N. 179 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 aprile 2011
Ordinanza dell'11 aprile 2011 emessa dalla Commissione Tributaria Regionale di Venezia - Mestre sul ricorso proposto da Ag. Entrate Dir. Prov. Uff. controlli Verona contro Meneghello Claudia. Imposte sui redditi - Redditi tassabili - Determinazione - Indeducibilita' dei costi o delle spese riconducibili a fatti, atti o attivita' qualificabili come reato - Eventuale natura di norma sanzionatoria (secondo l'indirizzo non condiviso dal giudice rimettente) - Violazione, in tale ipotesi, del principio di determinatezza e tassativita' delle norme incriminatrici e sanzionatrici - Irrazionalita' e arbitrarieta' - Contrasto con il principio di personalita' della responsabilita' penale (venendo di fatto sanzionate le persone giuridiche per le condotte penalmente rilevanti dei loro amministratori o legali rappresentanti). - Legge 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis, aggiunto dall'art. 2, comma 8, della legge 27 dicembre 2002, n. 289. - Costituzione, artt. 3, 25, 27 e 97. Imposte sui redditi - Redditi tassabili - Determinazione - Indeducibilita' dei costi o delle spese riconducibili a fatti, atti o attivita' qualificabili come reato - Previsione derogatoria rispetto ai principi che regolano le imposte sui redditi (e, in specie, rispetto al principio di neutralita' fiscale) - Irragionevole amplificazione della base imponibile mediante inclusione di somme non espressive della capacita' contributiva dell'impresa - Violazione del principio di necessaria correlazione tra imposizione e capacita' contributiva - Esorbitanza dai limiti di razionalita' cui e' vincolata la discrezionalita' del legislatore nel campo tributario. - Legge 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis, aggiunto dall'art. 2, comma 8, della legge 27 dicembre 2002, n. 289. - Costituzione, art. 53.(GU n.37 del 31-8-2011 )
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE Ha emesso la seguente ordinanza sull' appello n. 2153/10 depositato il 10 novembre 2010 - avverso la sentenza n. 99/05/2009; Emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Verona proposto dall'ufficio: Agenzia Entrate Dir. Provin. Uff. Controlli Verona; Controparte: Meneghello Claudia,Via Bron n. 512 - 37017 Lazise Verona; Difeso da: Lucchese Tiziano Via Stella n. 19 - 37122 Verona VR. Atti impugnati: avviso di accertamento n. 8360101001352007 IVA+IRPEF+IRAP 2004. Letti gli atti; udite le parti alla pubblica udienza fissata per la discussione; udito in camera di consiglio il relatore dott. Giuseppe Caracciolo; Ritenuto in fatto La commissione tributaria provinciale di Verona ha parzialmente accolto il ricorso della «Mac Motors di' Meneghello Claudia» avverso avviso di accertamento concernente IVA - IRPEF IRAP per l'anno d'imposta 2004, e cio' in relazione ai recuperi ad imposizione diversi da quello concernente il disconoscimento dell'IVA detratta (in relazione alla quale ultima il provvedimento di accertamento e' rimasto invece confermato). Con il predetto avviso l'Agenzia -sulla premessa che la ditta Mac Motors avesse partecipato (nella qualita' di "buffer", e cioe' di filtro solo apparentemente regolare) ad un sistema di illecita e fraudolenta evasione dell'IVA, realizzato attraverso un complesso meccanismo di transazioni economiche intracomunitarie concernenti il commercio di autovetture e concretizzantesi nella emissione di fatture (percio' definite "soggettivamente inesistenti") correlate a fittizi passaggi di merce (comunque, effettivamente importata) e finalizzate a consentire che uno degli anelli della catena di passaggi ottenesse (di fatto) di evadere l'obbligo di versamento dell'imposta - aveva non soltanto disconosciuto la detrazione dell'IVA portata dalle fatture pervenute ma - anche recuperato ad imposizione i costi sostenuti per l'acquisto delle autovetture (oltre ad imporre comunque il versamento dell'IVA esposta nelle fatture emesse) ed infine recuperato a tassazione il compenso che la ditta aveva verosimilmente incassato per la sua partecipazione al meccanismo fraudolento. L'impugnazione dell'anzidetto provvedimento da parte della ditta contribuente e' stata accolta dall'adita Commissione Provinciale di Verona - per la parte di cui si e' detto - con l'argomento che (pur pacifica la partecipazione della Mac Motors al meccanismo fraudolento, della cui natura quest'ultima non avrebbe potuto non rendersi conto, atteso il ruolo che vi svolgevano le ditte fornitrici degli autoveicoli e la propria notevole esperienza nel settore commerciale in questione, e percio' data per pacificamente indebita la detrazione dell'IVA corrisposta) non poteva considerarsi legittima la pretesa di precludere la detrazione dei costi (pacificamente sostenuti), siccome l'art. 14 comma 4-bis della legge n. 537 del 24 dicembre 1993 concerne le sole "attivita' di per se' illecite....ma non una normale attivita' commerciale", atteso che lo scopo di evadere le imposte non rende criminosa l'intera attivita', che rimane lecita. Si e' doluta di - questa pronuncia l'Agenzia delle Entrate, avanti a questa Commissione Regionale, per la violazione del disposto dell'art.14 dianzi menzionato (che, nella formulazione vigente all'epoca dei fatti di causa, come gia' modificata dall'art. 2 della legge n. 289/2002, prevede: «Nella determinazione dei redditi di cui all'articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attivita' qualificabili come reato, fatto salvo l'esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti») evidenziando che la condotta tenuta dalla Mac Motor attraverso la sua titolare Meneghello Claudia), consistita nella sua consapevole partecipazione al meccanismo fraudolento, deve essere sussunta nella fattispedie prevista e punita dall'art. 2 del d.lgs. n. 74 del 10 marzo 2000 relativa all'utilizzo, mediante indicazione nelle dichiarazioni annuali e con il fine di evasione dell'imposta sul reddito, di fatture emesse per operazioni inesistenti, condotta per la quale la Meneghello era stata infatti indagata in procedimento penale ancora pendente. Richiedere, a questo proposito, che lo stesso costo sostenuto debba integrare la funzione di strumento del reato (come in sostanza aveva ritenuto il primo giudice), avrebbe significato - secondo l'appellante Agenzia - distorcere il chiaro significato della norma dianzi trascritta, a mente della quale e' sufficiente che i costi disconoscibili siano "riconducibili" alla condotta criminosa, e percio' correlati con quella, ma non necessariamente frutto o strumento del reato. La finalita' sanzionatoria della norma in questione - posta a presidio dell'attivita' di prevenzione delle frodi in materia di imposta sul valore aggiunto - precluderebbe, quindi, ogni indagine circa la correlazione tra costo e reato. All'esito di dette considerazioni, l'Agenzia appellante ha chiesto a questa Commissione di riformare la decisione di primo grado e (per vero, implicitamente) di dichiarare non detraibili ai fini delle imposte dirette costi connessi con il menzionato reato, quali indicati nel provvedimento impositivo. Costituendosi in giudizio, la Mac Motors ha non soltanto svolto difese ma anche interposto appello incidentale con cui ha contestato che vi fossero elementi probatori idonei a acclarare l'attiva o soltanto consapevole partecipazione di essa Mac Motors alla macchinazione fraudolenta, con la conseguente positiva esistenza delle fatture passive annotate e di quelle correlativamente emesse e l'ineludibile diritto alla detrazione dell'IVA. L'appellante incidentale ha pure riproposto tre argomenti di impugnazione del provvedimento impositivo, sulla premessa che il giudice di primo grado ne aveva eluso l'esame. Espletata la pubblica udienza ed udite le parti, la commissione - riunita in camera di consiglio - si e' riservata di deliberare a mente dell'art. 35 comma 2 d.lgs. n. 546/1992. Considerato in diritto La commissione ritiene di non poter adottare alcuna decisione senza avere prima sottoposto alla Corte Costituzionale la questione di legittimita' dell'art. 14 comma 4-bis della legge 537 del 1993. Si tratta di' questione che e' gia' stata proposta innanzi alla Corte Costituzionale con ordinanza di data 11.11.2009 della Commissione Tributaria Provinciale di Terni , ma la Corte ne ha dichiarato l'inammissibilita' con provvedimento del 3.3.2011 n.73, sicche' occorre tornare a proporla ai fini di un nuovo esame. a) Sulla rilevanza della questione prospettata. Prima di esporre gli argomenti a sostegno del dubbio di non manifesta infondatezza della questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 14 comma 4-bis della legge n. 537 del 1993 (nella versione attualmente vigente, identica a quella vigente all'epoca dei fatti) la Commissione reputa necessario indagarne la rilevanza ai fini della soluzione della presente controversia. Sul punto occorre preliminarmente osservare (con la necessaria concisione dettata dalla finalita' del presente provvedimento) che l'appello incidentale proposto dalla societa' Mac Motors - logicamente pregiudiziale - non pare idoneo a consentire di non esaminare nel merito quello principale proposto dall'Agenzia, atteso che la appellante incidentale non lamenta affatto che si sia erroneamente attribuito il carattere fraudolento al complesso meccanismo di transazioni commerciali intracomunitarie a cui la medesima Mac Motors oggettivamente ha partecipato, ma lamenta che non esista prova positiva in ordine alla propria partecipazione attiva all'anzidetto meccanismo ovvero almeno alla consapevolezza della predisposizione di un siffatto sistema da parte delle terze ditte, tra le quali essa Mac Motors aveva sostanzialmente assunto il ruolo di' interposta. Sul punto infatti sono dirimenti le considerazioni gia' fatte proprie dalla Commissione di primo grado, in ragione del fatto che la esperienza maturata dalla Mac Motors nello specifico settore commerciale non rende prospettabile in alcun modo che alla stessa possa essere stata ignota o non conoscibile con l'uso dell'ordinaria diligenza la finalita' di evasione fiscale per la quale le plurime transazioni della stessa merce venivano poste in essere, nonostante la loro apparente diseconomicita'. Del pari non assorbenti appaiono gli argomenti di impugnazione riproposti dalla appellante incidentale siccome non esaminati dal primo giudice, apparendo il provvedimento impositivo debitamente motivato, anche in punto di indicazione degli elementi di prova; non apparendo che possano sussistere le valorizzate preclusioni della modalita' "parziale" dell'accertamento espletato dall'Agenzia e non potendo avere incidenza sulla questione qui in esame l'aspetto relativo alla legittima adozione del provvedimento sanzionatorio correlato all'accertamento della maggiore imposta. Cio' posto, occorre dire che indubbia rilevanza assume, nell'ottica dell'esame dell'appello principale, la questione della illegittimita' costituzionale della disciplina piu' volte menzionata, non potendosi dare soluzione alla censura proposta dall'Agenzia senza indagare sulla rispondenza a Costituzione della lettera e della diffusa interpretazione della norma qui in considerazione. Ed invero, la predetta disposizione di legge e' posta dalla parte appellante principale a fondamento della censura che e' proposta nei confronti della decisione adottata dal primo giudice, siccome quest'ultima e' motivata proprio con la attribuzione all'art. 14 in parola di un ambito di limitata applicazione, quale desunto in forza di una interpretazione del suo significato (implicita, per verita') di portata restrittiva. Va detto - a questo proposito - che del diffuso sentire in ordine ad un'ampia lettura applicativa da attribuire alla menzionata disciplina e' interprete in primo luogo la Suprema Corte di Cassazione che - per exemplum - con la sentenza n. 25617-2010 (non massimata sul punto) ha affermato che costituiscono «ipotesi di reato che ne impediscono la deduzione» (dei costi sostenuti) quelle in cui i predetti costi risultino "fittizi in quanto coperti da fatture false e quindi diretta espressione di un comportamento costituente reato ai sensi del d.lgs. n. 74 del 2000, art. 1, comma 1, lett. a), e art. 8», ed ha corroborato espressamente la tesi secondo cui «la indeducibilita' assume connotazione sanzionatoria e quindi non e' a rischio di collisione con il principio di cui all'art. 53 Cost.» (conferma si rinviene poi nella sentenza n. 16750 del 2008, nella quale la Corte ha pure argomentato che «si tratta di un intervento di tipo sanzionatorio che si aggiunge a quelli normalmente previsti per gli illeciti piu' gravi, costituenti reato", ma ha poi qualificato come «sola eccezione alla neutralita' del prelievo fiscale rispetto alla dicotomia liceita'/illiceita'» la indeducibilita' dei costi dei «beni srumetitali» delle attivita' criminali). Anche la prassi applicativa ha proposto una lettura quanto mai ampia della disposizione in parola, giungendo ad assumere (Circolare n.42/E del 26 settembre 2005) che la norma vieta la deducibilita' di costi e spese comunque inerenti all'attivita' e funzionali alla produzione dei relativi proventi, nel caso in cui l'attivita' nel suo complesso ovvero il singolo atto o fatto illecito costituisca un illecito penalmente rilevante»; ed aggiungendo anche che «nel caso in cui l'illiceita' coinvolga solo uno o piu' «fatti o atti» nell'ambito della propria attivita' lecita, l'indeducibilita' riguardera' sia i costi e le spese a questi specificamente afferenti, sia una quota dei costi riconducibili all'attivita' in generale ossia comuni a pini fatti o atti, alcuni leciti e altri illeciti. In tale ultima ipotesi, la quota indeducibile dovra' essere determinata con criteri di proporzionalita' in relazione alla fattispecie esaminata». In questo contesto si e' anche evidenziato che l'indeducibilita' dei costi e' resa addirittura conseguenza necessitata della disciplina relativa alla imponibilita' dei proventi illeciti (comma 4 dell'art. 14 in esame) atteso che - estremizzando - «nel caso in cui l'intera attivita' esercitata dal contribuente rilevi come illecito penale e tutti i proventi siano sottoposti a sequestro o confisca, la deducibilita' dei costi e delle spese in regime di impresa determinerebbe, per assurdo, una perdita fiscale riportabile». Infine, anche la dottrina - per la maggior parte - assume che la disposizione in esame non opera distinguo alcuno fra i diversi tipi di costi da reato, sicche' le spese riferibili ad un illecito penale, di qualsivoglia natura, anche se da esso non si genera un provento tassabile, siano esse strumentali o non strumentali al reato, sono soggette alla censura di indetraibilita'. Nel giudicare la correlazione che esiste tra la previsione del comma dell'art.14 (tassabilita' dei proventi da illecito) e la previsione del comma 4-bis, la dottrina ha messo in evidenza la completa autonomia della seconda previsione rispetto alla prima con il condivisibile argomento secondo cui per disciplinare il trattamento fiscale dei soli costi correlati ai proventi generati da un illecito non sarebbe stato affatto necessario emanare una apposita disposizione, poiche' anche prima dell'inserimento del comma 4-bis nel corpo della disposizione normativa non vi era dubbio alcuno sulla tassabilita' di detti proventi al netto dei costi, e poiche' il riferimento ai soli reati della disposizione del comma 4-bis conferma la totale disomogeneita' delle due distinte previsioni. D'altronde, i sostenitori dell'opposta tesi (quella della complementarieta' tra la previsione del comma 4 e del comma 4-bis menzionati) lamentano solo che il contrario indirizzo darebbe luogo a conseguenze irragionevoli, come: l'eventualita' che diventino indeducibili anche i costi correlati a reati che non abbiano determinato alcuna specifica produzione di reddito; l'eventualita' che si penalizzi l'erogatore del costo che sia correlato ad un reato commesso da un terzo. Ma un siffatto rilievo, se pur correttamente valorizzabile nell'ottica dei criteri previsti dall'art. 12 disp. prel. cod civ, non puo' certamente costituire ragione assorbente per la soluzione della questione di esegesi nella specie qui in esame, a fronte del chiaro tenore letterale delle norme. Ed invero, se il legislatore avesse realmente inteso stabilire una inderogabile correlazione tra la concreta produzione di un provento tassabile per effetto di un atto penalmente illecito e l'indeducibilita' dei costi a detto illecito correlati, non avrebbe omesso di richiamare almeno quella eccezione che - invece - e' stata espressamente formulata nel comma 4, a proposito dei proventi «gia' sottoposti a sequestro o confisca penale». Cio' posto, e ritenuto pertanto di non poter aderire agli argomenti su cui e' fondata - in parte qua - la pronuncia di primo grado (cio' che peraltro e' in linea con la pregressa giurisprudenza di questa Commissione, si veda la sentenza CTR Veneto-sezione staccata di Verona 112/21/10 in data 30 settembre 2010, ove si evidenzia chiaramente che non rileva - ai fini dell'applicazione della disposizione in esame - la distinzione tra costi direttamente funzionali alla condotta qualificabile come reato e costi indirettamente funzionali e neppure rileva la circostanza che il recupero a tassazione dei predetti costi sia operato ai fini delle sole imposte dirette, mentre poi si prospetti un reato esclusivamente correlato alla violazione della specifica disciplina dettata in materia di IVA), a questa Commissione non.:testa che prendere atto della rilevanza ai fini di causa del dubbio di legittimita' costituzionale della norma, senza la soluzione del quale non pare possibile giudicare sulla domanda proposta. b) sulla rilevanza «in concreto» della questione prospettata, anche alla luce del potere di accertamento incidentale del fatto di reato. Sempre in termini di rilevanza, questa Commissione ritiene di dover evidenziare che - benche' nella specie di causa risulti, come gia' si e' detto, che la Meneghello e' stata effettivamente indagata per reati commessi a mezzo della condotta dianzi descritta - e' ragionevole ritenere che questo presupposto storico non sia neppure imprescindibile, attesa la lettera della norma (che parla di «fatti, atti o attivita' qualificabili come reato»), a tenore della quale appare competere alla potesta' del giudice tributario l'accertamento - incidenter tantum - della penale rilevanza del fatto presupposto, anche alla luce della circostanza che -secondo l'assodato e costante indirizzo giurisprudenziale - l'accertamento del giudice penale non fa' stato nel giudizio tributario, sicche' ancor meno puo' farlo (o comunque costituire ragione di coazione delle libere valutazioni del giudice a questo proposito competente) il semplice esercizio dell'azione penale o la semplice trasmissione al P.M. della notizia di reato. Ne' e' possibile supporre che la locuzione finale della norma («fatto salvo l'esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti») possa essere intesa nel senso di un implicito richiamo all'art. 27 comma 2 (l'imputato non e' considerato colpevole sino alla condanna definitiva), con la conseguenza della impossibilita' di fare applicazione della indetraibilita' (e quindi neanche provvisoriamente o cautelarmente) fino al passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna. Invero, il presupposto di detta indetraibilita', come si desume dal tenore complessivo della norma, non e' affatto la condanna adottata nel processo penale (poiche', altrimenti, a quella il legislatore si sarebbe sin dall'inizio riferito) ma la astratta rilevanza penale della condotta finalizzata all'evasione dell'imposta (ovviamente riguardata anche nell'ottica del necessario elemento psicologico, il cui accertamento compete - non meno di quello materiale - al medesimo giudice tributario), nel mentre i diritti costituzionalmente garantiti rilevano qui soltanto come deroga alla disciplina che attribuisce all'amministrazione il potere di avvalersi della declaratoria di indetraibilita' di singole poste di costo. Cio' posto, nella specie di causa si verte nell'ipotesi (riferibile alla disciplina dell'art. 2 del d.lgs. n.74 del 2000) di colui che si e' avvalso di fatture o altri documenti per operazioni (soggettivamente) inesistenti, mediante indicazione in una delle inerenti dichiarazioni annuali, onde valorizzare elementi passivi fittizi, con conseguente evasione dell'IVA o delle imposte sui redditi (circa gli esatti confini di applicazione della fattispecie astratta qui in discorso si e' recentemente espressa Cass. sez. III penale, 16 marzo 2010 n. 10394). Non di meno si verte anche nell'ipotesi (riferibile alla disciplina dell'art.8 del d.lgs. n.74 del 2000) di chi emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni (soggettivamente) inesistenti, al fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto. Ed infatti risulta che la Meneghello non ha solo registrato nella propria contabilita' fatture (passive) utili alla realizzazione del fine ultimo cui mirava il complesso meccanismo fraudolento, ma ha anche a sua volta emesso fatture (attive) non di meno utili a consentire che il complesso meccanismo trovasse un suo positivo esito a mezzo della loro registrazione in contabilita' da parte del cessionario dei beni. Poiche' e' conclamata dalla espressa previsione dell'art. l del d.lgs. n. 74 del 2000 la penale rilevanza del fatto integrante l'inesistenza "soggettiva" della fattura (almeno con riferimento al sistema dell'IVA, ove l'evasione si configura anche in presenza di costi effettivamente sostenuti: in termini Cass. sez. V, 19.1.2010 n.735), e poiche' l'esistenza dell'elemento materiale delle anzidette condotte risulta documentato in causa, non meno dell'esistenza dell'elemento psicologico (quest'ultimo per le considerazioni che sono state dianzi fatte a proposito della impossibilita' che la Meneghello non fosse consapevole di partecipare ad un meccanismo fraudolento) non vi e' ragione di insistere oltre sulla questione della sussistenza del presupposto indefettibile ai fini dell'applicazione dell'art. 14 comma 4-bis alla specie di causa. b.1) Sull'illegittimita' per violazione degli art.3, 25, 27 e 97 della Carta Costituzionale. Se il dubbio di legittimita' costituzionale si palesa - ovviamente - nella considerazione delle aberranti conseguenze cui da luogo la applicazione della menzionata norma del comma 4 bis in qualsivoglia fattispecie (cosi' che per effetto di essa si finisce per tassare una ricchezza inesistente, con inevitabile compromissione dei fondamentali principi di rilevanza primaria) , cio' e' tanto piu' evidente nella fattispecie qui concretamente in esame, nella quale si tratta non gia' di recupero di utili extrabilancio e percio' di diniego di detrazione di costi di cui e' stata omessa la regolare contabilizzazione, ovvero di denegare la detraibilita' delle sanzioni pecuniarie correlate alla commissione del reato, ma bensi' di costi che direttamente funzionali alla creazione di ricavi e percio' (pro quota) del reddito tassato. Ed invero se non c'e' dubbio sul fatto che il costo dell'IVA versata sulla fattura relativa ad operazione soggettivamente inesistente puo' correttamente considerarsi "non inerente" allo svolgimento dell'attivita' istituzionale dell'impresa (ex art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972) in quanto espressione di distrazione verso finalita' ulteriori e diverse, diversamente e' a dirsi per cio' che concerne i costi sostenuti per l'acquisto delle merci che costituiscono l'oggetto materiale della transazione commerciale perche' essi (sia pure sostanzialmente riferibili a soggetto diverso da quello che appare averli sostenuti) concorrono comunque a determinare il reddito complessivo d'impresa, e percio' la base imponibile ai fini dell'imposizione diretta, sulla scorta della quale va parametrata la "capacita' contributiva" dell'imprenditore. Orbene, in materia di imposte dirette la deviazione rispetto ai canoni generali previsti per la determinazione dell'imponibile fiscale (eguale rilevanza dei ricavi e dei costi fiscalmente riconosciuti, sia che derivino da attivita' penalmente lecite che da attivita' penalmente illecite) e' stata da piu' parti giustificata con la necessita' di "amplificazione della sanzione" e percio' con la previsione di una eccezionale tecnica di tassazione al loro dei costi, anzicche' la netto. Ma la postulata "connotazione sanzionatoria" della disciplina (peraltro sempre lasciata priva di - attributi, sicche' non si intende se le sia attribuisca natura, penale, . amministrativa o tributaria) appare francamente non condivisibile, ad un piu' attento esame, non potendosi supporre -da una parte- che possa esistere un prelievo impositivo a titolo "sanzionatorio", per la contraddizione stessa con le ragioni che ispirano l'imposizione tributaria, che e' fondata sul principio della solidarieta'. D'altra parte, neppure e' prospettabile che esista nel nostro ordinamento -improntato al principio di legalita', inteso come tassativita-determinatezza delle norme incriminatrici e sanzionatrici- una norma sanzionatrice (di un fatto che e' caratterizzato dalla sua penale rilevanza) in cui l'ammontare della sanzione (lato sensu pecuniaria) resta indeterminato sia nel minino che nel massimo, sicche' poi detto ammontare non e' neppure proporzionato alla gravita' dell'illecito ma dipende da fattori del tutto casuali, non ultimo il rapporto usuale tra costi e ricavi che - settore per settore - risulta enormemente variabile, si' che (nel complesso) la maggior o minor incidenza dell'indetraibilita' dei costi finisce per essere del tutto indipendente dall'effettivo ammontare dell'imposta evasa. Su entrambi i punti appare dirimente (senza che si entri qui nel riepilogo analitico) la giurisprudenza della Corte costituzionale che si e' venuta formando a far tempo da due emblematiche sentenze: la n. 360 del 1995, in cui e' stato a chiare lettere affermato il principio secondo cui l'offensivita' in astratto deve essere intesa come limite di rango costituzionale alla discrezionalita' del legislatore in materia di previsione delle fattispecie penalmente rilevanti, ed e' stato di conseguenza consacrato il principio secondo cui l'art. 25 della Costituzione postula un ininterrotto operare del principio di offensivita' dal momento dell'astratta predisposizione della norma incriminatrice a quello della sua applicazione concreta da parte del giudice (cui compete soltanto di impedire, con un prudente apprezzamento della lesivita' in concreto, una arbitraria e illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale); la n. 49 del 1989, nella quale la Corte ha affermato che le valutazioni relative alla proporzione tra la pena prevista ed il fatto contemplato rientrano nell'ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio puo' tuttavia essere censurato sotto il profilo della legittimita' costituzionale, in rispetto agli art. 3, 27 e 97 Cost., nei casi in cui non sia stato rispettato il criterio di ragionevolezza, di modo che la sanzione comminata risulti irrazionale ed arbitraria. Non guasta infine rimarcare - per quanto non assuma concreta rilevanza nell'ottica della soluzione della lite pendente avanti a questa Commissione - che la previsione normativa qui in discorso appare anche in conflitto con il principio di personalita' della responsabilita' penale (art. 27 comma 1 Cost) nella parte in cui di fatto determina una conseguenza sanzionatoria automatica ed anche oggettiva (l'indetraibilita' dei costi) in capo agli enti persone giuridiche, per le condotte dei propri amministratori o legali rappresentanti che abbiano realizzato condotte penalmente rilevanti alle quali risultino riconducibili costi o spese di esercizio (almeno nei limiti in cui - secondo l'indirizzo della prassi e della dottrina meno rigoristica - le condotte in questione risultino rivolte ad obbiettivo vantaggio dell'ente persona giuridica). Si conclude percio' nel senso che - anche a voler seguire l'indirizzo che ritiene che la disciplina qui in esame possa considerarsi non confliggente con l'art.53 della Costituzione, attesa la sua natura di norma sanzionatrice-appare comunque non manifestamente infondato il dubbio che essa disciplina entri in conflitto con gli art.3, 25, 27 e 97 della Carta Costituzionale, sicche' - in denegata ipotesi - occorre prospettare anche questo profilo di illegittimita' costituzionale. b.2) Sull'illegittimita' per violazione dell'art. 53 della Carta Costituzionale. La tassazione al lordo di peculiari categorie di costi del reddito (quale che ne sia la categoria, alla luce dell'elencazione contenuta nell'art. 6 comma 1 del T.U. n.917 del 1986) appare insomma confliggere apertamente con i principi generali che regolano le imposte sui redditi e deve essere considerata una disciplina apertamente derogatoria di detti principi. Ed in specie del principio di neutralita' fiscale, il quale imporrebbe la deduzione di ogni costo correlato alla produzione di proventi di ogni genere, leciti od illeciti che essi siano, nel mentre invece la norma qui in parola prescrive la indeducibilita' generale dei costi correlati ad un reato, pur prevedendosi invece nel comma 4 dell'art. 14 menzionato che siano soggetti a tassazione i proventi rinvenienti dalle medesime attivita' penalmente illecite. Ma una siffatta deroga agli ordinari principi in materia di tassazione non sembra possa rientrare nell'alveo della discrezionalita' concessa al legislatore dalla Carta costituzionale ed in particolare dall'art. 53, giacche' determina evidente alterazione dei criteri normativi di quantificazione del tributo a mezzo di una irragionevole amplificazione della base imponibile. Ne consegue che vengono ad essere assoggettate ad imposta somme che non sono espressione della capacita' contributiva dell'impresa, cioe' di quella potenzialita' economica cui deve essere commisurato il prelievo fiscale, e che vengono incluse nel reddito imponibile, sommate alle componenti positive, ivi compresi i proventi derivanti dalle stesse attivita' penalmente rilevanti cui si riferiscono i costi indeducibili. Ne rimane violato il principio di necessaria correlazione tra imposizione e capacita' contributiva, il quale non puo' essere scardinato e reso inefficace a mezzo della ridefinizione di un concetto di' "inerenza" in termini eticamente orientati, e cioe' in termini tali che sia da considerare - per presunzione assoluta- non inerente alla stessa attivita' di (lecito) esercizio dell'impresa tutto cio' che si correli alla commissione di un reato. Poiche' invece e' comune avviso che il concetto di inerenza dei costi e' . mediato dal riferimento all'oggetto dell'attivita' di impresa, e non si qualifica nella correlazione diretta tra ricavi e costi (dei quali sarebbe impossibile predicare una diretta "utilita'", se essi non fossero rapportati all'oggetto dell'attivita' espletata), non e' da credere che anche i costi correlati ad un fatto di reato non corrispondano al «proprium» del concetto di inerenza. E d'altronde, se l'antigiuridicita' (sia penale che di altro genere) non equivale ad irrilevanza tributaria dei redditi che se ne ricavano, altrettanto dovrebbe affermarsi per il componente negativo illecito o derivante da atto illecito, giacche' anch'esso determinante ai fini, del complessivo risultato d'esercizio. Insomma, solo in un ambito estraneo al sistema fiscale potrebbe giustificarsi l'indifferenza al principio dell'art.53 Cost., ma a condizione che ne sussistano le necessarie coperture costituzionali, le quali ultime - invece - questa Commissione suppone mancanti, per come si e' detto nel capo relativo all'analisi della questione di costituzionalita' riferita alla natura "sanzionatoria" della disciplina qui in esame. Rimanendo nell'alveo del sistema propriamente fiscale - in difetto di una esplicita indicazione di estraneita' ad esso che sia desumibile direttamente dalla fonte normativa - le ragioni di genere latu sensu etico o di prevenzione generale ovvero ancora di recupero di base imponibile che e' possibile supporre che presiedano alla scelta legislativa non appaiono giustificare il vulnus al principio fondamentale di garanzia previsto dall'art. 53 Cost. Ed infatti la Corte costituzionale, con la sentenza 103 del 1967 ebbe modo di dichiarare (in materia non dissimile da quella qui in esame) la illegittimita' costituzionale dell'art. 22, comma primo, del d.P.R. 5 luglio 1951, n. 573, per violazione dell'art. 53 Cost., nella parte in cui detta norma, per l'ipotesi di omessa dichiarazione dei redditi soggetti alle imposte dirette, disponeva la maggiorazione del 10 per cento per i redditi mobiliari dichiarati nell'anno precedente, e cio' con l'argomento che «la pura e semplice considerazione di un presumibile ulteriore sviluppo dell'attivita' del contribuente con conseguente aumento del reddito e' inidonea a legittimare la maggiorazione in esame poiche' nessun elemento concreto o indice positivo puo' essere posto a suo fondamento. La norma denunciata preclude al contribuente di dimostrare di aver realizzato un reddito inferiore a quello iscritto a ruolo ed e' del tutto irrazionale estendere tale preclusione all'aumento del 10 per cento». Vi e' quindi senz'altro un limite di razionalita' alla discrezionalita' del legislatore nel campo tributario, limite che positivamente si invera nel precetto dell'art.53 Cost., e detto limite non puo' non operare anche con riferimento alla necessaria rilevanza (in un quadro di determinazione analitica dell'imponibile) di gli elementi negativi del reddito, allorquando essi generano un reddito positivo che resta concretamente sottoposto a tassazione. In conclusione, appare non manifestamente infondato il dubbio che la norma dell'art.14 comma 4-bis della legge n. 537 dei 24 dicembre 1993 possa collidere con i dianzi richiamati articoli della Carta Costituzionale, e cioe' gli art. 3, 25, 27, 53 e 97 (per le ragioni che sono state dianzi analizzate) sicche' si impone la rimessione della questione alla Corte costituzionale, affinche' ne verifichi la fondatezza.
P.Q.M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Sospende il giudizio in corso; Dispone l'immeditata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale a cura della segreteria di questa commissione che provvedera', altresi', alla comunicazione della presente ordinanza alle parti, al Presidente del Consiglio dei ministri, nonche' ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Verona, addi' 11 aprile 2011 Il Presidente relatore: Caracciolo