N. 252 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 luglio 2011
Ordinanza del 30 luglio 2011 emessa dal Tribunale di Nicosia nel procedimento civile promosso da Buttafuoco Antonietta contro Banco di Sicilia. Banca e istituti di credito - Operazioni bancarie regolate in conto corrente - Prevista esclusione della restituzione di importi gia' versati alla data di entrata in vigore della legge n. 10 del 2011 - Violazione del principio di ragionevolezza - Ingiustificata disparita' di trattamento fra correntisti bancari (a seconda che abbiano effettuato versamenti indebiti prima o dopo l'entrata in vigore della legge n. 10 del 2011) nonche' tra rapporti regolati in conto corrente bancario e in conto corrente ordinario - Ingiustificata adozione di norma interpretativa - Retroattiva incidenza sul diritto alla effettivita' della tutela giurisdizionale nonche' sull'integrita' delle attribuzioni del potere giurisdizionale - Violazione del divieto al legislatore di interferire con norme retroattive su controversie pendenti, salvo che per motivi imperativi di interesse generale, sancito dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU) come interpretata dalla Corte di Strasburgo - Conseguente inosservanza di obblighi internazionali. - Decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10, art. 2, comma 61. - Costituzione, artt. 3, 24, 102 e 117, primo comma, in relazione all'art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali.(GU n.51 del 7-12-2011 )
IL TRIBUNALE Il giudice, dott. Ottavio Grasso, letti gli atti del procedimento n. 616/2008 R.G.A.C e sciogliendo la riserva assunta all'udienza del 6 giugno 2011; Osserva Con atto di citazione notificato in data 8 ottobre 2008 Antonietta Buttafuoco conveniva in giudizio il Banco di Sicilia S.p.A. per sentirlo condannare alla restituzione di somme illegittimamente percepite ed al risarcimento del danno. L'attrice premetteva di aver intrattenuto diversi rapporti bancari (essenzialmente cc.dd. fidi bancari) con l'istituto di credito convenuto, e che gli stessi presentassero diversi profili di invalidita': violazione dell'art. 1284(3) c.c. per indeterminatezza del tasso di interesse; violazione dell'art. 1283 c.c. per applicazione di interessi anatocistici; applicazione delle commissioni di massimo scoperto in contrasto con il disposto degli artt. 1283 e 1284 c.c. Chiedeva, pertanto, di accertare la nullita' delle clausole contrattuali contenute nel contratto e, previo ricalcolo ed applicazione di tassi di interesse conformi a legge, di condannare il banco alla restituzione delle somme indebitamente percepite oltre al risarcimento del danno. Si costituiva in giudizio il Banco di Sicilia S.p.A. che, oltre a sollevare una questione preliminare relativamente ai rapporti sorti tra l'attrice e la Sicilcassa, eccepiva la pattuizione espressa e determinata degli interessi dovuti dalla correntista; la legittimita' dell'applicazione della capitalizzazione trimestrale degli interessi. In subordine rilevava come le somme illegittimamente versate dal correntista dovevano comunque considerarsi rese in adempimento di obbligazione naturale; in ogni caso si era prescritto il diritto alla ripetizione di indebito. Disposta consulenza tecnica d'ufficio, il commercialista, incaricato del riconteggio dei tassi e delle commissioni di massimo scoperto, rilevava che, mentre il saldo da estratto conto applicato dal banco ammontasse ad 104.356,26 (a debito del cliente), il saldo, a seguito del riconteggio effettuato applicando i tassi indicatigli dal giudice istruttore, era pari ad € 73.343,38 (in favore del correntista). All'udienza del 3 maggio 2011 venivano invitate le parti ad interloquire sull'intervenuta norma, nel frattempo introdotta dall'art. 2(61) del d.l. n. 225/10 (cd. «decreto mille proroghe»), convertito, con modifiche, dalla legge n. 10/2011, sulla quale altri Tribunali hanno gia' sollevato questione di legittimita' costituzionale. Mentre il Banco di Sicilia S.p.A. ha insistito con la richiesta di prescrizione dell'azione, in virtu' della prima parte dell'art. 2(61) che recita che «In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l'art. 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa»; l'attrice ha chiesto di non applicare della norma o, quanto meno, in subordine di sollevare questione di' legittimita' costituzionale della stessa. Tanto premesso circa lo stato del processo, appare opportuno rilevare, anzitutto, che in tema di azione di ripetizione di indebito, precedentemente all'introduzione della norma vi era stata una pronuncia da parte della Suprema Corte (Cass., Sez. Un., 2 dicembre 2010, n. 24418). Essa, in estrema sintesi, aveva affermato che l'annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati dalla banca al correntista, pur comportando un incremento del debito di quest'ultimo o una riduzione del credito di cui egli ancora dispone, non costituisce tecnicamente un pagamento indebito. L'annotazione, infatti, in nessun modo si puo' considerare come un pagamento (inteso come atto giuridico con il quale si estingue un'obbligazione pecuniaria) perche' non sussiste alcuna attivita' solutoria da parte del correntista medesimo in favore della banca. Ragionando, poi, sul funzionamento del contratto di conto corrente bancario, ai fini di stabilire la decorrenza del termine a partire dal quale far decorrere la prescrizione per l'azione di ripetizione di indebito, la Corte concludeva distinguendo a seconda che il versamento effettuato dal cliente superasse il limite dell'affidamento concesso dalla banca con l'apertura di credito oppure no. Nel primo caso doveva ritenersi che il versamento «extra-fido» costituisse un pagamento, mentre non altrettanto valesse per il versamento mantenuto all'interno della disponibilita' accordata al cliente con l'affidamento. Da cio' le conseguenze in termini di decorrenza del termine di prescrizione dell'azione di ripetizione di indebito. A seguito di tale pronuncia, e' intervenuto il legislatore che, con l'art. 2(61) del d.l. n. 225/10 (cd. «decreto mille proroghe»), convertito con modifiche dalla legge n. 10/2011, ha stabilito che: «In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l'art. 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa». Aggiungendo, inoltre, che «In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi gia' versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge». Appare utile distinguere la prima e la seconda parte della norma. Con riferimento alla prima parte, come gia' rilevato da altro Tribunale (cfr. Trib. Milano 7 aprile 2011) e da illustre dottrina, non pare potersi ravvisare un problema di legittimita' costituzionale. La prima parte della disposizione, infatti, stando ad un'interpretazione letterale, mira a fornire l'interpretazione autentica dell'art. 2935 c.c., disponendo che la prescrizione dei diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dall'annotazione stessa. Ora, tale disposizione si riferisce ai «diritti nascenti dall'annotazione in conto» che, com'e' stato rilevato, sono afferenti al piano cartolare del rapporto tra banca e correntista e non anche al piano causale e, dunque, al piano dell'azione di ripetizione di indebito. In altri termini, la prima parte dell'art. 2(61) si riferisce ai diritti nascenti dall'annotazione in conto i quali sono solo i diritti che derivano dall'art. 1832(2) c.c. (applicabile al conto corrente bancario per effetto del richiamo operato dall'art. 1857 c.c.), cioe' il diritto ad ottenere la rettifica di «... errori di scritturazione o di calcolo, per omissioni o per duplicazioni». Ma nel caso oggetto del presente giudizio, non si pone tanto un problema di diritti di annotazione in conto, quanto di ripetizione d'indebito dovuto alla corresponsione di interessi non dovuti per effetto dell'applicazione di clausole di capitalizzazione trimestrale di interessi (sulla cui distinzione ci si puo' richiamare anche a Cass., Sez. Un., n. 24418/2010 cit.). Chiarito, quanto sopra, ad avviso del decidente, si pone, invece, un dubbio di legittimita' costituzionale della seconda parte della norma laddove la stessa stabilisce: «In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi gia' versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto legge». Si ritiene, pertanto, di dovere rimettere alla Corte costituzionale la valutazione di legittimita' della stessa, indicando di seguito la presenza dei presupposti per adire il Supremo Consesso. Sulla rilevanza della questione. Com'e' noto, la prima delle condizioni dettate dall'art. 23 della legge n. 87/1953 per poter procedere a sollevare questione di legittimita' costituzionale, e' la rilevanza. Con cio' s'intende, da un lato, la necessita' che la norma debba trovare applicazione nel caso di specie; e che, dall'altro, un'eventuale pronuncia della Corta influisca su tale giudizio (cfr., da ultimo, Corte costituzionale n. 53/2010 e n. 46/2009). Ebbene, nel caso di specie, essendo il giudizio principale giunto pressoche' alla conclusione della fase istruttoria, l'odierno decidente dovrebbe decidere la controversia e, applicando la legge (la parte di disposizione prospettata), dovrebbe decidere il processo rigettando la domanda di parte attrice atteso che, al momento dell'entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge, le somme, oggetto di indebito, sono gia' state versate dalla correntista. Ma, poiche' la norma impone che non si faccia luogo a restituzione, non potrebbe essere accolta la domanda volta alla ripetizione dell'indebito. Peraltro, l'accoglimento della questione da parte della Corte muterebbe nettamente l'esito del presente giudizio, determinando un esito diametralmente opposto. Sulla non manifesta infondatezza. Passando al requisito della non manifesta infondatezza, richiesto, anch'esso dall'art. 23 delta legge n. 87/1953, occorre dire, in sintonia con quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte, che il giudice del giudizio a quo, affinche' sia soddisfatto il requisito in parola, debba nutrire un serio dubbio di costituzionalita' della disposizione oggetto di rimessione al Giudice delle leggi. Nel caso di specie anche tale condizione appare integrata perche' si ritiene che l'art. 2(61) del d.l. n. 225/10, convertito, con modifiche, dalla legge n. 10/2011 nella parte in cui stabilisce che «In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi gia' versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge», sia foriero di probabile contrasto con diversi parametri costituzionali. a) Violazione art. 3 Cost. (principio di ragionevolezza). La norma pone un serio dubbio di compatibilita' con l'art. 3 Cost. atteso che la stessa preclude il diritto alla restituzione di somme indebitamente percepite nell'ambito del rapporto di conto corrente bancario. Dell'art. 3 Cost. si possono fornire differenti significati: non solo mera uguaglianza di fronte alla legge e divieto di discriminazione, ma anche divieto di parificazione e di differenziazioni irragionevoli (c.d. doverosa ragionevolezza delle leggi). La norma impugnata si pone in contrasto con tale ultimo principio sotto diversi profili. In primo luogo differenzia le posizioni dei correntisti a seconda che abbiano effettuato versamenti indebiti prima o dopo l'entrata in vigore della norma censurata. In tal modo, pero', la norma ammette o esclude la restituzione dell'indebito unicamente per il dato temporale: l'anteriorita' o posteriorita' del versamento rispetto all'entrata in vigore della legge di conversione. Il che appare irragionevole e casuale. In secondo luogo la norma differenzia irragionevolmente i rapporti regolati in conto corrente bancario e i rapporti regolati in conto corrente ordinario o maturati in rapporti di altra natura. Ma anche sotto tale profilo non traspare la presenza di una ragionevole causa della differenziazione. Sul punto occorre ancora dire che la norma impugnata si professi di natura interpretativa. Ma come ha, anche di recente, ribadito la Corte (cfr. sent. n. 209/2010), il legislatore non e' completamente libero di adottare norme interpretative, incontrando l'ostacolo della situazione di incertezza sulla sua applicazione (requisito che appare del tutto assente, se consideriamo l'intervento delle Sezioni Unite di dicembre 2010). Dovendo, inoltre, la norma interpretativa conformarsi al principio generale di ragionevolezza. Il quale, nel caso di specie, appare concretamente obliterato per le ragioni prima esposte. b) Violazione dell'art. 24 Cost. La norma sull'irripetibilita' delle somme versate pare porsi in contrasto anche con l'art. 24 della Costituzione. Statuendo che non si fa luogo alla restituzione delle somme gia' versate alla data di entrata in vigore della legge di conversione, viene di fatto impedita la tutela giurisdizionale del diritto alla restituzione di somme indebite. Cio' vale tanto per il correntista, quanto per gli istituti di credito, a seconda di quale sia il soggetto che abbia diritto alla restituzione di somme indebite. In tal modo, pertanto, la norma incide retroattivamente sul diritto all'effettivita' della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive. c) Violazione art. 102 Cost. La disposizione, data la sua valenza retroattiva, finisce per violare anche l'integrita' delle attribuzioni del potere giurisdizionale. Sul punto basta dire come essa incida sulle pronunce gia' emanate nelle quali e' stata pronunciata condanna alla ripetizione di indebito, ma l'obbligato non vi abbia ancora adempiuto. L'intervento legislativo, inoltre, interferisce con i giudizi ancora pendenti, violando il principio sancito dalle preleggi, secondo cui la legge non dispone che per l'avvenire. Al riguardo va ribadito che l'intervento normativa non appare sorretto dalla necessita' di rimediare all'oscurita' di testi normativi o all'insanabile contrasto interpretativo. d) Violazione art 117 Cost. in relazione all'art. 61 Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU). Per comprendere le ragioni di contrasto tra tale parametro e la norma impugnata occorre brevemente premettere la valenza della Convenzione nel nostro ordinamento ed i principi da essa sanciti, come interpretati dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo. Sotto il primo punto di vista, sono note a tutti le sentenze della Corte costituzionale n. 348 e 349 del 2007. Esse in breve hanno ricostruito il rango che, nella gerarchia delle fonti, hanno le norme CEDU. La Corte, dopo avere escluso che le fonti, che giustificano la sottoposizione del nostro Stato alle norme della Convenzione, siano l'art. 10 e 11 Cost. (cio' in quanto norme pattizie derivanti da un Trattato internazionale e non norme consuetudinarie), ha ricondotto le norme CEDU all'art. 117 Cost. Tale norma, nel sancire che «La potesta' legislativa e' esercitata ... nel rispetto dei vincoli derivanti ... dagli obblighi internazionali», fa si che la CEDU trovi in essa copertura. La sottoscrizione di un Trattato internazionale ha fatto sorgere, infatti, un obbligo internazionale che determina una limitazione per la potesta' legislativa. La violazione della Convenzione determina, dunque, una violazione indiretta dell'art. 117 Cost. Questa, infatti, si pone come norma parametro che si «riempie di contenuto» attraverso la c.d. norma interposta, la CEDU. Le norme della CEDU hanno, pertanto, rango sub-costituzionale. Da cio' consegue che un eventuale contrasto tra una norma interna ed una norma della Convenzione non possa essere risolto dal giudice, attraverso la c.d. disapplicazione, ma che, invece, occorre investire direttamente il Giudice delle leggi, in quanto la norma derivata da un obbligo internazionale riempie di contenuto la norma costituzionale, cosicche' la norma interna in contrasto con la Convenzione viola indirettamente la Costituzione. Chiarito, dunque il rango sub-costituzionale occorre adesso brevemente individuare la norma oggetto di violazione. Si tratta dell'art. 6(1) della CEDU per come e' stato interpretato dalla Corte Europea. Tale norma stabilisce che «ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente ed imparziale ...». La Corte Europea, in merito a tale norma, ha affermato che il diritto ad un giusto processo preclude al legislatore dei singoli Stati contraenti la possibilita' di incidere su singole cause o su determinate tipologie di controversie gia' pendenti, attraverso norme interpretative o comunque retroattive volte a determinare un vantaggio per una delle parti del giudizio. Limite che puo' essere varcato in caso di «ragioni imperative d'interesse generale», la cui sussistenza la Corte di Strasburgo valuta con riferimento al singolo caso concreto. In altri termini, le leggi retroattive non sono precluse in assoluto, ma, come affermato nella sentenza Scordino c. Italia (Corte Europea dei diritti dell'uomo, sez. grande chambre, sentenza 29 marzo 2006 n. 36813), la preminenza del diritto e dell'equo processo consacrato dall'art. 6 della CEDU, impedisce l'applicazione di norme retroattive ai processi in corso, a meno che non ricorrano «imperativi motivi di interesse generale». Nel caso di specie la norma impugnata, apparendo destinata ad incidere su diritti gia' maturati in base all'ordinamento preesistente finisce per assumere efficacia retroattiva. Cio' porta a ritenere che essa si ponga in contrasto con l'art. 6 e con l'interpretazione che di esso ne ha fornito la Corte Europea. La norma, infatti, riceve applicazione immediata nei processi in corso, ma non e' giustificata da «imperativi motivi di interesse generale». La norma non appare destinata ne' a salvaguardare stringenti esigenze di carattere finanziario, ne' alla tutela di altri interessi di rilievo cogente per lo Stato. Sull'assenza di un'interpretazione costituzionalmente conforme della norma. E' noto come, a partire dagli anni novanta la Corte chieda al giudice remittente uno sforzo interpretativo volto a tentare una lettura costituzionalmente conforme della norma impugnata, prima di rimettere la questione alla Corte. La ratio di tale ulteriore «condizione» risiede «nel fatto che le norme non si dichiarano costituzionalmente illegittime perche' e' possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma perche' e' impossibile darne interpretazioni conformi a Costituzione, avendo il giudice il dovere di adottare, tra piu' possibili esegesi di una disposizione, quella idonea a fugare ogni dubbio» (cfr. tra le piu' recenti, Corte cost. n. 98/2010; n. 338/2009). La Corte ha, pero' chiarito che vi sono comunque dei limiti all'interpretazione costituzionalmente conforme, nel senso che «l'univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo di interpretazione deve cedere il passo al sindacato di legittimita' costituzionale» (Corte cost. n. 26/ 2010; ed anche Corte Cost. n. 270-315/2010). Peraltro, si puo' anche dire che l'interpretazione costituzionale debba trovare un limite logico anche nella necessita' di non svuotare completamente di significato la norma impugnata, cio' perche', privando di significato la norma oggetto (interpretandola in modo da vanificarne la sua portata applicativa) si finirebbe per trasformare il sindacato di costituzionalita' incidentale da accentrato in diffuso. Cio' premesso, il giudice a quo ritiene che, nel caso di specie, il tenore della norma impugnata appaia chiaramente volto a paralizzare il diritto all'ottenimento della restituzione di somme indebitamente versate. La norma, regolando indistintamente tutti i versamenti effettuati, non consente un'interpretazione costituzionalmente orientata tale da impedirne la rimessione alla Corte.
P. Q. M. Visti gli artt. 134 Costituzione e 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; Ritenuta la questione non manifestamente infondata e rilevante per la decisione del presente giudizio; Ssolleva d'ufficio questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2(61) del d.l. 29 dicembre 2010, n. 225 (c.d. Decreto Milleproroghe), convertito in legge n. 10 del 2011 (pubblicata nel supplemento ordinario n. 53 della «Gazzetta Ufficiale» n. 47 del 26 febbraio 2011), nella parte in cui dispone «In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi gia' versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge» per violazione degli articoli 3, 24, 102, e 117(1) della Costituzione; Dispone la sospensione del procedimento in corso; Ordina la notificazione della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri e la comunicazione della stessa ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato; Dispone la trasmissione dell'ordinanza alla Corte Costituzionale insieme agli atti del giudizio ed alla prova delle notificazioni e delle comunicazioni prescritte. Manda alla Cancelleria per le comunicazioni e per gli altri adempimenti di rito. Nicosia, addi' 29 luglio 2011 Il giudice: Grasso