N. 247 SENTENZA 20 - 25 luglio 2011

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Imposte e tasse - Imposta sul valore aggiunto (IVA) - Termini per  la
  notifica degli avvisi di rettifica o  di  accertamento  -  Eccepita
  inammissibilita'  della  questione  per  omessa   o   insufficiente
  motivazione sulla rilevanza delle questioni - Reiezione. 
- D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, combinato  disposto  dell'art.  57,
  terzo comma, come inserito dall'art.  37,  comma  25,  del  d.l.  4
  luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, nella  legge  4
  agosto 2006, n. 248, e dell'art. 37, comma 26, del  d.l.  4  luglio
  2006, n. 223. 
- Costituzione, artt. 3, 24, 25 e 97; legge 27 luglio 2000,  n.  212,
  art. 3, comma 3. 
Imposte e tasse - Imposta sul valore aggiunto (IVA) - Termini per  la
  notifica degli avvisi di rettifica o  di  accertamento  -  Eccepita
  inammissibilita' della questione per irrilevanza - Reiezione. 
- D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, combinato  disposto  dell'art.  57,
  terzo comma, come inserito dall'art.  37,  comma  25,  del  d.l.  4
  luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, nella  legge  4
  agosto 2006, n. 248, e dell'art. 37, comma 26, del  d.l.  4  luglio
  2006, n. 223. 
- Costituzione, artt. 3, 24, 25 e 97; legge 27 luglio 2000,  n.  212,
  art. 3, comma 3. 
Imposte e tasse - Imposta sul valore aggiunto (IVA) - Termini per  la
  notifica degli avvisi di rettifica o  di  accertamento  -  Eccepita
  inammissibilita' della questione per omessa individuazione ad opera
  del rimettente di  una  interpretazione conforme  a  Costituzione -
  Reiezione. 
- D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, combinato  disposto  dell'art.  57,
  terzo comma, come inserito dall'art.  37,  comma  25,  del  d.l.  4
  luglio 2006, n. 223, convertito nella legge 4 agosto 2006, n.  248,
  e dell'art. 37, comma 26, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223. 
- Costituzione, artt. 3, 24, 25 e 97; legge 27 luglio 2000,  n.  212,
  art. 3, comma 3. 
Imposte e tasse - Imposta sul valore aggiunto (IVA) - Termini per  la
  notifica degli avvisi di rettifica o di  accertamento  -  Raddoppio
  del termine ordinario in caso di violazione che comporta obbligo di
  denuncia ai sensi dell'art. 331 c.p.p. per uno dei  reati  previsti
  dal d.lgs. 10  marzo  2000,  n.  74  -  Ritenuta  violazione  della
  disposizione di  legge  che  esclude  la  proroga  dei  termini  di
  prescrizione e di decadenza  per  gli  accertamenti  di  imposta  -
  Questione riferita a parametro  privo  di  rango  costituzionale  -
  Inammissibilita' della questione. 
- D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, combinato  disposto  dell'art.  57,
  terzo comma, come inserito dall'art.  37,  comma  25,  del  d.l.  4
  luglio 2006, n. 223, convertito nella legge 4 agosto 2006, n.  248,
  e dell'art. 37, comma 26, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223. 
- Legge 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, comma 3. 
Imposte e tasse - Imposta sul valore aggiunto (IVA) - Termini per  la
  notifica degli avvisi di rettifica o di  accertamento  -  Raddoppio
  del termine ordinario in caso di violazione che comporta obbligo di
  denuncia ai sensi dell'art. 331 c.p.p. per uno dei  reati  previsti
  dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 - Ritenuta lesione del  diritto  di
  difesa  del  contribuente  e  dei   principi   di   eguaglianza   e
  ragionevolezza per ritenuta  intervenuta  proroga  dei  termini  di
  prescrizione e di decadenza  per  gli  accertamenti  di  imposta  -
  Erroneo presupposto interpretativo della normativa censurata -  Non
  fondatezza della questione. 
- D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, combinato  disposto  dell'art.  57,
  terzo comma, come inserito dall'art.  37,  comma  25,  del  d.l.  4
  luglio 2006, n. 223, convertito nella legge 4 agosto 2006, n.  248,
  e dell'art. 37, comma 26, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223. 
- Costituzione, artt. 3 e 24. 
Imposte e tasse - Imposta sul valore aggiunto (IVA) - Termini per  la
  notifica degli avvisi di rettifica o di  accertamento  -  Raddoppio
  del termine ordinario in caso di violazione che comporta obbligo di
  denuncia ai sensi dell'art. 331 c.p.p. per uno dei  reati  previsti
  dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 - Ritenuta lesione del  diritto  di
  difesa del contribuente - Erroneo presupposto interpretativo  della
  normativa censurata - Non fondatezza della questione. 
- D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, combinato  disposto  dell'art.  57,
  terzo comma, come inserito dall'art.  37,  comma  25,  del  d.l.  4
  luglio 2006, n. 223, convertito nella legge 4 agosto 2006, n.  248,
  e dell'art. 37, comma 26, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223. 
- Costituzione, art. 24. 
Imposte e tasse - Imposta sul valore aggiunto (IVA) - Termini per  la
  notifica degli avvisi di rettifica o di  accertamento  -  Raddoppio
  del termine ordinario in caso di violazione che comporta obbligo di
  denuncia ai sensi dell'art. 331 c.p.p. per uno dei  reati  previsti
  dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 - Ritenuta  irragionevolezza  della
  disposizione denunciata con lesione dei principi di imparzialita' e
  di buon andamento - Esclusione - Non fondatezza della questione. 
- D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, combinato  disposto  dell'art.  57,
  terzo comma, come inserito dall'art.  37,  comma  25,  del  d.l.  4
  luglio 2006, n. 223, convertito nella legge 4 agosto 2006, n.  248,
  e dell'art. 37, comma 26, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223. 
- Costituzione, artt. 3 e 97. 
Imposte e tasse - Imposta sul valore aggiunto (IVA) - Termini per  la
  notifica degli avvisi di rettifica o di  accertamento  -  Raddoppio
  del termine ordinario in caso di violazione che comporta obbligo di
  denuncia ai sensi dell'art. 331 c.p.p. per uno dei  reati  previsti
  dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 - Ritenuta irragionevole disparita'
  di trattamento - Esclusione - Non fondatezza della questione. 
- D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, combinato  disposto  dell'art.  57,
  terzo comma, come inserito dall'art.  37,  comma  25,  del  d.l.  4
  luglio 2006, n. 223, convertito nella legge 4 agosto 2006, n.  248,
  e dell'art. 37, comma 26, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223. 
- Costituzione, art. 3. 
Imposte e tasse - Imposta sul valore aggiunto (IVA) - Termini per  la
  notifica degli avvisi di rettifica o di  accertamento  -  Raddoppio
  del termine ordinario in caso di violazione che comporta obbligo di
  denuncia ai sensi dell'art. 331 c.p.p. per uno dei  reati  previsti
  dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 - Ritenuta violazione del principio
  della irretroattivita' della sanzione penale  -  Esclusione  -  Non
  fondatezza della questione. 
- D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, combinato  disposto  dell'art.  57,
  terzo comma, come inserito dall'art.  37,  comma  25,  del  d.l.  4
  luglio 2006, n. 223, convertito nella legge 4 agosto 2006, n.  248,
  e dell'art. 37, comma 26, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223. 
- Costituzione, art. 25. 
(GU n.32 del 27-7-2011 )
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente: Alfonso QUARANTA; 
Giudici: Alfio FINOCCHIARO, Franco  GALLO,  Luigi  MAZZELLA,  Gaetano
  SILVESTRI,  Sabino   CASSESE,   Giuseppe   TESAURO,   Paolo   Maria
  NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO,  Alessandro  CRISCUOLO,  Paolo  GROSSI,
  Giorgio LATTANZI; 
ha pronunciato la seguente 
 
                              Sentenza 
 
nel giudizio di legittimita' costituzionale  del  combinato  disposto
del terzo  comma  dell'art.  57  del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica  26  ottobre  1972,  n.  633  (Istituzione  e   disciplina
dell'imposta sul valore aggiunto)  -  comma  inserito  dal  comma  25
dell'art.  37  del  decreto-legge  del  4   luglio   2006,   n.   223
(Disposizioni urgenti per il rilancio economico  e  sociale,  per  il
contenimento e la razionalizzazione  della  spesa  pubblica,  nonche'
interventi  in  materia  di  entrate  e  di  contrasto   all'evasione
fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4  agosto  2006,
n. 248 - e del comma 26 dell'art. 37 del  decreto-legge  n.  223  del
2006, promosso dalla Commissione tributaria  provinciale  di  Napoli,
nel corso di due giudizi riuniti vertenti tra  la  ricorrente  s.r.l.
Dagar e la resistente Agenzia delle entrate,  ufficio  di  Nola,  con
ordinanza depositata il 29  aprile  2010,  iscritta  al  n.  266  del
registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 39, 1ª serie speciale, dell'anno 2010. 
    Visti l'atto di costituzione  della  s.r.l.  Dagar  e  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica del 5 luglio 2011 il Giudice relatore
Franco Gallo; 
    uditi gli avvocati Livia Salvini e Mario Papa per la s.r.l. Dagar
nonche' l'avvocato dello Stato Sergio Fiorentino  per  il  Presidente
del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Nel corso di due giudizi riuniti promossi da una societa'  a
responsabilita'  limitata  avverso   due   avvisi   di   accertamento
dell'imposta sul valore aggiunto (IVA) riguardanti,  rispettivamente,
gli anni 2002  e  2003,  la  Commissione  tributaria  provinciale  di
Napoli, con ordinanza depositata il 29 aprile 2010, ha sollevato,  in
riferimento agli artt. 3, 24, 25  e  97  della  Costituzione  nonche'
all'art. 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni
in materia di statuto dei diritti  del  contribuente),  questioni  di
legittimita' dell'art. 57 del decreto del Presidente della Repubblica
del 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione  e  disciplina  dell'imposta
sul valore aggiunto), quale modificato dal comma 25 dell'art. 37  del
decreto-legge del 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per  il
rilancio  economico   e   sociale,   per   il   contenimento   e   la
razionalizzazione della spesa pubblica, nonche' interventi in materia
di entrate e di  contrasto  all'evasione  fiscale),  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248,  in  vigore  dal  4
luglio 2006 [recte: del combinato disposto del terzo comma  dell'art.
57 del d.P.R. n. 633 del 1972 - comma inserito dal comma 25 dell'art.
37 del decreto-legge n. 223 del 2006 - e del comma  26  dell'art.  37
del medesimo decreto-legge n. 223 del 2006]. 
    Il censurato terzo comma del citato art. 57 del d.P.R. n. 633 del
1972, nel testo in vigore dal 4 luglio 2006, stabilisce che, «In caso
di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell'art. 331
del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto
legislativo 10  marzo  2000,  n.  74,  i  termini  di  cui  ai  commi
precedenti [cioe', nel testo  applicabile  ratione  temporis  ai  due
suddetti periodi d'imposta in contestazione: in caso di presentazione
della dichiarazione, entro il 31 dicembre del quarto anno  successivo
a quello di presentazione della dichiarazione, aumentato -  nel  caso
di  richiesta  di  rimborso   dell'eccedenza   d'imposta   detraibile
risultante dalla dichiarazione - di un periodo di tempo pari a quello
compreso  tra  il  sedicesimo   giorno   successivo   a   quello   di
notificazione della richiesta di documenti da parte dell'ufficio e la
data di consegna di tali documenti; in caso di  omessa  presentazione
della dichiarazione, entro il 31 dicembre del quinto anno  successivo
a quello in cui la dichiarazione avrebbe  dovuto  essere  presentata]
sono raddoppiati relativamente al periodo d'imposta in cui  e'  stata
commessa la violazione».  Inoltre,  il  comma  26  dell'art.  37  del
decreto-legge n. 223 del 2006 prevede che «Le disposizioni di cui  ai
commi 24 [relativo alle imposte sui redditi] e 25 [relativo  all'IVA]
si applicano a decorrere dal periodo d'imposta per il quale alla data
di entrata in vigore del presente  decreto  sono  ancora  pendenti  i
termini di cui al primo e secondo comma dell'art. 43  del  d.P.R.  29
settembre  1973,  n.  600  [relativo  alle  imposte  sui  redditi]  e
dell'art. 57 del d.P.R. 26  ottobre  1972,  n.  633  [relativo,  come
visto, all'IVA]». 
    Tali disposizioni sono denunciate, in base a quanto espressamente
indicato nel dispositivo dell'ordinanza di rimessione, nella parte in
cui non prevedono che, in presenza delle ipotesi  di  reato  previste
dal d.lgs. n. 74 del 2000: 1) la normativa sia applicabile solo  alle
annualita' successive al 2006, anno nel quale sono entrati in  vigore
i commi 25 e 26 dell'art. 37 del decreto-legge n. 223  del  2006;  2)
«l'eventuale denuncia» ai sensi dell'art. 331 cod. proc.  pen.  debba
essere presentata anteriormente allo spirare dei termini  di  cui  ai
primi due commi dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972. 
    1.1. - Secondo quanto premesso, in punto di  fatto,  dal  giudice
rimettente: a) la societa' aveva richiesto la definizione  automatica
dell'IVA "per gli anni pregressi" 2001 e 2002, ai sensi  dell'art.  9
della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la  formazione
del bilancio annuale e pluriennale dello Stato  -  legge  finanziaria
2003), ed aveva utilizzato negli anni successivi il credito di  € 146
milioni, risultante  dalla  dichiarazione,  per  compensare  l'IVA  a
debito relativa ad anticipi su forniture fatturate ad altra  societa'
dello stesso gruppo; b) l'Agenzia  delle  entrate  aveva  apposto  un
diniego alla suddetta domanda di definizione agevolata  dei  rapporti
tributari,  affermando  che  la  dichiarazione  di  condono  non  era
comprensiva di tutti i periodi di imposta  ancora  accertabili,  come
invece  richiesto  dalla  legge;   c)   la   Commissione   tributaria
provinciale di Napoli, con sentenza n. 185/02/09 del 31  marzo  2009,
aveva accolto  l'impugnazione  della  societa'  avverso  il  suddetto
diniego di condono;  d)  l'Agenzia  delle  entrate,  con  due  avvisi
notificati il 18  novembre  2008,  aveva  proceduto  all'accertamento
dell'IVA dovuta dalla societa', rispettivamente, per gli anni 2002  e
2003, basandosi su una verifica della Guardia  di  finanza  (delegata
dalla Procura della Repubblica  presso  il  Tribunale  di  Nola),  la
quale, con processo verbale di  constatazione  del  25  luglio  2008,
aveva ritenuto sussistere alcuni reati previsti dal d.lgs. n. 74  del
2000, perche', da un lato, aveva rilevato, per l'anno  2002,  che  la
dichiarazione dell'IVA conteneva l'indicazione di «operazioni passive
fittizie»,  con  conseguente  inesistenza  del   credito   tributario
dichiarato dalla contribuente, e, dall'altro, aveva  contestato,  per
l'anno 2003, le operazioni effettuate dalla stessa  contribuente  con
un'altra societa' del gruppo al fine di trasferire a quest'ultima una
parte dell'inesistente credito risultante dalle dichiarazioni; e)  la
societa' destinataria degli avvisi di accertamento li aveva impugnati
con  distinti  ricorsi,   deducendo,   in   primo   luogo,   che   il
perfezionamento del  condono  aveva  precluso  la  possibilita',  per
l'Amministrazione finanziaria, di effettuare gli accertamenti di  cui
agli impugnati avvisi; in secondo luogo, che non era  applicabile,  a
favore dell'Amministrazione  finanziaria,  la  proroga  biennale  dei
termini per l'accertamento prevista dall'art. 10 della legge  n.  289
del 2002 in favore  dei  contribuenti  che  non  si  avvalgano  delle
disposizioni concernenti i condoni previsti dagli articoli da 7  a  9
della stessa legge; in terzo luogo, che il terzo comma  dell'art.  57
del d.P.R. n. 633 del 1972, se inteso  nel  senso  che  consente  «la
riapertura dei termini di accertamento con riferimento ad  annualita'
ormai "cristallizzate" e "stabilizzate"», si pone in contrasto con la
Costituzione; in quarto luogo, che gli avvisi  erano  invalidi  anche
per ulteriori e subordinati motivi, dettagliatamente specificati  nei
ricorsi; f) la resistente Agenzia delle  entrate  aveva  obiettato  a
tali motivi di impugnazione, in primo  luogo,  che  la  richiesta  di
definizione automatica non aveva prodotto effetti,  perche'  non  era
comprensiva  di  tutte  le  annualita'  d'imposta  e,  pertanto,  non
precludeva gli accertamenti; in secondo luogo, che la  normativa  sul
raddoppio dei termini di accertamento non violava la Costituzione; in
terzo luogo, che gli altri motivi di ricorso non erano fondati; g)  i
giudizi instaurati con i due ricorsi erano stati riuniti. 
    1.2. -  Su  tali  premesse,  il  giudice  a  quo  deduce  che  le
disposizioni denunciate violano: a) gli artt. 3 e 24  Cost.,  nonche'
l'art.  3,  ultimo  comma,  della  legge  27  luglio  2000,  n.   212
(Disposizioni in materia di statuto dei diritti del  contribuente)  -
in quanto applicativo degli artt. 3, 23, 53 e  97  Cost.  -,  perche'
irragionevolmente prorogano o riaprono, per  gli  accertamenti  delle
imposte,  termini  di  decadenza  ormai  «scaduti»,   cosi'   ledendo
l'esigenza di «certezza dei rapporti  giuridici»  ed  il  diritto  di
difesa dei contribuenti; b) l'art.  24  Cost.,  perche'  la  denuncia
penale, se  proposta  dopo  il  decorso  degli  ordinari  termini  di
decadenza, potrebbe intervenire quando il contribuente, ritenendo non
piu' accertabile il rapporto tributario, non  sia  piu'  in  possesso
delle scritture e dei documenti contabili (che, ai sensi dell'art. 22
del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e'  tenuto  a  conservare  fino
alla  definizione  degli  accertamenti  relativi  al   corrispondente
periodo  d'imposta);  c)  lo  stesso  art.  24  Cost.,  perche',  non
prevedendo un «ragionevole» ed «oggettivamente  determinato»  termine
di notificazione dell'atto impositivo  e  consentendo  «una  distanza
eccessiva  tra  il  fatto  e  la   contestazione»,   comportano   una
«indeterminata soggezione del contribuente all'azione  esecutiva  del
fisco» e, quindi, vanificano la difesa del contribuente; d) gli artt.
3 e 97 Cost., perche', non condizionando il raddoppio dei termini ne'
all'avvio dell'azione penale prima del decorso degli ordinari termini
di  decadenza  dall'accertamento  ne'  all'esito  di   tale   azione,
attribuiscono all'amministrazione finanziaria − irragionevolmente  ed
in contrasto con i principi di imparzialita' e di buon andamento − il
potere discrezionale di estendere  i  termini  dell'accertamento,  in
base ad una soggettiva  e  non  controllabile  valutazione  circa  la
necessita' di presentare denuncia penale per violazioni ricondotte ad
ipotesi  di  reato,  «magari  su  elementi  puramente   indiziari   e
strumentalmente   enfatizzati»;   e)   l'art.   3   Cost.,   perche',
«consentendo    discipline    differenziate    per    la     notifica
dell'accertamento», introducono «irragionevoli elementi di disparita'
di trattamento»; f) l'art. 25 Cost., perche', in presenza di  ipotesi
di reato previste dal d.lgs. n. 74 del  2000  per  le  quali  vi  sia
l'obbligo  di  denuncia,  rendono  retroattivamente  applicabile   la
sanzione del raddoppio dei termini per l'accertamento dell'imposta. 
    1.3.  -  Quanto  alla  rilevanza  delle  questioni,  il   giudice
rimettente afferma che, nella specie, sono  state  riscontrate  dalla
Guardia di finanza ipotesi di reato previste dal  d.lgs.  n.  74  del
2000 per le quali vi e' l'obbligo di denuncia  e  che  pertanto,  nei
giudizi  principali  riuniti,   occorre   fare   applicazione   delle
disposizioni denunciate. A quest'ultimo  riguardo  precisa  che  tali
disposizioni sono entrate in vigore anteriormente alla  scadenza  del
termine ordinario per gli avvisi di accertamento impugnati. 
    2. -  La  societa'  a  responsabilita'  limitata  ricorrente  nei
giudizi riuniti a quibus si e' costituita in giudizio  aderendo  alla
prospettazione del rimettente e deducendo, pertanto, la fondatezza  e
la rilevanza delle sollevate questioni. 
    2.1. - La  fondatezza  deriverebbe  dalla  natura  retroattiva  e
sanzionatoria    delle    disposizioni    denunciate,    le     quali
comporterebbero,   per   effetto   di   una   valutazione   meramente
discrezionale ed incontrollabile dell'amministrazione finanziaria, la
reviviscenza o  la  proroga  di  poteri  di  accertamento  fiscali  e
comunque  la  soggezione  del  contribuente  all'azione   accertativa
dell'erario per periodi di tempo indefiniti od eccessivamente lunghi. 
    Al riguardo, la parte afferma che la disciplina  denunciata,  ove
ricorra l'obbligo di denuncia dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del
2000, consente - in contrasto con  gli  artt.  3  e  24  Cost.  -  la
«reviviscenza» di poteri accertativi «gia' esauriti» per decorso  dei
termini decadenziali ordinari fissati dai primi due  commi  dell'art.
57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per l'accertamento dell'IVA o  comunque
la loro «proroga». A  suo  avviso,  tale  ampliamento  temporale  dei
poteri di accertamento non soddisfarebbe alle due condizioni  che  la
giurisprudenza   della   Corte   costituzionale   richiede   per   la
legittimita'   costituzionale   delle   norme   che   prevedono    il
prolungamento di termini  di  accertamento  fiscale  gia'  scaduti  o
ancora pendenti: e cioe', da un lato, la sussistenza di  un'obiettiva
esigenza di razionalizzazione, al fine di fronteggiare una situazione
contingente, eccezionale, straordinaria e generale, e, dall'altro, la
possibilita' per il contribuente di esercitare il proprio diritto  di
difesa, senza subire limitazione alcuna (vengono citate  le  sentenze
n. 356 del 2008 e n.  238  del  1984).  Nella  specie,  infatti,  non
ricorrerebbe alcuna situazione eccezionale idonea a  giustificare  la
normativa censurata. Tale difetto di  eccezionalita'  sarebbe  ancora
piu' evidente ove il prolungamento dei  termini  di  accertamento  si
ritenesse applicabile - come sostiene l'amministrazione finanziaria -
non solo in relazione a fatti di  rilievo  penale  ed  agli  elementi
acquisiti in sede penale, ma anche  per  «le  ipotesi  di  violazioni
fiscali [...] verificabili nel termine ordinario e [...]  estranee  a
quelle correlate al  fatto  costituente  il  reato».  Da  tutto  cio'
deriverebbe, sempre a parere della suddetta societa',  la  violazione
del principio della certezza dei rapporti giuridici e, per l'effetto,
la lesione del  diritto  di  difesa  del  contribuente.  La  medesima
societa' riferisce che, proprio per tali ragioni, con «atto prot.  n.
1089/09 del 19 novembre 2009», il Garante  del  contribuente  per  la
Regione Campania  -  adito  proprio  in  relazione  alla  fattispecie
oggetto del  giudizio  principale  -  ha  ritenuto  illegittimo,  per
l'amministrazione finanziaria, «iniziare o procedere in operazioni di
verifica o di controllo  concernenti  periodi  d'imposta  coperti  da
decadenza  ordinaria».  In  definitiva,  per  la   contribuente,   la
disposizione   denunciata   e'   illegittima,   perche'    «la    sua
irretroattivita'  [lapsus  calami  per  «retroattivita'»]  reca   una
irragionevole  lesione  a  valori  e   interessi   costituzionalmente
protetti (quali il  diritto  di  difesa,  la  certezza  dei  rapporti
giuridici,  il   legittimo   affidamento,   il   buon   andamento   e
l'imparzialita' della P.A. [...]». 
    2.1.2.  -  La  contribuente  deduce,  poi,  che  la  disposizione
denunciata, estendendo i termini di  accertamento  fiscale  oltre  il
limite temporale dell'obbligo di conservazione  della  documentazione
contabile previsto dall'art. 22 del d.P.R. n. 600 del  1973  (che  lo
fissa  fino  alla  definizione   degli   accertamenti   relativi   al
corrispondente periodo d'imposta), «assoggetta il contribuente ad  un
pregiudizio nella sua difesa», in violazione dell'art. 24 Cost. Nella
specie, il pregiudizio deriverebbe  dalla  «reviviscenza,  a  termine
gia' spirato, del potere di accertamento»,  in  quanto  -  sempre  ad
avviso della parte - il termine era scaduto nel 2006 e nel 2007 per i
periodi d'imposta rispettivamente del 2001 e del 2002 e, quindi,  non
v'era piu' l'obbligo  di  conservare  le  scritture  contabili  e  le
fatture relative a detti periodi, «non  solo  quando  la  Guardia  di
finanza aveva richiesto tali scritture (maggio 2008), ma anche quando
era stato effettuato il primo accesso (aprile  2008),  e  tanto  piu'
quando era stato inoltrato rapporto all'a.g.o. penale (giugno 2008)». 
    2.1.3. - L'indicata  societa'  a  responsabilita'  limitata,  con
riferimento alla lesione dell'art. 24  Cost.  (prospettata  sotto  il
profilo  dell'eccessivita'  ed  imprevedibilita'  del  raddoppio  dei
termini  di  accertamento),  pone   in   rilievo   che   l'incertezza
dell'estensione temporale del potere accertativo  deriva  dalla  mera
eventualita' dell'emersione, secondo l'opinione  dell'amministrazione
finanziaria, di un delitto previsto dal d.lgs. n. 74 del 2000,  cioe'
da una circostanza  "casuale",  non  oggettiva,  imprevedibile,  «del
tutto  eventuale,  incerta  e  comunque  indipendente   dal   dominio
dell'accertato», in quanto rimessa - per effetto del sopra menzionato
regime di autonomia tra  processo  penale  e  tributario  (cosiddetto
«doppio binario») - alla sola valutazione discrezionale della  stessa
amministrazione  procedente.  La  parte  ammette  che   «il   Giudice
tributario, quale organo di controllo della legittimita'  dell'azione
accertativa, una volta adito dal contribuente, potra' ritenere  [...]
insussistente il  presupposto  del  raddoppio  dei  termini  [...]  a
prescindere dagli esiti del parallelo giudizio penale  [...]  e,  per
l'effetto, annullare gli avvisi emessi dall'Agenzia  delle  Entrate».
La stessa parte aggiunge, tuttavia, che  «cio'  non  vale  a  rendere
ragionevole il potere accertativo» di cui alle disposizioni censurate
e ad evitare che l'imprevedibilita' e l'eccessiva durata del  termine
da esse previsto ledano il diritto di difesa del  contribuente,  data
la «dignita' costituzionale dell'esigenza del contribuente ad  essere
assoggettato  ad  un  termine  non  eccessivamente  lungo»   (vengono
richiamate, in relazione a tale principio, le  sentenze  della  Corte
costituzionale n. 11 del 2008 e n. 280 del  2005).  Tale  conclusione
sarebbe avvalorata dalla consolidata giurisprudenza  della  Corte  di
cassazione concernente l'art. 84 del d.P.R. n. 431  del  1973  (Testo
unico in materia doganale), il quale, ad avviso della medesima parte,
«presenta forti analogie» rispetto a quella censurata, disponendo che
«L'azione dello Stato per la  riscossione  dei  diritti  doganali  si
prescrive nel termine di tre anni. [...] Qualora il mancato pagamento
[...] dei diritti abbia causa da un reato, il termine di prescrizione
decorre dalla data in cui il decreto o la sentenza,  pronunciati  nel
procedimento penale, sono  divenuti  irrevocabili».  La  contribuente
sottolinea che la Suprema Corte di cassazione (ex plurimis,  sentenza
n. 9773 del 2010), al fine di evitare che il termine di revisione dei
dazi sia «privo di riferimento temporale e dilatabile  all'infinito»,
interpreta il citato art. 84 del testo unico doganale nel  senso  che
la proroga del termine triennale puo' operare  solo  ove  la  notitia
criminis che ne costituisce il presupposto «sia intervenuta nel corso
di tale  termine  e  non  dopo  la  sua  scadenza  (ancorche'  l'atto
accertativo   possa   essere   notificato   dopo)».   Nell'atto    di
costituzione, la parte osserva che - a differenza di quanto  previsto
in via generale per il procedimento amministrativo dall'art. 2  della
legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia  di  procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) -
non sussiste  alcun  obbligo  per  l'amministrazione  finanziaria  di
concludere  il  procedimento  di  accertamento   entro   un   termine
prefissato rispetto all'inizio dell'istruttoria. Da cio' la  suddetta
societa' trae la conseguenza che l'«unico baluardo  di  garanzia  per
l'accertamento  e'  il  rispetto  del  termine   decadenziale   posto
dall'art. 57 del  d.P.R.  n.  633/1972  (e,  ai  fini  delle  imposte
dirette, dall'art. 43 del d.P.R. n. 600/1973)» e  che,  pertanto,  il
legislatore, modificando tali disposizioni e, quindi,  incidendo  sul
diritto di difesa del contribuente, avrebbe dovuto «ben ponderare  la
misura del  [...]  bilanciamento  con  gli  interessi  contrapposti»,
introducendo  una  disciplina  rispettosa  di  quei   «caratteri   di
certezza, adeguatezza e proporzione» che costituiscono il «corollario
imprescindibile» di quel diritto. 
    2.1.4. - In riferimento alla violazione degli artt. 3 e 97 Cost.,
la contribuente, sempre  a  sostegno  dell'ordinanza  di  rimessione,
osserva che il censurato terzo comma dell'art. 57 del d.P.R.  n.  633
del 1972 non puo' essere  inteso  nel  senso  che  il  raddoppio  dei
termini  di  accertamento  presupponga  un  accertamento   giudiziale
definitivo del reato, perche' tale interpretazione e' impedita  dalla
vigenza  del  principio   del   cosiddetto   «doppio   binario»   tra
accertamento penale e tributario, comportante  l'inesistenza  sia  di
una pregiudiziale penale nell'accertamento delle  violazioni  fiscali
(art. 654 cod. proc. pen.; art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000; art. 12
del decreto-legge 10 luglio 1982,  n.  429,  recante  «Norme  per  la
repressione della evasione in materia di imposte sui  redditi  e  sul
valore aggiunto e per agevolare  la  definizione  delle  pendenze  in
materia tributaria», convertito, con  modificazioni,  dalla  legge  7
agosto  1982,  n.  516),  sia   di   una   pregiudiziale   tributaria
nell'accertamento  delle   violazioni   penali   (venuta   meno   con
l'abrogazione, ad opera del citato decreto-legge  n.  429  del  1982,
dell'ultimo comma dell'art. 21 della legge  7  gennaio  1929,  n.  4,
recante «Norme generali per la  repressione  delle  violazioni  delle
leggi finanziarie»). Poiche' ne' l'amministrazione finanziaria ne' il
giudice tributario sono  vincolati  ai  provvedimenti  dell'autorita'
giudiziaria   penale,   siano   essi    favorevoli    (archiviazione;
declaratoria di prescrizione; assoluzione nel merito)  o  sfavorevoli
al contribuente, ne deriva - prosegue la societa' - che il denunciato
raddoppio dei termini consegue ad una  valutazione  irragionevolmente
lasciata all'amministrazione finanziaria, la  quale,  esercitando  un
«potere [...] abnorme» e non  disinteressato,  puo'  ravvisare  nella
fattispecie da essa esaminata uno o piu' reati previsti dal d.lgs. n.
74  del  2000,  per  effetto  di  «mere  congetture»,   secondo   una
«discrezionalita'  [...]  libera  di  trasmodare  in   arbitrio,   o,
comunque,  di  risolversi  in  una  scelta  libera  e  svincolata  da
valutazioni    comparative».    La     prospettata     illegittimita'
costituzionale  sarebbe,  dunque,  palese,   «tanto   laddove   [...]
l'applicabilita'» della disposizione censurata si  «ricolleghi  [...]
alla  sola  denunzia,  quanto  laddove  l'A.F.  mantenga  un   potere
discrezionale in ordine alla valutazione  del  fatto  di  reato».  In
particolare, ove si ritenesse che l'obbligo  di  denuncia  sorga  non
appena il pubblico ufficiale  ravvisi  il  fumus  di  un  reato,  con
l'esclusione di ogni sua valutazione sulla  ricorrenza  di  cause  di
estinzione del reato o di non punibilita' diverse dalla insussistenza
del fatto (secondo quanto precisato da varie decisioni della Corte di
cassazione    penale),    l'illegittimita'    costituzionale    delle
disposizioni censurate deriverebbe dal fatto  che  «si  attribuirebbe
all'Amministrazione   il   potere-obbligo   di   "autogenerare"    il
presupposto di estensione (o addirittura di reviviscenza) del proprio
potere di accertamento». Ove,  invece,  «in  linea  con  la  dottrina
maggioritaria»,  si  riservasse  un   margine   di   discrezionalita'
valutativa all'amministrazione finanziaria, cosi' da  consentirle  di
non denunciare quei «fatti [...] che, con un minimo di  indagine,  si
rivelino  prima  facie  penalmente   irrilevanti»,   l'illegittimita'
conseguirebbe al fatto che tale amministrazione verrebbe  a  trovarsi
«in un  palese  conflitto  di  interessi»,  posto  che  il  suo  fine
istituzionale  e'  quello  di  «perseguire  il  massimo  livello   di
adempimento  degli  obblighi   fiscali»   (art.   2   dello   statuto
dell'Agenzia  delle  entrate).  Ne',  secondo  la   medesima   parte,
l'illegittimita'  sarebbe  evitata   dalla   possibilita',   per   il
contribuente, di far sindacare dal giudice tributario la  sussistenza
del presupposto per il raddoppio dei termini di accertamento. E  cio'
per la duplice ragione che: a) il ricorso tributario  costituisce  un
non  necessario  aggravio,  ragionevolmente  evitabile  mediante   la
predisposizione di norme recanti termini certi per l'accertamento; b)
il giudice tributario non e' in grado di effettuare  con  completezza
il predetto sindacato, perche' non puo' conoscere in  via  principale
della sussistenza del reato sia per i limiti di  prova  del  processo
tributario sia per il divieto di estensione della  giurisdizione  dei
giudici speciali stabilito dalla VI disposizione transitoria e finale
della Costituzione. 
    2.1.5. - Per quanto attiene alla violazione dell'art. 3 Cost. per
ingiustificata  disparita'   di   trattamento   nei   confronti   dei
contribuenti in ordine ai termini di notificazione dell'accertamento,
la  contribuente  osserva  che   la   sottolineata   discrezionalita'
dell'amministrazione finanziaria nella valutazione dei fatti di reato
(che puo' portare a determinazioni diverse in casi simili), la natura
meramente "congetturale" della denuncia penale (la quale, di per se',
nulla  prova  in  ordine  alla  commissione  del   fatto   reato)   e
l'assoggettabilita' al termine "lungo" anche per un  fatto  di  reato
riferibile ad un soggetto terzo  (ad  esempio  nell'accertamento  nei
confronti  della  societa'  controllante  per  un  fatto   di   reato
riconducibile  alla  societa'  controllata,  come   affermato   nella
circolare dell'Agenzia delle entrate  n.  54  /E  del  2009)  rendono
irragionevole far derivare dalla suddetta eventuale  denuncia  penale
(che  puo'  provenire  dalla  stessa   amministrazione   finanziaria)
l'automatico prolungamento dei termini di accertamento fiscale  (come
risulterebbe dalle rationes  decidendi  delle  sentenze  della  Corte
costituzionale n. 78 del 2005; n. 206 del 1999; n. 296 e n.  173  del
1997). Piu' in particolare, la disciplina censurata  comporterebbe  -
sempre  ad  avviso  della  parte  -  una  inevitabile  disparita'  di
trattamento: a) tra reati non lesivi per l'erario (come nel  caso  di
emissione di una fattura soggettivamente inesistente,  per  l'importo
di un solo euro), per i quali opererebbe il raddoppio dei termini,  e
violazioni tributarie prive  di  rilevanza  penale,  ma  dannose  per
l'erario (come nel caso di  dichiarazione  infedele  dell'importo  di
€ 100.000,00 e, quindi, al  di  sotto  della  soglia  di  punibilita'
prevista dall'art. 4 del d.lgs. n.  74  del  2000),  assoggettate  al
termine ordinario di accertamento; b)  tra  «identici  contribuenti»,
casualmente «assoggettati a termini differenti», a seconda che  siano
stati  raggiunti  o  no   «da   una   determinazione   dell'Autorita'
giudiziaria (ripresa dall'Amministrazione finanziaria) in  ordine  ad
una fattispecie di reato ai sensi del d.lgs. n. 74 del 2000»; c)  tra
contribuenti che si trovano nella «medesima situazione  sostanziale»,
«esposti [...] a  trattamenti  differenziati,  [...]  in  ragione  di
scelte dell'Amministrazione, sganciate da ogni ragionevole  parametro
di  controllo».  La  societa'  costituita  rileva,  infine,  che   il
delineato conflitto tra principio di eguaglianza e norma  denunciata,
in quanto derivante dai «caratteri strutturali»  della  norma  e  non
legato all'applicazione retroattiva di questa,  non  potrebbe  essere
risolto  con  la  considerazione  che  lo  stesso  fluire  del  tempo
costituisce un elemento diversificatore di situazioni che si svolgono
nel tempo (considerazione che costituisce, invece, la ratio decidendi
di alcune pronunce della Corte costituzionale: ex multis, sentenze n.
367 del 1987 e n. 238 del 1984) 
    2.1.6. - Con riferimento, poi, al denunciato contrasto con l'art.
25 Cost., la contribuente ritiene che il  raddoppio  dei  termini  di
accertamento ordinari in presenza di reati previsti dal d.lgs. n.  74
del 2000, per i quali vi sia obbligo di denuncia,  si  configuri  non
come lo  strumento  "procedimentale"  per  soddisfare  l'esigenza  di
utilizzare «per un tempo piu' ampio di quello ordinario gli  elementi
istruttori emersi nel corso delle  indagini  condotte  dall'autorita'
giudiziaria»   (secondo   quanto   affermato   nella   relazione   di
accompagnamento al  decreto-legge  n.  223  del  226),  ma  come  una
«sanzione   impropria»,   cioe'   come   una    conseguenza    avente
«prioritariamente  funzione  repressiva»   e   rientrante,   percio',
nell'ampia nozione di «pena» di  cui  all'art.  7  della  Convenzione
europea  dei  diritti  dell'uomo  del  21  marzo  2006.   La   natura
essenzialmente punitiva  della  disciplina  sarebbe  evidenziata  sia
dalla lettera della legge, che fa discendere  dal  presupposto  della
sussistenza di un reato  previsto  dal  d.lgs.  n.  74  del  2000  un
generale potere  accertativo,  oltretutto  «esercitabile  (anche)  in
relazione a fatti diversi da quelli costituenti il reato presupposto»
(viene richiamata, a sostegno di tale argomentazione, la circolare 1°
febbraio 2008 prot. n. 35534 del Comando generale  della  Guardia  di
finanza, ufficio tutela  entrate),  sia  dalla  retroattivita'  della
norma, applicabile anche ai periodi d'imposta ancora  accertabili  al
momento dell'entrata in vigore del decreto-legge  n.  223  del  2006,
tanto da comportare - in forza di una vera e  propria  «reviviscenza»
del potere accertativo - la tempestivita'  della  notificazione,  nel
2008, di un avviso di  accertamento  relativo  al  periodo  d'imposta
2002, per il quale il termine  ordinario  di  accertamento  era  gia'
venuto meno il 31 dicembre  2007.  L'applicazione  retroattiva  della
"sanzione" del raddoppio del termine ad un fatto commesso prima del 4
luglio 2006,  cioe'  prima  della  data  di  entrata  in  vigore  del
decreto-legge n. 223 del 2006 che la prevede,  violerebbe,  pertanto,
non solo il secondo comma dell'art. 25 Cost., ma anche la presunzione
di non colpevolezza di cui  al  secondo  comma  dell'art.  27  Cost.,
perche' deriverebbe non da un accertamento definitivo del  reato,  ma
da una valutazione dell'amministrazione finanziaria che sarebbe  solo
imperfettamente  controllabile  in  via   incidentale   dal   giudice
tributario, privo degli strumenti di cognizione  propri  del  giudice
penale. 
    2.2.  -  Infine,  ad  avviso  della  parte,  la  rilevanza  delle
questioni deriverebbe: a) dalla necessita' di applicare  nei  giudizi
riuniti a quibus il denunciato terzo comma dell'art. 57 del d.P.R. n.
633 del 1972, data la sua  efficacia  retroattiva  e  posto  che  gli
avvisi  di  accertamento  impugnati  sono   stati   notificati   dopo
«l'inutile decorso dell'ordinario termine quadriennale» previsto  dal
primo comma dello stesso art. 57 e dopo che l'organo verificatore, in
data  6  giugno  2008,  aveva  segnalato  la  sussistenza  di   fatti
penalmente rilevanti  ai  sensi  del  d.lgs.  n.  74  del  2000  alla
competente Procura della Repubblica (la  quale  aveva  poi  proceduto
all'iscrizione del legale rappresentante della societa' nel  registro
degli indagati ed allo svolgimento  di  ulteriori  indagini,  le  cui
risultanze, previo  regolare  nulla  osta  rilasciato  dall'autorita'
giudiziaria procedente, erano state  successivamente  utilizzate  per
l'emissione dei suddetti avvisi di accertamento);  b)  dal  nesso  di
consequenzialita' tra l'accoglimento delle questioni di  legittimita'
costituzionale e l'accoglimento delle domande della contribuente  nei
giudizi principali. 
    3. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le  questioni  siano  dichiarate  manifestamente
inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza o, comunque,
non fondate. 
    Quanto all'inammissibilita', la difesa dello Stato osserva che il
rimettente non ha fornito  elementi  sufficienti  ad  evidenziare  la
necessita' dell'applicazione, nei giudizi  riuniti  a  quibus,  della
normativa denunciata, in quanto: a) con  riguardo  alla  sentenza  n.
185/02/09 - con cui la Commissione tributaria provinciale  di  Napoli
aveva riconosciuto  il  perfezionamento  e  l'efficacia  del  condono
richiesto dalla societa' per gli anni 2001 e 2002, in forza dell'art.
9 della legge n. 289 del 2002 - non ha precisato ne' se la  decisione
abbia un rapporto di  pregiudizialita'  con  il  giudizio  principale
(come sostenuto nei giudizi a quibus dalla  contribuente,  ad  avviso
della   quale   il   riconoscimento   dell'efficacia   del    condono
precluderebbe  il  potere   di   procedere   alla   rettifica   della
dichiarazione resa per le suddette annualita')  ne'  se  la  medesima
decisione sia passata in  giudicato  ne'  le  ragioni  della  mancata
sospensione, ai sensi dell'art. 295 del codice di  procedura  civile,
dei giudizi  riuniti  a  quibus,  in  attesa  della  definizione  del
giudizio  sull'efficacia  del  condono;  b)  non  ha   chiarito   se,
nell'ipotesi di valido perfezionamento  del  condono,  ricorrono  nel
caso concreto i presupposti dell'applicazione del  principio  secondo
cui il condono non opera sui crediti vantati dal  contribuente  verso
il fisco, nel senso che tali crediti restano  soggetti  all'eventuale
contestazione da parte  dell'amministrazione  finanziaria  (Corte  di
cassazione, sentenza n. 375 del 2009 e ordinanza n. 18942  del  2010;
Corte  costituzionale,  ordinanza  n.  340  del  2005);  c)  non   ha
considerato ne' che l'art. 10 della  legge  n.  289  del  2002  aveva
prorogato di due anni i termini per l'accertamento nei confronti  dei
contribuenti che non si erano  avvalsi  della  definizione  agevolata
(Corte costituzionale, sentenza n.  356  del  2008)  ne'  che,  nella
specie, non  era  stato  dimostrato  il  valido  perfezionamento  del
condono ne' che, pertanto, l'avviso di accertamento relativo al  2002
era stato notificato tempestivamente, cioe' prima  del  «31  dicembre
2009», data di scadenza della suddetta proroga biennale. 
    Quanto alla non fondatezza delle questioni, l'Avvocatura generale
dello  Stato  rileva  innanzitutto  che,  contrariamente   a   quanto
affermato nell'ordinanza di rimessione,  le  disposizioni  denunciate
non riaprono termini ormai scaduti, perche' riguardano  solo  periodi
d'imposta o successivi a quelli in corso alla data della loro entrata
in vigore (4 luglio 2006) oppure ancora in corso,  ma  per  i  quali,
nella medesima data, non e' ancora maturata la decadenza  dal  potere
di accertamento. Ad avviso della  difesa  dello  Stato,  le  suddette
disposizioni  rispondono  alla  evidente  e  ragionevole   ratio   di
concedere  all'amministrazione  finanziaria  tempi  piu'   ampi   per
l'accertamento, al fine di meglio contrastare  fenomeni  di  evasione
fiscale che - integrando le ipotesi di reato  perseguibili  d'ufficio
previste dal d.lgs. n. 74 del 2000 - sono caratterizzati da  maggiore
gravita' ed insidiosita', tanto da rendere  opportuna  l'acquisizione
degli elementi istruttori emersi  nel  corso  delle  indagini  svolte
dall'autorita' giudiziaria e per i quali «occorre anche attendere  la
rimozione del segreto investigativo».  L'intervenuta  Presidenza  del
Consiglio dei ministri osserva, poi, che il prolungamento dei termini
per l'accertamento non presuppone la  materiale  presentazione  della
denuncia penale, essendo  sufficiente  la  «presenza  di  fattispecie
implicanti in astratto l'obbligo di  denuncia».  In  particolare,  la
difesa dello Stato nega che  gli  evocati  parametri  siano  violati,
perche': a) quanto ai principi di eguaglianza  e  ragionevolezza,  la
diversa ampiezza dei termini di  accertamento  trova  giustificazione
nella  «maggiore  pericolosita'   delle   fattispecie   di   evasione
realizzate    attraverso    modalita'    delittuose»;    b)    quanto
all'imparzialita', la necessita' di un controllo del giudice del caso
concreto  circa  la  serieta'   della   prospettazione   di   ipotesi
investigative che possano condurre all'accertamento dei  fatti  reati
indicati  dalle  disposizioni  denunciate  esclude   il   prospettato
pericolo della  strumentalita'  od  arbitrarieta'  del  comportamento
dell'amministrazione finanziaria; c) quanto al diritto di difesa,  la
mancata conservazione della documentazione  contabile  da  parte  del
contribuente deriva da una sua scelta personale, non conforme a legge
(dato l'obbligo di conservazione previsto dall'art. 22 del d.P.R.  n.
600 del 1973); d) sempre quanto al  diritto  di  difesa,  il  termine
censurato opera entro confini certi  e  non  comporta  la  denunciata
indefinita soggezione del  contribuente  all'azione  di  accertamento
degli uffici tributari (viene citata la sentenza di questa  Corte  n.
356 del 2008, punto 7 della motivazione); e) quanto al  principio  di
irretroattivita' delle sanzioni penali, il  censurato  raddoppio  dei
termini  non  ha  natura  sanzionatoria,   ma   mira   a   consentire
l'accertamento della reale capacita' contributiva anche  in  presenza
di  fattispecie  complesse,  quali  quelle   riguardanti   violazioni
tributarie a rilevanza penale. 
    4.  -  Nell'imminenza  della  pubblica  udienza,  la  societa'  a
responsabilita' limitata e la difesa  dello  Stato  hanno  depositato
memorie difensive a sostegno delle proprie posizioni. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - La Commissione tributaria provinciale di Napoli  dubita,  in
riferimento agli artt. 3, 24, 25  e  97  della  Costituzione  nonche'
all'art. 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni
in  materia  di  statuto  dei  diritti   del   contribuente),   della
legittimita' del combinato disposto del terzo comma dell'art. 57  del
decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972,  n.  633
(Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto)  -  comma
inserito dal comma 25 dell'art. 37 del  decreto-legge  del  4  luglio
2006, n. 223  (Disposizioni  urgenti  per  il  rilancio  economico  e
sociale, per il  contenimento  e  la  razionalizzazione  della  spesa
pubblica, nonche' interventi in materia di  entrate  e  di  contrasto
all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla  legge  4
agosto 2006, n. 248 - e del comma 26 dell'art. 37  del  decreto-legge
n. 223 del 2006. 
    Detto combinato disposto stabilisce, in tema di IVA, che: a)  «In
caso  di  violazione  che  comporta  obbligo  di  denuncia  ai  sensi
dell'art. 331 del codice  di  procedura  penale  per  uno  dei  reati
previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i  termini  di
cui ai commi precedenti sono  raddoppiati  relativamente  al  periodo
d'imposta in cui e' stata commessa la  violazione»  (art.  57,  terzo
comma, del d.P.R. n. 602 del 1973); b) «Le  disposizioni  di  cui  ai
commi [...] 25  [comma  che  ha  introdotto  il  citato  terzo  comma
dell'art. 57 del d.P.R. n. 602 del 1973] si applicano a decorrere dal
periodo d'imposta per il quale alla data di  entrata  in  vigore  del
presente decreto [4 luglio 2006] sono ancora pendenti  i  termini  di
cui al primo e secondo comma [...] dell'art. 57 del d.P.R. 26 ottobre
1972, n. 633»). In forza di tali disposizioni  e  con  riguardo  agli
anni di imposta 2002 e  2003,  oggetto  degli  avvisi  impugnati  nei
giudizi riuniti a quibus, sono raddoppiati (ove ricorrano le indicate
condizioni) i seguenti termini di accertamento dell'IVA previsti  dai
primi due commi dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del  1972:  1)  il  31
dicembre del quarto anno successivo a quello di  presentazione  della
dichiarazione,  aumentato  -  nel  caso  di  richiesta  di   rimborso
dell'eccedenza d'imposta detraibile risultante dalla dichiarazione  -
di un periodo di tempo pari  a  quello  compreso  tra  il  sedicesimo
giorno successivo  a  quello  di  notificazione  della  richiesta  di
documenti da parte  dell'ufficio  e  la  data  di  consegna  di  tali
documenti (primo comma); 2) il 31 dicembre del quinto anno successivo
a quello in cui la dichiarazione avrebbe  dovuto  essere  presentata,
nel caso di omessa presentazione della dichiarazione (secondo comma). 
    Ad avviso della Commissione tributaria rimettente,  la  normativa
denunciata viola gli  evocati  parametri,  nella  parte  in  cui  non
prevede  che:  a)  la  normativa  sul  raddoppio   dei   termini   di
accertamento sia applicabile solo alle annualita' successive all'anno
2006, nel quale sono entrati in vigore i commi 25 e 26  dell'art.  37
del decreto-legge n. 223 del 2006; b)  «l'eventuale  denuncia»  debba
essere  presentata,  ai  sensi  dell'art.  331   cod.   proc.   pen.,
anteriormente allo spirare dei termini di  cui  ai  primi  due  commi
dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972. 
    In particolare, vengono prospettate cinque diverse  censure,  con
riferimento, in primo luogo, agli artt. 3 e 24 della Costituzione,  e
3, comma 3, della legge 27  luglio  2000,  n.  212  (Disposizioni  in
materia di statuto dei diritti del contribuente); in  secondo  luogo,
all'art. 24 Cost.; in terzo luogo, agli artt. 3 e 97 Cost.; in quarto
luogo, all'art. 3 Cost.; in quinto luogo, infine, all'art. 25 Cost. 
    2. - Prima  di  esaminare  analiticamente  le  suddette  censure,
occorre  valutare  le   eccezioni   di   inammissibilita'   sollevate
dall'Avvocatura generale dello Stato, secondo cui  dall'ordinanza  di
rimessione emergerebbe l'omessa o l'insufficiente  motivazione  della
rilevanza delle questioni. 
    Nessuna di tali eccezioni puo' essere accolta. 
    2.1.− La difesa dello Stato ha  eccepito,  innanzitutto,  che  il
rimettente non ha sufficientemente motivato sulla rilevanza,  perche'
non  ha  precisato:  a)  ne'  se  la  sentenza  n.  185/02/09   della
Commissione  tributaria  provinciale  di  Napoli,   da   lui   stesso
menzionata, che ha riconosciuto  il  perfezionamento  del  cosiddetto
"condono tombale" richiesto dalla societa' per gli anni 2001 e  2002,
abbia un  rapporto  di  pregiudizialita'  con  i  giudizi  principali
riuniti e, quindi, se il  perfezionamento  del  condono  precluda  il
potere di accertamento dell'amministrazione finanziaria; b) ne' se la
medesima decisione sia passata in giudicato; c) ne' le ragioni  della
mancata sospensione, ai sensi dell'art. 295 del codice  di  procedura
civile, dei giudizi riuniti a quibus, in attesa della definizione del
giudizio sull'efficacia del condono. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    2.1.1.− Va premesso che gli articoli da 7 a 9 della legge n.  289
del 2002 prevedono tre diverse ipotesi di  definizione  agevolata  di
tributi: 1) la «definizione automatica di redditi  di  impresa  e  di
lavoro autonomo per gli  anni  pregressi  mediante  autoliquidazione»
(art. 7); 2) l'«integrazione degli imponibili per gli anni pregressi»
(art. 8); 3) la «definizione  automatica  per  gli  anni  pregressi»,
denominata  anche  "condono  tombale"  (art.  9).  Tali  agevolazioni
rendono definitive le liquidazioni  d'imposta  da  esse  derivanti  e
precludono all'amministrazione finanziaria  successivi  accertamenti,
ma non  modificano  l'importo  degli  eventuali  rimborsi  e  crediti
derivanti dalle dichiarazioni presentate (artt. 7,  comma  13,  e  9,
comma  9)  e  non  costituiscono  titolo  per  rimborsi  di   importi
precedentemente non dichiarati (art. 8, comma  3).  L'art.  10  della
legge stabilisce una  proroga  biennale  degli  ordinari  termini  di
accertamento  per  i  contribuenti  «che  non  si   avvalgono   delle
disposizioni recate dagli articoli da 7 a 9» (cioe' relative alle tre
ipotesi di definizione agevolata sopra menzionate). 
    Nella specie, in riferimento all'IVA 2001 e 2002, la contribuente
(una societa' a responsabilita' limitata) ha presentato la domanda di
«definizione automatica per gli anni pregressi» di  cui  al  suddetto
art. 9. 
    2.1.2.  −  Il  rimettente  non  affronta  espressamente  il  tema
dell'incidenza del perfezionamento del "condono tombale"  sul  potere
accertativo dell'amministrazione finanziaria. Il silenzio serbato sul
punto dall'ordinanza di rimessione  non  integra,  pero',  l'eccepita
insufficiente motivazione della rilevanza,  perche'  e'  giustificato
dalla notorieta' ed evidenza  della  ragione  adducibile  a  sostegno
dell'assoluta irrilevanza del condono  (ancorche'  perfezionato)  sui
poteri   di   accertamento   dell'amministrazione   finanziaria   con
riferimento alla sussistenza dei crediti vantati dal contribuente. 
    Tale ragione risiede  nell'incontestata  vigenza  del  principio,
enunciato da questa Corte (ordinanza n. 340 del 2005) e, piu'  volte,
dalla Corte di cassazione (Cassazione civile, sentenze  n.  5586  del
2010 e n. 375 del 2009; ordinanze n. 12337 del 2011 e  n.  18942  del
2010; Cassazione penale, sentenza n. 42462 del 2010,  emessa  proprio
con riguardo alla fattispecie  di  causa),  secondo  cui  il  condono
impedisce di accertare i debiti tributari coperti  dall'agevolazione,
ma  non  esclude  il  potere   dell'amministrazione   finanziaria   -
esercitato concretamente nella specie - di accertare  la  sussistenza
dei crediti vantati dal contribuente. 
    Gli avvisi di accertamento impugnati, in quanto diretti a  negare
proprio  l'esistenza  del  credito  IVA   indicato   dalla   societa'
contribuente, non possono  percio'  essere  influenzati  dal  condono
tombale precedentemente richiesto dalla contribuente stessa  (e  cio'
indipendentemente dall'efficacia di tale condono). Da  cio'  consegue
che: a) non sussiste  alcuna  pregiudizialita'  tra  la  controversia
sulla legittimita' del diniego di condono ed i giudizi a  quibus;  b)
non era necessaria una specifica motivazione al riguardo da parte del
rimettente, avendo  egli  correttamente  applicato  nella  specie  un
principio - da considerare diritto vivente -  la  cui  sussistenza  e
pertinenza al caso  concreto  dovevano  darsi  per  scontate;  c)  il
rimettente  non  aveva  alcuna  ragione  per  sospendere  i   giudizi
principali fino alla definizione della controversia  sulla  validita'
del condono; e cio' anche a prescindere dal fatto che, in ogni  caso,
detta sospensione non sarebbe stata consentita dagli artt.  2,  comma
3,  e  39  del  decreto  legislativo  31  dicembre   1992,   n.   546
(Disposizioni sul processo tributario in attuazione della  delega  al
Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413),
i quali limitano le ipotesi di sospensione  ai  casi  di  querela  di
falso e di questioni di stato  e  capacita'  delle  persone  (diversa
dalla capacita' di stare in giudizio) ed  impongono  al  giudice,  in
tutti gli altri casi, di risolvere in via incidentale ogni  questione
pregiudiziale. 
    Va infine  ricordato  che,  comunque,  il  "condono  tombale"  in
materia di IVA del quale ha inteso avvalersi la societa' contribuente
e' stato ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia CE in
contrasto con  l'ordinamento  comunitario,  in  quanto  comporta  una
rinuncia generale ed indiscriminata all'accertamento delle operazioni
imponibili in materia di IVA e, pertanto,  integra  un  inadempimento
agli obblighi che sullo Stato  italiano  incombono  «in  forza  delle
disposizioni dell'art. 2, n. 1, lettere a), c) e d),  e  degli  artt.
193  -  273  della  direttiva  del  Consiglio   28   novembre   2006,
2006/112/CE, relativa al sistema d'imposta sul valore  aggiunto,  che
hanno sostituito, dal 1° gennaio 2007, gli artt. 2 e 22  della  sesta
direttiva del Consiglio 17 maggio 1977,  77/388/CEE,  in  materia  di
armonizzazione delle legislazioni degli stati  membri  relative  alle
imposte sulla cifra d'affari - Sistema comune di imposta  sul  valore
aggiunto:  base  imponibile  uniforme,  nonche'  dell'art.   10   CE»
(sentenza 11 dicembre 2008, causa C-174/07; analogamente, la sentenza
17  luglio  2008,  causa  C-132/06).  Il   rilevato   contrasto   con
l'ordinamento  comunitario   comporta   l'obbligo   del   giudice   e
dell'amministrazione finanziaria italiani di non applicare  le  norme
nazionali relative al suddetto condono (in tal senso,  espressamente,
le pronunce della Cassazione civile, sezioni unite, dal n. 3673 al n.
3677 del 2010; sezione semplice, n. 24586 e n. 24587  del  2010).  Da
cio'   discende    la    riespansione    del    potere    accertativo
dell'amministrazione  finanziaria  e,  per  quanto   qui   interessa,
l'applicabilita' della denunciata normativa concernente il  raddoppio
dei termini di accertamento in presenza di violazioni  tributarie  di
rilevanza penale ai sensi del d.lgs. n. 74 del 2000. 
    2.2. −  L'Avvocatura  generale  dello  Stato  ha  eccepito,  poi,
l'inammissibilita' delle questioni - sempre sotto  il  profilo  della
omessa od insufficiente motivazione della rilevanza - affermando  che
il rimettente non ha chiarito se nella specie ricorrano i presupposti
dell'applicazione del  sopra  menzionato  principio  secondo  cui  il
condono non opera sui  crediti  vantati  dal  contribuente  verso  il
fisco, nel senso che  tali  crediti  restano  soggetti  all'eventuale
contestazione da parte dell'amministrazione finanziaria. 
    Anche tale eccezione non e' fondata, perche' - come osservato nel
punto precedente − proprio  l'evidente  adesione  del  rimettente  al
suddetto notorio e consolidato  principio  giurisprudenziale  gli  ha
fatto ritenere superflua l'indicazione nell'ordinanza  di  rimessione
di una espressa motivazione al riguardo. 
    2.3.− L'Avvocatura generale  dello  Stato  ha  eccepito,  infine,
l'inammissibilita' delle questioni, deducendo che il  rimettente  non
avrebbe considerato che l'art. 10 della legge n. 289 del 2002 prevede
la proroga di due anni dei termini di accertamento nei confronti  dei
contribuenti che non si siano avvalsi delle disposizioni  recanti  la
definizione  agevolata.   Nella   specie,   pertanto,   l'avviso   di
accertamento   relativo   al   2002    sarebbe    stato    notificato
tempestivamente, cioe' prima del «31 dicembre 2009», data di scadenza
della  suddetta   proroga   biennale.   Secondo   tale   prospettiva,
l'applicazione della proroga avrebbe escluso  la  necessita'  di  far
ricorso alla normativa denunciata per definire i  giudizi  principali
riuniti e, quindi, avrebbe reso irrilevanti le questioni. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    L'Avvocatura  muove  dalla  premessa  dell'applicabilita'   della
suddetta proroga biennale nel caso in cui il  condono  richiesto  dal
contribuente non si sia perfezionato. 
    Tale premessa e' erronea, perche' - come correttamente  sostenuto
dalla parte privata -  per  escludere  l'applicazione  della  proroga
biennale e' sufficiente la presentazione della richiesta di  condono,
indipendentemente  dal   suo   accoglimento   o   diniego.   A   tale
interpretazione inducono sia la lettera dell'art. 10 della  legge  n.
289  del  2002  (che  non  condiziona  l'applicazione  della  proroga
biennale al perfezionamento del condono, ma si  limita  ad  affermare
che essa e' prevista nei  confronti  dei  contribuenti  che  «non  si
avvalgono» delle disposizioni recate dagli articoli da 7  a  9  della
stessa legge, cioe' nei confronti di coloro che omettono di  avanzare
le suddette richieste agevolative non avvalendosi della facolta' loro
concessa da tali articoli); sia la ratio  della  proroga  (diretta  a
consentire agli uffici tributari di procedere all'accertamento in  un
termine piu' ampio nei soli confronti dei contribuenti che non  hanno
portato all'attenzione degli  uffici  le  loro  posizioni  tributarie
attraverso  la  presentazione  delle   istanze   di   condono,   come
evidenziato da questa Corte con la sentenza n. 356 del 2008); sia  la
natura  eccezionale  di  ogni  ampliamento   temporale   dei   poteri
accertativi (ampliamento di stretta interpretazione  e,  quindi,  non
estensibile ai contribuenti che abbiano presentato  la  richiesta  di
agevolazione e non abbiano, poi, di essa effettivamente goduto). 
    3.− Neppure puo' sostenersi, infine, che l'inammissibilita' delle
questioni possa derivare  dall'omesso  tentativo  del  rimettente  di
pervenire ad una interpretazione  idonea  a  superare  i  prospettati
dubbi di legittimita' costituzionale; ad una interpretazione,  cioe',
che consenta di ritenere, da un lato, che la normativa sul  raddoppio
dei  termini  di  accertamento  si  applichi  solo  alle   annualita'
successive all'anno 2006, nel quale e' entrata in vigore la normativa
denunciata;  dall'altro,  che  «l'eventuale  denuncia»  debba  essere
presentata, ai sensi dell'art. 331  cod.  proc.  pen.,  anteriormente
allo spirare dei termini "brevi" di cui ai primi due commi  dell'art.
57 del d.P.R. n. 633 del 1972. 
    In effetti,  il  rimettente  muove  da  una  interpretazione  non
implausibile delle disposizioni denunciate. Egli assume che, in forza
di esse, il raddoppio dei termini di  accertamento  si  applichi:  a)
anche se la denuncia penale per i reati di cui al d.lgs.  n.  74  del
2000 non sia stata presentata prima del decorso del termine ordinario
di accertamento; b) anche alle annualita' antecedenti all'anno  2006,
nel quale sono entrate in vigore tali disposizioni. 
    3.1.  -  Quanto  al  punto  sub  a),   la   non   implausibilita'
dell'interpretazione discende dal fatto che il censurato terzo  comma
dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 («In caso di  violazione  che
comporta obbligo di denuncia ai sensi dell'art.  331  del  codice  di
procedura penale per uno dei reati previsti dal  decreto  legislativo
10 marzo 2000, n. 74, i termini  di  cui  ai  commi  precedenti  sono
raddoppiati [...]») prevede, quale unica condizione per il  raddoppio
dei  termini,  la  sussistenza  dell'obbligo  di   denuncia   penale,
indipendentemente  dal  momento  in  cui  tale   obbligo   sorga   ed
indipendentemente dal suo adempimento. A maggior ragione, la  lettera
della legge impedisce di interpretare le disposizioni denunciate  nel
senso che il raddoppio  dei  termini  presuppone  necessariamente  un
accertamento penale definitivo circa la sussistenza  del  reato.  Del
resto quest'ultima interpretazione - come riconosciuto  dalla  stessa
parte privata -  contrasterebbe  anche  con  il  vigente  regime  del
cosiddetto «doppio binario» tra  giudizio  penale  e  procedimento  e
processo tributari, evidenziato dall'art. 20 del  d.lgs.  n.  74  del
2000 (il quale, in correlazione a quanto previsto dagli artt. 3,  479
e 654 cod. proc. pen., dispone che «Il procedimento amministrativo di
accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per
la pendenza del procedimento penale  avente  ad  oggetto  i  medesimi
fatti o fatti dal  cui  accertamento  comunque  dipende  la  relativa
definizione»). 
    Ne',  al  fine  di  sostenere   un'interpretazione   conforme   a
Costituzione - nel senso che il raddoppio dei termini opererebbe solo
se la denuncia penale sia presentata prima del  decorso  dei  termini
"brevi" di accertamento -, puo' farsi riferimento alla giurisprudenza
della  Corte  di  cassazione  in  materia  di  termine  triennale  di
«prescrizione» per il recupero "a  posteriori"  di  diritti  doganali
previsto dall'art. 84, terzo comma, del d.P.R. 23 gennaio 1973 n.  43
(Approvazione del  testo  unico  delle  disposizioni  legislative  in
materia doganale). Tale disposizione stabilisce due  diversi  termini
triennali di «prescrizione», a seconda che il mancato pagamento abbia
o no causa da un reato. Nel caso in cui non risulti  che  il  mancato
pagamento abbia avuto causa da reato, il termine decorre dal  momento
in cui l'importo dei diritti doganali originariamente  richiesto  sia
stato  contabilizzato  o,  in  difetto,   sia   divenuto   esigibile;
nell'ipotesi, invece, in cui il mancato pagamento abbia  avuto  causa
da reato il  termine  -  in  deroga  al  sopra  visto  principio  del
cosiddetto «doppio binario» - decorre dalla data in cui il decreto  o
la  sentenza  pronunziati  nel  procedimento  penale  siano  divenuti
irrevocabili.  La  lettera   di   tale   disposizione,   secondo   la
giurisprudenza di legittimita', renderebbe indeterminabile il periodo
intercorrente tra la data di contabilizzazione o di esigibilita'  del
debito doganale  e  la  data  in  cui  e'  divenuta  irrevocabile  la
decisione penale, con la conseguenza che il termine per la  revisione
dei dazi,  in  presenza  di  reato,  «sarebbe  privo  di  riferimento
temporale  e  dilatabile  all'infinito»  (sentenza  della  Cassazione
civile n. 9773 del 2010). Per ovviare a  tale  «compromissione  della
certezza dei rapporti giuridici» (sentenze della Cassazione civile n.
19193 e n. 22014 del 2006), la Suprema Corte ha  interpretato  l'art.
84 nel senso che,  in  caso  di  reato  che  ha  causato  il  mancato
pagamento,  l'«originario»  termine   triennale,   decorrente   dalla
contabilizzazione o dall'esigibilita' dell'obbligazione doganale,  e'
«prorogato» fino ai tre anni successivi alla data di  irrevocabilita'
della decisione penale, ma cio'  solo  nel  caso  in  cui  sia  stata
formulata una «ipotesi delittuosa», posta «alla base di  una  notitia
criminis», nel corso dell'«originario» termine triennale  (Cassazione
civile, decisioni n. 9773 del 2010, n. 19195, n. 20513, n. 21377 e n.
22014 del 2006). 
    E' evidente che - contrariamente a quanto sostenuto  dalla  parte
privata - il citato art. 84, terzo comma, del d.P.R. n. 43  del  1973
reca  una  disciplina  del  tutto  diversa  da  quella  posta   dalle
disposizioni denunciate e,  pertanto,  non  puo'  essere  invocata  a
sostegno della tesi secondo cui il raddoppio dei termini  opera  solo
ove la denuncia penale sia presentata prima del decorso  dei  termini
"brevi".  Infatti,  mentre  il  censurato  combinato   disposto   non
presuppone alcun accertamento penale definitivo del reato  ed  ha  un
preciso riferimento temporale (entro il 31 dicembre dell'ottavo  anno
o del decimo anno successivo a quello  in  cui,  rispettivamente,  e'
stata o doveva essere presentata la dichiarazione); invece  il  terzo
comma dell'art. 84 del d.P.R. n. 43 del 1973 presuppone una  sentenza
od un decreto penale di condanna divenuti irrevocabili ed  indica  un
termine complessivo indefinito e non prevedibile nel momento  in  cui
e' contabilizzata o diviene esigibile l'obbligazione doganale. Di qui
la  non  pertinenza  della  normativa  e  della   giurisprudenza   di
legittimita' invocate dalla societa' contribuente  e  la  correttezza
dell'interpretazione fornita dal rimettente. 
    3.2. - Quanto  all'interpretazione  del  rimettente  indicata  al
punto sub b) - secondo cui il raddoppio si applicherebbe  anche  alle
annualita'  d'imposta  anteriori  a  quella   pendente   al   momento
dell'entrata in vigore delle disposizioni denunciate (4 luglio  2006)
-, la sua non implausibilita' discende dal fatto  che  il  raddoppio,
stabilendo il prolungamento dei termini non ancora scaduti alla  data
dell'entrata in vigore del decreto-legge  n.  223  del  2006,  incide
necessariamente (protraendoli)  sui  termini  di  accertamento  delle
violazioni che si  assumono  commesse  prima  di  tale  data.  Questo
effetto  non  deriva  dalla  natura   retroattiva   della   normativa
censurata, ma  dall'applicabilita'  ex  nunc  della  protrazione  dei
termini in corso, nel rispetto del principio secondo cui, di  regola,
«la legge non dispone che per l'avvenire» (art. 11, prima  parte  del
primo  comma,  delle  disposizioni  preliminari  al  codice   civile;
analogamente, l'art. 3,  comma  1,  della  legge  n.  212  del  2000,
stabilisce  che  «le  disposizioni  tributarie  non   hanno   effetto
retroattivo»).  La  stessa  societa'  contribuente,  del  resto,  pur
facendo piu' volte riferimento nelle sue difese alla "retroattivita'"
della normativa denunciata, ammette che questa, in  realta',  dispone
solo per il futuro ed e' "retroattiva" in «senso improprio». 
    3.3.  -  Dai  rilievi   che   precedono   deriva,   dunque,   che
l'interpretazione data dal rimettente alle disposizioni denunciate  e
sulla quale egli fonda  le  sollevate  questioni  e'  sostanzialmente
corretta. Questa Corte deve pertanto muovere da tale  interpretazione
per effettuare il richiesto scrutinio di costituzionalita'. 
    4. - Nel motivare in ordine agli altri  aspetti  della  rilevanza
delle questioni, il rimettente afferma che: a) dal  processo  verbale
di constatazione redatto nel 2008 dalla Guardia di finanza risultano,
per gli anni 2002 e 2003, ipotesi di reato previste dal d.lgs. n.  74
del 2000 per le quali vi e' l'obbligo  di  denuncia  penale;  b)  nei
giudizi  principali  riuniti  egli  deve  fare   applicazione   delle
disposizioni denunciate, perche' queste sono entrate in vigore  il  4
luglio  2006,  anteriormente  alla  scadenza  del   termine   "breve"
quadriennale previsto, per gli accertamenti per  cui  e'  causa,  dal
primo comma dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972. 
    Tali  elementi  sono  sufficienti  per  ritenere   rilevanti   le
questioni. 
    5. - Nel merito, e' necessario esaminare analiticamente le cinque
censure prospettate dal rimettente. 
    5.1. - Con la prima censura viene  affermato  che  il  denunciato
combinato disposto si pone in contrasto con gli artt. 3 e  24  Cost.,
nonche' con l'art. 3, comma 3, della legge n. 212 del  2000,  perche'
irragionevolmente «proroga o  riapre»,  per  gli  accertamenti  delle
imposte,  termini  di  decadenza  ormai  «scaduti»,   cosi'   ledendo
l'esigenza di «certezza dei rapporti  giuridici»  ed  il  diritto  di
difesa dei contribuenti. 
    5.1.1. - Va preliminarmente rilevato, al riguardo, che l'art.  3,
comma 3, della legge n. 212 del  2000  (secondo  cui  «I  termini  di
prescrizione e di decadenza  per  gli  accertamenti  di  imposta  non
possono  essere  prorogati»)  non  puo'  essere  qui  evocato   quale
parametro di legittimita' costituzionale. Come piu'  volte  osservato
da questa Corte, infatti, le disposizioni di detta  legge  non  hanno
rango  costituzionale  e  non  costituiscono,  neppure   come   norme
interposte, parametro idoneo a fondare il  giudizio  di  legittimita'
costituzionale di leggi statali (sentenza n. 58 del  2009;  ordinanze
n. 13 del 2010, n. 185 del 2009, n. 180 del 2007, n. 428 del 2006, n.
216 del 2004). 
    La questione riferita all'art. 3, comma 3, della legge n. 212 del
2000 e', dunque, inammissibile. 
    5.1.2. - La questione riferita agli artt. 3 e  24  Cost.  non  e'
fondata,  perche'  il  rimettente  muove   dall'erroneo   presupposto
interpretativo che la normativa censurata «proroghi o riapra  termini
di decadenza ormai scaduti». 
    L'erroneita' di tale presupposto e' evidente,  ove  si  consideri
che i termini  raddoppiati  di  accertamento  non  costituiscono  una
"proroga"   di   quelli   ordinari,   da   disporsi   a   discrezione
dell'amministrazione finanziaria procedente, in presenza  di  "eventi
peculiari ed eccezionali". Al contrario, i termini  raddoppiati  sono
anch'essi  termini  fissati  direttamente   dalla   legge,   operanti
automaticamente in presenza  di  una  speciale  condizione  obiettiva
(allorche', cioe', sussista l'obbligo di denuncia penale per i  reati
tributari  previsti  dal  d.lgs.  n.  74   del   2000),   senza   che
all'amministrazione  finanziaria  sia  riservato  alcun  margine   di
discrezionalita' per la loro applicazione. In altre parole, i termini
raddoppiati non si innestano su quelli "brevi" di cui  ai  primi  due
commi dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 in base ad  una  scelta
degli uffici tributari, ma operano autonomamente allorche' sussistano
elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria  la  denuncia  penale
per i reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000. Sotto questo  aspetto
non puo' parlarsi di «riapertura o proroga di termini scaduti» ne' di
«reviviscenza di poteri di accertamento ormai  esauriti»,  perche'  i
termini "brevi" e quelli raddoppiati si riferiscono a fattispecie  ab
origine diverse, che non interferiscono tra loro  ed  alle  quali  si
connettono diversi termini  di  accertamento.  Piu'  precisamente,  i
termini "brevi" di cui ai primi due commi dell'art. 57 del d.P.R.  n.
633 del 1972 operano in presenza  di  violazioni  tributarie  per  le
quali non sorge l'obbligo di denuncia penale di  reati  previsti  dal
d.lgs. n. 74 del 2000; i termini raddoppiati di cui  al  terzo  comma
dello stesso art. 57  operano,  invece,  in  presenza  di  violazioni
tributarie per le quali v'e' l'obbligo di denuncia. e', percio',  del
tutto irrilevante che detto obbligo, come osservato  al  punto  3.1.,
possa insorgere anche dopo il decorso del termine "breve" o possa non
essere adempiuto entro tale termine.  Cio'  che  rileva  e'  solo  la
sussistenza  dell'obbligo,  perche'  essa   soltanto   connota,   sin
dall'origine, la fattispecie di illecito  tributario  alla  quale  e'
connessa l'applicabilita' dei termini raddoppiati di accertamento. 
    Tali conclusioni non mutano neppure ove si faccia riferimento  al
censurato comma 26 dell'art. 37 del decreto-legge n.  223  del  2006.
Questa  disposizione  non  prevede  una  «riapertura  di  termini  di
accertamento  gia'  scaduti»,  ma  risolve  solo   un   problema   di
successione  di  leggi  nel  tempo,  senza  dettare  una   disciplina
sostanziale ad hoc. Essa si limita,  infatti,  a  stabilire  che  «Le
disposizioni di cui ai commi [...] 25 si applicano  a  decorrere  dal
periodo d'imposta per il quale alla data di  entrata  in  vigore  del
presente decreto sono ancora pendenti i termini di  cui  al  primo  e
secondo comma [...] dell'art. 57 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633».
In tal modo non viene retroattivamente  "riaperto"  un  termine  gia'
scaduto, ma viene solo  escluso  che  il  raddoppio  dei  termini  si
applichi alle violazioni  tributarie  per  le  quali,  alla  data  di
entrata in vigore del decreto (4 luglio 2006), fosse gia' decorso  il
termine di accertamento previsto dalla normativa  anteriore  (secondo
quanto gia' rilevato al punto 3.2.). 
    E' opportuno sottolineare che l'introduzione  legislativa  di  un
piu' ampio termine di decadenza e' evenienza  frequente  nel  diritto
tributario ed e'  pacifico  che  una  siffatta  nuova  normativa,  in
difetto di diversa espressa statuizione di legge,  si  applichi  solo
ove il precedente e piu' ristretto termine non sia  gia'  decorso  e,
quindi, il rapporto non sia  esaurito.  Le  disposizioni  denunciate,
dunque,  sono  conformi  ai  principi  piu'  volte  applicati   dalla
giurisprudenza in materia di successione delle leggi  nel  tempo  che
abbiano previsto l'ampliamento di termini decadenziali. A  titolo  di
esempio, tra  i  molti  che  potrebbero  essere  indicati,  puo'  qui
ricordarsi che la  Corte  di  cassazione,  in  tema  di  sopravvenuto
prolungamento dei termini  di  decadenza  per  la  richiesta  in  via
amministrativa del rimborso delle imposte dirette,  ha  costantemente
affermato che il piu' ampio termine di decadenza (48 mesi in luogo di
18 mesi) trova applicazione nel caso in cui, alla data di entrata  in
vigore della legge recante  l'ampliamento  del  termine,  sia  ancora
pendente il termine originario, mentre non  e'  applicabile  qualora,
alla data predetta, tale  termine  sia  gia'  scaduto  (ex  plurimis,
Cassazione civile, sentenze n. 2376, n. 10123 e n. 582 del  2010;  n.
25610, n. 22748, n. 22745 e n. 16927 del 2008). 
    E' irrilevante,  infine,  l'assunto  che  gli  evocati  parametri
sarebbero violati per l'incertezza in cui versa il  contribuente,  il
quale deve attendere il decorso del termine raddoppiato per avere  la
sicurezza dell'insussistenza dell'obbligo di denuncia penale.  Si  e'
visto,  infatti,  che  tale  incertezza  e'  meramente  eventuale   e
soggettiva  e  dipende   non   da   una   discrezionale   valutazione
dell'amministrazione finanziaria  sulla  denunciabilita'  penale  dei
fatti,  ma  solo  dal  momento  in  cui  l'ufficio  tributario  venga
concretamente  a  conoscenza  degli  elementi  obiettivi  comportanti
l'obbligo di denuncia. Essa costituisce, percio', una circostanza  di
mero fatto inidonea  ad  influire  sullo  scrutinio  di  legittimita'
costituzionale. 
    5.2.- Con la seconda  censura  e'  affermato  che  il  denunciato
combinato disposto si pone in contrasto con l'art.  24  Cost.,  sotto
due profili: a) perche' la  denuncia  penale,  se  proposta  dopo  il
decorso dei termini "brevi" di decadenza, potrebbe intervenire quando
il  contribuente,  ritenendo  non  piu'   accertabile   il   rapporto
tributario, non sia piu' in possesso delle scritture e dei  documenti
contabili;  b)  perche',   non   prevedendo   un   «ragionevole»   ed
«oggettivamente  determinato»  termine  di  notificazione   dell'atto
impositivo e consentendo «una distanza eccessiva tra il  fatto  e  la
contestazione»,   comporta   una   «indeterminata   soggezione    del
contribuente all'azione esecutiva del fisco» e, quindi,  vanifica  la
difesa del contribuente. 
    Nessuno dei prospettati profili di illegittimita'  costituzionale
e' fondato. 
    5.2.1.- Quanto alla lesione del diritto di difesa - dedotta sotto
il  profilo  che  il  contribuente  non  sarebbe  piu'  in  grado  di
difendersi qualora non fosse piu' in possesso delle scritture  e  dei
documenti contabili da lui «legittimamente» eliminati dopo il decorso
del termine "breve" di accertamento -, va rilevato che il  rimettente
procede da un erroneo presupposto  interpretativo.  Egli  assume  che
l'obbligo di  conservazione  delle  suddette  scritture  e  documenti
persista solo fino alla scadenza del termine "breve" di  accertamento
previsto dai primi due commi dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972. 
    In realta' il contribuente, per effetto dell'art. 22  del  d.P.R.
29 settembre 1973, n. 600, e' tenuto a conservare le scritture  ed  i
documenti  fino  alla  definizione  degli  accertamenti  relativi  al
corrispondente periodo d'imposta. Pertanto, se  il  termine  previsto
dalla legge, in presenza  dell'obbligo  di  denuncia  delle  suddette
violazioni tributarie penalmente rilevanti, e' quello raddoppiato  di
cui alla  normativa  censurata,  ne  segue  che  il  contribuente  ha
l'obbligo di  conservare  le  scritture  ed  i  documenti  fino  alla
definizione degli accertamenti relativi e, quindi, non puo' ritenersi
esonerato da tale obbligo fino alla scadenza del termine raddoppiato. 
    L'eventuale soggettivo affidamento del  contribuente  a  che  non
siano  fatti  valere,  dopo  il  decorso  del  termine   "breve"   di
accertamento, elementi  obiettivi  (giudizialmente  controllabili  ex
post, come  si  vedra'  in  prosieguo,  al  punto  5.3.)  comportanti
l'obbligo di denuncia penale per i reati previsti dal  d.lgs.  n.  74
del 2000 non e' rilevante ai fini del giudizio di  costituzionalita',
trattandosi di una circostanza di mero fatto. Cio' che invece  rileva
sul piano giuridico e' che il contribuente, ai sensi dell'art. 22 del
d.P.R.  n.  600  del  1973,  e'  tenuto  a  conservare  la   predetta
documentazione fino allo spirare dei  termini  raddoppiati.  Il  che,
evidentemente, non comporta alcuna lesione  del  diritto  di  difesa,
proprio  perche'  l'obbligo  di  conservazione  documentale  fino  al
decorso di tali termini  e'  contenuto,  dal  predetto  articolo,  in
limiti certi. 
    5.2.2.- Quanto, poi, alla lesione del diritto di difesa,  dedotta
sotto il diverso profilo  dell'irragionevole  ed  eccessiva  distanza
temporale tra «il fatto e la contestazione», tale da  comportare  una
indeterminata  soggezione  del  contribuente  all'azione  «esecutiva»
(rectius:  accertativa)  del  fisco,  e'  agevole  osservare  che   -
contrariamente a quanto affermato dal rimettente - il termine non  e'
ne' indeterminato ne' irragionevolmente ampio. 
    Non e' indeterminato, in quanto esso, in  presenza  del  suddetto
obbligo di denuncia penale, e' individuato dalla  normativa  in  modo
certo; e cioe': a) entro il 31 dicembre dell'ottavo anno successivo a
quello in cui e' stata presentata la dichiarazione; b)  entro  il  31
dicembre del decimo anno successivo a quello in cui la  dichiarazione
avrebbe dovuto essere presentata. Ne' tale  obiettiva  certezza  puo'
ritenersi   esclusa   dall'eventuale   soggettiva   incertezza    del
contribuente sulla astratta ravvisabilita' delle indicate ipotesi  di
reato. L'impossibilita' per il contribuente di avere la sicurezza  ex
ante della non ricorrenza dei presupposti di  denunciabilita'  penale
della sua condotta costituisce infatti, come si e' appena  visto,  un
inconveniente di mero fatto, irrilevante  ai  fini  del  giudizio  di
legittimita' costituzionale. Per contrastare  possibili  abusi  degli
uffici tributari sono invece sufficienti, come sara' meglio precisato
al punto 5.3., da un lato, la previsione  dell'obbligo  dei  pubblici
ufficiali - e, quindi, anche dei verificatori fiscali - di  inoltrare
senza ritardo la denuncia penale (obbligo  sanzionato  dall'art.  361
del codice penale)  e,  dall'altro,  la  controllabilita'  giudiziale
circa la sussistenza dei precisi ed obiettivi  presupposti  richiesti
dalla legge e dalla giurisprudenza perche' sorga detto obbligo. 
    Il termine raddoppiato, inoltre, non e' irragionevolmente  ampio,
perche' e' di poco superiore al termine  di  prescrizione  dei  reati
suddetti (sei anni) e la sua entita'  e'  adeguata  a  soddisfare  la
ratio legis di dotare l'amministrazione  finanziaria  di  un  maggior
lasso di tempo per acquisire e  valutare  dati  utili  a  contrastare
illeciti tributari, i quali, avendo rilevanza penale, sono stati  non
ingiustificatamente ritenuti dal legislatore particolarmente gravi e,
di norma, di complesso accertamento. In particolare, la gravita' e la
difficolta' di rilevamento di detti illeciti derivano sia  dalla  non
arbitraria ipotizzabilita' (in base a chiari  ed  obiettivi  elementi
indiziari) dei reati perseguibili d'ufficio previsti dal d.lgs. n. 74
del 2000; sia dal fatto che tali  reati  -  in  considerazione  delle
modalita' della condotta criminosa  ovvero  della  misura  del  danno
arrecato all'erario - normalmente richiedono controlli, verifiche  ed
indagini fiscali particolarmente difficili  al  fine  di  determinare
l'effettiva capacita' contributiva dei  soggetti  passivi  d'imposta.
Tale situazione, del  resto,  si  presenta  anche  nelle  fattispecie
oggetto di esame nei giudizi principali riuniti,  in  relazione  alle
quali si addebitano alla contribuente,  per  gli  anni  d'imposta  in
contestazione  in  detti  giudizi,   dichiarazioni   fraudolente   od
infedeli. 
    L'individuata ratio legis non esclude che  il  legislatore  abbia
avuto di mira anche l'ulteriore obiettivo  indicato  nella  relazione
d'accompagnamento  al   disegno   di   legge   di   conversione   del
decreto-legge n. 223 del  2006,  secondo  la  quale  le  disposizioni
denunciate sono dirette a consentire la circolazione delle prove  dal
giudizio penale al procedimento tributario. Tale ratio  indubbiamente
puo' sussistere in concreto, data  la  normale  maggiore  durata  del
processo penale rispetto ai termini di accertamento "brevi",  ma  non
e' idonea, da sola, ad improntare la disciplina in esame sia  perche'
- secondo quanto gia' osservato - il raddoppio dei  termini  consegue
dal mero riscontro di fatti comportanti l'obbligo di denuncia penale,
indipendentemente  dall'effettiva  presentazione  della  denuncia   o
dall'inizio dell'azione penale; sia perche' - come si  vedra'  meglio
piu' avanti - l'obbligo di denuncia  (comportante  il  raddoppio  dei
termini di accertamento) sorge anche  ove  sussistano  cause  di  non
punibilita' impeditive della prosecuzione delle indagini penali ed il
cui accertamento resti riservato  all'autorita'  giudiziaria  penale;
sia perche' - in base a quanto  si  e'  appena  visto  -  il  termine
raddoppiato di accertamento e' comunque piu'  ampio  del  termine  di
prescrizione del  reato  (sei  anni).  La  circolazione  di  elementi
probatori dal giudizio penale al procedimento tributario e',  dunque,
solo  eventuale  e  temporalmente   limitata,   e   costituisce   una
giustificazione solo accessoria e parziale dei denunciati commi 25  e
26 dell'art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006. 
    Va sottolineato, altresi', che l'ampiezza dei  termini  derivante
dal  suddetto  raddoppio  si  inserisce  in  un  piu'  vasto   quadro
sistematico.  In  particolare,  essa  e'  analoga  a  quella  fissata
dall'art. 27, commi 16 e 17, del decreto-legge 29 novembre  2008,  n.
185 (Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e
impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico
nazionale), convertito, con modificazioni,  dalla  legge  28  gennaio
2009, n. 2. Tali disposizioni, con riferimento ad ipotesi  simili  al
reato di indebita  compensazione  previsto  dall'art.  10-quater  del
d.lgs. n. 74 del 2000, stabiliscono che - salvi i piu'  ampi  termini
previsti dalla legge in caso di violazione comportante  l'obbligo  di
denuncia penale ai sensi dell'art. 331 cod. proc. pen. per  il  reato
previsto dal citato art.  10-quater  -  l'atto  di  accertamento  dei
crediti indebitamente utilizzati dal contribuente  in  compensazione,
indicato dall'art. 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311
(Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
dello Stato - legge finanziaria 2005), deve essere  notificato  entro
il termine di decadenza del 31 dicembre dell'ottavo anno successivo a
quello dell'utilizzo di crediti inesistenti in compensazione. 
    Per  completezza,  va  infine  rilevato  che,  in   forza   della
specialita' del censurato terzo comma dell'art. 57 del d.P.R. n.  633
del 1972, non rientrano nel computo  dei  termini  da  raddoppiare  i
prolungamenti di quelli previsti  da  altre  disposizioni  di  legge.
Induce a tale conclusione la lettera del citato terzo comma dell'art.
57 del d.P.R. n. 633 del 1972, che  prevede  il  raddoppio  dei  soli
«termini di cui ai commi precedenti» dello stesso articolo;  e  cioe'
dei termini che scadono il 31 dicembre del quarto anno  successivo  a
quello in cui e' stata presentata  la  dichiarazione  (primo  comma),
nonche' dei termini che  scadono  il  31  dicembre  del  quinto  anno
successivo a quello in cui la  dichiarazione  avrebbe  dovuto  essere
presentata (secondo comma). Non rientrano, pertanto, nel computo  dei
termini da raddoppiare ai sensi delle disposizioni denunciate ne'  la
proroga biennale di cui all'art. 10 della legge n. 289 del 2002,  ne'
il diverso  raddoppio  dei  termini  dei  medesimi  primi  due  commi
dell'art. 57 d.P.R. n.  633  del  1972  previsto,  nell'ambito  degli
interventi antievasione e antielusione  internazionale  e  nazionale,
dal comma 2-bis dell'art. 12 del decreto-legge 1° luglio 2009, n.  78
(Provvedimenti anticrisi, nonche' proroga  di  termini),  convertito,
con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, comma  inserito
dall'art. 1, comma 3, del decreto-legge 30  dicembre  2009,  n.  194,
convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010,  n.  25.
Pertanto, nel caso in cui i prolungamenti di termini  previsti  dalle
disposizioni denunciate e da altre disposizioni  siano  astrattamente
applicabili in relazione alla medesima fattispecie, l'amministrazione
finanziaria non potra' mai utilizzarli in modo cumulativo al fine  di
superare il massimo dell'ampliamento temporale previsto dalla singola
normativa   piu'    favorevole    per    l'amministrazione.    Questa
interpretazione  esclude  che  le  disposizioni  denunciate   possano
concorrere   a   rendere    irragionevolmente    lunghi    i    tempi
dell'accertamento. 
    5.3.-  Con  la  terza  censura  il  rimettente  afferma  che   il
denunciato combinato disposto viola gli artt. 3 e 97 Cost.,  perche',
non condizionando il raddoppio dei termini ne' all'avvio  dell'azione
penale  prima  del  decorso  dei   termini   "brevi"   di   decadenza
dall'accertamento  ne'  all'esito   di   tale   azione,   attribuisce
all'amministrazione finanziaria − irragionevolmente ed  in  contrasto
con i principi di imparzialita' e  di  buon  andamento  −  il  potere
discrezionale di estendere i termini dell'accertamento in base ad una
soggettiva e non controllabile valutazione  circa  la  necessita'  di
presentare denuncia penale per violazioni ricondotte  ad  ipotesi  di
reato, «magari su  elementi  puramente  indiziari  e  strumentalmente
enfatizzati». 
    La questione non e' fondata. 
    Si  e'  gia'  rilevato   che   il   rimettente   muove   da   una
interpretazione plausibile delle disposizioni censurate, le quali, in
base al loro tenore letterale,  stabiliscono  che  il  raddoppio  dei
termini deriva dall'insorgenza dell'obbligo  della  denuncia  penale,
indipendentemente dall'effettiva presentazione di tale denuncia o  da
un accertamento penale definitivo circa la sussistenza del reato. 
    Detta  interpretazione  non  implica,  tuttavia,  che  la   legge
attribuisca   all'amministrazione   finanziaria    l'arbitrario    ed
incontrollabile  potere  di  raddoppiare   i   termini   "brevi"   di
accertamento. 
    Quanto all'asserita  arbitrarieta',  infatti,  il  raddoppio  non
consegue da una  valutazione  discrezionale  e  meramente  soggettiva
degli uffici tributari, ma opera  soltanto  nel  caso  in  cui  siano
obiettivamente riscontrabili, da parte di un pubblico ufficiale,  gli
elementi richiesti dall'art. 331 cod.  proc.  pen.  per  l'insorgenza
dell'obbligo di denuncia penale. Per  costante  giurisprudenza  della
Corte  di  cassazione,  tale  obbligo  sussiste  quando  il  pubblico
ufficiale sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi  del
reato da  denunciare  (escluse  le  cause  di  estinzione  o  di  non
punibilita',  che  possono  essere   valutate   solo   dall'autorita'
giudiziaria), non essendo sufficiente il  generico  sospetto  di  una
eventuale attivita' illecita (ex plurimis, sentenze della  Cassazione
penale n. 27508 del 2009; n. 26081 e n. 15400 del 2008; n.  1244  del
1985; n. 6876 del 1980; n. 14195 del 1978). Va, inoltre, sottolineato
al riguardo che il pubblico ufficiale - allorche' abbia acquisito  la
notitia criminis nell'esercizio od a causa delle sue funzioni  -  non
puo' liberamente valutare se e quando presentare la denuncia, ma deve
inoltrarla prontamente, pena la  commissione  del  reato  previsto  e
punito dall'art. 361 cod. pen. per il caso  di  omissione  o  ritardo
nella denuncia. 
    Quanto all'asserita incontrollabilita'  dell'apprezzamento  degli
uffici tributari circa la sussistenza del reato, va obiettato  che  -
contrariamente  a  quanto  affermato  dal  rimettente  -  il  sistema
processuale tributario consente,  invece,  il  controllo  giudiziario
della legittimita' di  tale  apprezzamento.  Il  giudice  tributario,
infatti,  dovra'  controllare,  se  richiesto   con   i   motivi   di
impugnazione,  la  sussistenza  dei   presupposti   dell'obbligo   di
denuncia, compiendo  al  riguardo  una  valutazione  ora  per  allora
(cosiddetta  "prognosi  postuma")  circa  la   loro   ricorrenza   ed
accertando, quindi, se l'amministrazione finanziaria abbia agito  con
imparzialita'  od  abbia,  invece,  fatto  un   uso   pretestuoso   e
strumentale  delle  disposizioni  denunciate  al   fine   di   fruire
ingiustificatamente di un piu'  ampio  termine  di  accertamento.  E'
opportuno  precisare  che:  a)  in  presenza  di  una   contestazione
sollevata dal contribuente, l'onere di provare detti presupposti e' a
carico dell'amministrazione finanziaria, dovendo questa  giustificare
il piu' ampio potere accertativo  attribuitole  dal  censurato  terzo
comma dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972; b) il correlativo tema
di prova − e, quindi, l'oggetto della valutazione da  effettuarsi  da
parte del giudice tributario  −  e'  circoscritto  al  riscontro  dei
presupposti  dell'obbligo  di  denuncia   penale   e   non   riguarda
l'accertamento del reato; c) gli eventuali  limiti  probatori  propri
del processo tributario hanno, pertanto, una ridotta incidenza  nella
specie  e,  comunque,  non  costituiscono  oggetto  delle   sollevate
questioni. 
    5.4.- Con la quarta censura viene  affermato  che  il  denunciato
combinato disposto si pone in contrasto con l'art. 3 Cost.,  perche',
«consentendo    discipline    differenziate    per    la     notifica
dell'accertamento», introduce «irragionevoli elementi  di  disparita'
di trattamento». 
    Anche tale questione non e' fondata. 
    La censurata disparita' di trattamento non sussiste,  perche'  la
ricorrenza di elementi tali da  obbligare  alla  denuncia  penale  ai
sensi dell'art.  331  cod.  proc.  pen.  costituisce  una  situazione
eterogenea rispetto a quella in cui tali elementi non  ricorrono.  E'
innegabile,  infatti,  che  la  non  arbitraria  ipotizzabilita'   di
specifici reati tributari, espressivi di  un  particolare  disvalore,
giustifica la previsione di una disciplina differenziata, proprio  in
ragione della gravita' dei fatti e della maggiore difficolta' che, di
norma, richiede il loro accertamento. 
    5.5. - Con la quinta censura viene  affermato  che  la  normativa
denunciata si pone in contrasto  con  l'art.  25  Cost.  perche',  in
presenza di ipotesi di reato previste dal d.lgs. n. 74 del  2000  per
le quali vi sia l'obbligo di denuncia,  essa  rende  retroattivamente
applicabile la sanzione del raddoppio dei termini per  l'accertamento
dell'imposta. 
    La questione non e' fondata, perche' la disciplina del  raddoppio
dei termini non ha natura sanzionatoria. Non e'  percio'  invocabile,
nella specie, il principio di  irretroattivita'  della  norma  penale
sfavorevole previsto dall'evocato secondo comma dell'art. 25 Cost.  E
cio' a prescindere dalla considerazione che - per quanto osservato ai
punti 3.2. e 5.1.2. - la disciplina fiscale censurata si applica solo
per  l'avvenire,  con  riferimento  sia  agli  illeciti  commessi   a
decorrere dalla data di entrata in vigore del  decreto-legge  n.  223
del 2006 sia a quelli commessi anteriormente e per i  quali,  a  tale
data, non siano ancora decorsi i termini di cui ai  primi  due  commi
dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972. 
    In particolare, il raddoppio dei termini di accertamento non puo'
qualificarsi "sanzione penale", neppure  impropria  o  atipica.  Esso
infatti, da un lato, non  rappresenta  la  reazione  ad  un  illecito
penale, perche' - come si e' visto - consegue  non  dall'accertamento
della commissione di un reato, ma solo dall'insorgere dell'obbligo di
denuncia dei reati previsti dal  d.lgs.  n.  74  del  2000,  restando
irrilevante il fatto che l'azione penale non sia iniziata o  non  sia
proseguita o intervenga una decisione penale di  proscioglimento,  di
assoluzione  o  di  condanna;   dall'altro,   non   costituisce   una
conseguenza sfavorevole sul piano sostanziale, perche'  non  comporta
ne'  un  obbligo  di  prestazione  ne'  l'emissione  di  un  atto  di
accertamento. Il mero assoggettamento ad un  termine  piu'  lungo  di
accertamento   fiscale   non   svolge,   dunque,   alcuna    funzione
afflittivo-punitiva  o  sanzionatoria  di  un  fatto  di  reato,  ma,
operando su un piano meramente procedimentale, persegue solo il sopra
evidenziato obiettivo di attribuire  agli  uffici  tributari  maggior
tempo per accertare l'effettiva capacita' contributiva  del  soggetto
passivo d'imposta, quando cio' sia giustificato dalla non  arbitraria
ipotizzabilita',  ai  sensi  dell'art.  331  cod.  proc.   pen.,   di
violazioni gravi e di piu' difficile controllo. 
 
                          Per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara   inammissibile    la    questione    di    legittimita'
costituzionale del combinato disposto del terzo  comma  dell'art.  57
del decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre  1972,  n.
633 (Istituzione e disciplina dell'imposta  sul  valore  aggiunto)  -
comma inserito dal comma 25 dell'art.  37  del  decreto-legge  del  4
luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e
sociale, per il  contenimento  e  la  razionalizzazione  della  spesa
pubblica, nonche' interventi in materia di  entrate  e  di  contrasto
all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla  legge  4
agosto 2006, n. 248 -, e del comma 26 dell'art. 37 del  decreto-legge
n. 223 del 2006, sollevata dalla Commissione  tributaria  provinciale
di Napoli, in riferimento all'art. 3, comma 3, della legge 27  luglio
2000, n. 212 (Disposizioni in materia  di  statuto  dei  diritti  del
contribuente), con l'ordinanza indicata in epigrafe; 
    dichiara non fondate le questioni di legittimita'  costituzionale
del suddetto combinato disposto del  terzo  comma  dell'art.  57  del
d.P.R. n. 633 del 1972 e del comma 26 dell'art. 37 del  decreto-legge
n. 223 del 2006, sollevate dalla Commissione  tributaria  provinciale
di  Napoli,  in  riferimento  agli  artt.  3,  24,  25  e  97   della
Costituzione, con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 20 luglio 2011. 
 
                       Il Presidente: Quaranta 
 
 
                         Il redattore: Gallo 
 
 
                       Il cancelliere: Melatti 
 
    Depositata in cancelleria il 25 luglio 2011. 
 
               Il direttore della cancelleria: Melatti