N. 9 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 8 febbraio 1993
N. 9 Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria l'8 febbraio 1993 (della provincia autonoma di Trento) Finanza pubblica allargata - Interventi urgenti in materia di finanza pubblica - Riduzione per le province autonome di Trento e di Bolzano, per l'anno 1993, del 42 per cento delle risorse provenienti dal Fondo sanitario nazionale o dall'attribuzione dei contributi sanitari - Conferma per gli anni successivi al 1993 delle aliquote di riduzione di cui all'art. 4, undicesimo comma, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 - Asserita violazione della sfera di autonomia finanziaria della provincia di Trento non giustificabile (come viceversa e' stato ritenuto per analoghe riduzioni operate con la suddetta legge n. 412/1991, parimenti impugnata, dalla Corte costituzionale con sentenza n. 356/1992, sul presupposto del carattere provvisorio delle riduzioni stesse in attesa dell'emanazione della legge di "riforma sanitaria") in quanto con il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e' stata disciplinata la "riforma sanitaria" stessa - Ingiustificata disparita' di trattamento delle province autonome rispetto alle regioni di diritto comune, nonche' alle regioni a statuto speciale, per le quali la riduzione opera in misura inferiore - Violazione del principio di copertura finanziaria per l'accollo alla provincia autonoma dell'onere finanziario derivante dalla riduzione dei fondi e contributi - Riferimento alle sentenze della Corte costituzionale nn. 381/1990, 356, 392, 427 e 462 del 1992. (Legge 23 dicembre 1992, n. 498, art. 8, primo comma). (Cost., artt. 3, 5 e 81; statuto Trentino-Alto Adige, titolo sesto).(GU n.8 del 17-2-1993 )
Ricorso della Provincia Autonoma di Trento, in persona del presidente della giunta provinciale Gianni Bazzanella, autorizzato con deliberazione della giunta provinciale n. 410 del 25 gennaio 1993, rappresentato e difeso dagli avvocati prof. Valerio Onida e Gualtiero Rueca, ed elettivamente domiciliato presso quest'ultimo in Roma, largo della Gancia, 1, come da mandato speciale a rogito del notaio dott. Pierluigi Mott di Trento in data 26 gennaio 1993, n. 58436 di rep., contro il Presidente del Consiglio dei Ministri pro- tempore, per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 8, primo comma, della legge 23 dicembre 1992, n. 498. L'art. 8, primo comma, della legge 23 dicembre 1992, n. 498, concernente "Interventi urgenti in materia di finanza pubblica", dispone che "per le regioni a statuto speciale e per le province autonome di Trento e Bolzano, le risorse provenienti dal fondo sanitario nazionale o dalla attribuzione dei contributi sanitari in attuazione dell'art. 1, primo comma, lettera i, della legge 23 ottobre 1992, n. 421, sono ridotte, per l'anno 1993, .. .. del 42 per cento .. .. per le province autonome di Trento e Bolzano .. ... per gli anni successivi restano confermate le aliquote di riduzione di cui all'art. 4, undicesimo comma, della legge 30 dicembre 1991, n. 412". Non e' la prima volta, come e' noto, che la provincia autonoma di Trento, al pari di altre regioni a statuto speciale e province autonome, ma in misura piu' consistente, vede ridursi, ad opera del legislatore statale, la quota annualmente ad esso spettante del fondo sanitario nazionale; e cio' nonostante che l'art. 5, primo comma, della legge 30 novembre 1989, n. 386, contenente norme per il coordinamento della finanza della regione Trentino-Alto Adige, e delle province autonome con la riforma tributaria, esplicitamente preveda che la provincia partecipa alla ripartizione dei fondi nazionali "istituiti per garantire livelli minimi di prestazioni in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, secondo i criteri e le modalita' per gli stessi previsti". Una prima riduzione, nella misura del 20%, venne disposta a partire dal 1990 dall'art. 19, primo comma, del d.l. 28 dicembre 1989, n. 415, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 38. Questa Corte, investita della relativa questione di legittimita' costituzionale, la dichiaro' non fondata con la sentenza n. 381/1990, rilevando che trattavasi di "misure provvisorie, volte ad allineare le entrate prese in considerazione su un livello minimo calcolato in base a parametri di omogeneita' delle rispettive prestazioni in riferimento all'intero territorio nazionale", e che facevano salvi i "futuri aggiustamenti" nell'ambito di "una riconsiderazione globale della materia, basata su piu' approfondite analisi del rapporto tra i flussi finanziari esistenti fra lo Stato e le regioni (e le province autonome) e le funzioni esercitate da queste ultime"; e che, pur rientrando il fondo sanitario fra quelli la partecipazione ai quali e' garantita alle province autonome dall'art. 5, primo comma, della legge n. 386/1989, questo non impedisce "che il legislatore proceda ad aggiustamenti progressivi in vista del superamento degli squilibri eventualmente formatisi tra le singole regioni (o province autonome)". Successivamente l'art. 4, primo comma, della legge 30 dicembre 1992, n. 412, ha previsto, a far tempo dal 1992, una ulteriore riduzione della quota del fondo sanitario spettante alle province autonome di Trento e Bolzano, portanto il "taglio" alla misura del 28 per cento. Anche tale disposizione e' stata riconosciuta dalla Corte non illegittima, con la sentenza n. 356/1992, in vista ancora una volta dell'"urgenza e provvisorieta'", che caratterizzavanola misura, "in attesa della definitiva legge di riordino della materia", e sul presupposto che comunque la quota del fondo sanitario assegnata alla province autonome rappresentasse comunque una determinazione quantitativa cui la spesa sanitaria avrebbe dovuto adeguarsi, nel garantire i livelli minimi obbligatori di assistenza, salvo il potere delle province di finanziare con propri mezzi ulteriori prestazioni, e che dunque la disposta riduzione rappresentasse una legittima misura di dimensionamento da parte dello Stato delle risorse da destinare ad una spesa che, per la parte essenziale, secondo la Corte, deve gravare sullo Stato per assicurare livelli assistenziali uniformi (cfr. punti 3, 4 e 5.2 del considerato in diritto). Nel frattempo, pero', il legislatore statale e' andato delineando un sistema di finanziamento del servizio sanitario interamente nuovo; in base ad esso, il fondo sanitario nazionale e le quote di esso rispettivamente attribuite alle singole regioni e province autonome vengono commisurati non piu' alla spesa "storica", bensi' a "livelli di assistenza sanitaria da assicurare in condizioni di uniformita' sul territorio nazionale", cui si correlano "standard organizzativi e di attivita' da utilizzare per il calcolo del parametro capitario di finanziamento per ciascun livello assistenziale" (art. 4, primo comma, legge n. 412/1991). La spesa sanitaria superiore a quella parametrica correlata ai livelli obbligatori uniformi e' posta interamente a carico delle regioni e delle province autonome (art. 4, quinto comma, legge n. 412/1991). Gia' in base a questi principi, in forza dei quali la quota del fondo sanitario da attribuire a ciascuna regione non e' piu' una quota "astratta", ne' un finanziamento correlato alla spesa "storica", ma e' commisurata ad un fabbisogno oggettivamente calcolato e rapportato ai livelli di assistenza imposti come obbligatori dalla legge statale, una riduzione della quota cosi' determinata, in una misura discrezionalmente stabilita e per nulla collegata a parametri oggettivi di fabbisogno, appare una deroga eccezionale ed anomala, difficilmente giustificabile. Ma con il 1993 si e' infine realizzato l'atteso riordino del servizio sanitario (art. 1 legge n. 421/1992 e d.lgs. n. 502/1992), e in particolare si e' compiuto un altro passo nella trasformazione del sistema di finanziamento del servizio sanitario medesimo. L'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, nel dettare i principi e i criteri sulla base dei quali il Governo e' stato delegato a provvedere con decreti legislativi ad riordino del servizio sanitario, ai fini, fra l'altro, della "ottimale e razionale utilizzazione delle risorse destinate al servizio sanitario nazionale, del perseguimento della migliore efficienza del medesimo a garanzia del cittadino, di equita' distributiva e del contenimento della spesa sanitaria", da un lato ha ribadito l'obbligo di "definire principi relativi ai livelli di assistenza sanitaria uniformi e obbligatori .. .., stabilendo comunque l'individuazione della soglia minima di riferimento, da garantire a tutti i cittadini, e il parametro capitario di finanziamento da assicurare alle regioni e alle province autonome per l'organizzazione di detta assistenza, in coerenza con le risorse stabilite dalla legge finanziaria" (lett. g); dall'altro lato ha stabilito che si debba "prevedere l'attribuzione, a decorrere dal 1½ gennaio 1993, alle regioni e province autonome dei contributi per le prestazioni del servizio sanitario nazionale localmente riscossi con riferimento al domicilio fiscale del contribuente e la contestuale riduzione del fondo sanitario nazionale di parte corrente", e la imputazione alle regioni e alle province autonome degli "effetti finanziari per gli eventuali livelli di assistenza sanitaria superiori a quelli uniformi, per le dotazioni di presidi e di posti letto accedenti gli standard previsti e per gli eventuali disavanzi di gestione da ripianare con totale esonero finanziario dello Stato" (lett. i). In questo contesto, la disposizione contenuta nell'art. 8, primo comma, della legge n. 498/1992 appare non solo un fuor d'opera, ma un deliberato in palese contraddizione con i principi di disciplina della materia, nonche' con i principi di eguaglianza e ragionevolezza, gravemente lesivo dell'autorita' finanziaria delle province autonome. Infatti con esso si dispone non solo una drastica riduzione, di quasi la meta', della quota del fondo spettante alle province autonome in base agli stessi criteri e parametri centralmente stabiliti in rapporto al costo necessario per assicurare i livelli minimi uniformi di assistenza, ma - quel che e' piu' grave - si sottrae alla provincia autonoma una parte del gettito dei contributi sanitari riscossi nel suo territorio, e versati dai contribuenti in essi domiciliati. Ora, se in ipotesi il gettito nazionale dei contributi sanitari coprisse l'intero costo dei servizi, e se il gettito localmente riscosso in alcune regioni o province autonome eccedessse il fabbisogno locale relativo ai livelli minimi di assistenza prescritti, protrebbe al limite, apparire ammissibile, in base a criteri di solidarieta', la devoluzione di tale eccedenza del gettito dei contributi riscossi nelle regioni piu' ricche al fine di compensare il deficit di altre regioni. Ma, come si sa, non e' cosi'. Il gettito complessivo, a livello nazionale, dei contributi sanitari e' ben lontano dal coprire la spesa sanitaria, anche quella correlata ai livelli minimi obbligatori. E questa situazione si ripete in tutte le regioni. Cosi', nella provincia di Trento, il gettito dei contributi copre solo il 65-70% della spesa sanitaria, e dunque il 30-35% di esso e' coperto o dovrebbe essere coperto dalla quota del fondo nazionale. Orbene, le disposizioni in questione, prevedendo una decurtazione del 42% delle risorse spettanti alla provincia, derivanti sia dal fondo nazionale sia dall'attribuzione dei contributi sanitari, di fatto comporta che alla provincia non solo non venga attribuita dallo Stato una lira in piu' rispetto al gettito locale dei contributi, ma che una quota di tale gettito, pari almeno al 7% della spesa totale (42-35), che equivale a quasi l'11% del gettito medesimo, sia sottratta alla provincia per essere devoluta allo Stato. Lo Stato, dunque, in provincia di Trento non solo non finanzierebbe piu', nemmeno in minima parte, il costo dei servizi sanitari, ma per di piu' verrebbe a lucrare una parte ragguardevole dei contributi sanitari che i contribuenti della provincia versano per usufruire dei servizi garantiti per legge a tutti i cittadiniÝ Tutto cio', per di piu', pur continuando, lo Stato, a mantenre il controllo del servizio, assoggettato alla minuzionsa e vincolante disciplina della legge statale. Non e' chi non veda la totale illogicita' e irrazionalita' di siffatto disposto, che risulta dunque in palese contrasto con gli artt. 3, 5 e 81, quarto comma, della Costituzione nonche' con le norme dello Statuto speciale che garantiscono l'autonomia finanziaria delle province autonome e con l'art. 5, primo comma, della legge n. 386/1989. Esso infatti riduce irragionevolmente le risorse finanziarie a disposizione della provincia; ne comprime conseguentemente l'autonomia; realizza una ingiuficata disparita' di trattamento nei confronti delle altre regioni ad autonomia ordinaria e speciale; e comporta una riduzione di entrate a fronte di spese incomprimibili, senza indicare i mezzi per fronteggiare l'onere (donde anche la violazione dell'art. 27 della legge 5 agosto 1978, n. 468). D'altra parte non possono in alcun modo valore, nei confronti di tale disposizione, le giustificazioni che hanno indotto questa Corte, nelle sentenze n. 381/1990 e n. 356/1992, a far salve le riduzioni precedentemente operate sulla quota del fondo sanitario assegnata alle province autonome. Non la giustificazione della provvisorieta' del provvedimento, in attesa del riordino definitivo del servizio. Questo e' ormai delineato dall'art. 1 della legge n. 421 del 1992, ed attuato con il d.lgs. n. 502/1992; ciononostante la disposizione qui impugnata da un lato attua per il 1993 la drastica riduzione che si e' detto, in pieno contrasto anche con il nuovo sistema di finanziamento previsto, dall'altro lato consolida per il futuro e rende definitive le aliquote di riduzione stabilite dall'art. 4, undicesimo comma, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, trasformandole da misure provvisorie in una disciplina stabile, al di fuori di qualsiasi oggettivo adeguamento al costo effettivo delle prestazioni minime garantite in modo uniforme. Non vale piu' nemmeno la giustificazione che si traeva dalla potesta' riconosciuta allo Stato di dimensionare con una certa discrezionalita' il finanziamento del servizio, poiche' la riduzione disposta prescinde del tutto dai parametri di fabbisogno e di costo relativi al servizio, comportando addirittura, come si e' visto, l'attribuzione allo Stato, per il 1993, di una parte del gettito contributivo riscosso nella provincia, e comunque una riduzione definitiva della quota del fondo pur dopo che questo viene ad essere calcolato in relazione ai parametri capitari collegati ai livelli uniformi di assistenza imposti. D'altra parte, se pur e' vero che l'art. 5 della legge n. 386/1989 non garantisce una determinata dimensione della quota del fondo sanitario attribuita alla provincia, e' pur vero che esso dispone che la provincia partecipa al riparto dei fondi istituiti per garantire livelli minimi di prestazioni in modo uniforme su tutto il territorio nazionale (come il fondo sanitario) "secondo i criteri .. per gli stessi previsti" dalle leggi statali. Non puo' dunque ritenersi legittima una qualsiasi determinazione quantitativa, del tutto scissa, e anzi in totale contraddizione, con i criteri fissati dalla legge per il riparto dei fondi in correlazione ai costi; ed e' dunque violato anche l'art. 5 della legge n. 386/1989. Non si dica che l'anomala decurtazione delle risorse spettanti alla provincia trova una certa giustificazione pratica, se non logica, nella circostanza che la provincia stessa gode di altre entrate in misura superiore alle altre regioni, rappresentando dunque una sorta di misura di compensazione. Quanto alla entrate proprie in senso stretto, bastera' rilevare che nel campo della sanita' le province autonome non dispongono di alcun potere di imporre tasse o contributi o tariffe o forme di compartecipazione alla spesa da parte degli assistiti, diverso e maggiore di quelli riconosciuti a tutte le regioni. Le province autonome e le regioni speciali, a differenza delle regioni ordinarie, godono invece, com'e' noto, di un vero regime di compartecipazione al gettito dei tributi erariali. E questo e' il grande argomento di cui si fanno forti coloro che considerano tali enti come privilegiati rispetto agli altri enti di autonomia. Ma l'argomento e' totalmente inconferente ai fini del problema qui discusso. Supponiamo, per un momento, che il regime di compartecipazioneal gettito dei tributi erariali, stabilito a favore delle province autonome, dovesse rivelarsi tale da comportare a favore di esse un riparto proporzionale eccessivo in rapporto alle funzioni da esse svolte (che sono peraltro assai piu' numerose e ampie, come e' noto, di quelle trasferite alle regioni ordinarie). Ebbene il legislatore statale avrebbe, a questo punto, due possibilita': o quella, che costituirebbe invero la strada maestra di devolvere alle province autonome ulteriori funzioni oggi trattenute in capo allo Stato, cosi' da adeguare il riparto delle funzioni a quello stabilito per il gettito dei tributi; ovvero quella di adeguare le compartecipazioni al gettito tributario oggi riconosciuta alle province, all'effettivo riparto delle funzioni. Lo Stato pero' si guarda bene dal percorrere la prima strada e al contrario continua ad intervenire con propri mezzi finanziari, nel territorio delle province, anche in materie rientranti nelle competenze statutarie di queste, per non voler cedere la gestione degli interventi, e cio' con le piu' varie giustificazioni in genere legate a presunte esigenze di programmazione nazionale; si vedano ad esempio, di recente, i casi decisi da questa Corte con le sentenze nn. 392, 427 e 462 del 1992). Ma lo Stato non percorre nemmeno l'altra strada, quella cioe' di un adeguamento ipotetico delle compartecipazioni all'attuale riparto delle funzioni. Si dira' che la modifica delle compartecipazioni comporta modifica delle norme statutarie che, pur essendo possibile con legge ordinarie, ai sensi dell'art. 104 dello statuto speciale, presuppone pero' l'intesa con le province; e che non potendo attendersi di ottenere facilmente l'intesa su una riduzione delle entrate tributarie attribuite alle province, lo Stato deve ricorrere all'espediente di agire sui trasferimenti dal proprio bilancio, riducendoli (come appunto fa con il fondo sanitario), in quanto tali riduzioni non passano attraverso la necessaria intesa con gli enti autonomi. Ma l'argomento dialettico prospettato (e che non va molto lontano - crediamo - dalla realta' dei propositi e degli intenti con cui si muove il legislatore centrale in questa materia) svela da solo la sua intima contraddizione e il suo insanabile contrasto con i principi costituzionali. Se, infatti, la riduzione delle risorse attribuite per il servizio sanitario - con la sottrazione alla provincia non solo delle risorse corrispondenti ai livelli minimi uniformi di assistenza, ma di una parte delle stesse risorse contributive riscosse nella provincia medesima - serve a realizzare per altra via quella riduzione di risorse che si ritiene di non poter realizzare attraverso la riduzione delle compartecipazioni, per l'ostacolo statutario derivante dalla necessita' dell'intesa, cio' significa che tale riduzione e' un espediente apertamente elusivo dello stesso dettato statutario. Se lo statuto ha voluto che la garanzia dell'autonomia passasse anche attraverso la garanzia procedimentale dell'intesa per la modifica delle relative norme, e' evidentemente lesivo di questa garanzia, e dunque dell'autonomia, l'espediente di sottrarre alle province altre risorse, ad essa spettanti, e per le quali tale sottrazione non trova autonoma giustificazione. La realta' e' pero' che e' ancora mancata quella "riconsiderazione globale della materia, basata su piu' approfondite analisi del rapporto tra i flussi finanziari esistenti fra lo Stato e le regioni (e le province autonome) e le funzioni esercitate da queste ultime", secondo la prospettiva indicata dalla Corte nella sentenza n. 381/1990 (n. 5 del considerato in diritto). I rapporti fra Stato e regioni e province autonome sono regolati e devono essere retti dai principi costituzionali e da criteri di lealta' reciproca: non c'e' spazio, in una disciplina di tale rapporto che voglia essere costituzionalmente coerente, per furberie o colpi di mano. Anche la sacrosanta esigenza dell'equita' nel riparto delle risorse deve passare attraverso regole chiare e ragionevolmente fondate, non attraverso l'uso di strumenti impropri. Dalla Corte, il cui arbitrato rappresenta la piu' alta garanzia di salvaguardia del quadro di equilibrio costituzionale anche nel campo delle autonomie, la provincia ricorrente si attende non un trattamento di favore, ma la limpidezza di una decisione fondata sui criteri costituzionalmente sanciti e sul canone della ragionevolezza, piuttosto che sul facile ma ingannevole richiamo a presunte ragioni pratiche e alle necessita' dell'emergenza, volto a giustificare cio' che altrimenti non puo' qualificarsi se non come un irragionevole arbitrio.
P. Q. M. La provincia ricorrente chiede che la Corte voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 8, primo comma, della legge 23 dicembre 1992, n. 498, nella parte in cui prevede per il 1993 la riduzione del 42 per cento delle risorse provenienti dal Fondo sanitario nazionale e dalla attribuzione dei contributi sanitari, e spettanti alla provincia autonoma di Trento, e prevede inoltre, per gli anni successivi, la conferma della aliquota di riduzione di cui all'art. 4, undicesimo comma, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, per violazione degli artt. 3 e 5 della Costituzione e dell'autonomia finanziaria garantita alla Provincia dal titolo VI dello statuto speciale per il Trentito-Alto Adige, nonche' dell'art. 5 della legge 30 novembre 1989, n. 386 e dell'art. 27 della legge 5 agosto 1978, n. 468. Roma, addi' 28 gennaio 1993. Avv. prof. Valerio ONIDA - Avv. Gualtiero RUECA 93C0107