N. 666 ORDINANZA (Atto di promovimento) 1 luglio 1991

                                N. 666
       Ordinanza emessa il 1  luglio 1991 dal tribunale di Lecce
     nel procedimento penale a carico di Del Coco Antonio ed altri
 Processo penale - Istruzione dibattimentale - Nuove contestazioni -
    Diritti delle parti - Ammissione di  ulteriori  prove  -  Ritenuta
    ammissibilita' per quelle richieste dall'imputato solo ex art. 507
    del c.p.p. - Lamentata preclusione per le altre parti (nel caso di
    specie:  p.m.)  -  Irrazionalita'  -  Violazione  del principio di
    eguaglianza tra le parti - Lesione dei diritti di  difesa  nonche'
    dei  principi  dettati dalla legge delega - Mancata garanzia della
    funzionalita' nell'amministrazione della giustizia.
 (C.P.P. 1988, art. 519 cpv.).
 (Cost., artt. 3, 24, 76 e 97).
(GU n.44 del 6-11-1991 )
                             IL TRIBUNALE
 ha pronunciato la seguente ordinanza  decidendo  sulle  richieste  di
 prove formulate dalle parti.
                             O S S E R V A
    Del  Coco  Antonio + 5 sono stati tratti a giudizio per il delitto
 di incendio colposo di un fabbricato,  in  relazione  ai  difetti  di
 costruzione ed all'assenza di adeguate misure preventive del fatto.
    Alla  precedente  udienza  il  p.m. ha contestato, ex art. 516 del
 c.p.p., un ulteriore  profilo  di  colpa,  derivante  dall'avere  gli
 imputati  tardivamente  richiesto  l'intervento dei vigili del fuoco,
 cercando al contrario, per diverse ore,  di  spegnere  con  i  propri
 (inidonei) mezzi il fuoco devastatore.
    In  relazione  a  tale modifica, gli imputati presenti han chiesto
 termini a difesa; agli altri, e' stato notificato  ex  art.  520  del
 c.p.p. il verbale.
    Il  p.m. e la difesa dell'imputato han depositato tempestiva lista
 testi ex art. 468 del c.p.p., in relazione alla nuova circostanza  di
 fatto contestata, mentre la parte civile non ha chiesto prove.
    All'odierna udienza le parti han fatto esposizione introduttiva ex
 art.  493  del c.p.p., in relazione al nuovo profilo di fatto (per le
 circostanze originarie erano gia'  stati  escussi,  nelle  precedenti
 udienze,  numerosi  testimoni,  ed altri - oltre a diversi consulenti
 tecnici - dovevano ancora essere sentiti, in quanto gia' ammessi), ed
 han chiesto le prove di cui alle predette nuove liste ex art. 468 del
 c.p.p.
    A  prescindere  dall'opposizione  della difesa degli imputati alle
 prove dedotte dal p.m., preliminare alla decisione  in  proposito  e'
 l'esame  dei  criteri  legislativi  per  l'ammissione delle prove, e,
 conseguentemente, dalla loro costituzionalita'  -  questione  la  cui
 rilevanza nel presente giudizio e' di intuitiva evidenza.
    L'art.  519  del  c.p.p.,  dopo aver disciplinato la sospensione a
 seguito di concessione di termini a difesa, prevede che "in ogni caso
 l'imputato  puo'  chiedere  l'ammissione  di  nuove  prove  a   norma
 dell'art. 507".
    Secondo  la relazione al codice "si e' espressamente richiamato il
 potere dell'imputato di chiedere l'ammissione di nuove  prove,  anche
 se  sull'applicabilita' dell'art. 507 non avrebbero dovuto sussistere
 dubbi (. . .). Tale facolta' compete anche in  caso  di  rinuncia  al
 termine a difesa".
   Secondo  i compilatori del codice, quindi, l'ultima parte dell'art.
 519 cpv. del c.p.p. sarebbe sostanzialmente superflua: e'  del  resto
 assolutamente  ovvio che il potere della parte di richiedere prove ex
 art. 507 del c.p.p. puo' sempre esercitarsi, finche' non sia iniziata
 la discussione finale.
    Ma i compilatori stessi, nel fornire  tale  giustificazione  della
 norma   da   essi   emanata,   hanno   dimostrato  una  insufficiente
 comprensione dei meccanismi di articolazione del diritto alla  prova,
 quali risultanti dal testo del codice.
    La  dottrina e la pratica hanno gia' enucleato, dalla formulazione
 di norme come gli artt. 468 e  493  del  c.p.p.,  l'esistenza  di  un
 principio  di  preclusione  nella  deduzione  dei  mezzi di prova: il
 processo orale, infatti, in tanto puo' avere un senso, in quanto  sia
 concentrato,  e  cioe',  secondo i principi di una ben nota dottrina,
 recepiti nella relazione al testo originario del codice di  procedura
 civile  (n.  24),  realizzi "l'interesse alla rapidita' ed alla buona
 fede processuale, il quale esige che le parti non mandino in lungo il
 processo con  un  ben  dosato  stillicidio  di  deduzioni  tenute  in
 riserva,  e  vuole  che le stesse, fin da principio, vuotino il sacco
 delle loro ragioni, senza preparare gli espedienti  per  le  sorprese
 dell'ultima ora".
    Di quel principio di preclusione l'art. 507 del c.p.p. costituisce
 un   indispensabile   correttivo,   al   fine   di  evitare  che  una
 insufficiente - ma  comunque  sussistente  -  attivita'  delle  parti
 impedisca  una  precisa  conoscenza  processuale  in  ordine  a punti
 deicisivi  della  causa.  Infatti,  secondo  l'interpretazione   gia'
 recepita  dalla Cassazione (sez. III, 3 dicembre 1990, dep. 3 gennaio
 1991), l'intervento ex art. 507 del c.p.p., d'ufficio o su istanza di
 parte, va limitato ai soli casi in cui la tesi dell'accusa  o  quella
 delle  difesa  siano  supportate  da  alcuni  elementi  probatori,  e
 tuttavia risulti una incompletezza nell'istruzione della causa,  che,
 apparendo  superabile,  non consenta di ritenere tuot court un dubbio
 probatorio non risolubile, quale  previsto  dall'art.  530  cpv.  del
 c.p.p.
    Pertanto,  presupponendo  una  insufficiente  attivita' probatoria
 delle parti ex artt. 468 e 493 del  c.p.p.,  pur  in  presenza  della
 possibilita'  concreta  di  acquisire  ulteriori elementi in ordine a
 punti decisivi della causa, l'art. 507 riguarda mezzi  di  prova  dai
 quali le parti sono sostanzialmente decadute.
    Vi  sono  invece  situazioni, (gia' adombrate nell'art. 493, terzo
 comma, del c.p.p.), in cui la stessa ammissibilita' e  non  manifesta
 irrilevanza  di una prova possono emergere solo all'esito della prova
 della controparte; inoltre, proprio dall'espletamento degli originari
 mezzi di prova ammessi  potrebbero  emergere  circostanze  del  tutto
 nuove,  rispetto  alle  quali le parti potrebbero avere l'esigenza di
 cercare e dedurre nuovi mezzi istruttori.
    In siffatte situazioni, e diversamente da quanto sembra  enunciato
 nella  relazione  dell'art.  519 del c.p.p., il richiamo all'art. 507
 non soltanto non e' pertinente, ma e' anche del tutto insufficiente.
    Una preclusione puo' avere senso solo rispetto alle deduzioni  che
 le  parti  potevano  formulare  sin dall'inizio, e che, per incuria o
 slealta', non hanno formulato  tempestivamente,  e  non  rispetto  ai
 mezzi  di  prova  la  cui rilevanza ed ammissibilita' emerga solo nel
 corso dell'istruzione.
    Applicare l'art. 507 del  c.p.p.  indiscriminatamente  a  tutti  i
 mezzi  di  prova  non  richiesti  nei termini di cui all'art. 493 del
 c.p.p. significherebbe fornire dell'art. 507  un'interpretazione  che
 condurrebbe  ad  un sicuro giudizio di incostituzionalita'; se ad es.
 due testimoni ritualmente indicati ex art. 468 e  richiesti  ex  art.
 493   rendono,   su  fatti  e  circostanze  importanti  dichiarazioni
 discordanti, perche' mai il confronto tra gli stessi dovrebbe  essere
 condizionato al requisito dell'assoluta necessita'?
    Certo  in  tal  caso,  non si potrebbe pretendere che le parti, in
 sede di richiesta di prove ex art. 493 del c.p.p., chiedano anche, in
 via preventiva, il confronto tra i testi che in seguito  risultassero
 "eventualmente"   discordanti:  cio'  in  quanto  non  vi  e'  alcuna
 indicazione normativa che il testo legislativo abbia  inteso  portare
 il  principio  di  preclusione sino all'estremo del c.d. principio di
 eventualita' ("sicche' le parti, per  sfuggire  al  pericolo  di  non
 essere  in  tempo  a  far  valere  argomenti  che  poi  nel corso del
 dibattito potrebbero rivelarsi  appropriati,  sarebbero  costrette  a
 premunirsi  in  anticipo,  alla  cieca,  contro le possibili repliche
 dell'avversario, ed a sovraccaricare  fin  da  principio  la  propria
 difesa  con  una quantita' di ipotesi anche contraddittorie tra loro,
 l'una per l'evenienza che l'altra possa essere  respinta".  Relazione
 al testo originario del cod. proc. civ., n. 24).
    Di tali problemi aveva gia' tenuto conto il legislatore dell'unico
 tipo  di  processo  che, prima del c.p.p. ora vigente, si ispirava ai
 principi di oralita', concentrazione ed immediatezza: il processo del
 lavoro.
    I commi quinto  e  settimo  dell'art.  420  del  c.p.c.,  infatti,
 prevedono  una  possibilita' di replicatio e duplicatio, condizionate
 all'impossibilita' di precedente deduzione del mezzo di prova, ed, in
 presenza di tale condizione, svincolate  dai  limiti  posti  ai  nova
 dall'art. 420, primo comma, del c.p.c.
    Tali  facolta'  di replicatio e duplicatio sono state riconosciute
 anche  nel  nuovo  modello  generale  di  precesso   civile   (orale,
 concentrato  ed  immediato),  approvato  con  legge  n.  353/1990,  e
 disciplinate con particolare cura degli  aspetti  pratici  nei  commi
 quarto e quinto del nuovo art. 183 del c.p.c.
    Nel  nuovo  rito  penale,  che pure dovrebbe realizzare il massimo
 dispiegamento del diritto alla prova (art. 2, punto 3,  della  legge-
 delega),  tali  esperienze,  facilmente  reperibili nel confronto con
 concrete tradizioni processual-lavoristiche, frutto di una  eventuale
 ed  organica  elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, sono state
 completamente "dimenticate" dai  compilatori  del  codice,  i  quali,
 nella    relazione   all'art.   519   cpv.   del   c.p.p.,   mostrano
 implicitamente, come si e' visto, di ritenere  l'assoluta  necessita'
 come  unico  parametro  per,  ad  es.,  porre  a  confronto due testi
 discordanti.
    Ma, per quanto si e' sopra detto  a  proposito  del  rapporto  tra
 artt.  468, 493 da un lato, e 507 dall'altro, tale interpretazione e'
 del tutto errata. La migliore dottrina ha  ritenuto  che  il  diritto
 alla  prova  sulle  circostanze  e con i mezzi divenuti ammissibili e
 rilevanti solo nel corso dell'istruzione sia  disciplinato  anch'esso
 dall'art.  190 del c.p.p., e quindi vada riconosciuto in limiti assai
 ampi: cosi', per rimanere all'esempio gia' fatto, la richiesta di una
 parte di un confronto tra persone gia' esaminate deve essere accolta,
 ogni   qual   volta   il   disaccordo   riguardi   circostanze    non
 necessariamente  "decisive",  come  avverrebbe  se  fosse  valido  il
 riferimento all'art. 507 del c.p.p., ma anche solo "importanti".
    Le considerazioni fin qui svolte sull'inesistenza nel  nuovo  rito
 penale,  di  un  principio  di  preclusione spinto fino ai limiti del
 principio di eventualita', traggono alimento  anche  dal  fatto  che,
 ancor  meno  che  nel  processo  civile  o  del  lavoro, le parti del
 processo penale non partono da una piena e reale conoscenza dei fatti
 di causa, la quale potrebbe giustificare, al limite, il principio  di
 eventualita'. Infatti il p.m. non conosce dei reati, tant'e' che deve
 disporre  indagini  sulla  loro  sussistenza  e  sui  loro autori; la
 persona offesa di solito non sa di chi e' vittima (si pensi ad es. ad
 un  furto  in  abitazione);  l'imputato,  essendo   considerato   non
 colpevole  fino  alla  condanna  definitiva,  non  puo'  certo  esser
 considerato, fino a tale condanna, come a conoscenza del fatto-reato.
    Questa  considerazione  introduce   all'analisi   di   una   delle
 argomentazioni  che,  secondo  una  dottrina,  avrebbero  tacitamente
 ispirato il legislatore al momento di formulare l'art.  519 cpv.  del
 c.p.p.  Puo'  darsi cioe' che si sia ritenuto che il solo fatto della
 modifica  o  estensione  della  contestazione  da  parte   del   p.m.
 significhi   l'avvenuta   emersione,   nel   corso   dell'istruttoria
 dibattimentale, di elementi di prova non semplicemente seri o  gravi,
 ma proprio sufficienti a giustificare una condanna.
    Questa  eventuale presupposizione del legislatore darebbe comunque
 troppo rigida, specie in relazione all'art. 516 del c.p.c.: basta  ad
 esempio  che la persona offesa dal furto riferisca per la prima volta
 un gesto di violenza subito, o che un  testimone  cambi  parzialmente
 versione,  perche'  sussistono  i presupposti per l'intevento ex art.
 516 del c.p.p. Ma cio' non significa che la causa presenti tutti  gli
 elementi  di  prova  necessari  per  la  nuova  ipotesi;  anzi, assai
 frequentemente   le   emergenze   dibattimentali   richiederanno   un
 ampliamento  di  indagine-ampliamento che, nelle more dell'inizio del
 dibattimento, e' consentito ex art. 430 del c.p.p. al p.m., che  pure
 gia' ha svolto (magari lunghe) indagini preliminari, e, assurdamente,
 al  p.m.  non  e' piu' consentito dopo la nuova contestazione, atteso
 che tali indagini integrative, in relazione al tenore  dell'art.  519
 cpv. del c.p.p., non potrebbero mai sfociare in richieste di prova da
 parte del p.m.
    Inoltre,    tale   eventuale   presupposizione   del   legislatore
 costituirebbe un implicito invito alla scorrettezza nei confronti del
 p.m., il quale anziche' muovere all'imputato la  nuova  contestazione
 non appena in possesso di elementi probatori minimamente seri, in tal
 modo  ponendolo  in  condizione  di  subito  validamente  difendersi,
 dovrebbe pervicacemente cercare di strappare alle fonti di prova gia'
 ammesse tutti  gli  elementi  idonei  a  provare  pienamente  le  sue
 possibili  accuse  future:  all'esito,  fare  la nuova contestazione,
 sapendo gia' di trovarsi di fronte un  imputato  "con  le  spalle  al
 muro",  perche'  raggiunto  da gravissimi elementi a suo carico ed in
 grado di richiedere prove solo
  ex art. 507 del c.p.p.
    Queste considerazioni generali hanno particolare  significato  nel
 presente  processo,  nel corso del quale il p.m. avendo evidentemente
 maturato un soggettivo sospetto in ordine al nuovo profilo di  colpa,
 pose  ad  un  paio  di  testi alcune domade idonee all'individuazione
 dell'orario  di  inizio  dell'incendio.  Una  volta  ottenute   delle
 risposte,  ritenute  di  conferma  ai  suoi  sospetti, lo stesso p.m.
 procedette a contestazione ex art. 516  del  c.p.p.  Orbene,  proprio
 vale  modo  di operare, estremamente rispettoso del diritto di difesa
 degli imputati, verrebbe sanzionato dalla negazione del  diritto  del
 p.m.  alla prova, come prevista dell'art. 519 cpv. del c.p.p., mentre
 un accusatore che avesse continuato, imperterrito,  a  scavare  sulle
 prove  gia'  ammesse,  per  acquisire ulteriori elementi in ordine al
 fatto  nuovo  (orario  di  inizio  dell'incendio),  non  avrebbe   da
 preoccuparsi dell'esistenza della norma criticata.
    Di  tale  norma  la dottrina ha cercato di fornire interpretazioni
 idonee a ridurne l'irrazionalita': cosi' si e' sostenuto ad  es.  che
 la  facolta',  di richiedere prove solo ex art. 507 del c.p.p. e solo
 da parte dell'imputato, sussista quando l'imputato non chiede termini
 a difesa, mentre in caso contrario tutte le parti (anche  la  persona
 offesa)  potrebbero  dedurre prove ex art. 190 del c.p.p., oppure che
 e' assolutamente  necessario  tutto  cio'  che  all'imputato  sarebbe
 spettato  se  l'imputazione  avesse avuto sin dall'inizio i connotati
 assunti in seguito.
    Tali interpretazioni non soltanto non eliminano la  irrazionalita'
 della  norma in esame, limitandosi soltanto a ridurla, ma soprattutto
 si pongono in contrasto insanabile con la lettera  della  norma,  che
 non consente tali prospettazioni "sostanzialistiche".
    La  lettera  dell'art.  519 cpv. del c.p.p. seconda parte dice con
 chiarezza due cose, e due cose soltanto:
       a)  in  caso  di  nuove  contestazioni,  solo  l'imputato  puo'
 chiedere  nuove  prove;  non il p.m., non la persona offesa dal fatto
 nuovo, neppure se gia' costituita parte civile per  la  contestazione
 iniziale;
       b)   l'imputato  puo'  chiedere  solo  le  prove  assolutamente
 necessarie.
    Al contrario, in assenza di tale norma,  i  principi  generali  in
 tema  di  preclusione,  come sopra analizzati, avrebbero consentito a
 tutte  le  parti  di  dedurre  prove,   in   relazione   alla   nuova
 contestazione,  negli  ampi limiti di cui all'art. 190 del c.p.p., ed
 avvalendosi, in caso di termini a difesa richiesti  dall'imputato,  o
 comunque  di  specifica  richiesta  ad  opera  delle altre parti, del
 meccanismo di cui agli artt. 468  e  493  del  c.p.p.;  cio'  che  e'
 avvenuto  nel  presente  processo,  con le liste testi sull'orario di
 inizio di incendio, presentate da p.m. e difesa imputati.
    Quindi l'art. 519 cpv. sec. parte introduce una deroga ai principi
 generali  in  tema  di diritto alla prova, che risulta manifestamente
 irrazionale e ingiustificata, e quindi  contraria  all'art.  3  della
 Costituzione.
    Ne'  puo'  trascurarsi  che  il  punto 3) dell'art. 2 della legge-
 delega prevede il principio della parita' tra accusa e difesa, la cui
 violazione rileva quindi non solo ex art. 3  della  Costituzione,  ma
 anche   ex   art.   76,  nel  caso  della  nuova  contestazione  solo
 all'imputato e' riconosciuto un (modesto) diritto alla prova.
    La violazione di tale  diritto,  assai  notevole  per  l'imputato,
 totale  per  le  altre  parti,  non e' contraria soltanto all'art. 24
 della Costituzione, ma anche all'art. 76 della  Costituzione,  tenuto
 conto dei punti 3) e 69) dell'art. 2 della legge n. 81/1987. Ne' puo'
 ritenersi  che  il  diritto di difesa pertinente all'imputato ed alla
 persona offesa, sia estraneo alla posizione del  p.m.  Se  questi  e'
 parte  non  superiore  alle  altre,  come vuole la legge-delega, deve
 avere  diritti  non  inferiori  alle  altre;  diversamente,  verrebbe
 violato  anche l'art. 97 della Costituzione, in quanto non vi sarebbe
 alcuna funzionalita' nell'amministrazione della giustizia, se chi  ha
 l'obbligo  di  indagare  e  scoprire  i  reati non potesse fornire al
 giudice le prove raccolte con la  sua  attivita'.  Infine,  non  puo'
 trascurarsi   che   il   punto  78  dell'art.  2  della  legge-delega
 stabilisce, in caso di  nuove  contestazioni,  soltanto  che  debbono
 essere  previste  "adeguate  garanzie  per  la difesa", senza affatto
 indicare  un  meccanismo  restrittivo  ed  irrazionale  come   quello
 dell'art.  519  cpv.,  il  quale, pertanto, anche per tale profilo e'
 contrario all'art. 76  della  Costituzione.  La  intuitiva  rilevanza
 della  questione  deriva dal fatto che la norma criticata impedirebbe
 di accogliere, nel caso di specie, le richieste probatorie del  p.m.,
 e' consentirebbe l'accoglimento di quelle degli imputati solo ex art.
 507 del c.p.p.
                               P. Q. M.
    Solleva  d'ufficio,  e  dichiara  non  manifestamente infondata, e
 rilevante ai fini del presente giudizio; la questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 519  cpv.  del  c.p.p.,  limitatamente  alla
 frase  "in  ogni  caso l'imputato puo' chiedere l'ammissione di nuove
 prove a norma dell'art. 507", per contrasto con gli artt. 3, 24, 76 e
 97 della Costituzione;
    Sospende il giudizio in corso e, previa notifica al Presidente del
 Consiglio dei Ministri e comunicazione ai Presidenti delle due Camere
 del Parlamento (mezzo telefax);
    Dispone trasmettersi gli atti alla Corte costituzionale;
    Restituisce ai difensori degli imputati i documenti  esibiti,  che
 sono  in  copia  informe,  invitandoli  a produrli in origine o copia
 autentica.
      Lecce, addi' 1ยบ luglio 1991
                  Il presidente: (firma illeggibile)

 91C1164