N. 246 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 agosto 2011
Ordinanza del 22 agosto 2011 emessa dal Tribunale di Ancona nel procedimento penale a carico di Mancini Endrio ed altri. Processo penale - Misure cautelari - Criteri di scelta delle misure - Obbligatorieta' della custodia cautelare in carcere quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in relazione alla fattispecie di cui all'art. 416 cod. pen. (Associazione per delinquere) finalizzata alla commissione dei reati di cui all'art. 473 cod. pen. (Contraffazione, alterazione o uso di marchio, segni distintivi, ovvero di brevetti, modelli e disegni) e all'art. 474 cod. pen. (Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi), salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - Preclusione della sostituzione della custodia cautelare in carcere con altra misura meno afflittiva - Violazione del principio di ragionevolezza - Contrasto con i principi di inviolabilita' della liberta' personale e di non colpevolezza sino alla sentenza di condanna definitiva. - Codice di procedura penale, art. 275, comma 3, come modificato dall'art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, nella legge 23 aprile 2009, n. 38. - Costituzione, artt. 3, 13, primo comma, e 27, comma secondo.(GU n.50 del 30-11-2011 )
IL TRIBUNALE Letta la richiesta del P.M. di sostituzione della misura cautelare degli arresti domiciliari applicata con ordinanza in data 21 giugno 2011 nell'ambito del procedimento sopra indicato agli indagati Mancini Endrio, nato a Montegranaro (FM) il 27 aprile 1966, Bordoni Stefano, nato a Montegranaro (FM) il 5 ottobre 1971, Perticarini Floriano, nato a Macerata il 17 marzo 1967 e di Taai Mandi, nato in Marocco il 6 giugno 1971; Osserva Nell'ambito del procedimento sopra indicato il P.M. faceva pervenire una richiesta di applicazione di misure cautelari nei confronti di vari indagati per l'imputazione provvisoria di cui all'art. 416 c.p. finalizzato alla realizzazione di plurimi reato di cui all'art. 473 e 474 c.p. Detta richiesta veniva accolta da quest'Ufficio che emetteva in data 21 giugno 2011 ordinanza applicativa di misure cautelari custodiali nei confronti di vari indagati tra cui quelli sopra indicati ai quali veniva applicata la misura cautelare degli arresti domiciliari sul presupposto che le pur accertate esigenze cautelari fossero di intensita' minore rispetto ad altri indagati e dunque che misura idonea fosse quella indicata. Il P.M. reiterava la richiesta in esame ritenendo che la norma non consentisse l'applicazione di una misura cautelare diversa, stante l'imputazione provvisoria elevata, da quella della custodia in carcere, valutazione che era stata evidenziata anche dal Tribunale per il Riesame di Ancona che aveva respinto il ricorso presentato da uno degli indagati al quale era stata applicata la misura piu' grave. Va detto che la scelta operata all'atto dell'emissione della misura era stata basata su una lettura "costituzionalmente orientata" della norma in esame, alla luce delle sopravvenute pronunce in materia emesse da Codesta Corte in relazione ad altre differenti fattispecie penali ricomprese nel novero dell'art. 275 co. 3 c.p.p. sentt. 165/10 e 164/11), che con motivazione di contenuto sostanzialmente analogo avevano dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'articolo in esame proprio censurando il dettato legislativo laddove prefigura un giudizio di idoneita' con presunzione assoluta, non sindacabile, della sola misura della custodia in carcere una volta ravvisate esigenze cautelari in relazione a specifiche fattispecie penali. Per altro la motivazione sottesa alla nuova richiesta del P.M. di rivalutazione della scelta operata e' basata palesemente sul presupposto che non sia possibile detta interpretazione, valutazione questa sostanzialmente condivisibile, stante la specificita' e la eterogeneita' delle singole fattispecie ricomprese che non consente di allargare l'interpretazione ad altre, dovendo far ricorso alla proposizione della questione di legittimita' costituzionale, anche dopo la recentissima decisione (sent. 231/11) che ora, con il presente provvedimento si intende proporre. Come detto nell'ambito del procedimento sopra indicato il P.M. ha contestato agli indagati, oltre che i singoli "reati fine", anche il reato associativo ex art. 416 c.p. sodalizio finalizzato alla perpetrazione di plurime condotte di contraffazione di prodotti, calzature, protetti da un noto marchio registrato. Le risultanze delle indagini, costituite sia da diretti riscontri operati dagli investigatori della G. di F., nonche' dalle risultanze delle intercettazioni telefoniche avevano permesso di acquisire un quadro indiziario grave ed univoco non solo per quanto atteneva alle singole condotte, i c.d. reati fine, ma soprattutto in merito all'operativita' di un sodalizio, dotato di stabilita', avente la finalita' di perpetrare le condotte illecite riscontrate in via indefinita ed ancora operante all'atto dell'emissione della misura cautelare. Nell'ambito del sodalizio cosi' come enucleatosi le indagini avevano permesso di esaltare i ruoli dei singoli partecipi evidenziando in maniera del tutto netta l'apporto fornito con la propria condotta alla realizzazione dei fini del sodalizio stesso. In particolare emergeva come alcuni tra gli indagati erano da considerarsi i promotori e gli organizzatori del sodalizio, coloro che ne determinavano le scelte operative e finanziarie, decidendo la tipologia della produzione, il luogo della stessa, le modalita' della vendita ed il costo mentre altri avevano realizzato condotte certamente funzionali ai fini del sodalizio, consapevoli di farne parte, ma certamente con un ruolo marginale, perche' privi di capacita' decisionali e facilmente intercambiabili e/o sostituibili a seconda delle necessita' della produzione, comunque attuata in forma "imprenditoriale" sia pure illecita. In particolare proprio per la specifica tipologia dell'attivita' di illecita produzione come realizzata, il sodalizio si serviva di soggetti che realizzavano solo una parte del prodotto, calzature con marchio Hogan contraffatto, poi da assemblare e nello specifico o le suole o le lettere rappresentanti il marchio stesso e simili, soggetti il cui apporto era talvolta solo temporaneo, legato alle necessita' della produzione illecita od a circostanze esterne quali ad es. l'avvenuto sequestro di materiale; soggetti che per altro operavano unicamente sotto le direttive e le precise indicazioni degli indagati di maggior spicco ed anche su materiali o macchinari, gli stampi dagli stessi forniti. In relazione a dette posizioni, che attenevano, a parere dello scrivente, agli indagati sopra richiamati, le esigenze cautelari ritenute esistenti ed attuali, anche in ragione della temporaneita' del rapporto con il sodalizio, apparivano ed appaiono per altro di minor spessore e tali, sulla base del principio costituzionale del "minor sacrificio necessario" applicabile in tema di compressione della liberta' personale, da poter essere adeguatamente tutelate, in presenza degli altri presupposti di legge, dalla misura degli arresti domiciliari. La riproposizione da parte del P.M. dell'originaria richiesta rende la questione rilevante e, come detto, non superabile sulla base di un'interpretazione della norma di cui all'art. 275 co. 3 c.p.p. A parere dello scrivente per altro la questione e' anche non manifestamente infondata apparendo sussistere una violazione del dettato costituzionale in relazione agli artt. 3, 13 1° Co. e 27 2° Co. della Costituzione nella parte in cui la norma citata disciplina una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare della custodia in carcere in relazione alla fattispecie di cui all'art. 416 finalizzato alla commissione di reato di cui agli artt. 473 e 474 c.p. e cio' in forza del richiamo effettuato dall'art. 275 co. 3 c.p.p. come modificato dall'art. 2 del DL 23/2/2009 n. 11 conv. nella L. 38/2009, all'art. 51 co. 3 bis c.p.p. a sua volta come integrato dalla legge n. 99/2009. Come e' noto la disciplina di cui all'art. 275 co. 3 c.p.p. per interpretazione del tutto consolidata, piu' volte ribadita dalla stessa Suprema Corte, contiene due previsioni differenti in relazione alle fattispecie di reato indicate e nello specifico una presunzione relativa attinente alla sussistenza di esigenze cautelari in presenza di gravi indizi per uno dei reati elencati, presunzione superabile a contrariis laddove cioe' ".. siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistano esigenze cautelari .." e, l'altra, assoluta per la quale in presenza di tali duplici elementi l'unica misura cautelare adeguata e' costituita dalla custodia in carcere. Detto regime e' gia' stato sottoposto al vaglio di Codesta Corte che ha pronunciato importanti decisioni che appaiono di estremo rilievo per l'affinita' del percorso motivazionale. Infatti con la pronuncia n. 265/2010 e' stata sancita l'illegittimita' costituzionale della norma in esame laddove in relazione ai reati di cui agli artt. 600 bis, 609 bis e quater c.p. non viene fatta salva l'ipotesi che in presenza di gravi indizi ed in mancanza di elementi che escludano la sussistenza di esigenze cautelari, debba essere sempre applicata la misura custodiale massima pur se siano al contrario stati acquisiti elementi specifici che dai quali emerga. che dette esigenze nel caso concreto possano essere soddisfatte anche con altre misure. Detta decisione ha esaltato il contrasto della norma esaminata in relazione ai principi di cui agli artt. 3, 13 e 27 della Carta Costituzionale. Detti articoli infatti pongono alcuni principi basilari del nostro sistema giuridico e segnatamente il principio di inviolabilita' della liberta' personale (art. 13 co. 1) e della presunzione di non colpevolezza (art. 27) sino alla condanna definitiva; per altro atteso che il sistema prevede una limitazione alla liberta' personale "ante iudicium", previsione tutelata da riserva di legge, al fine di superare l'apparente contraddizione dei due principi occorre che la privazione della liberta' personale abbia caratteristiche del tutto differenti con quelle della pena, irrogabile solo dopo il definitivo accertamento della responsabilita' personale. Il principio cardine dell'Ordinamento e' quello, piu' volte ribadito del "minor sacrificio necessario" (Sent. 299/05) che impone al legislatore di predisporre un sistema che preveda una graduazione delle misure applicabili ed al giudice di motivare la scelta stessa, principio che ha quale corollario che la sanzione massima, della custodia in carcere, e' concepibile e prevedibile solo quando la tutela delle esigenze cautelari, cui la misura e' finalizzata, non possono essere soddisfatte da altra misura di minore incisivita'. Detti principi, presenti nella Carta Costituzionale per altro sono altresi' richiamati nella Convenzione dei Diritti dell'Uomo ed in tal senso si e' espressa la stessa Corte Europea. Il necessario corollario ai principi sopra indicato e' l'eguale principio che in materia cautelare in astratto il regime non deve prevedere presunzioni od automatismi atteso che essi contrasterebbero con la natura individualizzante della disciplina delle misure stesse che il giudice deve ancorare al "caso concreto" proprio per rendere concreti i principi della proporzionalita', adeguatezza e minor sacrificio. Il sistema disciplinato dal legislatore indubbiamente e' ancorato a detti principi fatta salve alcune eccezioni che per altro avevano superato il vaglio di costituzionalita' per la peculiarita' della fattispecie. Si fa riferimento ovviamente alla disciplina che ha derogato da detti principi in relazione all'art. 416 bis c.p. che da tempo aveva modificato la norma in esame. Gia' con l'Ordinanza n. 450/1995 la Corte aveva ritenuto la conformita' della norma al sistema costituzionale precisando che in relazione a specifiche ipotesi il legislatore potesse derogare ai principi autoattribuendosi la scelta della misura ritenuta adeguata quando cio' non fosse in contrasto con il principio di ragionevolezza che e' ravvisabile quando vi era un equo contemperamento dei valori in gioco, dati nel caso concreto dalla estrema gravita' e pericolosita' sociale del reato per la sua capacita' diffusiva. Detto sistema per altro ha avuto una forte modifica con l'entrata in vigore del DL n. 11/2009 che ha modificato l'art. 275 co. 3 c.p.p. allargando, come Codesta Corte non ha mancato di evidenziare, a molteplici fattispecie tra loro eterogenee e che tutelano differenti beni giuridici, la stessa disciplina eccezionale delle misure cautelari. Detto sistema appare certamente irrazionale. Nelle prime due decisioni gia' intervenute (le nn. 265/10 e 164/11) la Corte ha sancito il principio che "... le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe' se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit. In particolare, l'irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia "agevole" formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 139 del 2010 ...)". Stante la differente natura dei reati oggetto delle due sentenze, reati sessuali la prima ed il reato di omicidio volontario l'altra, la Corte ha evidenziato come nessuna delle due fattispecie avesse struttura tale da potersi estendere la medesima ratio che giustificava l'eccezione derogatrice per i reati di mafia non riscontrandosi quel plus di pericolosita' sociale dato dal fatto che "... la struttura stessa della fattispecie (art. 416 bis c.p.) e dalle sue connotazioni criminologiche - legate alla circostanza che l'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un'adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice - deriva, nella generalita' dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure "minori" sufficienti a troncare i rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosita')...". Le due fattispecie oggetto delle citate pronunce, seppur relative a reati gravissimi e riprovevoli secondo la Corte tuttavia erano costituiti spesso da fatti meramente individuali, legati a pulsioni soggettive e che trovano la loro realizzazione e maturazione in specifici contesti e la cui gravita' va tutelata dal regime sanzionatorio gia' di per se' grave. In relazione a dette fattispecie pertanto non poteva escludersi, concludeva la Corte, la possibilita' che nei congrui casi anche una misura meno afflittiva di quella carceraria potesse essere del tutto adeguata divenendo irrazionale una disciplina che per presunzione assoluta la escludesse. Fatte tali premesse va verificato se detti principi valutativi possano estendersi anche alla fattispecie in esame l'art. 416 c.p. finalizzato alla realizzazione dei reati di cui agli artt. 473, 474 c.p. Ritiene lo scrivente che non sia di ostacolo la natura della fattispecie stessa pur non potendosi ovviamente parlare di reato relativo a condotte meramente individuali, per sua stessa natura richiedendo una pluralita' di persone legate da un vincolo solidale e stabile nel tempo, almeno in via tendenziale, soggetti dotati, per la realizzazione degli illeciti di una sia pur modesta organizzazione di mezzi e di compiti. Pur tuttavia ritiene lo scrivente che alla fattispecie suddetta non si attaglino i canoni interpretativi sopra indicati per la fattispecie di mafia e non solo per le evidenti differenze ontologiche. Gia' si e' sottolineato in precedenza come la norma faccia richiamo alla fattispecie base dell'associazione a delinquere che di fatto non e' stata modificata come ad es. e' successo con l'introduzione del comma VI egualmente ricompreso nell'art. 51 co. 3 bis c.p.p. atteso che il legislatore, che pure ha ridisegnato, con la L. 99/2009 i reati fine inserendo significative novita', ha solamente effettuato un mero richiamo ai soli fini delle misure cautelari senza significativi inasprimenti di pena. Nella fenomenologia inoltre un sodalizio avente le finalita' indicate si presenta, per sua stessa natura, con delle caratteristiche di estrema varieta' delle forme di partecipazione, come d'altronde e' emerso nel corso delle indagini, caratterizzate dalle singole necessita' del sodalizio che opera in "forma di impresa", seppur illecita, ovviamente larvata, per cui l'apporto del singolo sodale e' estremamente vario e spesso non catalogabile in rigidi schemi. Certamente e' del tutto carente un forte radicamento in un dato territorio, come puro l'uso di forme di intimidazione e lo stesso legame associativo e' basato su un rapporto di mera convenienza economica e non sul rispetto di codici di onore o patti di similare valore. Fanno difetto in sostanza, a parere dello scrivente, proprio quelle che sono le caratteristiche precipue che sono state hanno portato la Corte a ritenere non irragionevole la deroga della disciplina delle misure cautelari per i' reati di mafia. D'altronde che la natura associativa della fattispecie non sia di per se' stessa ostativa ad una valutazione in termini di irragionevolezza della previsione della sola misura cautelare massima puo' desumersi da un altro elemento. Sul punto infatti non puo' che richiamarsi una recentissima sentenza della stessa Corte, la n. 231/11 inerente la diversa, ed invero ben piu' grave, anche sotto il profilo sanzionatorio, fattispecie associativa di cui all'art. 74 DPR 309/90 cioe' l'associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. Nella citata sentenza, dichiarativa anch'essa dell'incostituzionalita' dell'art. 2753 co. c.p.p. per lo stesso contenuto di cui sopra si e' detto, la Corte osservava come la mera circostanza della natura associativa della fattispecie esaminata di per se' non "... e' sufficiente a costituire un'adeguata base logico giuridica della presunzione di cui si discute...". La stessa sentenza inoltre ha precisato che "... nel ritenere assistita da adeguato fondamento razionale la presunzione de qua in relazione al delitto di associazione di tipo mafioso, ha gia' avuto modo di porre in evidenza come tale conclusione si giustifichi alla luce non del mero vincolo associativo quanto piuttosto delle particolari caratteristiche che esso assume nella cornice di detta fattispecie...". In particolare ha precisato la Corte nella sentenza citata "... caratteristica essenziale e' proprio la specificita' del vincolo che sul piano concreto implica ed e' suscettibile di produrre da un lato una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica una rete di collegamenti ed un radicamento territoriale e, dall'altro, una diffusivita' dei risultati illeciti a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio...". In sostanza viene fatto richiamo a quelle caratteristiche peculiari del delitto mafioso che lo connotano di particolare pericolosita' sociale, caratteristiche che certamente non sono state ravvisate, pur nella sua gravita', nel reato associativo finalizzato alla cessione degli stupefacenti e che, a parere dello scrivente, a maggior ragione ancor meno sono riscontrabili nella fattispecie associativa in esame. La stessa si connota come egualmente come fattispecie "aperta" nel senso che puo' manifestarsi tramite una complessa organizzazione, con consistenti investimenti di capitali ma anche tramite forme del tutto minimali; una fattispecie dunque non catalogabile in un rigido schema normativo predefinito nelle sue caratteristiche costitutive, com'e' l'art. 416 bis c.p. ma che va rapportata nel caso concreto ad un paradigma astratto che ricomprende le varie forme di manifestazione fattuale. A parere dello scrivente la norma in esame, l'art. 275 co. 3 nella parte in cui richiama l'art. 51 3 bis c.p.p. in relazione all'art. 416 c.p. finalizzato alla realizzazione dei reato di cui agli artt. 473 e 474 c.p. contrasta con l'art. 3 della Carta Costituzionale derogando al principio di uguaglianza sulla base di una scelta irragionevole perche' impositiva di una presunzione assoluta in materia di misure cautelari non basata su una peculiare specificita' della fattispecie penale alla quale fa riferimento. Di conseguenza deve ritenersi ledere anche i principi di cui agli artt. 13 e 27 della Costituzione dell'inviolabilita' della liberta' personale e di presunzione di non colpevolezza prevedendo come detto una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare massima senza una ragionevole specificita' della fattispecie stessa. Si impone pertanto la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale.
P.Q.M. Visti gli artt. 299 c.p.p.; art. 1 legge Cost. 9/2/1948 e 23 legge 11/3/1953 n. 87; Solleva d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275 comma 3° c.p.p. nell'attuale formulazione, nella parte in cui impone l'applicazione o non consente la sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con altra differente misura meno afflittiva in relazione alla fattispecie di cui all'art. 416 c.p. finalizzato alla commissione dei reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p. per contrarieta' agli artt. 3, 13 1° comma e 27 2° comma della Costituzione. Sospende il procedimento in corso. Ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina la notificazione della presente ordinanza alle parti del procedimento. Ordina altresi' la notificazione della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri e la sua comunicazione ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. Manda la Cancelleria per gli adempimenti. Ancona, addi' 22 agosto 2011 Il Giudice: Pallucchini