N. 41 SENTENZA 28 gennaio - 10 febbraio 1993

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 Processo penale - Udienza preliminare  -  Persona  non  imputabile  -
 Evidenza  dagli atti - Sentenza di non luogo a procedere - Obbligo di
 pronuncia - Richiamo alla giurisprudenza  della  Corte  (sentenza  n.
 431/1990)  -  Privazione  della fase dibattimentale e del conseguente
 diritto alla prova - Irragionevole compressione del diritto di difesa
 - Illegittimita' costituzionale.
 "
 (C.P.P., art. 425, primo comma)
 "
 (Cost., artt. 3, 24 e 76).
(GU n.8 del 17-2-1993 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo
    SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE,  prof.  Vincenzo  CAIANIELLO,
    avv.  Mauro  FERRI,  prof.  Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott.
    Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof.  Francesco  GUIZZI,
    prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 425, primo
 comma, del codice di procedura penale promosso con  ordinanza  emessa
 il 9 luglio 1992 dalla Corte costituzionale nel procedimento penale a
 carico  di  Colli  Antonio, iscritta al n. 509 del registro ordinanze
 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  40,
 prima serie speciale, dell'anno 1992;
    Udito  nella  camera  di consiglio del 16 dicembre 1992 il Giudice
 relatore Giuliano Vassalli;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Con ordinanza del 13 giugno 1991, il Giudice per le  indagini
 preliminari  presso  il  Tribunale  di Reggio Emilia, all'esito della
 udienza  preliminare  celebrata  a  carico  di  persona  imputata  di
 parricidio, riconosciuta totalmente incapace di intendere e di volere
 e   giudicata  socialmente  pericolosa,  ha  sollevato  questione  di
 legittimita', in riferimento agli artt. 3 e  24  della  Costituzione,
 dell'art.  426, lett. c), del codice di procedura penale, nella parte
 in cui tale norma - in caso di sentenza di non luogo a procedere  per
 infermita' psichica - preclude al giudice per le indagini preliminari
 di  tener  conto  delle  circostanze  attenuanti  e  di effettuare il
 giudizio di comparazione di cui all'art. 69  del  codice  penale  tra
 queste  e  le circostanze aggravanti, ai fini dell'applicazione della
 misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario
 o della determinazione della sua durata minima ai sensi dell'art. 222
 del codice penale.
    L'ordinanza di rimessione si fonda sulla sentenza di questa  Corte
 n.  233  del  1984, con la quale e' stata dichiarata l'illegittimita'
 costituzionale dell'art. 384, n. 2, del codice abrogato - che si  as-
 sume  essere corrispondente alla norma del nuovo codice impugnata dal
 rimettente - negli stessi termini  che  costituiscono  oggetto  della
 questione  sottoposta  all'esame  della Corte. Rileva in proposito il
 rimettente che il giudice della udienza preliminare non ha il  potere
 di  interloquire  sulle  circostanze,  come  e'  dimostrato da quelle
 disposizioni che eccezionalmente conferiscono un simile potere a fini
 particolari (cfr. art. 4 del d.P.R. 12 aprile 1990 n. 75 in  tema  di
 amnistia). Da qui l'integrale rinvio alle considerazioni svolte dalla
 Corte nella richiamata sentenza n. 233 del 1984, del cui dispositivo,
 dunque,  si  domanda  la  estensione  alla pertinente norma del nuovo
 codice di rito.
    2.  -  Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  Generale  dello
 Stato,  chiedendo  che  la  questione  sia dichiarata non fondata. Ha
 osservato in proposito l'Avvocatura che la sentenza di  questa  Corte
 n.  233  del  1984  fu  determinata  dalla giurisprudenza dell'epoca,
 secondo  la  quale  era  inibita  la  valutazione  delle  circostanze
 attenuanti e il relativo giudizio di bilanciamento con le circostanze
 aggravanti.  Tuttavia,  afferma  la  difesa  dello Stato, anche se il
 nuovo codice  non  ha  risolto  espressamente  tale  aspetto,  e'  da
 ritenere  che  la  norma  impugnata  non  precluda  al giudice per le
 indagini preliminari di tener conto delle circostanze  attenuanti  ai
 fini  dell'applicazione  della misura di sicurezza, tanto piu' che la
 norma non potrebbe essere diversamente interpretata alla  luce  della
 citata sentenza della Corte.
    3.  - Con ordinanza n. 378 emessa il 9 luglio 1992 e depositata il
 27 luglio 1992, la Corte, nel disporre la  sospensione  del  giudizio
 introdotto  con  l'ordinanza  pronunciata dal Giudice per le indagini
 preliminari presso  il  Tribunale  di  Reggio  Emilia,  ha  sollevato
 davanti   a  se',  in  riferimento  agli  artt.  3,  24  e  76  della
 Costituzione, questione di legittimita' dell'art. 425,  primo  comma,
 del  codice  di procedura penale nella parte in cui stabilisce che il
 giudice pronuncia sentenza di non luogo a  procedere  quando  risulta
 evidente  che l'imputato e' persona non imputabile. Nel provvedimento
 con il quale e' stato introdotto il  nuovo  giudizio  incidentale  di
 costituzionalita',   la   Corte  ha  infatti  ritenuto  pregiudiziale
 all'esame della questione sollevata dal giudice  a  quo  la  verifica
 della  legittimita'  costituzionale  in  parte  qua dell'art. 425 del
 codice  di  procedura  penale,  osservando   come   tale   nesso   di
 pregiudizialita'    potesse   essere   agevolmente   desunto   "dalla
 circostanza che, mentre l'art. 426 dello stesso codice  disciplina  i
 requisiti  della  sentenza  di  non luogo a procedere ed enuncia, fra
 questi,  l'imputazione,  cosi'  da  aver  indotto  il  remittente   a
 intravedere  la  "estensibilita'"  dei  princip/' affermati da questa
 Corte nella sentenza n. 233 del 1984, con la quale  venne  dichiarata
 l'illegittimita'  costituzionale del corrispondente art. 384 n. 2 del
 codice abrogato, e' l'art. 425 del nuovo  codice  che  disciplina  le
 formule  e  la  regola  di  giudizio  con  le quali viene adottata la
 sentenza di non luogo a procedere; sicche', solo dopo aver verificato
 la legittimita' costituzionale della norma che consente al giudice di
 pronunciare  sentenza  di  non  luogo  a  procedere  per  difetto  di
 imputabilita',  e' possibile affrontare la questione che ha dato vita
 al presente giudizio e, per l'effetto, esaminare  la  fondatezza  del
 petitum che il giudice a quo mostra di perseguire".
    Nel  merito,  la  questione  che la Corte ha ritenuto di sollevare
 davanti a se' ipotizza il  contrasto  dell'art.  425  del  codice  di
 procedura penale con tre distinti parametri di costituzionalita'.
    Tenuto  conto,  infatti,  che  la peculiare regola di giudizio ivi
 enunciata  fa  carico  al  giudice  di  apprezzare  il  merito  della
 imputazione  alla  stregua  del  circoscritto  parametro  della  "non
 evidenza" che il fatto non sussista, l'imputato non lo abbia commesso
 o che il fatto non costituisca reato, la declaratoria di non luogo  a
 procedere  per difetto di imputabilita' finisce per fondarsi su di un
 "accertamento di responsabilita'  che  tiene  conto  solo  della  non
 manifesta  infondatezza  dell'addebito".  Da  qui il sospetto "di una
 irragionevole compressione del  diritto  di  difesa",  posto  che  la
 persona  non  imputabile  "viene  ad essere per cio' solo privata del
 dibattimento e della conseguente possibilita' di  esercitare  appieno
 il diritto alla prova sul merito della regiudicanda".
    Si  prospetta, inoltre, violazione dell'art. 3 della Costituzione,
 in quanto nei confronti dei soggetti ugualmente  non  imputabili,  la
 possibilita'   "di   fruire   dell'epilogo   dibattimentale  e  delle
 conseguenti garanzie viene fatta dipendere esclusivamente dal tipo di
 modulo  processuale  adottato",  considerato  che  la  preclusione  a
 quell'epilogo  che scaturisce dalla sentenza di non luogo a procedere
 per difetto di imputabilita', "non si  realizza  in  tutte  le  altre
 ipotesi   in   cui  manca,  come  nel  giudizio  direttissimo  e  nel
 procedimento davanti al pretore, la fase dell'udienza preliminare".
    Questa Corte, infine,  ha  ritenuto  di  dover  dedurre  anche  la
 violazione  dell'art.  76  della Costituzione, motivando il dubbio di
 eccesso di delega sul presupposto che il numero  52,  sesto  periodo,
 dell'art.  2 della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, non annovera
 il difetto di imputabilita' tra le cause che legittimano la pronuncia
 della sentenza di non luogo a procedere.
                        Considerato in diritto
    1. - La questione che  forma  oggetto  del  presente  giudizio  si
 incentra  su  uno  dei possibili epiloghi che, alla stregua delle di-
 verse formule con le quali il giudice e' chiamato  a  pronunciare  la
 sentenza  di  non  luogo  a procedere, definiscono quella particolare
 fase  del  nuovo  processo  che  e'   rappresentata   dalla   udienza
 preliminare.  Viene  qui  in  discorso, infatti, il potere-dovere del
 giudice di definire il processo  con  una  sentenza  che,  non  senza
 significato  sul  piano  sistematico,  e'  definita  "di  non luogo a
 procedere", nella specifica ipotesi in cui, allo stato degli elementi
 raccolti nel corso delle indagini preliminari o della stessa  udienza
 preliminare, risulti evidente che il soggetto nei confronti del quale
 il  pubblico ministero ha formulato la richiesta di rinvio a giudizio
 e' persona non imputabile.
    Una succinta disamina della  giurisprudenza  costituzionale  dalla
 quale  ha  tratto  spunto  il  quesito  proposto  dal  Giudice per le
 indagini  preliminari  presso  il   Tribunale   di   Reggio   Emilia,
 costituisce  l'ineludibile  premessa  per  svelare  la fondatezza del
 dubbio  di  costituzionalita'  che  questa  Corte  ha   ritenuto   di
 prospettare in merito all'art. 425 del codice di procedura penale.
    Nella  gia'  richiamata  sentenza  n.  233  del  1984, infatti, si
 rammenta come l'applicazione di misure di sicurezza con  la  sentenza
 istruttoria di proscioglimento fosse stata gia' contestata in passato
 con   riferimento  alla  salvaguardia  del  diritto  di  difesa,  sul
 presupposto che, "avendo il giudice istruttore  il  solo  compito  di
 acquisire le prove, e non anche quello di valutarle definitivamente e
 di  accertare  cosi' l'esistenza del reato, tale fondamentale diritto
 verrebbe ad essere compromesso e la misura di sicurezza  verrebbe  ad
 essere  applicata in base ad elementi di prova che, se relativi ad un
 soggetto imputabile, sarebbero idonei solo a giustificare il rinvio a
 giudizio". La replica offerta dalla Corte nella sentenza n.  127  del
 1979  e',  per  cio'  che  qui  interessa,  quanto  mai  appropriata,
 essendosi  ivi  precisato  che  "la   sentenza   di   proscioglimento
 istruttorio,  al pari di quella pronunciata in dibattimento, contiene
 un'espressa pronuncia sul fondamento dell'accusa; che  la  difesa  e'
 garantita nella fase istruttoria mediante il deposito degli atti e la
 facolta'  dei difensori di presentare istanze e memorie, quindi anche
 di chiedere l'espletamento di altri mezzi di prova e la  rinnovazione
 di  quelli  gia' espletati; che infine, il G.I. non puo' "ignorare le
 istanze della difesa, sulle  quali  e'  obbligato  a  provvedere  con
 ordinanza  o con sentenza al fine di garantire ogni ulteriore rimedio
 giuridico".
    Evocata,  dunque,  nella  stessa  sentenza  n.   233   del   1984,
 "l'ampiezza  del  giudizio  demandato al giudice istruttore - come al
 giudice del  dibattimento  -",  la  Corte,  richiamando  quanto  gia'
 affermato  nella  sentenza  n.  139  del  1982,  non  ha  mancato  di
 puntualizzare come in tale giudizio occorresse svolgere  un  positivo
 accertamento della "riferibilita' di un fatto di reato ad un soggetto
 che  al  momento  della  commissione  era  incapace di intendere o di
 volere per infermita' psichica". Facendo cosi' leva  sulla  natura  e
 sulla  portata  della  delibazione riservata al giudice istruttore, e
 nel prendere atto di come la giurisprudenza fosse  ormai  consolidata
 nell'ammettere  che  al  giudice del dibattimento fosse consentito di
 operare il giudizio di comparazione tra le circostanze ai fini  della
 applicazione  o della determinazione della durata minima della misura
 di sicurezza a norma  dell'art.  222  del  codice  penale,  la  Corte
 pervenne allora alla conclusione di ritenere che "un criterio diverso
 e  piu'  restrittivo  nella  fase  istruttoria" fosse al tempo stesso
 lesivo  "delle  garanzie   costituzionali   di   uguaglianza   e   di
 inviolabilita'  'in  ogni stato e grado del procedimento' del diritto
 di difesa".
    Gli appena accennati precedenti di  questa  Corte,  rivelano  come
 princip/' e affermazioni coerentemente iscritti nel sistema delineato
 dal  codice  previgente  rinvengano una ben diversa chiave di lettura
 ove calati nello scenario, per certi versi  antagonistico,  tracciato
 dal  nuovo  codice  di  rito. Alla scomparsa del giudice istruttore e
 della corrispondente fase, infatti,  si  contrappone  una  articolata
 sequenza   di   "segmenti"   processuali  (le  indagini  e  l'udienza
 preliminare), fra loro profondamente diversi per finalita', tipologia
 di atti e soggetti che li governano, e, cio' che piu' conta,  in  se'
 privi di quella funzione tipica di acquisizione probatoria che invece
 contraddistingueva,  secondo gli ampi confini tracciati dall'art. 299
 del codice  abrogato,  le  attribuzioni  dell'istruttore  nella  fase
 antecedente  il  giudizio  e  sulla  cui  falsariga venivano dunque a
 misurarsi anche i diritti e i poteri processuali delle parti.
    Il  postulato  della  ampiezza  delibativa  riservata  al  giudice
 istruttore  -  chiamato  ad accertare non solo la riferibilita' di un
 fatto di reato ad un soggetto incapace di intendere o di  volere,  ma
 anche  ad utilizzare tutti gli elementi di prova raccolti "per trarne
 le conseguenze sul piano della valutazione della gravita'  del  fatto
 del  non  imputabile",  cosi'  da  rendere  effettiva e non meramente
 teorica la pienezza del diritto di difesa (v. sent. n. 233 del  1984)
 -  finisce  dunque  per  rinvenire,  nel  quadro  del  nuovo  sistema
 processuale, ostacoli insormontabili, al punto da  risultarne  minato
 alla  radice  il  fondamento  stesso.  Se  da  un  lato,  infatti, la
 finalita' delle indagini e' esclusivamente quella  di  consentire  al
 pubblico   ministero   di   assumere   le   determinazioni   inerenti
 all'esercizio  dell'azione  penale  (art.  326),  neppure   l'udienza
 preliminare    e'   sede   di   acquisizione   probatoria   destinata
 "all'accertamento della verita'", volgendosi l'intervento del giudice
 ad  apprezzare  il  fondamento dell'accusa non in termini di positiva
 verifica della  colpevolezza  dell'imputato,  ma  nella  ben  diversa
 prospettiva   di  scongiurare  la  celebrazione  di  un  dibattimento
 superfluo. Verifica, dunque, che opera su di un  piano  squisitamente
 processuale,  essendo  il  giudice  chiamato a decidere non sul pieno
 merito della regiudicanda,  ma  sulla  ammissibilita'  o  meno  della
 domanda  di  giudizio  rivolta dal pubblico ministero. Posto che "non
 esistono, dunque, prove nell'udienza  preliminare  ne'  significativo
 accertamento dei fatti, che si profileranno soltanto al dibattimento"
 (v.  sent.  n.  431  del 1990), ben si spiega non solo e non tanto la
 specifica denominazione di "non luogo a procedere"  che  qualifica  -
 rendendone  evidente  la  peculiarita'  -  la  sentenza che definisce
 l'udienza preliminare, ma, soprattutto, la  regola  di  giudizio  che
 sottende  l'adozione  di  quella  pronuncia.  Attuando,  infatti, una
 precisa scelta operata dal legislatore delegante, evidentemente mossa
 dall'intento di rimarcare la centralita' del dibattimento  come  sede
 fisiologicamente  destinata  all'esercizio  del  diritto  alla prova,
 l'art.  425  del  nuovo  codice  chiama  il  giudice  della   udienza
 preliminare  a  valutare  il  merito  della imputazione con esclusivo
 riferimento ad un parametro  di  "non  evidenza"  che  il  fatto  non
 sussista,  l'imputato  non  lo  abbia  commesso  o  che  il fatto non
 costituisca reato. Le conseguenze che allora possono trarsi  ai  fini
 che  qui  rilevano,  sono a questo punto chiare: il sistema delineato
 dall'art. 425 del codice di  procedura  penale  finisce  infatti  per
 imporre  al  giudice  la  pronuncia  di  una  sentenza di non luogo a
 procedere per difetto di imputabilita', applicando, se del  caso,  le
 misure  di  sicurezza,  all'esito  e sulla base di un accertamento di
 responsabilita' che si fonda solo sull'etereo presupposto  della  non
 evidente   infondatezza   dell'addebito,   risultando   in  tal  modo
 palesemente sviliti i princip/' e le affermazioni che hanno sostenuto
 la giurisprudenza costituzionale che si e' innanzi richiamata.
    La norma va dunque dichiarata  costituzionalmente  illegittima  in
 parte  qua,  in  quanto la persona non imputabile viene ad essere per
 cio' solo privata del dibattimento e della  conseguente  possibilita'
 di  esercitare  appieno  il  diritto  alla  prova  sul  merito  della
 regiudicanda, con correlativa irragionevole compressione del  diritto
 di  difesa  che  non  puo' certo ritenersi bilanciata da contrapposte
 esigenze di economia processuale.
    Ne' a sanare l'indicato contrasto puo' invocarsi  la  possibilita'
 che   l'art.   419,  quinto  comma,  del  codice  di  rito  riconosce
 all'imputato di "rinunciare all'udienza preliminare e  richiedere  il
 giudizio  immediato",  giacche',  a  tacer  d'altro,  sarebbe davvero
 singolare un sistema che, per consentire all'imputato  di  esercitare
 il fondamentale diritto di difesa in ogni stato e grado del processo,
 gli  imponesse la rinuncia - che non a caso il codice costruisce come
 "atto personalissimo" - ad una fase del processo destinata proprio  a
 consentire l'esercizio di quel diritto.
    2.  - La questione che la Corte ha ritenuto di sollevare davanti a
 se' e' fondata anche con  riferimento  alla  dedotta  violazione  del
 principio di uguaglianza.
    Se  da  un  lato,  infatti,  permane attuale il rilievo secondo il
 quale  deve  ritenersi  "priva  di  ogni  fondamento  razionale   una
 previsione  normativa  che  riconnetta un diverso trattamento .. alla
 circostanza, meramente casuale, che la  sussistenza  dell'incapacita'
 di intendere o di volere per infermita' psichica al momento del fatto
 emerga  gia'  nella fase istruttoria, ovvero sia accertata solo nella
 fase dibattimentale" (v. sent. n. 233 del  1984),  va  qui  posta  in
 risalto  la  circostanza  che  il sistema delineato dall'art. 425 del
 codice di procedura penale genera una  ingiustificata  disparita'  di
 trattamento  tra  quanti  versano  nella  identica  situazione di non
 imputabilita', dal momento che per costoro la possibilita' di  fruire
 dell'epilogo  dibattimentale e delle conseguenti garanzie viene fatta
 dipendere esclusivamente dal  modulo  processuale  adottato.  Mentre,
 infatti,  nei  confronti  del  non  imputabile  a carico del quale si
 celebra  l'udienza   preliminare   si   determina   una   preclusione
 all'esercizio  dei propri diritti in dibattimento, essendo il giudice
 chiamato a pronunciare sentenza di  non  luogo  a  procedere  con  la
 corrispondente  formula,  una  analoga  preclusione  non si realizza,
 invece, in tutte le altre ipotesi in cui  manca,  come  nel  giudizio
 direttissimo   e   nel  procedimento  davanti  al  pretore,  la  fase
 dell'udienza  preliminare,  il  cui  svolgimento,  per  di  piu',  e'
 condizionato  dall'esistenza  di  una  richiesta che si raccorda alle
 scelte sul rito che l'ordinamento riserva al pubblico ministero.
    3. - Parimenti fondato deve da ultimo ritenersi il dubbio  che  la
 previsione  di cui qui si tratta sia in contrasto anche con l'art. 76
 della Costituzione, per essere la stessa non conforme ai princip/'  e
 criteri  direttivi  al  riguardo  stabiliti  nel  numero  52),  sesto
 periodo, dell'art. 2 della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81.
    Al di la', infatti, del dato formale rappresentato  dalla  mancata
 previsione  del difetto di imputabilita' tra le cause che legittimano
 la sentenza di non luogo a procedere,  secondo  la  rassegna  operata
 nella  indicata  direttiva  della  legge-delega,  militano piu' ampie
 considerazioni di ordine sistematico per suffragare l'assunto che  ad
 un simile silenzio debba riconoscersi il valore di volonta' contraria
 alla  scelta operata dal legislatore delegato. Se, infatti, l'udienza
 preliminare e' sede nella quale il merito e' accertato soltanto entro
 i circoscritti confini della non evidente  infondatezza  dell'accusa,
 cosi'  da  impedire  che  l'imputato  giunga  al cospetto del giudice
 dibattimentale gia' gravato da una pronuncia che ne ha  positivamente
 delibato  la  responsabilita' e che si fonda su elementi di prova che
 l'organo del dibattimento neppure conosce,  e'  da  ritenere  che  il
 legislatore  delegante  abbia voluto riservare proprio a quest'ultimo
 organo la delibazione del difetto  di  imputabilita',  postulando  la
 stessa  il  necessario  accertamento  di responsabilita' in ordine al
 fatto-reato  che  puo'   compiutamente   svolgersi   solo   in   sede
 dibattimentale.
    D'altra  parte,  un  sicuro indice che questa e non altre fosse la
 scelta operata dal legislatore delegante, puo' agevolmente  desumersi
 dall'art.  3  della  stessa  legge  n.  81  del  1987,  la' dove, nel
 conferire delega al Governo  a  disciplinare  il  processo  penale  a
 carico di imputati minorenni, espressamente stabilisce, nella lettera
 l),  la  "previsione  che  il  giudice nell'udienza preliminare possa
 prosciogliere anche per la non imputabilita', ai sensi  dell'art.  98
 del   codice   penale,",   cosi'   ponendo   in  evidenza  come  alla
 eccezionalita'  di  tale   previsione,   dettata   dall'esigenza   di
 salvaguardare  le  peculiarita'  insite  nella  condizione  minorile,
 faccia riscontro, nel procedimento a carico di imputati  maggiorenni,
 l'opposta disciplina.
    Da  questi  ultimi  rilievi  ed in considerazione delle specifiche
 connotazioni che caratterizzano il processo penale minorile, consegue
 che la dichiarazione di illegittimita' costituzionale  dell'art.  425
 del  codice  di  rito non e' produttiva di effetti quanto all'art. 32
 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni
 sul processo penale a carico di imputati minorenni), nella  parte  in
 cui  tale  previsione, strutturalmente autonoma, opera un richiamo ai
 "casi previsti dall'articolo 425 del codice di procedura penale".
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  425,   primo
 comma,  del codice di procedura penale, nella parte in cui stabilisce
 che il giudice pronuncia sentenza di non  luogo  a  procedere  quando
 risulta evidente che l'imputato e' persona non imputabile.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 1993.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                        Il redattore: VASSALLI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 10 febbraio 1993.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
 93C0112