N. 373 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 gennaio 1992
N. 373 Ordinanza emessa il 24 gennaio 1992 dalla pretura di Brescia, sezione distaccata di Gardone Val Trompia, nel procedimento penale a carico di Torri Alberto Processo penale - Procedimento pretorile - Decreto di citazione a giudizio emesso dal p.m. - Notifica alla parte offesa - Omessa previsione - Irragionevole disparita' di trattamento tra le parti offese citate a giudizio dal g.i.p. e quelle citate dal p.m. - Lesione del diritto di difesa. Processo penale - Procedimento pretorile - Parte offesa - Citazione a giudizio - Termine per comparire: giorni cinque - Disparita' di trattamento rispetto all'imputato (giorni quarantacinque) nonche' in ordine al concreto esercizio del diritto alla prova. (C.P.P. 1988, artt. 555, terzo comma, e 558, secondo comma). (Cost., artt. 3 e 24).(GU n.29 del 8-7-1992 )
IL PRETORE Visti gli atti del procedimento penale n. 64 del registro generale affari penali dell'anno 1992; Osserva in fatto ed in diritto quanto segue. 1) Introduzione. A seguito di indagini preliminari il p.m. rinviava a giudizio, dinanzi a questo pretore, Torri Alberto per rispondere del reato p. e p. dall'art. 589 del c.p. per avere cagionato, per eccesso di velocita', la morte della velocipede Falconi Silvia. Le parti offese venivano citate ex art. 558/2 del c.p.p.. In data 15 gennaio 1992 le parti offese depositavano una lista testimoniale e all'udienza del 17 gennaio 1992 si costituivano parte civile. Alla medesima udienza il difensore dell'imputato eccepiva ex art. 79/3 del c.c.p. la tardivita' dell'istanza istruttoria suddetta. Questo pretore provvedeva con la presente ordinanza dandone lettura in udienza. Onde comprendere il thema decidendum, su cui si chiede la pronuncia della Corte, e' opportuna l'analisi, per la parte che qui interessa, dell'attuale sistema normativo introdotto con il d.P.R. n. 447/1988. Come e' noto, nei giudizi di competenza del pretore, instaurati a seguito di rinvio a giudizio da parte del p.m. (come nel caso di specie) la citazione della parte offesa e' disciplinata dall'art. 558/2z del c.c.p. il quale prevede la semplice citazione "almeno 5 giorni prima della data di udienza indicata nel decreto di citazione". Il contenuto della suddetta citazione e' delineato dall'art. 142 del d. lgs. n. 271/1989 (che si fa rilevare non contiene alcuna descrizione del fatto concreto per il quale l'imputato e' stato tratto a giudizio). Mentre, sempre in tal caso, all'imputato va notificato, nei termini di cui all'art. 555/3, il decreto di citazione a giudizio. Con il presente provvedimento viene impugnato proprio il disposto degli artt. 555/3 e 558/2 del c.p.p., in relazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione nella parte in cui non prevedono: a) che alla parte offesa venga notificato il decreto di citazione; b) che anche la parte offesa, decorrano termini minimi di comparizione di giorni 45. 2) Sulla non manifesta infondatezza. La questione, come sopra delineata, a parere di questo giudicante non e' manifestatamente infondata. E' opportuno preliminarmente, evidenziare l'assetto normativo costituzionale, parametro di valutazione delle norme impugnate. Come e' noto l'art. 3 della Costituzione impone, per la parte che qui interessa, identita' di disciplina normativa per identita' di situazioni disciplinate (cfr. Corte costituzionale del 25 giugno 1981, n. 111). L'art. 24 della Costituzione (peraltro anch'esso espressione del piu' generale principio di uguaglianza) impone ed esige che qualunque sia la forma di tutela del proprio diritto scelta, da essa, non possono derivare delle deminutio sostanziali alla tutela stessa. Particolare aspetto di essa risulta essere il diritto alla prova (cfr. Corte costituzionale 22 marzo 1971, n. 55) fondamentale per poter adeguatamente sostenere in giudizio le proprie domande. E' ovvio che limitazioni a tale diritto alla difesa, cosi come connotato dall'art. 24 della Costituzione, sono non solo inevitabili, ma anche legittime (cfr. Corte costituzionale 5 luglio 1973, n. 106), proprio in riferimento a termini processuali perentori); cio' rientra nella logica: il processo e' attivita' disciplinata, per cui l'esercizio del diritto, in quanto si estrinsechi in azioni, deve necessariamente svolgersi secondo i "binari" tracciati dalle norme processuali. Ma e' del pari ovvio che qualunque limitazione sostanziale, non obiettivamente giustificata dalle esigenze processuali, sarebbe, comunque, per cio' stesso, illeggitima. Orbene, cio' premesso, e delineati in tali termini i parametri costituzionali di riferimento, si puo' ora passare a trattare il caso di specie. Analiticamente, in ordine alla questione sub 1) le norme impugnate violano l'art. 3 della Costituzione. Invero va evidenziato che ex artt. 429/4, 456 e 464 del c.p.p. (questi ultimi applicabili anche a giudizi innanzi al pretore) il decreto di citazione emesso dal g.u.p. o dal g.i.p. va notificato alla parte offesa, mentre quello emesso dal p.m. per giudizi immediati dinanzi al pretore non va notificato alla suddetta parte sulla base del contemporaneo disposto appunto degli artt. 555/3 e 558/2. Tale diversita' di disciplina ridonda in disparita' di trattamento per la parte offesa. Invero pur in presenza di atti strutturalmente e diacronicamente identici (quali indubbiamente sono i decreti di citazione emessi da g.i.p. o dal p.m.) - atteso che sono entrambi diretti ad evocare in giudizio lo imputato e a contestare a questi il fatto concreto sul quale dovra' essere giudicato - il legislatore ha connotato in modo diverso il correlato diritto della parte offesa ad essere avvisata del dibattimento; nel primo caso prevedendo la notifica del decreto di citazione, nel secondo semplicemente con la citazione. Tali disparita' di trattamento e' ancor piu' evidente ove si ponga mente che essa, in funzione di una scelta di rito operata discrezionalmente ed insindacabilmente dal titolare dell'azione penale; per comprendere cio' puo' essere di pregio un esempio. Cosi ove il p.m. ritenga di richiedere per un'episodio configurante ipotesi criminosa di cui all'art. 590 del c.p. un decreto penale (cosa astrattamente possibile atteso che il reato in questione puo' essere punito con la sola pena pecuniaria) e l'imputato faccia opposizione il relativo decreto di citazione a giudizio emesso dal g.i.p. va notificato anche alla parte offesa; "a contrario" nell'ipotesi in cui il p.m. rinvii a giudizio, per lo stesso fatto, direttamente dinanzi al pretore competente, la parte offesa ha semplicemente diritto ad essere citata ex art. 558/2 del c.p.p. Si deduce da tutto cio' che la connotazione di un diritto processuale (quale indubbiamente e' il diritto della parte offesa ad essere informata compiutamente sui fatti di cui e' causa onde consentirle di esercitare in concreto ed adeguatamente i poteri riconosciutele dalla legge) della parte offesa e' subordinata ad una scelta del p.m., giova ribadire, insindacabile. Cio' dimostra, vieppiu', la arbitrarieta' della disciplina dettata dalle norme qui impugnate. Ma vi e' di piu'. Mentre il provvedimento emesso ex art. 429 del c.p.p. viene pronunciato in contraditorio delle parti (anche della parte offesa ex art. 419, la quale, quindi, e' completamente informata anteriormente al dibattimento ed in sede di udienza preliminare dei fatti potenzialmente lesivi del suo diritto nonche' delle indagini fino ad allora espletate dal p.m.), il provvedimento emesso ex art. 555 del c.p.p., nonostante che sia pronunciato "inaudita altera parte", non e' notificato; con la conseguenza che, astrattamente, in tal caso, la parte offesa potrebbe essere a conoscenza dei fatti concreti potenzialmente lesivi del suo diritto solo cinque giorni prima del dibattimento (ritenendo la relativa citazione ex artt. 558/2 del c.p.p. come atto che autorizza la parte ad estrarre copia degli atti del fascicolo del dibattimento). Tali disparita' di trattamento, dopo quanto detto sopra, e' evidente che viene ad incidere sulla posizione della parte offesa la quale, in caso di decreto di citazione emesso da g.i.p e' tempestivamente e compiutamente a conoscenza dei fatti sin "ab origine" mentre nel caso di decreto emesso dal p.m. tale conoscenza e' posticipata a 5 giorni prima del dibattimento. Si deve, quindi, concludere e ribadire che gli artt. 555/3 e 558/2 del c.p.p. nei limiti in cui non prevedano che il decreto di citazione venga notificato anche alla parte offesa, realizza, se posti in relazione alle correlate norme di cui agli artt. 429/4, 456 e 464 del c.p.p., una disparita' di trattamento irragionevole tra le parti offese citate a giudizio dal p.m.; e come tale essa configura una violazione al precetto di cui all'art. 3 della Costituzione che impone, sul punto, un adeguamento dalla prima alla seconda. 3) ..Segue. Piu' complesso e' il discorso in merito alla prospettazione sub 1/B. A tal fine e' necessario "in limine", per la parte che qui interessa, enucleare l'assetto normativo nel quale si inquadra l'atto di costituzione di parte civile ex art. 74 del c.p.p.. La funzione del suddetto atto, come e' noto, e' quella di consentire alla parte offesa del fatto-reato di richiedere, ai sensi degli artt. 1218 e 2043 e segg. del codice civile, il risarcimento dei danni, da esso conseguenti. Dogmaticamente esso costituisce estrinsecazione del piu' generale diritto alla difesa atteso che, appunto, l'azione per la tutela del diritto, con il suddetto atto, viene realizzata nel processo penale. Tale atto, poi, va inquadrato e sistematicamente collegato col disposto degli artt. 76 e 79 del c.p.p. dai quali si evince che, nei giudizi pretorili (atteso che ivi non e' prevista l'udienza preliminare), la Costituzione, puo' avvenire solo dopo che il p.m. abbia esercitato, con la notifica del decreto di citazione a giudizio, l'azione penale e prima dell'apertura del dibattimento. In coerenza poi, con tale assetto normativo, il legislastore ha statuito che, mentre la sentenza di proscioglimento del g.i.p. non fa stato nel giudizio civile, quella dibattimentale di merito ha tale efficacia (almeno per quanto afferisce all'an debeatur) ex artt. 651 e 652 del c.p.p.. E' in tale quadro normativo che va letto ed interpretato il disposto dell'art. 558/2; esso, nelle intenzioni del legislatore, ha la funzione di rendere edotta la parte offesa dal rinvio a giudizio dell'imputato onde consentirle di esercitare i poteri di cui all'art.74 del c.p.p.. Orbene, col presente provvedimento, viene impugnata proprio la suddetta norma. E' evidente che tale giudizio non riguarda la congruita' del termine ivi fissato; invero cio' rientra nella discrezionalita' del legislatore. Invece il suddetto termine viene impugnato sotto una diversa prospettiva: la disparita' di trattamento, tra il termine minimo di comparizione concesso allo imputato ex art. 555/3 (45 gg.) e quello concesso, dalla suddetta norma, alla parte offesa-parte civile (5gg.). Sul punto, giova ribadire, una volta prevista la possibilita' di esercitare l'azione civile nel processo penale ed una volta attribuita alla sentenza di merito efficacia di cosa giudicata nel processo civile (subordinando, questa, esclusivamente allo adempimento al precetto di cui all'art. 558/2 del c.p.p.), alla parte offesa, ex art. 24 della Costituzione, vanno concesse tutte le possibilita' difensive che vengono riconosciute all'imputato. Invero, nel momento in cui la parte offesa si costituisce parte civile, propone ex art. 99 del c.p.p. una domanda nei confronti dell'imputato; e' evidente e conseguenziale, allora, che in forza del principio del contraddittorio tipico principio del processo civile (e comunque non ultroneo a quello penale) costituente espressione del piu' generale diritto alla difesa, la parte offesa-parte civile debba avere, una volta avuto compiutamente conoscenza dei fatti sui quali l'imputato deve rispondere, fatti potenzialmente lesivi del suo diritto, lo stesso tempo concesso a questi per preparare e adeguatamente sostenere le sue domande civili nel processo penale. Cio' e' imposto non solo dall'art. 3 della Costituzione, ma anche dal successivo art. 24. Cio' e' ancora piu' vero ove si ponga mente che, nel caso in cui il p.m. abbia rinviato a giudizio l'imputato ai sensi dell'art. 555 del c.p.p., la parte offesa-parte civile, al fine di tutelare adeguatamente il suo diritto potenzialmente leso dal fatto-reato, ha una sola via: quella di esercitare l'azione civile nel processo penale atteso che, nel nostro sistema normativo, la sentenza penale fa comunque stato nel processo civile nonche' il fatto che la pendenza di quello impone la sospensione di questo. Se cio' e' vero, allora, la parte civile non puo' e non deve subire ex art. 24 della Costituzione dalla scelta operata (appunto perche' essa e' quasi imposta), delle deminutio rispetto alla tutela civile (ovviamente cio' compatibilmente con la struttura e la finalita' del processo penale); quindi deve avere le stesse possibilita' di partenza dell'imputato, sua controparte. Cio' impone ed esige, ex artt. 3 e 24 della Costituzione che essa abbia quanto meno, gli stessi termini minimi di comparizione dell'imputato; termini la cui funzione e' proprio quella di consentire una adeguata e reciproca difesa tra le due parti (parte civile-attore e imputato-convenuto). E' il caso di far rilevare che una tale estensione non e' certo incompatibile con la struttura e la finalita' del processo penale. Un'ultima osservazione si impone per corroborare la prospettazione qui proposta. Come e' noto anche nel nuovo processo penale pretorile vige il principio iudex debet iudicare secundum probata et allegata partium. Orbene se tale principio viene calato nel sistema dell'attuale processo si deve concludere che, mentre l'imputato ha sostanzialmente 45 gg. di tempo per cercare e trovare prove a discarico, la parte offesa-parte civile, stante il contemporaneo disposto degli artt. 558/2 e 79/3 del c.p.p., ne potrebbe avere in astratto solo 5. E' evidente allora che la norma qui impugnata viene a creare una disparita' di trattamento in ordine al concreto esercizio del diritto alla prova; cio' costituisce indubbiamente una violazione al precetto di cui agli artt. 3 e 24 della Costituzione. Quindi si deve concludere e ribadire che la parte offesa-parte civile deve avere ex artt. 3 e 24 della Costituzione gli stessi termini minimi di comparizione che il sistema consente ed impone a favore dell'imputato (che ex art. 555/3 sono di 45 gg.). 4) Conclusioni. Da tutto cio' si deve quindi concludere che l'art. 558/2 del c.p.p. e' incostituzionale per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione; mentre l'art. 555/3 del c.p.p. lo e' nei limiti in cui non preveda che alla parte offesa non venga notificato il decreto di citazione a giudizio negli stessi termini minimi previsti per l'imputato. E' evidente che le due prospettazioni sono solo in parte logicamente connesse. Invero e' evidente che solo con l'accoglimento di entrambe, a parere di questo giudicante, il sistema appare omogeneo con le forme Costituzionali; ma ovviamente sono possibili, da parte della suprema Corte, anche soluzioni alternative; analiticamente si puo' ritenere infondata la prima questione e fondata la seconda, modificando cosi (con sentenza additiva) il 558/2 del c.p.p. sostituendo ai 5 gg. ivi previsti, i 45 gg. che sarebbero i termini minimi di comparizione fissati a favore dell'imputato. Cio' viene detto onde evitare equivoci. 5) Sulla rilevanza della questione. La questione come sopra esposta, e' rilevante ai fini di decidere il caso di specie. Invero ove la Corte ritenesse di aderire alle prospettazioni di questo pretore, il decreto di citazione a giudizio emesso nel procedimento del de quo sarebbe nullo ai sensi degli artt. 178 lett. c) e 180 del c.p.p.; si imporrebbero, cosi', i provvedimenti conseguenziali. A confutare cio' non puo' essere di pregio l'eventuale osservazione che sulla base del principio tempus regit actum, il decreto di citazione de quo al momento in cui e' stato emesso, era legittimo ed il rapporto processuale si e' validamente costituito; con la logica conseguenza che, cio' non puo' venire meno sulla base della sentenza della Corte costituzionale, la quale, quindi, non avrebbe alcun rilievo pratico nel processo de quo. Tale prospettazione e' infondata atteso che, come e' noto, la sentenza della Corte costituzionale e' una sostanziale sentenza di annullamento e quindi deve necessariamente avere efficacia retroattiva e i suoi effetti non possono essere limitati da un principio, come quello suddetto, afferenti a tutta altra ipotesi, quale quella della abrogazione di una norma ad opera di un'altra norma. Il altri termini le norme qui impugnate, ove la Corte ritenesse di aderire alle prospettazioni di questo Pretore, sono invalide sin ab origine, per cui non possono e non debbono legittimare la validita' e l'efficacia degli atti posti in essere sulla base di esse; i quali, quindi andrebbero valutati alla luce dell'art. 555/3 del c.p.p. secondo la lettura qui proposta. Si deve quindi ribadire e concludere che la questione come sopra prospettata, e' indubbiamente rilevante ai fini del decidere il caso di specie.
P. Q. M. Visti gli artt. 234 e seguenti della legge n. 81/1953; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 555/3 e 558/2 del c.p.p. in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione nei limiti di cui a parte motiva. Sospende il giudizio in corso. Dispone la trasmissione dei relativi atti alla Corte costituzionale. Manda alla cancelleria per gli avvisi e le notifiche di cui all'art. 23/4 della legge n. 81/1953. Gardone, Val Trompia, addi' 24 gennaio 1992 Il pretore: TOSELLI Depositata nella cancelleria della prefettura di Brescia, sezione distaccata di Gardone Val Trompia, oggi 6 febbraio 1992. Il collaboratore di cancelleria: MINELLI 92C0806