N. 163 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 febbraio 2011

Ordinanza del 2 febbraio 2011 emessa  dal  tribunale  di  Milano  nel
procedimento civile promosso da P. E. ed altro contro V.A.. 
 
Procreazione medicalmente assistita - Accesso alle tecniche - Divieto
  assoluto di ricorrere alla fecondazione medicalmente  assistita  di
  tipo  eterologo  e  previsione  di  sanzioni  nei  confronti  delle
  strutture che dovessero praticarla - Contrasto con le  norme  della
  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti   dell'uomo   che
  stabiliscono il diritto al rispetto della vita privata e  familiare
  e il divieto di discriminazione, come interpretate in rapporto alla
  fecondazione eterologa dalla Corte EDU nel caso S.H. e altri contro
  Austria -  Conseguente  violazione  di  obblighi  internazionali  -
  Lesione del diritto delle coppie  infertili  o  sterili  alla  vita
  privata e  familiare  e  alla  autodeterminazione  in  ordine  alla
  propria genitorialita' - Violazione del diritto di ogni  persona  a
  formare una famiglia ed avere figli - Contrasto con  la  finalita',
  perseguita dalla legge, di risolvere i problemi  procreativi  della
  coppia  -  Differenziazione  discriminatoria  e  irragionevole  fra
  coppie sterili, a seconda del grado di sterilita' e infertilita'  -
  Possibile  compromissione  dell'integrita'   fisio-psichica   delle
  coppie in cui uno dei  componenti  non  presenta  gameti  idonei  a
  procreare. 
- Legge 19 febbraio 2004, n. 40, artt. 4, comma 3, 9, commi  1  e  3,
  limitatamente alle parole "in violazione del divieto  dell'art.  4,
  comma 3", e 12, comma 1. 
- Costituzione, artt. 2, 3, 29, 31, 32, primo e secondo comma, e 117,
  primo comma, in relazione agli artt. 8 e 14 della  Convenzione  per
  la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali
  [come interpretati dalla sentenza 1° aprile 2010  della  Corte  EDU
  (sez. 1^), nel caso S.H. e altri contro Austria]. 
(GU n.30 del 13-7-2011 )
 
                            IL TRIBUNALE 
 
    Riunito in camera di consiglio, sciogliendo la riserva  formulata
all'udienza del giorno 11 novembre 2010, ha pronuncialo  la  seguente
ordinanza sul reclamo ex art. 669-terdecies e 700  c.p.c.  presentato
da P. E. e M., con gli  avvocati  Massimo  Clara,  Marilisa  d'Amico,
Ileana  Alessio.  Mara  Paola  Costantini  e  Sebastiano   Papandrea,
ricorrenti; 
    Contro V. A., resistente. 
 
                   Osservato in fatto e in diritto 
 
    I. - Con ricorso ex art. 700 c.p.c. i  coniugi  P.  E.  e  M.  M.
chiedevano fosse ordinato  in  via  d'urgenza  al  medico  convenulo,
dott.ssa V. A., di eseguire in  favore  dei  ricorrenti,  secondo  le
metodiche  della  procreazione   medicalmente   assistita   la   c.d.
fecondandone eterolega - nel caso di specie la  donazione  di  gamete
maschile necessitata dalla infertilita' assoluta con con  azoospermia
completa da cui risulta affetto il ricorrere sig.  M.  -  secondo  Le
pratiche accertate dalla miglior scienza medica. 
    La convenuta dott.ssa V. non si costituiva; comparsa  all'udienza
fissata ex art. 669-sexiest  p.c.,  dichiarava  (sostanzialmente  non
opponendosi  all'accoglimento  della  domanda)  che  la  completa  ed
irreversibile infertilita'  del  ricorrente  sig.  M.  impediva  alla
coppia di procreare e che i ricorrenti le avevano  chiesto  di  poter
ricorrere alla fecondazione eterologa; l'opera richiestale, tuttavia,
non era stata portata a compimento,  essendo  vietata  in  Italia  la
fecondazione  eterologa   (vd   dichiarazioni   della   dott.ssa   V.
all'udienza del 13 luglio 2010 e certificazione medica prodotta). 
    I ricorrenti, pur essendo a  conoscenza  del  fatto  che  analogo
ricorso avanzato in passato da un'altra coppia era stato respinto  da
questo Tribunale (cfr. provvedimento negativo emesso il 7 aprile 2009
nel  procedimento  cautelare  RG68524/2008,  confermato  in  sede  di
reclamo con provvedimento  del  24  settembre  2009),  deducevano  di
essersi determinati  a  proporre  la  presente  domanda  cautelare  a
seguito della pronuncia emessa il 1º aprile 2010 dalla Corte  europea
dei Diritti dell'Uomo - in una controversia promossa da alcune coppie
infertili contro l'Austria - nella quale la Corte  di  Strasburgo  ha
affermato  che  il  divieto  di  fecondazione  eterologa  cosi   come
disciplinato nell'ordinamento  giuridico  austriaco  (e  limitato  ad
alcune forme di eterologa) contrasta con la Convenzione  europea  dei
Diritti dell'Uomo, in particolare con  gli  articoli  8  e  14  della
Convenzione. 
    Secondo  la  prospettazione  dei  ricorrenti,  alla  luce   della
sentenza della Corte europea  e  della  sua  valenza  per  i  giudici
nazionali in merito  all'interpretazione  da  dare  alla  Convenzione
europea,     era     possibile,     attraverso     un'interpretazione
convenzionalmente conforme e costituzionalmente  orientata,  superare
il  divieto  assoluto  di  ricorso   a   tecniche   di   procreazione
medicalmente  assistita  di  tipo  eterologo  letteralmente   sancito
dall'art. 4 comma 3 della legge  n.  40  del  2004,  valorizzando  il
mancato richiamo al comma 3 dell'art. 4 da parte  dell'art.  5  della
legge n. 40/2004 - ove e' richiamato il solo comma 1  dell'art.  4  -
sino  a  ritenere  che  il  divieto  di  ricorso  alle  tecniche   di
fecondazione eterologa andrebbe inteso come  limitato  unicamente  ai
casi in cui difettino i requisiti soggettivi previsti dall'art. 5  e,
quindi, al di fuori di  casi  di  «coppie  di  maggiorenni  di  sesso
diverso, coniugate o  conviventi,  in  eta'  potenzialmente  fertile,
entrambi viventi». 
    Nel provvedimento impugnato si affermava che non pare  consentito
interpretare  il  generale  divieto  di  ricorso  alla   fecondazione
eterologa contenuto nella legge n. 40/2004 nel senso prospettato  dai
ricorrenti,  in  quanto  cio'   si   risolverebbe   all'evidenza   in
un'interpretazione  (almeno  in  parte)  abrogatrice   della   norma,
riservata  al  giudice  delle  leggi  e  non  consentita  al  giudice
ordinario. 
    Il giudice  di  prime  cure  rilevava  altresi'  che  il  giudice
ordinario che ritenga in contrasto con  la  Convenzione  europea  dei
diritti dell'uomo la legislazione nazionale, dopo aver  compiuto  con
esito negativo il  tentativo  di  un'interpretazione  conforme  della
norma interna ai principi della  Convenzione  affermati  dalla  Corte
europea,  e'  tenuto  a  sollevare  la  questione   di   legittimita'
costituzionale della norma interna per contrasto con l'art. 117 comma
1 Cost. 
    Tanto Premesso, affermava tuttavia che  nel  caso  di  specie  il
dubbio di legittimita' costituzionale dell'art. 4 comma 3 della legge
n.  40/2004  (per  contrasto  con  l'art.   117   Cost.).   pur   non
manifestamente infondato sotto tale profilo,  non  era  rilevante  ai
fini del decidere. 
    Rilevava che il medico convenuto non aveva concluso un  contratto
d'opera professionale con i ricorrenti e  non  aveva  assunto  alcuna
obbligazione nei loro confronti  avente  ad  oggetto  l'effettuazione
della pratica di fecondazione eterologa mediante l'applicazione delle
metodiche della PMA cui si sarebbero dovuti sottoporre per tentare di
superare l'infertilita' di coppia; ne conseguiva che  nel  successivo
giudizio di  merito  contro  la  dott.ssa  V.  -  rispetto  al  quale
l'invocata  cautela   atipica   deve   necessariamente   porsi   come
strumentale - i coniugi M. e P. non potevano utilmente azionare  tale
loro diritto nei  confronti  del  medico  libero  professionista  qui
convenuto, il quale non risultava avere alcun obbligo  giuridico  nei
loro confronti. 
    Osservava che a fronte delle disposizioni contenute  nella  legge
n. 40/2004 e  sopra  richiamate  le  prestazioni  mediche  da  ultimo
indicate  non  costituiscono  diritti  soggettivi  che  i  ricorrenti
possono far valere in  giudizio  nei  confronti  del  singolo  medico
convenuto, bensi' - eventualmente - situazioni soggettive da azionare
nei confronti di soggetti istituzionalmente chiamati a garantire  gli
interventi di procreazione medicalmente assistita; solo  in  caso  di
rifiuto da parte di una delle strutture sanitarie  -  autorizzate  ai
sensi dell'art. 10 della legge n. 40 del 2004 e tenute per  legge  ad
eseguire gli interventi piu' idonei a superare  l'infertilita'  della
coppia - i coniugi potrebbero adire l'autorita' giudiziaria e in quel
processo potrebbe porsi come rilevante la questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 4 comma 3 della legge n. 40. 
    II. - Avverso il descritto provvedimento presentavano  tempestivo
reclamo i ricorrenti P. e M. 
    I reclamanti deducevano di aver concluso un contratto d'opera con
parte resistente; insistevano nella richiesta di una  interpretazione
convenzionalmente  e  costituzionalmente  orientata  della  norma  in
esame; in subordine chiedevano sollevarsi eccezione  di  legittimita'
costituzionale. All'udienza del 28  ottobre  2010  i  procuratori  di
parti  reclamanti  chiedevano  breve  rinvio  al  fine  di   allegare
ulteriore documentazione attestante l'attivita' professionale  svolta
per i propri assistiti dal medico  incaricato  dott.ssa  V.,  nonche'
l'accreditamento delle  strutture  presso  cui  l'intervento  avrebbe
dovuto essere eseguito. 
    Non si costituiva la resistente  V.;  compariva,  tuttavia,  alle
udienze camerali celebrate  il  28  ottobre  2010  ed  il  giorno  11
novembre  2010,  dichiarando  di  prestare   la   propria   attivita'
professionale  all'interno  di  strutture  mediche  accreditate  alla
pratica delle metodiche di PMA ai sensi dell'art. 10, legge n. 40 del
2004. 
    Le associazioni intervenienti H. O.,  M.  precoce  e  S.  I.  O.,
assistite dagli stessi difensori dei ricorrenti, presentavano reclamo
avverso  la   dichiarazione   di   inammissibilita'   dell'intervento
volontario dalle medesime dispiegato, con conseguente loro esclusione
dal procedimento, disposta dal giudice di prime cure. 
    III. - Ritiene il Collegio che il provvedimento  impugnato  debba
essere riformato, ad eccezione di tale ultima deliberazione,  per  le
ragioni che verranno di seguito esposte. 
    IV. - In  merito  alle  associazioni  intervenienti,  ritiene  il
Collegio  di   condividere   integralmente   quanto   affermato   nel
provvedimento impugnato. 
    Gli enti indicati,  nel  dispiegare  l'intervento  volontario  ad
adiuvandum,  non  apparivano  portatori  di  un  interesse  giuridico
apprezzabile all'esito del presente procedimento,  bensi'  unicamente
di un interesse di mero fatto. 
    E' noto che il legislatore del 1990,  nel  disciplinare  il  rito
cautelare uniforme, non ha previsto in alcuna disposizione l'istituto
dell'intervento del terzo nel giudizio cautelare.  Nel  silenzio  del
legislatore  la  dottrina  e  la  giurisprudenza   prevalenti   hanno
concordemente affermato l'ammissibilita' dello stesso nei termini  di
cui all'art. 105 c.p.c. Ne consegue che il terzo interveniente  debba
essere portatore, quanto meno, di  un  interesse  giuridico  connesso
alla decisione  cautelare  (in  tutti  i  casi  in  cui  non  sia  un
litisonsorte pretermesso). In altri termini, l'intervento  volontario
adesivo dipendente nel processo cautelare ante  causam  richiede  che
sia ravvisabile in capo al terzo una situazione di pregiudizio  o  di
vantaggio che potrebbe  derivare  al  terzo  dalla  misura  cautelare
invocala  inter  alios,  con   conseguente   potenziale   pregiudizio
derivante al terzo dal disconoscimento - o dal riconoscimento - delle
ragioni che il ricorrente sostiene contro l'avversario. 
    In ossequio alle determinazioni espresse dalla  C.S.  sul  punto,
deve quindi affermarsi per la legittimazione  all'intervento  adesivo
dipendente la necessaria sussistenza di un vero  e  proprio  rapporto
giuridico  sostanziale  tra  i  soggetti  intervenienti  e  la  parte
processuale principale. 
    Nel caso in esame non veniva dedotta ne' in primo grado, ne'  nei
motivi di reclamo, l'esistenza di alcun  rapporto  giuridico  tra  le
associazioni  intervenute  e  i  ricorrenti,  di  guisa  che  non  e'
ravvisabile in capo  alle  medesime  associazioni  intervenute  alcun
interesse  giuridicamente  apprezzabile,  non  integrato  dalla  mera
presenza tra i rispettivi  compiti  statutari  dal  fine  di  fornire
sostegno  e  tutela   alle   coppie   infertili,   interessate   alla
procreazione medicalmente assistita. 
    Deve  pertanto  confermarsi  l'inammissibilita'  per  carenza  di
interesse   dell'intervento   adesivo   dipendente    svolto    dalle
associazioni sopra richiamate, rilevata dal giudice di prime cure. 
    V. - a) In via  preliminare  non  puo'  condividersi  l'affermata
assenza di un rapporto  di  prestazione  d'opera  tra  le  parti  del
presente procedimento. 
    Emerge infatti dal doc. 3 allegato al fascicolo  di  primo  grado
che parte reclamata aveva ricevuto una richiesta di assistenza medica
da  parte  dei  coniugi  M.  M.  e  P.  E.  al  fine   di   procedere
all'esecuzione di un intervento di fecondazione assistita e  di  aver
dovuto, esaminate le condizioni cliniche dei  pazienti,  interrompere
la  prestazione  richiesta,  stante  il  divieto  legislativo   posto
dell'art. 4 legge n. 40 del 2004 per l'esecuzione della  fecondazione
di tipo eterologo, necessitata nel caso  di  specie  dalla  patologia
presentata dai ricorrenti. 
    All'udienza  del  giorno  11  novembre  2010   parti   reclamanti
allegavano documentazione attestante l'accreditamento del  centro  E.
M. C. S.r.l. e della C. C. C. di M.  a  svolgere  procedure  di  PMA,
nonche' l'inserimento nei rispettivi organici della dottoressa V. 
    Pare quindi potersi affermare che la dott.ssa V., medico  privato
accreditato dal SSN, deve essere equiparata nei termini di  legge  ai
sanitari di una struttura pubblica;  il  rapporto  instaurato  con  i
propri assistiti configurava l'assunzione dell'obbligo  giuridico  di
approntare le cure  piu'  idonee  in  conformita'  alla  legislazione
nazionale di settore (legge n. 833/1978, d.lgs. n. 502 del  1992;  n.
517 del 1993 e successive riforme) e delle prescrizioni contenute nel
codice deontologico, che ne estrinseca i modi (oltre  che  costituire
espressione del piu' generale esercizio del diritto  alla  salute  ex
art. 32 Cost.). 
    L'esistenza di un rapporto giuridico astrattamente azionabile nel
futuro giudizio di merito risulta del resto  positivamente  accertata
dalla Corte cost. con sent. n. 151 del 2009,  laddove  deliberava  su
una  diversa   questione   di   illegittimita'   costituzionale   (e,
segnatamente, sul numero  di  embrioni  da  impiantare)  inerente  la
medesima legge n. 40 del 2004,  su  ricorso  di  una  coppia  che  si
presentava, sia pure per una diversa  causa  di  infertilita',  nelle
medesime condizioni quanto al rapporto medico-paziente degli  odierni
reclamanti. 
    In quel caso la Corte pare non aver escluso la sussistenza di  un
rapporto di prestazione d'opera tra la coppia ed  il  medico  privato
cui  si  erano  affidati  (coincidente,  lo  si  osserva   per   mera
completezza, con l'odierna parte reclamata). 
    I reclamanti si erano dunque rivolti ad un soggetto  abilitato  a
svolgere attivita' di assistenza medica per l'esecuzione di  tecniche
di PMA, ovviamente nei limiti consentiti dalla legislazione  vigente.
Le semplici Osservazioni svolte consentono  di  superare  la  censura
operata dal giudice di prima istanza sull'assenza di  un  diritto  di
credito eventualmente azionabile dagli odierni ricorrenti nel  futuro
giudizio di merito. 
    In  conclusione,  deve  rilevarsi  la  sussistenza  in  capo   ai
reclamanti di un interesse ad agire dato da un  interesse  soggettivo
giuridicamente  rilevante  ad  una  eventuale  pronuncia  di   merito
azionabile, consistente in un «fare» (procedere alla PMA  eterologa);
ne consegue l'incongruenza del richiamo per il caso in esame  ad  una
ipotesi di fiction liti. 
    Quanto alla censura relativa al fatto che le parti  azionano  qui
un petitum (PMA eterologa) che non  si  rivela  autonomo  e  distinto
dalla questione costituzionale proposta, con conseguente  difetto  di
una pronuncia conclusiva in assenza del pronunciamento  della  Corte,
corre  l'obbligo  di  ricordare  che  nella  Relazione  annuale   del
Presidente  della  Corte  costituzionale  dell'anno  2010  e'   stata
affermata la sussistenza del requisito della  «accidentalita'»  anche
nell'ipotesi in cui la caducazione della norma  contestata  porti  ad
una immediata ed automatica soddisfazione della pretesa azionata  nel
giudizio  cautelare  (affermazione  resa  in  relazione  al   rigetto
dell'eccezione di  inammissibilita'  per  difetto  di  incidentalita'
sollevata in analogo giudizio da  associazioni  terze  intervenienti,
contrarie alla PMA). 
    b) Proseguendo  nell'esame  dei  motivi  di  reclamo,  rileva  il
Collegio   che   non   puo'   trovare   accoglimento   la   richiesta
interpretazione  convenzionalmente  e  costituzionalmente   orientata
dell'art. 4, comma 3 legge n. 40 del 2004. 
    Osserva il Collegio che non pare ammissibile una  interpretazione
del generale divieto di ricorso alla fecondazione eterologa contenuto
nella legge n. 40/2004  nel  senso  prospettato  dai  ricorrenti,  in
quanto  cio'  si  risolverebbe  all'evidenza  in   un'interpretazione
(almeno in parte) abrogatrice della norma, riservata al giudice delle
leggi e non  consentita  al  giudice  ordinario,  come  correttamente
rilevato dal giudice di prima istanza. 
    Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa  ricorrente  e  da
quanto ritenuto in isolate pronunce giurisprudenziali di merito e  di
giudici amministrativi (vd Consiglio di Stato 2 marzo 2010 n. 1220  e
tar Lazio 18 maggio 2010 n. 11988 pubblicate su  www.federalismi.it),
sulla base dell'insegnamento della Corte costituzionale (vd sent.  n.
348 e n. 349 del 2007) l'ordinamento giuridico vigente  non  consente
al giudice italiano di «disapplicare» la legge nazionale che  risulti
in contrasto con la Convenzione europea dei  diritti  dell'uomo  come
interpretata dalla Corte di Strasburgo e di fare diretta applicazione
delle norme CEDU, neppure a fronte dell'art. 6 del Trattato  UE  come
modificato dal Trattato di Lisbona (vd anche Corte cost. n.  239  del
2009). 
    Ne consegue che, nel caso in cui si profili un contrasto tra  una
norma interna e una norma della Convenzione EDU, il giudice nazionale
comune deve procedere ad una interpretazione della prima  conforme  a
quella convenzionale, fino a dove cio' sia consentito dal testo delle
disposizioni a confronto e avvalendosi di tutti i  normali  strumenti
di ermeneutica  giuridica;  quando  ritiene  che  non  sia  possibile
comporre il contrasto in via interpretativa, il  giudice  comune,  il
quale non puo' procedere all'applicazione della norma della  CEDU,  a
differenza di quella comunitaria provvista  di  effetto  diretto,  in
luogo di quella interna contrastante. tanto meno fare applicazione di
una norma interna che egli stesso abbia ritenuto in contrasto con  la
CEDU, e pertanto con la Costituzione, deve sollevare la questione  di
costituzionalita', con riferimento al parametro  dell'art.117,  primo
comma, Costituzione. 
    La clausola del necessario rispetto dei vincoli  derivanti  dagli
obblighi  internazionali,  dettata  dall'art.   117,   primo   comma,
Costituzione, attraverso un meccanismo di rinvio mobile  del  diritto
interno alle norme internazionali pattizie nello specifico rilevanti,
impone infatti il controllo di costituzionalita', qualora il  giudice
comune, dopo  aver  compiuto  con  esito  negativo  il  tentativo  di
un'interpretazione della norma interna  conforme  ai  principi  della
Convenzione affermati  dalla  Corte  europea,  ritenga  lo  strumento
dell'interpretazione insufficiente ad eliminare il contrasto. 
    Spetta infatti  alla  Corte  il  compito  di  verificare  che  il
contrasto sussista e che sia effettivamente insanabile attraverso una
interpretazione plausibile,  anche  sistemica,  della  norma  interna
rispetto alla norma convenzionale, nella lettura datane  dalla  Corte
di Strasburgo; in caso di ritenuto contrasto dovra' essere dichiarata
l'illegittimita'  costituzionale  della  disposizione   interna   per
violazione dell'art. 117 citato  in  relazione  alla  invocata  norma
della CEDU. 
    Pur essendo  precluso  alla  Corte  costituzionale  di  sindacare
l'interpretazione della Convenzione europea fornita  dalla  Corte  di
Strasburgo,  compete  sempre  alla  stessa  Corte  costituzionale  di
verificare se la norma della CEDU, nell'interpretazione datane  dalla
Corte europea, non si ponga in conflitto con altre  norme  conferenti
della nostra  Costituzione.  Il  verificarsi  di  tale  ipotesi,  pur
eccezionale, escluderebbe  infatti  l'operativita'  del  rinvio  alle
norme internazionali e, dunque, l'idoneita' ad integrare il parametro
dell'art. 117, primo comma, Costituzione. 
    In sostanza, l'ordinamento vigente demanda alla Corte il  compito
di valutare come ed in quale misura il prodotto  dell'interpretazione
della Corte  europea  si  inserisca  nell'ordinamento  costituzionale
italiano. 
    In altri termini, la  norma  CEDU,  nel  momento  in  cui  va  ad
integrare il primo comma dell'art. 117 Cost., da questo ripete il suo
rango nel sistema delle fonti, con tutto cio' che segue,  in  termini
di interpretazione e bilanciamento, operazioni di  chiara  competenza
esclusiva del giudice delle leggi. 
    Nel concetto di massima  espansione  delle  tutele  deve  infatti
essere compreso  il  necessario  bilanciamento  con  altri  interessi
costituzionalmente protetti, cioe' con  altre  norme  costituzionali,
che a loro volta garantiscono  diritti  fondamentali  che  potrebbero
essere  incisi  dall'espressione  di  una  singola   tutela.   Questo
bilanciamento trova nel legislatore il suo riferimento  primario,  ma
spetta necessariamente anche  alla  Corte  costituzionale  nella  sua
attivita' interpretativa delle norme. dovendo la tutela  dei  diritti
fondamentali essere sistemica e non frazionata in una serie di  norme
non coordinate e di potenziale conflitto tra loro (cfr.  Corte  cost.
n. 311, e 317 del 2009; 348 e 349 del 2007). 
    Si  osserva,  infine,  che  non  parrebbe  ostare   all'eventuale
accoglimento della presente eccezione - con conseguente pronuncia  di
carattere abrogativo od additivo - una ipotizzabile incompletezza del
quadro normativo di riferimento, rimanendo affidata  al  Legislatore,
in accordo al puntuale  insegnamento  del  giudice  delle  leggi,  il
compito di promulgare, ove necessario, un meccanismo attuativo  delle
delibere della Corte. La prevedibile necessita' di integrare  con  le
opportune determinazioni i protocolli  medico-scientifici  in  vigore
non potrebbe quindi essere addotta quale impedimento  giuridico  alla
rimozione di un limite normativo che si ritenga lesivo di un  diritto
fondamentale della persona. 
    Va comunque ricordato che l'art. 9 della legge  n.  40  del  2004
disciplina (in caso di fecondazione eterologa  comunque  eseguita  in
violazione del divieto vigente) il riconoscimento  del  figlio  quale
figlio legittimo dei genitori  non  genetici  e  l'impossibilita'  di
intraprendere una azione di disconoscimento di paternita', come  pure
l'assenza di qualsiasi legame parentale con il genitore genetico. 
    c) Non pare  inutile  ricordare  che  sussiste  la  possibilita',
normativamente garantita, per gli Stati  contraenti  di  limitare  in
vario modo i diritti protetti, ed in particolare quelli  disciplinati
dagli articoli da 8 a 11 della  CEDU  in  funzione  della  tutela  di
esigenze indicate nella stessa Convenzione, nella misura in  cui  sia
necessario in una societa' democratica. 
    Nello  stabilire  se  una  determinata  misura,  che  costituisce
ingerenza e limitazione di  uno  dei  diritti  protetti,  sia  dunque
proporzionata alla finalita' che ci si  prefigge,  la  giurisprudenza
della Corte europea riconosce la formale sussistenza di  un  «margine
di apprezzamento», ossia di un margine  di  discrezionalita'  di  cui
dispongono gli Stati sia a livello  legislativo,  sia  a  livello  di
concreto  intervento,  in  ragione  della   loro   prossimita'   alla
situazione pertinente. 
    Questa discrezionalita', pero', si  accompagna  ad  un  controllo
europeo che si riferisce sia alla legge, sia alle  decisioni  con  le
quali essa viene applicata. 
    Affermavano parti reclamanti che  le  decisioni  contenute  nella
sentenza del giorno 1º aprile 2010, prima  sezione,  della  Corte  di
Strasburgo nel caso S.H. contro lo  Stato  austriaco  imponevano  una
lettura del  divieto  normativo  di  fecondazione  eterologa  che  ne
definiva il contrasto con gli articoli 3  e  32  della  Costituzione,
interpretati alla luce dei principi posti dagli articoli 8 e 14 della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo,  come  interpretati  dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo. 
    La Corte EDU, nella sentenza indicata,  contrariamente  a  quanto
sostenevano parti reclamanti circa  l'assenza  di  alcun  margine  di
apprezzamento  in  capo  agli  Stati  contraenti  nel   regolamentare
situazioni afferenti il diritto di fondare una famiglia e  di  quello
alla  procreazione,  osservava  che:  «in  materia  di   procreazione
medicalmente  assistita  non  esiste  un  approccio   uniforme   alla
questione tra gli Stati membri  della  Convenzione.  La  procreazione
medicalmente assistita e' regolamentata  dettagliatamente  in  alcuni
Stati, in certa misura in altri e in nessuna misura negli altri.  ...
Poiche' l'uso di trattamenti  IVF  da'  adito  a  delicate  questioni
etiche e  morali  a  fronte  di  un  contesto  di  rapida  evoluzione
medico-scientifica, e poiche' le questioni sollevate dal caso toccano
settori nei quali non vi e' un chiaro terreno comune  tra  gli  Stati
membri, la Corte ritiene che il margine di  apprezzamento  consentito
allo Stato convenuto debba essere ampio. L'ampio margine  di  manovra
dello Stato si estende, in linea di principio, sia alle sue decisioni
di  intervenire  nel  settore,  sia,  una  volta  intervenuto,   alle
dettagliate   disposizioni   che   stabilisce   per   realizzare   un
bilanciamento tra gli interessi pubblici e privati in concorrenza». 
    Affermato in via del tutto generale il principio  richiamato,  la
Corte, tuttavia, sottolineava che l'ampio grado  di  discrezionalita'
riconosciuto ad ogni singolo Stato non impedisce alla Corte  medesima
di  esaminare  eventuali  argomenti  addotti   dai   ricorrenti   per
giustificare una allegata disparita' di trattamento. 
    Precisava  poi  che:  «per  sollevare  una  questione  ai   sensi
dell'art.  14  (della  CEDU),  debba  ricorrere   una   significativa
differenza di trattamento tra persone in situazioni simili. Una  tale
differenza di trattamento risulta discriminatoria se non trova alcuna
giustificazione  in  obiettive  ragioni,  in  altre  parole,  se  non
perseguono uno scopo legittimo o non esiste un  ragionevole  rapporto
di proporzionalita' tra i metodi impiegati e lo scopo che si  mira  a
realizzare». 
    Occupandosi nello specifico caso trattato della disciplina  della
PMA austriaca che consente la donazione di gameti, ma non  di  ovuli,
il giudice europeo, sulla base di tali  premesse,  nel  rigettare  le
opposte deduzioni dello Stato resistente, affermava che: 
        1) il divieto assoluto (nel caso esaminato  dalla  Corte)  di
alcuni e non di altri tipi di fecondazione eterologa configurava  una
sproporzione fini - mezzi, posto che il rischio per la  salute  della
donna e il rischio di abusi nella procedura di fecondazione, posti  a
base  del  divieto  parziale  di  alcune  forme  di  eteronoma,  sono
identici;  gli  Stati  contraenti  possono  disporre   strumenti   di
prevenzione e tutela da  possibili  manipolazioni,  errori  ed  abusi
validi per i differenti tipi di fecondazione; 
        2) gli Stati sono in grado di adottare  idonei  strumenti  al
fine di evitare controversie tra una madre biologica ed una genetica,
al fine di  salvaguardare  «il  principio  fondamentale  del  diritto
civile» della certezza ed unicita' della madre; 
        3)  risulta  altresi'   superabile   l'obiezione   circa   la
difficolta' di realizzare l'obiettivo della certezza legale nel campo
del diritto di famiglia, che da sempre  conosce  e  riconosce  legami
familiari atipici quali l'adozione; 
        4)  parimenti  soccombente  risulta  essere  il  diritto  del
nascituro ad un piena informazione  sulle  proprie  origini  e  sulla
propria identita'. La Corte riconosceva certamente che  «il  rispetto
per la vita privata richiede che tutti  devono  essere  in  grado  di
stabilire i dettagli della propria identita' come esseri umani e come
un diritto individuale a tali informazioni sia di notevole importanza
a  causa  delle  sue  implicazioni  nella  formazione  della  propria
personalita'. Tale diritto comprende  l'ottenimento  di  informazioni
necessarie per scoprire la verita'  relativa  di  importanti  aspetti
della  propria  identita'  personale,  come  l'identita'  dei  propri
genitori. Tuttavia tale  diritto  non  e'  assoluto  ...»  risultando
possibile  per  lo  Stato  trovare  una   soluzione   appropriata   e
correttamente bilanciata tra gli interessi concorrenti  dei  donatori
che richiedono di restare anonimi e qualsiasi interesse legittimo  di
un  bambino,  concepito  grazie  alla  procreazione  artificiale  con
donazione di ovuli e sperma, ad ottenere informazioni. 
    VI. - a) Ritiene il Collegio di condividere  l'argomentazione  di
parti reclamanti sui possibili effetti ordinamentali  in  conseguenza
della pronuncia della Corte europea. 
    L'art. 4, comma 3, l'art. 9, commi  1  e  3,  limitatamente  alle
parole «in violazione del divieto dell'art. 4, comma 3» e l'art.  12,
comma 1, della legge n. 40 del 2004 appaiono  in  contrasto  con  gli
articoli 2, 29 e 31 della Costituzione nella parte in cui il  divieto
normativo oggetto di doglianza non garantisce alle coppie  cui  viene
diagnosticato  un  quadro  clinico  di  sterilita'   o   infertilita'
irreversibile, il diritto fondamentale alla piena realizzazione della
vita privata familiare e il diritto di autodeterminazione  in  ordine
alla medesima. 
    Non pare  contestabile  che  l'art.  2  della  Costituzione,  nel
riconoscere e garantire i diritti inviolabili della persona, sia come
singolo  sia  nelle  formazioni  sociali  ove  si   svolge   la   sua
personalita', tuteli e garantisca il diritto della persona di formare
una famiglia cosi' come riconosciuto all'art. 29  della  Costituzione
stessa. 
    Quest'ultima norma pone il  rapporto  di  coniugio  a  fondamento
della famiglia,  definita  «societa'  naturale».  cioe'  titolare  di
diritti originari preesistenti allo Stato e da questi riconosciuti. 
    Non puo' ritenersi casuale che la Carta. dopo aver  trattato  del
matrimonio, inteso  come  stabile  unione  spirituale.  affettiva  ed
economica tra due persone di sesso diverso, abbia ritenuto necessario
occuparsi al successivo  art.  30  della  giusta  e  doverosa  tutela
garantita ai figli, siano essi legittimi o  naturali,  passaggio  che
presuppone - riconoscendolo - e tutela la finalita'  procreativi  del
matrimonio. Le norme richiamate afferiscono i concetti di famiglia  e
di genitorialita' che appaiono dotati della  duttilita'  propria  dei
principi costituzionali e, in quanto tali, non  possono  considerarsi
cristallizzati  in  principi  di  esperienza  e   prassi   riferibili
esclusivamente all'epoca in cui la Costituzione entro' in vigore;  ne
consegue che gli stessi debbono  essere  interpretati  tenendo  conto
dell'evoluzione dell'ordinamento, nonche' delle trasformazioni  della
societa' e dei costumi attraverso i quali la stessa  si  esprime,  in
ossequio a quanto  autorevolmente  determinato  in  una  recentissima
sentenza dalla stessa Corte (cfr. sentenza Corte  Costituzionale,  n.
138 del 2010). 
    I medesimi giudici della legge hanno altresi' statuito  che:  «La
Costituzione non giustifica una concezione della famiglia (legittima)
nemica delle  persone  e  dei  loro  diritti»;  dal  che  puo'  farsi
discendere una indicazione giurisprudenziale promanante dalla  stessa
Corte in ordine alla auspicabilita' di una massima  espansione  della
tutela della piena realizzazione di tali diritti  (cfr.  sentenza  n.
494 del 2002). 
    Ne' il concepimento di un figlio mediante l'ausilio  di  pratiche
di PMA puo' dirsi lesivo del diritto del concepito al  riconoscimento
formale  e  sostanziale  di  un  proprio  status  filiationis.   Come
affermato dalla Corte costituzionale, esso  costituisce  «un  diritto
che e' elemento costitutivo dell'identita' personale, protetta, oltre
che dagli articoli 7 e 8 della citata Convenzione ONU sui diritti del
fanciullo, stipulata a New  York  il  20  novembre  1989  (ratificata
dall'Italia  con  legge  n.  176  del  1991),   dall'art.   2   della
Costituzione» (cfr. sentenza n. 120 del 2001). 
    L'insopprimibile diritto del figlio  ad  avere  un  nome  ed  una
famiglia, ed  una  sola,  ed  a  costruirsi  una  compiuta  identita'
relazionale  attraverso  il  godimento  delle   indispensabili   cure
parentali  risulta  adeguatamente   tutelato   anche   in   caso   di
fecondazione eterologa, rispondendo a tal fine l'esclusiva assunzione
di ogni inerente obbligo  da  parte  dei  genitori  biologici  e  non
genetici. 
    Pare dunque al tribunale che tale processo  evolutivo  non  possa
prescindere da quanto affermato nei principi della CEDU  nei  termini
in cui gli stessi sono stati definiti dalla Corte europea dei diritti
dell'uomo. 
    L'art. 8 della CEDU,  sovrapponibile  nel  contenuto  all'art.  7
della Carta dei Diritti Fondamentali  dell'Unione  europea  del  2000
(che ha la stessa efficacia dei  Trattati  Istitutivi),  prevede  che
«tutti hanno il diritto al rispetto per la  propria  vita  privata  e
familiare ... non c'e' alcuna interferenza da parte  di  un'autorita'
pubblica con l'esercizio di questo diritto  salvo  quanto  prescritto
dalla legge e salvo quanto sia necessario in una societa' democratica
nell'interesse della .Sicurezza nazionale, della sicurezza pubblica o
del benessere economico del paese, per la prevenzione di disordini  o
del crimine, per la protezione della morale o per la  protezione  dei
diritti e delle liberta' degli altri». 
    La  Corte  di  Strasburgo  nella  sentenza  sopra  richiamata  ha
affermato  -  in  sintesi  -   il   diritto   di   identita'   e   di
autodeterminazione   della   coppia   in    ordine    alla    propria
genitorialita',  principio  che  viene  compromesso  dal  divieto  di
accesso ad un determinato  tipo  di  fecondazione,  individuata  come
indispesabile per il caso concreto. 
    La Corte ha infatti illustrato il principio in esame nei  termini
che occorre garantire, in quanto appartenente al diritto al  rispetto
della vita privata e familiare tutelato  dall'art.8  della  CEDU,  il
diritto  della  coppia  di  scegliere  di  diventare  genitori  anche
ricorrendo alle tecniche di fecondazione assistita:  «il  diritto  di
una coppia a concepire un figlio  e  a  far  uso  a  tal  fine  della
procreazione assistita dal punto di vista medico rientra  nell'ambito
dell'art.  8,  in  quanto  tali  scelte   costituiscono   chiaramente
un'espressione della vita privata familiare». 
    Nel caso portato  all'attenzione  di  questo  tribunale,  quindi,
occorre garantire il diritto alla vita privata familiare intesa  come
diritto all'autodeterminazione della coppia che  desideri  procreare,
ma che, possedendo i requisiti soggettivi previsti dalla legge n.  40
del 2004, debba ricorrere in ragione del proprio  quadro  clinico  ad
una delle tecniche di fecondazione eterologa per superare i  problemi
di fertilita' o sterilita' presentati, non altrimenti risolvibili; il
divieto normativo presente nella legge  n.  40  del  2004  condiziona
pertanto  la  possibilita'  delle  coppie  eterosessuali  sterili   o
infertili nel proprio diritto di determinare  la  propria  condizione
genitoriale  e,  quindi,  di  poter   concorrere   liberamente   alla
realizzazione della propria vita familiare. 
    b) Il vigente divieto  di  fecondazione  eterologa  si  pone,  ad
avviso di questo tribunale, in contrasto anche con gli art.  3  e  31
della Costituzione. 
    L'impostazione critica dei ricorrenti muove da una valutazione di
eguaglianza giuridica tra la condizione delle coppie  che  posseggono
gameti fecondabili e quella  delle  coppie  in  cui  almeno  uno  dei
componenti e' incapace  di  produrre  gameti  idonei  a  produrre  un
embrione. 
    In ragione di tale  presupposto  contestano,  con  argomentazioni
logiche e deduttive, la ragionevolezza  dell'estensione  del  divieto
previsto al comma 3 dell'art. 4, legge n. 40/2004 a quelle coppie che
solo con la deroga a tale rigida  disposizione  normativa  potrebbero
avere un figlio, cosi' raggiungendo lo scopo che  il  legislatore  ha
dichiaratamente inteso perseguire con la legge n. 40/2004. 
    La deduzione di parti ricorrenti appare  condivisibile  in  esito
alla recente pronuncia della Corte EDU. 
    Dall'art. 3 della Costituzione discendono  il  principio  di  non
discriminazione e il principio di ragionevolezza. 
    I principi cennati comportano  il  divieto  per  il  legislatore,
altrimenti  libero  nelle   materie   di   propria   competenza,   di
disciplinare in maniera difforme situazioni  soggettive  analoghe,  a
maggior ragione nell'ipotesi in cui si versi nel  campo  dei  diritti
fondamentali della persona. 
    In ossequio al principio di  uguaglianza  e  alla  necessita'  di
verifica che la legge preveda un trattamento identico  per  posizioni
uguali e differenziato per situazioni soggettive  diverse,  e'  stato
enunciato il principio di derivazione costituzionale della necessaria
coerenza interna dell'ordinamento giuridico, espresso dalla  clausola
generale  di   ragionevolezza,   in   forza   della   quale   si   e'
progressivamente esteso il giudizio  di  legittimita'  costituzionale
delle  norme  in  termini  di  logicita'  interna  della   normativa,
razionalita' delle deroghe e giustificazione oggettiva e  ragionevole
delle differenze di trattamento. 
    Il legislatore puo', pertanto, imporre limiti ai diritti  e  agli
interessi dei soggetti  in  base  alle  finalita'  che  si  intendono
perseguire con  l'esercizio  del  potere  legislativo,  ma  non  puo'
trattare diversamente  alcuni  soggetti  rispetto  ad  altri  che  si
trovino nella stessa situazione, o in situazioni  che,  pur  diverse,
risultino  essere  analoghe,  in   assenza   di   razionali   ragioni
giustificatrici (cfr. sentenze Corte costituzionale nn. 15 del 1960 e
1009 del 1988). 
    Come gia' riportato nei paragrafi che precedono, la creazione  di
una famiglia, ivi inclusa la scelta di avere  figli,  costituisce  un
diritto  fondamentale  della  coppia,  rispondente  ad  un  interesse
pubblico riconosciuto  e  tutelato  dagli  art.  2,  29  e  31  della
Costituzione. 
    Soccorre sul punto  l'insegnamento  della  stessa  Corte  cui  si
rimette   la   presente   controversia:   al   fine   di   verificare
l'irragionevolezza  di  un  trattamento  normativo  differenziato  e'
necessario «individuare  il  punto  centrale  della  disciplina»  cui
appartiene la norma in esame (cfr. Corte cost. n. 359 del 2010). 
    Orbene: l'obiettivo dichiarato dal legislatore all'art.  l  della
legge n. 40 del 2004 e' proprio quello di favorire la  soluzione  dei
problemi riproduttivi derivanti dalla sterilita' o  dall'infertilita'
della coppia  mediante  il  ricorso  alla  procreazione  medicalmente
assistita, alle condizioni e nei modi previsti dal  testo  normativo,
che ha cura di rispettare i diritti di tutti  i  soggetti  coinvolti,
compreso  il  concepito.  In  tale  prospettiva,  l'introduzione  del
divieto di cui all'art. 4, comma 3 della stessa legge risulta violare
gli art. 3 e 31 della Costituzione sia sotto il profilo della  natura
discriminatoria  di  tale  divieto,  sia  sotto  il   profilo   della
ragionevolezza dello stesso. 
    Risultano infatti trattate in modo opposto coppie con  limiti  di
procreazione, risultando differenziate solo in  virtu'  del  tipo  di
patologia che affligge l'uno o l'altro dei componenti della coppia. 
    Pur  non  potendosi  affermare  l'identita'  delle  procedure  di
procreazione assistita derivanti dal contributo di materiale genetico
proveniente  da  un  soggetto  estraneo   al   rapporto   genitoriale
instaurando rispetto a tecniche di  procreazione  assistita  eseguite
utilizzando gameti derivanti esclusivamente dalla coppia  genitoriale
biologica, l'esame comparato delle due situazioni evidenzia  comunque
nel confronto  tra  le  condizioni  delle  due  categorie  di  coppie
infertili una loro sostanziale sovrapponibilita', pur in  assenza  di
coincidenza di tutti gli elementi di fatto. 
    In sostanza, all'identico limite (infertilita'  e  sterilita'  di
coppia) dovrebbe corrispondere la  comune  possibilita'  di  accedere
alla migliore  tecnica  medico  scientifica  utile  per  superare  il
problema,  da  individuarsi  in  relazione  alla   causa   patologica
accertata. 
    L'elemento non comune (specificita' della patologia) non parrebbe
idoneo  ad  escludere  l'applicabilita'  di  un  concetto  logico  di
eguaglianza  giuridica,  che   deve   essere   inteso   quindi   piu'
propriamente in termini di analogia e non di completa  identita'  tra
le due condizioni esaminate. 
    La sentenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo offre utili
argomenti a sostegno della violazione dell'art. 3 della  Costituzione
con riferimento alla violazione del principio di non discriminazione,
poiche' i motivi proposti dai giudici  europei  circa  la  violazione
dell'art. 14 della CEDU possono essere  contemporaneamente  formulati
nell'interpretazione dell'art. 3 della Costituzione, posto che le due
norme trattano del medesimo principio. 
    Nella sentenza piu' volte richiamata la Corte rilevava  l'assenza
di giustificazioni oggettive e ragionevoli  -  e  quindi  il  mancato
rispetto dei principi di ragionevole  proporzionalita'  tra  i  mezzi
utilizzati e il fine perseguito e la mancanza di un fine legittimo  -
nei divieti legislativi posti dallo Stato  austriaco  al  ricorso  ad
alcune sole tra le diverse tecniche di  PMA  di  tipo  eterologo  (e,
segnatamente, la donazione di ovuli e la  fecondazione  in  vitro  di
gameti maschili), permettendone, per contro, altre; i motivi  addotti
riportavano tutti alla natura soccombente dei diritti contrapposti al
diritto della coppia di procedere all'utilizzo di metodiche di PMA di
tipo eterologo, diritti tutelabili  con  mezzi  idonei,  diversi  dal
divieto di utilizzazione delle tecniche di PMA eterologa descritte. 
    Osserva il Collegio - per completezza -  che  i  giudici  europei
deliberavano  su  situazioni  soggettive  di  coppie   potenzialmente
genitoriali nell'ambito esclusivo della fecondazione eterologa, nulla
argomentando in ordine ad una potenziale equiparabilita' tra tecniche
di fecondazione omologa e fecondazione eterologa. 
    Non pare tuttavia inutile rilevare su questo specifico punto  che
il  caso  rimesso  alla  cognizione  dei  giudici  europei   afferiva
esclusivamente una  potenziale  discriminazione  nel  trattamento  di
coppie necessitate  a  ricorrere  all'una  o  all'altra  metodica  di
fecondazione assistita di tipo eterologo, condizione da cui  derivava
la formale estraneita' in quel giudizio di questo  specifico  aspetto
della questione. 
    Le ragioni dedotte  da  quei  Governi  a  sostegno  dei  parziali
divieti  di  fecondazione  eterologa  erano,  come  sopra  ricordato,
individuati nella necessita' di certezza giuridica  nei  rapporti  di
famiglia.  nel  pericolo  di  abusi  nell'esecuzione  dei  protocolli
sanitari e nel diritto  del  minore  alla  conoscenza  delle  proprie
origini,  cosi'  come  nella  necessita'  di  evitare  un   possibile
contrasto tra genitore apparente  e  genitore  genetico;  secondo  la
decisione della Corte di Strasburgo ognuna di queste ragioni  risulta
soccombente rispetto al diritto  di  autodeterminazione  del  singolo
alla formazione di una famiglia e al diritto della coppia  di  essere
genitori. 
    Tanto precisato, non puo' essere  ignorato  che,  a  confutazione
delle deduzioni prospettate dai Governi resistenti in quella  sede  a
sostegno del divieto parziale di eterologa, la  Corte  ha  utilizzato
argomentazioni  traslabili  de  plano  a  fondamento   della   natura
discriminatoria del divieto totale di fecondazione eterologa  vigente
nell'ordinamento  italiano,  non  costituendo  tale  divieto  l'unico
mezzo, e nemmeno il piu' ragionevole, per rispondere alla tutela  dei
concorrenti   diritti,    potenzialmente    confliggenti    con    il
riconoscimento  del  diritto  di  accedere  alle  pratiche   di   PMA
eterologa. 
    A tal fine puo'  essere  ricordato  che  l'ordinamento  italiano,
cosi' come gli altri ordinamenti europei,  conoscono  e  disciplinano
istituti che ammettono la  frattura  tra  genitorialita'  genetica  e
genitorialita'  legittima,  quali  l'adozione;  lo  Stato  riconosce,
quindi,  rapporti  parentali   fondati   sul   legame   affettivo   e
sull'assunzione  di  responsabilita',  prescindendo  e  superando  la
necessita' di una relazione biologica genitoriale. 
    In  tale  ambito  lo  stesso  ordinamento   vigente   attribuisce
carattere soccombente al diritto del minore adottato a ricostruire  e
conoscere la propria ascendenza genetica. 
    Nella prospettiva dei giudici europei appaiono dunque  conosciute
e ammissibili relazioni genitoriali  diverse  da  quelle  biologiche,
principio da cui discende l'inidoneita' della parziale rottura  della
linea di sangue (in capo al solo coniuge  infertile)  presente  nella
fecondazione eterologa a legittimarne il divieto. 
    La Corte di Strasburgo si spinge oltre, ritenendo priva di pregio
la necessita' di impedire l'esistenza di una madre biologica e di una
madre genetica, potenzialmente confliggenti, ritenendo  tale  rischio
evitabile secondo strumenti diversi dal divieto  della  donazione  di
ovociti; l'affermazione appare a maggior ragione applicabile al  caso
dedotto nel presente procedimento, dove - si  ricorda  -  si  discute
della necessita' di donazione di gameti maschili. 
    Peraltro, sono gli stessi giudici europei  ad  affermare,  seppur
implicitamente, l'estensibilita'  delle  censure  avverso  la  natura
discriminatoria del divieto di ricorrere ad alcune forme di eterologa
al totale divieto di praticabilita' di questa forma di  fecondazione,
posto che analogo conflitto di interessi puo'  essere  ipotizzato  in
tutti i casi di procreazione assistita, ivi inclusa quella omologa. 
    Invero,  nel  provvedimento  CEDU  si  afferma  che  «per  quanto
riguarda il rischio di sfruttamento delle donne  e  l'abuso  di  tali
tecniche, la corte Ritiene che questa sia un'argomentazione  che  non
concerne specificamente le tecniche di procreazione in questione,  ma
che sembra essere  diretta  contro  la  procreazione  artificiale  in
generale. Inoltre il potenziale abuso che indubbiamente  deve  essere
combattuto, non e' una ragione sufficiente per vietare  completamente
una tecnica di procreazione  specifica;  esiste  la  possibilita'  di
regolamentare il suo  utilizzo,  nonche'  di  ideare  delle  garanzie
contro il suo abuso» (cfr. punto 77, ib.). 
    In  sintesi,  l'interpretazione   delle   norme   costituzionali,
applicate  alla  luce  delle  indicazioni  offerte  dalla  Corte  EDU
nell'esame  dell'art.   14   della   Convenzione,   pare   comportare
l'affermazione  della   natura   discriminatoria   del   divieto   di
fecondazione eterologa tra coppie sterili ed infertili a seconda  del
grado di sterilita' o di infertilita' evidenziato. 
    c) Osserva, infine, il Collegio remittente che le norme in  esame
appaiono  contrastare  anche  con  gli  articoli   3   e   22   della
Costituzione, poiche' con il divieto  di  fecondazione  eterologa  si
rischia di non tutelare l'integrita' fisica e psichica  delle  coppie
in cui uno dei due componenti non presenta gameti idonei a  concepire
un embrione. 
    Non pare ad oggi contestato che le tecniche di PMA debbano essere
qualificate come rimedi terapeutici sia in relazione ai beni  che  ne
risultano implicati, sia perche'  consistono  in  un  trattamento  da
eseguirsi sotto diretto controllo medico, finalizzato a superare  una
causa   patologica   comportante   un   difetto   di    funzionalita'
dell'apparato riproduttivo di uno  dei  coniugi  (o  conviventi)  che
impedisce la procreazione, rimuovendo, nel  contempo,  le  sofferenze
psicologiche connesse alla difficolta' di realizzazione della  scelta
genitoriale. 
    Non  vi  e'  dubbio  che  la  scienza  medica  ad  oggi  consente
l'esecuzione di tecniche di fecondazione in vivo e in vitro  di  tipo
eterologo, con  utilizzo  di  gameti  sia  maschili,  sia  femminili,
provenienti da un donatore terzo rispetto alla coppia; come e'  noto,
si tratta di protocolli terapeutici correntemente in uso in molti dei
Paesi europei. 
    Quanto alla scelta degli strumenti terapeutici  utilizzabili  per
superare i problemi procreativi della coppia, la Corte costituzionale
ha di recente affermato che:  «La  giurisprudenza  costituzionale  ha
ripetutamente posto l'accento sui limiti  che  alla  discrezionalita'
legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali,  che
sono in continua evoluzione e sulle quali  si  fonda  l'arte  medica:
sicche', in materia di pratica terapeutica, la regola di  fondo  deve
essere l'autonomia e  la  responsabilita'  del  medico  che,  con  il
consenso del paziente,  opera  le  necessarie  scelte  professionali»
(cfr. sentenza Corte costituzionale, n. 151 del 2009). 
    VII. - Tutto cio' premesso, si ritiene di sollevare questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 3, dell'art. 9,  commi
1 e 3 limitatamente alle parole «in violazione del  divieto  dell'art
4, comma 3, e dell'art. 12, comma 1, della legge n. 40 del  2004  per
contrasto con gli  artt.  117,  2,  3,  29,  31,  32.  commi  1  e  2
Costituzione nella parte in cui impongono  il  divieto  di  ricorrere
alla  fecondazione  medicalmente  assistita  di  tipo   eterologo   e
prevedono  sanzioni  nei  confronti  delle  strutture  che  dovessero
praticarla. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Ritenute la rilevanza e la non  manifesta  infondatezza,  rimette
alla Corte costituzionale la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 4, comma 3, dell'art. 9, commi  le  3,  limitatamente  alle
parole «in violazione del divieto dell'art. 4, comma 3»  e  dell'art.
12, comma 1, della legge n.  40  del  2004,  per  contrasto  con  gli
articoli 117, 2, 3, 29, 31 e 32, commi uno e due della  Costituzione,
nella  parte  in  cui  impongono  il  divieto   di   ricorrere   alla
fecondazione medicalmente assistita di  tipo  eterologo  e  prevedono
sanzioni nei confronti delle strutture che dovessero praticarla; 
    Sospende il giudizio; 
    Dispone  l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale; 
    Ordina che, a cura della Cancelleria, la presente  ordinanza  sia
notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei ministri; 
    Dispone che il provvedimento sia comunicato ai  Presidenti  delle
due Camere del Parlamento. 
        Milano, addi' 28 dicembre 2010 
 
                        Il Presidente: Padova