto dell'aliunde pereeptum, per il periodo successivo alla lettera di messa in mora.
P. Q. M. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183, con riferimento agli artt. 3, 11, 24, 101, 102, 111 e 117 Cost. della Costituzione. Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso. Ordina che la presente ordinanza sia notificata alle parti, al Presidente del Consiglio dei ministri e ai Presidenti della Camera e del Senato della Repubblica. Trani, li' 20 dicembre 2010 Il giudice del lavoro: La Notte Chirone