N. 6 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 4 febbraio 1993
N. 6 Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 4 febbraio 1993 (della regione Lombardia) Finanza pubblica allargata - Interventi urgenti in materia di finanza pubblica - Disposizioni relative ai prezzi contrattuali dei pubblici appalti - Eliminazione della revisione dei prezzi contrattuali e del metodo del "prezzo chiuso" ed imposizione del criterio del prezzo contrattuale invariabile - Affermata applicabilita' della normativa impugnata anche agli appalti stipulati dalle regioni - Applicazione per le opere di qualunque importo delle norme del decreto legislativo 19 dicembre 1991, n. 406 e della direttiva del Consiglio CEE n. 90/531 del 17 settembre 1990 e successive norme di recepimento - Asserita invasione, mediante una normativa puntuale e di dettaglio, della sfera di competenza regionale in materia di "amministrazione del patrimonio", "contabilita' e contratti" e "lavori pubblici di interesse regionale", materia gia' disciplinata con legge regionale 12 settembre 1983, n. 70 - Sottrazione alla legislazione regionale degli spazi attinenti alla disciplina in materia di opere di interesse della regione di qualunque importo, anche minimo e quindi anche al di sotto del valore limite di cinque milioni di ECU (cd. "soglia di rilevanza comunitaria") valevole per le opere di interesse dello Stato - Irragionevolezza, ingiustificata disparita' di trattamento tra Stato e regione e violazione dell'autonomia finanziaria della regione. (Legge 23 dicembre 1992, n. 498, artt. 15, quinto comma, 12, terzo comma, e 2, primo comma, lett. d)). (Cost., artt. 117, 118 e 119).(GU n.8 del 17-2-1993 )
Ricorso per illegittimita' costituzionale proposto dalla regione Lombardia, in persona del presidente in carica della giunta regionale, dott. Fiorella Ghilardotti, a cio' autorizzato con delibera della giunta regionale che viene deposita assunta in data 26 gennaio 1993, rappresentata e difesa, per mandato in calce al presente atto, dagli avv.ti Maurizio Steccanella, del foro di Milano, e Giovanni C. Sciacca, del foro di Roma, presso il quale, in Roma, via G.B. Vico, n. 29, viene eletto domicilio; contro e nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio in carica, sedente in Roma, palazzo Chigi, piazza Colonna, e legalmente domiciliata presso l'avvocatura generale dello Stato, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; per la declaratoria di illegittimita' costituzionale: 1) dell'art. 15, quinto comma, della legge 23 dicembre 1992, n. 498, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, n. 304, del 29 dicembre 1992, recante "Interventi urgenti in materia di finanza pubblica"; 2) dell'art. 12, terzo comma, della medesima legge 23 dicembre 1992, n. 498; 3) dell'art. 2, primo comma, lettera d), della legge anzidetta (n. 498/1992). Le impugnazioni per illegittimita' costituzionale dell'art. 15, quinto comma, e dell'art. 12, terzo comma, della legge portante gli "interventi urgenti in materia di finanza pubblica", 23 dicembre 1992, n. 498 (supra, sub 1) e sub 2)), si fondano su argomentazioni e deduzioni in parte analoghe, laddove, con riferimento alla impugnazione dell'art. 2, primo comma, lett. d), trattasi pur sempre - come per le disposizioni precedentemente menzionate - di deduzione della "invasivita'" delle competenze costituzionalmente riservate alle regioni e della conseguente violazione degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, ma non sara' necessaria una estesa dimostrazione degli effetti "invasivi", risultando - questi ultimi - palesi ictu oculi e ratione materiae. Ne discende che - nonostante la dichiarata "analogia" di argomentazioni impugnative - sara' comunque necessaria una analitica e distinta ricostruzione dell'oggetto, della portata e degli effetti con riferimento alle prime due delle disposizioni di legge qui impugnate, con il rischio - del quale questa difesa e' ben consapevole e anticipatamente se ne scusa .. - di qualche inevitabile ripetizione deduttiva. I. Art. 15, quinto comma L'art. 15 della legge 23 dicembre 1992, n. 498, dopo avere previsto, nei suoi primi quattro commi: talune misure di contenimento di agevolazioni creditizie accordate con leggi previgenti, finalizzate a favorire interventi nel settore del turismo e dello spettacolo (primo comma); la devoluzione delle conseguenti disponibilita' finanziarie alla concessione di mutui per il completamento di impianti sportivi (secondo comma); le regole procedimentali (terzo comma) e le entita' massime (quarto comma) dei mutui concedibili ai sensi del secondo comma; introduce - al quinto comma - un nuovo, diverso e .. inatteso (l'articolo non reca alcuna "rubrica") disposto normativo, che prescinde in toto dalla materia del turismo, dello spettacolo, degli impianti sportivi e dei mutui concedibili, prescrivendo testualmente: "il quarto comma dell'art. 33 della legge 28 febbraio 1986, n. 41, come modificato dall'art. 3, primo comma, del decreto-legge 11 luglio 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, e' abrogato. Sono fatti salvi i contratti per i quali sia gia' intervenuta l'approvazione in data anteriore a quella della entrata in vigore della presente legge". Per comprendere il significato e la portata precettiva di tale "disposizione criptica" (cosi' autorevolmente definita dalla dottrina: Marco Fabio Rinforzi, in "Guida normativa - Il Sole 24 Ore" del 22 gennaio 1993, in quanto "costituita da una .. catena di rinvii legislativi"), occorre, dunque, ripercorrere - a ritroso - il succedersi delle disposizioni legislative oggetto della abrogazione e comunque ivi richiamate, le quali concernono la materia della revisione dei prezzi contrattuali nei pubblici appalti. La revisione dei prezzi contrattuali nei pubblici appalti, intesa come deroga all'originario e tralatizio principio della "invariabilita'", ha tratto origine da due elementi causali storicamente notori: il succedersi di congiunture inflazionistiche, inizialmente cagionate da eventi storici (guerre mondiali) e poi divenute "organiche" ed inscindibili dai processi evolutivi delle economie e dei mercati, e - sul piano giuridico e normativo - dalla impossibilita' di ignorare la "parallela" previsione, contenuta nell'art. 1664 del codice civile entrato in vigore nel 1942 (primo e secondo comma) la quale, riducendo taluni impliciti caratteri "aleatori" del contratto di appalto, fece apparire iniquo e "insostenibile" un regime giuridico del tutto diverso ed opposto nella esecuzione dei contratti di appalto delle opere e dei lavori pubblici. Fu cosi', che, dopo talune decretazioni "di emergenza" risalenti alla prima guerra mondiale e agli anni immediatamente successivi (d.l. n. 890/1915; d.l.l. n. 107/1919; r.d. n. 422/1923; e - in altra congiuntura - r.d.l. n. 1896/1937), fu con il d.l.C.p.St. 6 dicembre 1947, n. 1501, che la revisione dei prezzi contrattuali nei contratti di appalto di opere e di lavori pubblici assunse carattere di istituto generalizzato, pure essendo, comunque, configurato - all'epoca - come oggetto di una mera facolta' delle pp.aa. appaltanti. Fu la successiva legge 22 febbraio 1963, n. 14 a configurare (art. 2) la revisione prezzi come autentico "diritto" dell'appaltatore. Tuttavia, per contenere l'onere finanziario ricadente sulle pp.aa. appaltanti dalla generalizzata applicazione degli istituti revisionali, le diverse leggi succedutesi nel tempo hanno dato largo spazio all'istituto della "anticipazione" (anticipo versato all'appaltatore sul corrispettivo pattuito), prevista, peraltro come ipotesi eccezionale e derogatoria, gia' nel 1972, allorche' con d.P.R. 30 giugno di quell'anno, n. 627, (art. 12), furono aggiunti tre commi (6, 7 ed 8) all'art. 12 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440 (legge di contabilita' dello Stato), notoriamente applicabile, dopo la entrata in vigore della legge 9 giugno 1947, n. 530, anche ai contratti stipulati dagli enti locali territoriali. Le somme anticipate all'appaltatore, infatti, assunsero la funzione di ridurre la incidenza del calcolo revisionale, in quanto idonee a porre il privato contraente al riparo - in parte qua - dell'incremento inflattivo dei costi da lui sopportati, escludendo, per la quota corrispondente, la successiva applicazione della revisione del corrispettivo originariamente pattuito per l'appalto. La "anticipazione", inizialmente ammessa come mera facolta' della p.a., fu resa anch'essa "obbligatoria" (diritto) dall'art. 3 della legge 10 dicembre 1981, n. 741, recante "Ulteriori norme per l'accelerazione delle procedure per la esecuzione delle opere pubbliche": alla corresponsione di essa, le pp.aa. apparvero, a quel punto, tenute entro un termine fissato dalla legge stessa (sei mesi dalla presentazione della offerta: primo comma), e, solo dopo il decorso di tale termine, fu concessa all'appaltatore la facolta' di rinunziarvi (secondo comma) facendo si' che l'intero corrispettivo contrattuale restasse suscettibile di successiva "revisione", ove ne ricorressero - beninteso - i presupposti. La successiva legge 28 febbraio 1986, n. 41, recante "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 1986)" dispose - all'art. 33 suddiviso in sei commi - nei termini seguenti: con il primo comma, fu abrogato il secondo comma dell'art. 3 della legge 10 dicembre 1981, n. 741, per cui la "anticipazione" divenne irrinunciabile e tassativa (presumibilmente nella considerazione che le pp.aa. non ricavassero, dall'omessa erogazione, vantaggi finanziari sufficientemente compensativi rispetto al successivo onere di sottoporre a revisione l'intero importo contrattuale); con il secondo comma, fu esclusa qualunque revisione dei prezzi per i lavori relativi ad opere pubbliche appaltate o concesse da tutte le pp.aa. statali e locali, compresi gli enti pubblici, in presenza di contratti di durata "inferiore all'anno"; con il terzo comma, furono regolamentate le condizioni, i limiti e le modalita' di calcolo della revisione che restava applicabile unicamente nei rapporti contrattuali di durata superiore all'anno; con il quarto comma, il legislatore del 1986 introdusse, nell'ordinamento italiano, un istituto del tutto nuovo: il c.d. "prezzo chiuso", vale a dire la facolta' della p.a. committente di stabilire l'incremento "automatico" del 5% del prezzo di aggiudicazione, al netto del ribasso d'asta, per ogni anno intero di effettuazione dei lavori e per il valore delle opere rimaste da eseguire, omettendo qualunque successiva applicazione di qualsivoglia calcolo revisionale; con il quinto comma, l'intera regolamentazione contenuta nell'articolo (irrinunciabilita', revisione unicamente ultrannuale, prezzo chiuso) fu estesa agli appalti di fornitura di beni e di servizi (per l'innanzi, la revisione dei prezzi in materia di forniture era controversa, e l'anticipazione era, in tali ambiti, del tutto ignota ..); con il sesto comma, infine, furono abrogate tutte le disposizioni in contrasto. Il "prezzo chiuso" costitui', evidentemente, una soluzione contrattuale alternativa rispetto alla revisione prezzi (ormai inevitabile, perche' configurata come "diritto" dalla legge n. 14 del 1963), ed esso apparve al legislatore potenzialmente preferibile per le pp.aa. (la legge n. 41 - legge finanziaria - ispiravasi a criteri di contenimento della spesa pubblicaÝ) allorche' la dinamica inflazionistica fosse risultata accentuata e conseguentemente foriera di effetti revisionali altamente onerosi. In tale quadro normativo, si e' dapprima inserito il decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, portante "misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica", successivamente convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, il cui art. 3, primo comma, ha modificato il secondo comma dell'art. 33 della legge n. 41/1986, eliminando l'inciso "aventi durata inferiore all'anno", ha abrogato il terzo comma del medesimo art. 33 ed ha soppresso, nel quarto comma di esso, la parola "altresi'" (che era riferita all'adozione del "prezzo chiuso"), con il che - sia pure nella medesima forma .. criptica segnalata dall'autore precedentemente citato - e' venuta meno ogni e qualsiasi possibilita' di applicare la revisione dei prezzi contrattuali, quale che sia la durata del contratto di appalto o di concessione, ed e' rimasta la sola possibilita' di ricorrere al metodo del "prezzo chiuso". Con l'attuale quinto comma, dell'art. 15 della legge 23 dicembre 1992, n. 498, viene abrogato, infine, anche il quarto comma dell'art. 33 della legge n. 41/1986, per cui rimane esclusa anche la facolta' di ricorrere al "prezzo chiuso" e, non essendo stata ripristinata alcuna possibilita' di revisione dei prezzi, questi ultimi restano fissi ed immutabili per tutta la durata del contratto, quale che quest'ultima sia e quali che siano le vicende economiche e monetarie che possano, nel frattempo, intervenire. Non risultando intaccati, in nessuna di queste "novelle" intervenute sul testo dell'art. 33 della legge n. 41/1986, ne' la prima parte del secondo comma, ne' il quinto e sesto comma, risulta evidente che il "nuovo regime" risultante dalla applicazione della legge n. 498/1992 e' inteso dal legislatore come direttamente operante anche con riferimento ai contratti delle regioni, degli enti da esse dipendenti (come, ad esempio, le U.S.S.L., specie dopo l'entrata in vigore dell'art. 3 del recentissimo d.P.R. 30 dicembre 1992, n. 502) e degli enti locali, ivi compresi - in questa ultima ipotesi - i contratti che hanno ad oggetto la realizzazione di opere e lavori pubblici "di interesse regionale" (nozione, quest'ultima, di palese notorieta', risultante dal combinato disposto degli artt. 87, 88, 89, 90 e 91 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 e altrettanto notoriamente non coincidente ed assai piu' ampia rispetto alla categoria delle opere e dei lavori pubblici di mera "competenza" della regione), come tali autonomamente disciplinati da ciascuna regione, nell'ambito delle materie: "lavori pubblici di interesse regionale", "amministrazione del patrimonio" e "contabilita' e contratti". La ricorrente regione Lombardia, ad esempio, ha dato, delle "opere pubbliche di interesse regionale", definizione legislativa, all'art. 1 della propria legge regionale 12 settembre 1983, n. 70, recante - appunto - "Norme sulla realizzazione delle oo.pp. di interesse regionale", non "eccepita", ne' "rinviata", ne' impugnata dal governo della Repubblica. Il detto art. 1 della legge regionale cosi' testualmente recita: "Le disposizioni della presente legge si applicano alle opere e ai lavori pubblici di interesse regionale, intendendosi per tali, ai sensi dell'art. 117, primo comma, della Costituzione e dell'art. 87 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, le opere ed i lavori pubblici di qualsiasi natura, anche di edilizia residenziale, che si eseguono nel territorio della regione Lombardia e che non siano di competenza dello Stato a norma dell'art. 88 del suddetto decreto". Tutto cio' premesso, e considerato che le materie "amministrazione del patrimonio", "contabilita' e contratti" e "lavori pubblici di interesse regionale" appartengono alla indiscussa ed esclusiva competenza legislativa di ciascuna regione, a mente degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, e' palese che le peredette materie si troverebbero, per effetto della norma contenuta nella legge statale che costituisce oggetto del presente ricorso, assoggettate ad un intervento prescrizionale di carattere specifico e puntuale (determinazione del corrispettivo contrattuale) vistosamente "invasivo" da parte del legislatore statale, per effetto del quale ogni e qualsiasi contratto di appalto o di affidamento in concessione di lavori ed opere pubbliche, ovvero di appalto di fornitura di beni e di servizi, concluso dalla regione, da enti da essa dipendenti, dalle UU.SS.LL., ovvero dagli enti locali allorche' trattisi di esecuzione di lavori ed opere pubbliche di interesse regionale, dovrebbe essere stipulato a prezzo "invariabile". Viene in tal modo preclusa la scelta della amministrazione committente, di ricorrere - ad esempio - al favorevole criterio del "prezzo chiuso", quale sicuro "preventivo antidoto" contro successive richieste di applicazione analogica (a questo punto inevitabile, anche sotto il profilo della legittimita' costituzionale ex art. 3 della Costituzione) del ben piu' oneroso e aleatorio disposto dell'art. 1664, primo e secondo comma, del codice civile, oltre che quale "antidoto" alla lievitazione delle offerte nelle pubbliche gare di appalto (effetto oggettivamente preventivabile con carattere di certezza) e alla generalizzazione delle "offerte in aumento", delle "riserve", delle richieste di "nuovi prezzi" in corso d'opera, del contenzioso, delle possibili risoluzioni dei contratti per eccessiva onerosita', o per insolvenza degli appaltatori (oltre che ad una .. patologica proliferazione di richieste di subappalto, in chiave compensativa). E' palese che non occorre affatto dimostrare che la norma statale impugnata per illegittima "invasivita'" dal punto di vista costituzionale, sia anche "svantaggiosa", nei suoi contenuti e nei suoi effetti, per la regione ricorrente, volta che violazione degli artt. 117 e seguenti della Costituzione e "invasivita'" si verificherebbero e sarebbero fondatamente deducibili dinanzi la Corte ecc.ma indipendentemente dal "merito" delle disposizioni invasive e quand'anche - in ipotesi - la norma contenuta nella legge statale si proponga obiettivi ritenuti "vantaggiosi" per le regioni. Ma, sotto l'ulteriore profilo della irragionevolezza, non guasta rilevare - nella fattispecie - che l'apparente ratio "calmieratrice" e "rigorista" del quinto comma dell'art. 15 della legge 23 dicembre 1992, n. 498, offre spazio, all'opposto, a prevedibili generalizzati fenomeni di lievitazione di tutti i prezzi di aggiudicazione dei pubblici appalti (non si dimentichi che le offerte in aumento sono ammesse da leggi tuttora vigenti), oltre che all'inevitabile applicazione giurisprudenziale dell'art. 1664 del codice civile ai contratti di evidenza pubblica, e alle altre conseguenze sopra ipotizzate, con immaginabile effetto letteralmente opposto rispetto a quanto il legislatore statale sembra essersi prefissato. In ogni caso, e per mantenersi esclusivamente sul piano della illegittima "invasione" - operata dal legislatore statale con disposizione normativa puntuale e di dettaglio - della indiscutibile competenza legislativa regionale, bastera' ricordare quanto segue. Con sentenza 30 ottobre-5 novembre 1984, n. 245, codesta ecc.ma Corte costituzionale, si pronuncio' su ricorsi di illegittimita' costituzionale, proposti da varie regioni avverso l'art. 31 della legge 27 dicembre 1983, n. 730 ("legge finanziaria 1984"), con il quale il legislatore statale aveva inteso avocare alla competenza dello Stato la redazione di capitolati generali per i contratti di appalto di forniture di beni e servizi alle U.S.L. La Corte, dopo aver riconosciuto che la materia della disciplina contrattuale, rientra de plano nell'ambito della "amministrazione del patrimonio" e in quella della "contabilita'", come tale oggetto di "competenza propria" delle regioni, e riferendo che neppure la difesa della intervenuta Presidenza del Consiglio aveva, in quella occasione, contraddetto cio', ebbe a negare che potessero ravvisarsi, in norme di legge statale che incidano direttamente, puntualmente e al dettaglio (nel nostro caso, si tratta di determinazione del prezzo corrispettivo) sulla attivita' contrattuale di enti diversi dallo Stato, "interessi che per natura e dimensione attengano alla intera collettivita' nazionale e restino necessariamente affidati all'apprezzamento degli organi centrali .., cosi' da giustificare il "trasferimento" delle funzioni in esame dalle regioni allo Stato" (precisamente di questo si tratta anche nel caso ora sottoposto al giudizio della ecc.ma CorteÝ). Alla sussistenza di quei soli interessi, infatti, codesta ecc.ma Corte aveva - gia' in precedenza: sentenza n. 150 del 1982 - condizionato la legittimita' di interventi legislativi statali di "riappropriazione" di funzioni, quale vistosamente e innegabilmente e' quelo di cui si tratta in questa sede, allorche' si dispone tassativamente che nessuna scelta compete piu' alle amministrazioni regionali e al legislatore regionale nel campo delle opere e dei lavori pubblici di interesse regionale ("sono abrogate tutte le disposizioni in contrasto ..", in base al sesto comma dell'art. 33 della legge n. 41/1986, mantenuto in vigore), sullo specifico punto della determinazione dei criteri di calcolo e di liquidazione dei corrispettivi degli appalti e delle concessioni, tanto in materia di lavori, che in materia di forniture di beni e di servizi. La inesistenza di "interessi che per natura e dimensione attengano alla intera collettivita' nazionale" non puo' essere minimamente posta in dubbio da una generica e inespressa propensione "calmieratrice" (che di fatto non trova coerente soddisfacimento, ma cio' appartiene al merito della scelta del legislatore statale e attiene - semmai - alla "irragionevolezza" di detta scelta ..), posto che la disposizione qui impugnata non ha neppure portata limitata agli appalti affidati con impiego di risorse finanziarie erogate dallo Stato, laddove della amministrazione del "proprio" patrimonio, delle "proprie" risorse e della "propria" contabilita', le regioni non possono vedersi espropriate con norme di dettaglio, specificamente attinenti ad un momento particolare della gestione della fase di esecuzione dei contratti (calcolo del corrispettivo). La riprova che il legislatore statale non ha - in precedenti occasioni - ritenuto di elevare a "principi" (?) le disposizioni modali ed attuative della potesta' contrattuale dei diversi soggetti istituzionali del sistema autonomistico, e che esso non giudica che in discipline dotate di questo grado di specificita' risieda alcuna esigenza di tutela di interessi generali propri della "intera collettivita' nazionale", risultera' di particolare evidenza allorche' verra' posta in trattazione la seconda parte del presente ricorso (avverso il terzo comma dell'art. 12 della medesima legge n. 498/1992), ma sembra opportuno farne un duplice cenno anticipatorio anche qui. 1. - Il recentissimo d.P.R. 30 dicembre 1992, n. 502, recante "Riordino della disciplina in materia sanitaria", dispone (agli artt. 3, 4 e 5) che le unita' sanitarie locali - esplicitamente configurate come enti strumentali delle regioni - abbiano una propria "autonomia patrimoniale, contabile, gestionale ..", ed altrettanto esso dispone per le istituende aziende ospedaliere (anch'esse enti strumentali delle regioni), demandando - per le une e per le altre - alle regioni di emanare proprie leggi di contabilita' e sulla gestione degli enti predetti. 2. - Il d.P.R. 19 dicembre 1991, n. 406, recante "Attuazione della direttiva 89/440/CEE in materia di procedura di aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici" - che per essere norma di recepimento di direttiva comunitaria, attinge di certo al piu' alto livello di "generalita'" degli interessi oggetto di tutela normativa - dispone, proprio in materia di contratti di evidenza pubblica, che le regioni (art. 1, quarto comma) emanino, nelle materie di loro competenza (vale a dire con palese riferimento alle opere e lavori pubblici di interesse regionale) proprie leggi, specificando - peraltro - che i "principi" ai quali dette leggi regionali dovranno uniformarsi concernono soltanto: la pubblicita' degli appalti e delle concessioni, il contenuto dei bandi, i requisiti per concorrere, il divieto di prescrizioni tecniche discriminatorie, l'ammissibilita' delle associazioni di imprese, le procedure di aggiudicazione e le comunicazioni degli esiti di gara, laddove non si fa cenno alle modalita' di determinazione del corrispettivo. E se si demandano alle regioni le anzidette potesta' legislative, circoscrivendo, peraltro, l'ambito della normativa statale "di principio" nei ricordati tassativi limiti, non vi e' di che attardarsi in ulteriori argomentazioni per dimostrare - viceversa - l'illegittima invasivita' previsionale del qui impugnato quinto comma dell'art. 15 della legge 23 dicembre 1992, n. 498, del quale si chiede la declaratoria di illegittimita' costituzionale per violazione degli artt. 117, 118 e 199 della Costituzione. II. Art. 12, terzo comma Con riferimento alla "realizzazione delle opere necessarie al corretto svolgimento del (pubblico) servizio nonche' per la realizzazione di infrastrutture ed altre opere di interesse pubblico, che non rientrino .. nelle competenze istituzionali di altri enti", oggetto di previsione - ad altri fini - al primo comma, il terzo comma dell'art. 12 della legge 23 dicembre 1992, n. 498, prescrive che "Per la realizzazione delle opere di qualunque importo di cui al primo comma si applicano le norme del decreto legislativo 19 dicembre 1991, n. 406, e della direttiva n. 90/531/CEE del consiglio, del 17 settembre 1990, e successive norme di recepimento". La disposizione comporta, pertanto: I) che, in aperto contrasto con quanto previsto al quarto comma dell'art. 1 del d.P.R. 19 dicembre 1991, n. 406 (esaminato poche righe sopra, con riferimento alla impugnazione dell'art. 15, quinto comma), nel regime degli appalti di opere pubbliche che rientrano sicuramente nella - gia' ricordata - categoria delle "opere e lavori pubblici di interesse regionale" (anche se demandate alla esecuzione di province e comuni), non vi sara' alcuno spazio per le emanande leggi regionali, dovendosi, invece, fare applicazione pedissequa e integrale dello stesso d.P.R. n. 406/1991; II) che, sempre in contrasto con il citato quarto comma dell'art. 1 del d.P.R. n. 406, tutte le disposizioni contenute in quest'ultimo dovranno trovare integrale, puntuale e tassativa applicazione, con riferimento a quelle opere e a quei lavori di interesse regionale, laddove la ipotizzata legislazione regionale avrebbe dovuto unicamente rispettare taluni "principi", individuati - come gia' detto - unicamente nella pubblicita' dei bandi, nel loro contenuto, nei requisiti soggettivi di partecipazione alle gare, nel divieto di norme tecniche discrinimatorie preferenziali od escludenti, nella ammissione delle imprese raggruppate, nelle proce- dure di aggiudicazione, nella comunicazione degli esiti di gara; III) che, addirittura, la normativa di cui al d.P.R. n. 406 dovra' trovare integrale applicazione per la realizzazione di opere di qualunque importo e quindi anche al di sotto del valore-limite di 5 milioni di ECU (c.d. "soglia di rilevanza comunitaria"), cosi' che gli appalti per la esecuzione di opere e lavori pubblici di interesse regionale vengono interamente "comunitarizzati", anche se si tratti di appalti e concessioni del tutto identici a quelli che, avendo ad oggetto materie di competenza dello Stato ed essendo affidati da organi dello Stato, restano invece - per effetto del loro modesto valore - soggetti soltanto alla piu' agile e meno onerosa normativa interna nazionaleÝ Basta riflettere sugli altissimi costi di pubblicita' in "regime europeo" (che vengono in tal modo "imposti" alle regioni anche in occasione di modeste e modestissime commesseÝÝÝ) e all'oneroso e complesso procedimento preselettivo e selettivo che il "regime CEE" prescrive, per avvertire che la disposizione qui impugnata, oltre che contraddittoria con il quarto comma dell'art. 1 del d.P.R. n. 406/1991 ed oltre che assurdamente discriminatoria fra pubbliche amministrazioni (rispettivamente statali e regionali-locali in materie di interesse regionale), risulta oggettivamente impositiva di oneri finanziari specificamente gravanti sugli enti regionali e locali (la maggior parte degli appalti locali sara' al di sotto di quella soglia di valoreÝ); IV) che - addirittura - la direttiva CEE c.d. "settori esclusi" (appalti nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni), vale a dire la direttiva n. 90/531/CEE del 17 settembre 1990, sebbene non ancora legislativamente "recepita", e conseguentemente non applicata dagli organi dello Stato e dagli enti pubblici operanti nelle materie di competenza statale, deve, viceversa, trovare immediata ( .."anticipata") ed integrale applicazione (anche qui, senza alcuno spazio per la legislazione regionale) nella esecuzione di opere e lavori pubblici di interesse regionale, seppur di competenza, quanto alla esecuzione, di province e comuni. Siffatta irragionevole e altamente "invasiva" anticipazione di vigenza della direttiva CEE traspare, del resto, dalla proposizione finale del terzo comma qui impugnato che allude a "successive" (Ý) norme di recepimento .. Occorrerebbe, a questo punto, ripetere quanto gia' argomentato a proposito del quinto comma dell'art. 15 della legge n. 498/1992, pure impugnato in questa sede. Cio' questa difesa non fara', limitandosi a richiamare, anche su questo punto, le gia' svolte deduzioni di invasivita', di ingiustificata "riappropriazione", di irragionevolezza e di totale assenza delle condizioni per la configurazione di precetti "di principio" a salvaguardia di interessi generali. Sotto questo ultimo profilo, basti denunciare quanto segue: A) non puo' certamente costituire "principio" cio' che non viene prescritto per le amministrazioni statali (applicazione della normativa comunitaria al di sotto della soglia di valore di 5.000.000 di ECU); B) non puo', ugualmente, costituire "principio" cio' che il legislatore statale non ha ancora prescritto agli organi dello Stato, vale a dire l'attuazione della direttiva "settori esclusi" n. 90/531/CEE; C) in estrema ipotesi, anche in detta direttiva CEE non potranno non esservi taluni "principi" ai quali la emananda legislazione regionale dovra' attenersi, ma non tutte le disposizioni di essa avranno uguale "rango" (principi), se e' vero, come e' vero, che anche in sede di recepimento della direttiva n. 89/440/CEE in materia di appalti di lavori pubblici, la legge nazionale ha limitato l'ambito dei "principi" ai sensi del gia' citato quarto comma dell'art. 1 del d.P.R. n. 406/1991. Pertanto, ai profili comuni di "invasivita'" si aggiungono, qui, ulteriori deduzioni di illegittimita' sotto specie di assoluta irragionevolezza e di vistosa disparita' fra discipline applicabili da parte degli organi statali e discipline imposte agli organi regionali (e locali, in materie di interesse regionale, come tali de- mandate alla competenza legislativa delle regioni). Appaiono sicuramente violati gli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione e si chiede la declaratoria di illegittimita' costituzionale del terzo comma dell'art. 12 della legge 23 dicembre 1992, n. 498. III. Art. 2, primo comma, lett. d) Esposte le finalita' della previsione, il primo comma dell'art. 2 della legge n. 498/1992, conferisce al Governo della Repubblica delega ad emanare uno o piu' decreti legislativi, intesi, fra l'altro - lett. d) - a "disciplinare i vincoli e gli oneri ai quali e' sottoposta l'attivita' di cava in sede di rilascio dell'autorizzazione all'esercizio dell'attivita', commisurando l'onere .. e fissando altresi' modalita' e condizioni per la conservazione e la manutenzione degli alvei fluviali e delle difese spondali ..". Vengono, conseguentemente, attribuite al Governo, in sede di legislazione delegata, potesta' legislative puntuali e di dettaglio (vincoli, oneri, canoni, modalita' e condizioni), in materie - "cave e torbiere", e acque interne (la prima delle quali risulta espressamente enunciata nell'art. 117 della Costituzione, e la seconda delle quali risulta definita dal combinato disposto degli artt. 90 e 91 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616) - di indiscussa e sicura competenza delle regioni. Non occorre neppure soffermarsi a constatare che la palese e dichiarata "invasivita'", per "riappropriazione", non e' di certo ovviata - come codesta Corte ha pur rilevato in talune analoghe occasioni - dalla mera previsione di una consultazione ("sentita") della conferenza permanente Stato-regioni sul testo dei d.P.R. Nemmeno in questo caso, peraltro, potranno invocarsi interessi che per "natura e dimensioni" attengano alla "intera collettivita' nazionale", cosi' da giustificare l'emanazione di norme statali "di principio", posto che specifici "vincoli", specifici "oneri", singole "modalita'" e concrete "condizioni" rappresentano contenuti previsionali "puntuali", di dettaglio, esecutive e modali, del tutto esulanti da qualsivoglia accezione di "principio", tanto piu' che la delega legislativa al Governo non appare intesa a "dettare criteri", ma addirittura a "disciplinare" tutto cio'. La violazione dell'art. 117 della Costituzione non potrebbe essere, nemmeno in questo caso, piu' evidente.
Per tutti questi motivi, la regione Lombardia, come sopra impersonata, rappresentata e difesa, chiede che codesta ecc.ma Corte costituzionale, in accoglimento del presente ricorso, voglia dichiarare costituzionalmente illegittimi, per violazione degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione della Repubblica, oltre che per palese irragionevolezza (anche sotto il profilo della contraddittorieta' legislativa e della irragionevole diversita' di disciplina fra organi dello Stato e organi regionali e locali in materia di competenza ovvero di interesse regionale): il quinto comma dell'art. 15; il terzo comma dell'art. 12; e il primo comma, lett. d), dell'art. 2, tutti della legge 23 dicembre 1992, n. 498, recante "Interventi urgenti in materia di finanza pubblica", pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 304 del 29 dicembre 1992, con ogni conseguente statuizione. Col presente ricorso, si depositano: copia autentica della delibera della giunta regionale di proposizione del ricorso, nonche' copia della legge oggetto della impugnazione, benche' trattisi di atto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. Milano-Roma, addi' 27 gennaio 1993 Avv. Maurizio STECCANELLA - Avv. Giovanni C. SCIACCA 93C0104