N. 246 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 agosto 2011

Ordinanza del 22 agosto 2011  emessa  dal  Tribunale  di  Ancona  nel
procedimento penale a carico di Mancini Endrio ed altri. 
 
Processo penale - Misure cautelari - Criteri di scelta delle misure -
  Obbligatorieta'  della  custodia  cautelare   in   carcere   quando
  sussistono  gravi  indizi  di  colpevolezza   in   relazione   alla
  fattispecie  di  cui  all'art.  416  cod.  pen.  (Associazione  per
  delinquere) finalizzata alla commissione dei reati di cui  all'art.
  473 cod. pen. (Contraffazione, alterazione o uso di marchio,  segni
  distintivi, ovvero di brevetti, modelli e disegni) e  all'art.  474
  cod. pen. (Introduzione nello Stato e  commercio  di  prodotti  con
  segni falsi), salvo che siano acquisiti elementi dai quali  risulti
  che  non  sussistono  esigenze  cautelari   -   Preclusione   della
  sostituzione della custodia cautelare in carcere con  altra  misura
  meno afflittiva - Violazione  del  principio  di  ragionevolezza  -
  Contrasto con i principi di inviolabilita' della liberta' personale
  e di non colpevolezza sino alla sentenza di condanna definitiva. 
- Codice di procedura penale, art.  275,  comma  3,  come  modificato
  dall'art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio  2009,  n.  11,
  convertito, con modificazioni, nella legge 23 aprile 2009, n. 38. 
- Costituzione, artt. 3, 13, primo comma, e 27, comma secondo. 
(GU n.50 del 30-11-2011 )
 
                            IL TRIBUNALE 
 
    Letta  la  richiesta  del  P.M.  di  sostituzione  della   misura
cautelare degli arresti domiciliari applicata con ordinanza  in  data
21 giugno 2011  nell'ambito  del  procedimento  sopra  indicato  agli
indagati Mancini Endrio, nato a Montegranaro (FM) il 27 aprile  1966,
Bordoni  Stefano,  nato  a  Montegranaro  (FM)  il  5  ottobre  1971,
Perticarini Floriano, nato a Macerata il 17  marzo  1967  e  di  Taai
Mandi, nato in Marocco il 6 giugno 1971; 
 
                               Osserva 
 
    Nell'ambito  del  procedimento  sopra  indicato  il  P.M.  faceva
pervenire una richiesta  di  applicazione  di  misure  cautelari  nei
confronti di vari  indagati  per  l'imputazione  provvisoria  di  cui
all'art. 416 c.p. finalizzato alla realizzazione di plurimi reato  di
cui all'art. 473 e 474 c.p. 
    Detta richiesta veniva accolta da quest'Ufficio che  emetteva  in
data  21  giugno  2011  ordinanza  applicativa  di  misure  cautelari
custodiali nei confronti  di  vari  indagati  tra  cui  quelli  sopra
indicati ai quali veniva applicata la misura cautelare degli  arresti
domiciliari sul presupposto che le pur accertate  esigenze  cautelari
fossero di intensita' minore rispetto ad altri indagati e dunque  che
misura idonea fosse quella indicata. 
    Il P.M. reiterava la richiesta in esame ritenendo  che  la  norma
non consentisse  l'applicazione  di  una  misura  cautelare  diversa,
stante l'imputazione provvisoria elevata, da quella della custodia in
carcere, valutazione che era stata evidenziata  anche  dal  Tribunale
per il Riesame di Ancona che aveva respinto il ricorso presentato  da
uno degli indagati al quale era stata applicata la misura piu' grave.
Va detto che la scelta operata all'atto dell'emissione  della  misura
era stata basata su una lettura "costituzionalmente orientata"  della
norma in esame, alla luce  delle  sopravvenute  pronunce  in  materia
emesse da Codesta Corte in relazione ad altre differenti  fattispecie
penali ricomprese nel novero dell'art. 275 co. 3 c.p.p. sentt. 165/10
e 164/11), che con motivazione di contenuto  sostanzialmente  analogo
avevano dichiarato l'illegittimita' costituzionale  dell'articolo  in
esame proprio censurando il dettato legislativo laddove prefigura  un
giudizio di idoneita'  con  presunzione  assoluta,  non  sindacabile,
della sola misura della  custodia  in  carcere  una  volta  ravvisate
esigenze cautelari in relazione a specifiche fattispecie penali.  Per
altro la  motivazione  sottesa  alla  nuova  richiesta  del  P.M.  di
rivalutazione  della  scelta  operata  e'  basata   palesemente   sul
presupposto che non sia possibile detta interpretazione,  valutazione
questa sostanzialmente condivisibile, stante  la  specificita'  e  la
eterogeneita' delle singole fattispecie ricomprese che  non  consente
di allargare l'interpretazione ad altre,  dovendo  far  ricorso  alla
proposizione della questione di  legittimita'  costituzionale,  anche
dopo la  recentissima  decisione  (sent.  231/11)  che  ora,  con  il
presente provvedimento si intende proporre. 
    Come detto nell'ambito del procedimento sopra indicato il P.M. ha
contestato agli indagati, oltre che i singoli "reati fine", anche  il
reato  associativo  ex  art.  416  c.p.  sodalizio  finalizzato  alla
perpetrazione di plurime  condotte  di  contraffazione  di  prodotti,
calzature, protetti da un noto marchio registrato. 
    Le risultanze delle indagini, costituite sia da diretti riscontri
operati dagli investigatori della G. di F., nonche' dalle  risultanze
delle intercettazioni telefoniche avevano permesso  di  acquisire  un
quadro indiziario grave ed univoco non solo per quanto atteneva  alle
singole condotte,  i  c.d.  reati  fine,  ma  soprattutto  in  merito
all'operativita' di un sodalizio, dotato  di  stabilita',  avente  la
finalita' di perpetrare  le  condotte  illecite  riscontrate  in  via
indefinita ed ancora operante all'atto  dell'emissione  della  misura
cautelare. 
    Nell'ambito del sodalizio  cosi'  come  enucleatosi  le  indagini
avevano  permesso  di  esaltare  i  ruoli   dei   singoli   partecipi
evidenziando in maniera del tutto  netta  l'apporto  fornito  con  la
propria condotta alla realizzazione dei fini del sodalizio stesso. 
    In particolare emergeva come alcuni tra  gli  indagati  erano  da
considerarsi i promotori e gli organizzatori  del  sodalizio,  coloro
che ne determinavano le scelte operative e finanziarie, decidendo  la
tipologia della produzione, il luogo della stessa, le modalita' della
vendita  ed  il  costo  mentre  altri  avevano  realizzato   condotte
certamente funzionali ai fini del  sodalizio,  consapevoli  di  farne
parte, ma  certamente  con  un  ruolo  marginale,  perche'  privi  di
capacita' decisionali e facilmente intercambiabili e/o sostituibili a
seconda delle necessita' della produzione, comunque attuata in  forma
"imprenditoriale" sia pure illecita. 
    In particolare proprio per la specifica tipologia  dell'attivita'
di illecita produzione come realizzata, il sodalizio  si  serviva  di
soggetti che realizzavano solo una parte del prodotto, calzature  con
marchio Hogan contraffatto, poi da assemblare e nello specifico o  le
suole o  le  lettere  rappresentanti  il  marchio  stesso  e  simili,
soggetti il cui apporto era talvolta  solo  temporaneo,  legato  alle
necessita' della produzione illecita od a circostanze  esterne  quali
ad es. l'avvenuto sequestro di  materiale;  soggetti  che  per  altro
operavano unicamente sotto le  direttive  e  le  precise  indicazioni
degli indagati di maggior spicco ed anche su materiali o  macchinari,
gli stampi dagli stessi forniti. 
    In relazione a dette posizioni, che attenevano,  a  parere  dello
scrivente, agli indagati  sopra  richiamati,  le  esigenze  cautelari
ritenute esistenti ed attuali, anche in ragione  della  temporaneita'
del rapporto con il sodalizio, apparivano ed appaiono  per  altro  di
minor spessore e tali, sulla base del  principio  costituzionale  del
"minor sacrificio necessario" applicabile  in  tema  di  compressione
della liberta' personale, da poter essere adeguatamente tutelate,  in
presenza degli altri presupposti di legge, dalla misura degli arresti
domiciliari. 
    La riproposizione da parte  del  P.M.  dell'originaria  richiesta
rende la questione rilevante e, come detto, non superabile sulla base
di un'interpretazione della norma di cui all'art. 275 co. 3 c.p.p. 
    A parere dello scrivente per altro  la  questione  e'  anche  non
manifestamente infondata  apparendo  sussistere  una  violazione  del
dettato costituzionale in relazione agli artt. 3, 13 1° Co. e  27  2°
Co. della Costituzione nella parte in cui la norma citata  disciplina
una presunzione assoluta di adeguatezza della sola  misura  cautelare
della custodia in  carcere  in  relazione  alla  fattispecie  di  cui
all'art. 416 finalizzato alla commissione di reato di cui agli  artt.
473 e 474 c.p. e cio' in forza del richiamo effettuato dall'art.  275
co. 3 c.p.p. come modificato dall'art. 2 del DL 23/2/2009 n. 11 conv.
nella L. 38/2009, all'art. 51 co. 3  bis  c.p.p.  a  sua  volta  come
integrato dalla legge n. 99/2009. 
    Come e' noto la disciplina di cui all'art. 275 co. 3  c.p.p.  per
interpretazione del tutto  consolidata,  piu'  volte  ribadita  dalla
stessa Suprema Corte, contiene due previsioni differenti in relazione
alle fattispecie di reato indicate e nello specifico una  presunzione
relativa attinente alla sussistenza di esigenze cautelari in presenza
di gravi indizi per uno dei reati elencati, presunzione superabile  a
contrariis laddove cioe'  "..  siano  acquisiti  elementi  dai  quali
risulti  che  non  sussistano  esigenze  cautelari  .."  e,  l'altra,
assoluta per la quale in presenza di tali  duplici  elementi  l'unica
misura cautelare adeguata e' costituita dalla custodia in carcere. 
    Detto regime e' gia' stato sottoposto al vaglio di Codesta  Corte
che ha pronunciato  importanti  decisioni  che  appaiono  di  estremo
rilievo per l'affinita' del percorso motivazionale. 
    Infatti  con  la  pronuncia  n.   265/2010   e'   stata   sancita
l'illegittimita' costituzionale  della  norma  in  esame  laddove  in
relazione ai reati di cui agli artt. 600 bis, 609 bis e  quater  c.p.
non viene fatta salva l'ipotesi che in presenza di gravi indizi ed in
mancanza  di  elementi  che  escludano  la  sussistenza  di  esigenze
cautelari, debba essere sempre applicata la misura custodiale massima
pur se siano al contrario stati acquisiti elementi specifici che  dai
quali emerga. che dette esigenze nel  caso  concreto  possano  essere
soddisfatte anche con altre misure. 
    Detta decisione ha esaltato il contrasto della norma esaminata in
relazione ai principi di cui agli  artt.  3,  13  e  27  della  Carta
Costituzionale. 
    Detti articoli  infatti  pongono  alcuni  principi  basilari  del
nostro   sistema   giuridico   e   segnatamente   il   principio   di
inviolabilita' della liberta' personale  (art.  13  co.  1)  e  della
presunzione  di  non  colpevolezza  (art.  27)  sino  alla   condanna
definitiva; per altro atteso che il sistema prevede  una  limitazione
alla liberta'  personale  "ante  iudicium",  previsione  tutelata  da
riserva di legge, al fine di superare l'apparente contraddizione  dei
due principi occorre che la privazione della liberta' personale abbia
caratteristiche  del  tutto  differenti  con   quelle   della   pena,
irrogabile solo dopo il definitivo accertamento della responsabilita'
personale. 
    Il principio  cardine  dell'Ordinamento  e'  quello,  piu'  volte
ribadito del "minor sacrificio necessario" (Sent. 299/05) che  impone
al legislatore di predisporre un sistema che preveda una  graduazione
delle misure applicabili ed al giudice di motivare la scelta  stessa,
principio che ha quale corollario  che  la  sanzione  massima,  della
custodia in carcere, e' concepibile  e  prevedibile  solo  quando  la
tutela delle esigenze cautelari, cui la misura  e'  finalizzata,  non
possono essere soddisfatte da altra misura di minore incisivita'. 
    Detti principi, presenti nella  Carta  Costituzionale  per  altro
sono altresi' richiamati nella Convenzione dei Diritti  dell'Uomo  ed
in tal senso si e' espressa la stessa Corte Europea. 
    Il necessario corollario ai principi sopra indicato  e'  l'eguale
principio che in materia cautelare in astratto  il  regime  non  deve
prevedere presunzioni od automatismi atteso che essi contrasterebbero
con la natura individualizzante della disciplina delle misure  stesse
che il giudice deve ancorare al "caso concreto" proprio  per  rendere
concreti i  principi  della  proporzionalita',  adeguatezza  e  minor
sacrificio. 
    Il sistema disciplinato dal legislatore indubbiamente e' ancorato
a detti principi fatta salve alcune eccezioni che per  altro  avevano
superato il vaglio di costituzionalita'  per  la  peculiarita'  della
fattispecie. 
    Si fa riferimento ovviamente alla disciplina che ha  derogato  da
detti principi in relazione all'art. 416 bis c.p. che da tempo  aveva
modificato la norma in esame. Gia' con  l'Ordinanza  n.  450/1995  la
Corte  aveva  ritenuto  la  conformita'  della   norma   al   sistema
costituzionale precisando che in relazione a  specifiche  ipotesi  il
legislatore potesse derogare ai principi autoattribuendosi la  scelta
della misura ritenuta adeguata quando cio' non fosse in contrasto con
il principio di ragionevolezza che e' ravvisabile quando  vi  era  un
equo contemperamento dei valori in  gioco,  dati  nel  caso  concreto
dalla estrema gravita' e pericolosita' sociale del reato per  la  sua
capacita' diffusiva. 
    Detto sistema per altro ha avuto una forte modifica con l'entrata
in vigore del DL n. 11/2009 che ha modificato l'art. 275 co. 3 c.p.p.
allargando, come Codesta Corte  non  ha  mancato  di  evidenziare,  a
molteplici fattispecie tra loro eterogenee e che tutelano  differenti
beni  giuridici,  la  stessa  disciplina  eccezionale  delle   misure
cautelari. 
    Detto sistema appare certamente irrazionale. 
    Nelle prime due decisioni  gia'  intervenute  (le  nn.  265/10  e
164/11) la Corte ha sancito il  principio  che  "...  le  presunzioni
assolute,  specie  quando  limitano  un  diritto  fondamentale  della
persona, violano il principio di eguaglianza, se  sono  arbitrarie  e
irrazionali,  cioe'  se  non  rispondono   a   dati   di   esperienza
generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod   plerumque
accidit.  In  particolare,   l'irragionevolezza   della   presunzione
assoluta si coglie tutte le volte  in  cui  sia  "agevole"  formulare
ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione  posta  a
base della presunzione stessa (sentenza n. 139 del 2010 ...)". 
    Stante la differente natura dei reati oggetto delle due sentenze,
reati sessuali la prima ed il reato di omicidio  volontario  l'altra,
la Corte ha evidenziato come nessuna  delle  due  fattispecie  avesse
struttura  tale  da  potersi  estendere   la   medesima   ratio   che
giustificava  l'eccezione  derogatrice  per  i  reati  di  mafia  non
riscontrandosi quel plus di pericolosita' sociale dato dal fatto  che
"... la struttura stessa della fattispecie  (art.  416  bis  c.p.)  e
dalle sue connotazioni criminologiche - legate alla  circostanza  che
l'appartenenza ad associazioni di tipo  mafioso  implica  un'adesione
permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel
territorio,  caratterizzato  da  una  fitta  rete   di   collegamenti
personali e dotato di particolare forza intimidatrice - deriva, nella
generalita'  dei  casi   e   secondo   una   regola   di   esperienza
sufficientemente  condivisa,  una   esigenza   cautelare   alla   cui
soddisfazione sarebbe adeguata  solo  la  custodia  in  carcere  (non
essendo le misure "minori" sufficienti  a  troncare  i  rapporti  tra
l'indiziato    e    l'ambito    delinquenziale    di    appartenenza,
neutralizzandone la pericolosita')...". 
    Le due fattispecie oggetto delle citate pronunce, seppur relative
a reati gravissimi e riprovevoli  secondo  la  Corte  tuttavia  erano
costituiti spesso da fatti meramente individuali, legati  a  pulsioni
soggettive e che trovano  la  loro  realizzazione  e  maturazione  in
specifici  contesti  e  la  cui  gravita'  va  tutelata  dal   regime
sanzionatorio gia' di per se' grave. 
    In relazione a dette fattispecie pertanto non poteva  escludersi,
concludeva la Corte, la possibilita' che nei congrui casi  anche  una
misura meno afflittiva di quella carceraria potesse essere del  tutto
adeguata divenendo irrazionale una  disciplina  che  per  presunzione
assoluta la escludesse. 
    Fatte tali premesse va verificato se  detti  principi  valutativi
possano estendersi anche alla fattispecie in esame  l'art.  416  c.p.
finalizzato alla realizzazione dei reati di cui agli artt.  473,  474
c.p. 
    Ritiene lo scrivente che non sia  di  ostacolo  la  natura  della
fattispecie stessa pur non  potendosi  ovviamente  parlare  di  reato
relativo a condotte meramente  individuali,  per  sua  stessa  natura
richiedendo una pluralita' di persone legate da un vincolo solidale e
stabile nel tempo, almeno in via tendenziale, soggetti dotati, per la
realizzazione degli illeciti di una sia pur modesta organizzazione di
mezzi e di compiti. 
    Pur tuttavia ritiene lo scrivente che alla  fattispecie  suddetta
non si attaglino  i  canoni  interpretativi  sopra  indicati  per  la
fattispecie  di  mafia  e  non  solo  per  le   evidenti   differenze
ontologiche. 
    Gia' si e'  sottolineato  in  precedenza  come  la  norma  faccia
richiamo alla fattispecie base dell'associazione a delinquere che  di
fatto  non  e'  stata  modificata  come  ad  es.  e'   successo   con
l'introduzione del comma VI egualmente ricompreso nell'art. 51 co.  3
bis c.p.p. atteso che il legislatore, che pure ha ridisegnato, con la
L. 99/2009 i reati fine inserendo significative novita', ha solamente
effettuato un mero richiamo ai soli fini delle misure cautelari senza
significativi inasprimenti di pena. 
    Nella fenomenologia inoltre  un  sodalizio  avente  le  finalita'
indicate  si   presenta,   per   sua   stessa   natura,   con   delle
caratteristiche di estrema varieta' delle  forme  di  partecipazione,
come d'altronde e' emerso nel corso  delle  indagini,  caratterizzate
dalle singole  necessita'  del  sodalizio  che  opera  in  "forma  di
impresa", seppur illecita, ovviamente larvata, per cui l'apporto  del
singolo sodale e' estremamente vario e  spesso  non  catalogabile  in
rigidi schemi. 
    Certamente e' del tutto carente un forte radicamento in  un  dato
territorio, come puro l'uso di forme di  intimidazione  e  lo  stesso
legame associativo e' basato  su  un  rapporto  di  mera  convenienza
economica e non sul rispetto di codici di onore o patti  di  similare
valore. 
    Fanno difetto in sostanza,  a  parere  dello  scrivente,  proprio
quelle che sono le caratteristiche  precipue  che  sono  state  hanno
portato la  Corte  a  ritenere  non  irragionevole  la  deroga  della
disciplina delle misure cautelari per i' reati di  mafia.  D'altronde
che la natura associativa della fattispecie non sia di per se' stessa
ostativa ad una valutazione  in  termini  di  irragionevolezza  della
previsione della sola misura cautelare massima puo' desumersi  da  un
altro elemento. 
    Sul punto infatti  non  puo'  che  richiamarsi  una  recentissima
sentenza della stessa Corte, la n. 231/11  inerente  la  diversa,  ed
invero  ben  piu'  grave,  anche  sotto  il  profilo   sanzionatorio,
fattispecie  associativa  di  cui  all'art.  74  DPR   309/90   cioe'
l'associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. 
    Nella      citata      sentenza,      dichiarativa      anch'essa
dell'incostituzionalita' dell'art. 2753  co.  c.p.p.  per  lo  stesso
contenuto di cui sopra si e' detto, la Corte osservava come  la  mera
circostanza della natura associativa della fattispecie  esaminata  di
per se' non "... e' sufficiente a costituire un'adeguata base  logico
giuridica della presunzione di cui si discute...". 
    La stessa sentenza inoltre ha precisato  che  "...  nel  ritenere
assistita da adeguato fondamento razionale la presunzione de  qua  in
relazione al delitto di associazione di tipo mafioso, ha  gia'  avuto
modo di porre in evidenza come tale conclusione si  giustifichi  alla
luce  non  del  mero  vincolo  associativo  quanto  piuttosto   delle
particolari caratteristiche che esso assume nella  cornice  di  detta
fattispecie...". 
    In particolare ha precisato la Corte nella sentenza  citata  "...
caratteristica essenziale e' proprio la specificita' del vincolo  che
sul piano concreto implica ed e' suscettibile di produrre da un  lato
una solida e  permanente  adesione  tra  gli  associati,  una  rigida
organizzazione gerarchica una rete di collegamenti ed un  radicamento
territoriale e, dall'altro, una diffusivita' dei risultati illeciti a
sua volta produttiva di accrescimento della forza  intimidatrice  del
sodalizio...". 
    In  sostanza  viene  fatto  richiamo  a  quelle   caratteristiche
peculiari  del  delitto  mafioso  che  lo  connotano  di  particolare
pericolosita' sociale, caratteristiche che certamente non sono  state
ravvisate, pur nella sua gravita', nel reato associativo  finalizzato
alla cessione degli stupefacenti e che, a parere dello  scrivente,  a
maggior ragione  ancor  meno  sono  riscontrabili  nella  fattispecie
associativa in esame. 
    La stessa si connota come egualmente  come  fattispecie  "aperta"
nel senso che puo' manifestarsi tramite una complessa organizzazione,
con consistenti investimenti di capitali ma anche tramite  forme  del
tutto minimali; una fattispecie dunque non catalogabile in un  rigido
schema normativo predefinito nelle sue  caratteristiche  costitutive,
com'e' l'art. 416 bis c.p. ma che va rapportata nel caso concreto  ad
un  paradigma  astratto   che   ricomprende   le   varie   forme   di
manifestazione fattuale. 
    A parere dello scrivente la norma in  esame,  l'art.  275  co.  3
nella parte in cui richiama l'art.  51  3  bis  c.p.p.  in  relazione
all'art. 416 c.p. finalizzato alla realizzazione  dei  reato  di  cui
agli artt. 473  e  474  c.p.  contrasta  con  l'art.  3  della  Carta
Costituzionale derogando al principio di uguaglianza  sulla  base  di
una  scelta  irragionevole  perche'  impositiva  di  una  presunzione
assoluta in materia di misure cautelari non basata su  una  peculiare
specificita' della fattispecie penale alla quale fa riferimento. 
    Di conseguenza deve ritenersi ledere anche i principi di cui agli
artt. 13 e 27 della Costituzione dell'inviolabilita'  della  liberta'
personale e di presunzione di non colpevolezza prevedendo come  detto
una presunzione assoluta di adeguatezza della sola  misura  cautelare
massima senza una ragionevole specificita' della fattispecie stessa. 
    Si  impone  pertanto  la  rimessione  degli   atti   alla   Corte
Costituzionale. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visti gli artt. 299 c.p.p.; art.  1 legge  Cost.  9/2/1948  e  23
legge 11/3/1953 n. 87; 
    Solleva d'ufficio la  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 275 comma 3° c.p.p. nell'attuale formulazione, nella  parte
in cui impone l'applicazione o non  consente  la  sostituzione  della
misura cautelare della  custodia  in  carcere  con  altra  differente
misura meno afflittiva in relazione alla fattispecie di cui  all'art.
416 c.p. finalizzato alla commissione dei reati di cui agli artt. 473
e 474 c.p. per contrarieta' agli artt. 3, 13 1° comma e 27  2°  comma
della Costituzione. 
    Sospende il procedimento in corso. 
    Ordina   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale. 
    Ordina la notificazione della presente ordinanza alle  parti  del
procedimento. 
    Ordina altresi' la  notificazione  della  presente  ordinanza  al
Presidente del Consiglio dei  ministri  e  la  sua  comunicazione  ai
Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. 
    Manda la Cancelleria per gli adempimenti. 
        Ancona, addi' 22 agosto 2011 
 
                       Il Giudice: Pallucchini