N. 63 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 ottobre 1992
N. 63 Ordinanza emessa il 16 ottobre 1992 dal pretore di Varese nel procedimento penale a carico di Schiaffi Claudio Reato in genere - Emissione di assegni a vuoto - Prevista improcedibilita' dell'azione penale conseguente al pagamento degli assegni, interessi ed accessori - Impossibilita' per l'imputato a fornire la prova dell'avvenuto pagamento a mezzo di testimoni - Irragionevole esclusione, per i soli imputati di tale reato, al fine suddetto, della facolta' di usufruire degli ordinari mezzi di prova - Lamentata violazione del diritto di difesa. (Legge 15 dicembre 1990, n. 386, artt. 8, terzo comma, e 11, primo comma). (Cost., artt. 3 e 24).(GU n.9 del 24-2-1993 )
Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale n. 557/92 r.g. pretura nei confronti di Schiaffi Claudio, nato il 15 luglio 1963 a Cittiglio per il reato di cui agli artt. 81 del c.p. e 116, primo comma, n. 2 del r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736. Con decreto del 30 dicembre 1991 Claudio Schiaffi e' stato citato a giudizio per rispondere del reato di cui agli artt. 81 del c.p. e 116, primo comma, n. 2, del r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736, per avere emesso quattro assegni bancari dell'importo complessivo di L. 33.788.000, senza che presso la banca trattaria esistessero i relativi fondi. Nell'ipotesi accusatoria i reati sarebbero unificati sotto il vincolo della continuazione e ricorrerebbe il "caso grave" di cui all'art. 116, primo comma, del r.d. n. 1736/1933. In vista del dibattimento il difensore ha presentato - ai sensi degli artt. 468 e 567, secondo comma, del c.p.p. - una lista nella quale erano indicati due testimoni di cui si chiedeva fosse autorizzata la citazione. La circostanza sulla quale avrebbe dovuto vertere l'esame era "l'avvenuto pagamento, da parte dell'imputato, dell'importo degli assegni, degli interessi, della penale e delle spese di protesto, nella prima decade del mese di marzo 1991, nel termine previsto dalla legge 15 dicembre 1990, n. 386, art. 11". Questo giudice ha autorizzato la citazione, non ravvisando l'esistenza di un esplicito divieto di assunzione di tali testimonianze, non manifestamente sovrabbondanti. All'udienza del 16 ottobre 1992, dopo l'apertura del dibattimento, il pubblico ministero ha chiesto l'ammissione come prova delle copie autentiche dei titoli di cui all'imputazione e dei relativi atti di protesto. Il difensore ha chiesto l'ammissione della testimonianza delle persone indicate nella lista, per provare l'avvenuto pagamento dei titoli da parte dell'imputato (e dunque l'improcedibilita' del reato). Ha pure chiesto l'ammissione di prova documentale relativa all'avvenuto pagamento di uno solo dei titoli. Il pubblico ministero - nulla eccependo sulla produzione documentale della difesa - richiamando l'art. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1990, n. 386, ha fatto rilevare che "in punto di pagamento di assegni emessi senza provvista la prova 'deve' essere fornita mediante produzione di quietanza del portatore avente i requisiti formali indicati nella predetta norma"; da cio' deriverebbe che in ordine all'avvenuto pagamento "non e' ammissibile altra forma di prova e segnatamente per il caso in esame (la) prova testimoniale". Il pubblico ministero ha ritenuto quindi che l'art. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1990, n. 386, si ponga in contrasto con la Costituzione: con l'art. 24, secondo comma, in quanto "e' del tutto inammissibile per il nostro ordinamento costituzionale impedire, soprattutto in sede penale, che il cittadino, nell'esercizio del proprio diritto di difesa, dimostri l'avvenuto accadimento di un fatto storico"; con l'art. 3, in quanto "non si giustifica la vigenza di una norma che in un medesimo contesto (il processo penale) impedisce al cittadino di valersi di uno strumento probatorio quale e' quello della testimonianza solo perche' il cittadino stesso e' imputato del reato previsto dalla legge n. 386/1990". Dunque, solo per i reati relativi agli assegni bancari non sarebbe possibile usufruire degli ordinari mezzi di prova: irragionevolmente, poiche' "tale diversa disciplina del regime probatorio non appare essere rispondente a esigenze sistematiche e, piu' in generale, di tutela della collettivita'". Oggetto della questione sollevata dal pubblico ministero e' il re- gime probatorio di cui all'art. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1990, n. 386: la questione deve intendersi necessariamente estesa alla legittimita' costituzionale dell'art. 11, primo comma, della stessa legge, laddove si dispone che "la prova dell'avvenuto pagamento deve essere fornita in sede penale mediante quietanza del portatore con firma autenticata o attestazione del pubblico ufficiale che ha ricevuto il pagamento ovvero attestazione dell'azienda di credito comprovante l'effettuazione del deposito vincolato". Cio' e' imposto dalla stretta integrazione tra le due norme, la seconda delle quali detta una disciplina transitoria: entrambe, nel momento in cui la presente questione di costituzionalita' viene sollevata (e cioe' prima dell'ammissione delle prove) sono potenzialmente rilevanti per il processo in corso: l'art. 8, nel caso in cui si debba riconoscere (ai sensi dell'art. 2, terzo comma, c.p.) l'applicabilita' al reato - addebitato sulla base della previgente normativa - della disciplina sopravvenuta, in concreto piu' favorevole sotto il particolare profilo della procedibilita'; l'art. 11, nel caso in cui possa essere verificata la diretta applicabilita' - sulla base della prova di congruo e tempestivo pagamento - del re- gime transitorio di procedibilita'. Non e' manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1990, n. 386, e 11, primo comma, della legge 15 dicembre 1990, n. 386, in relazione all'art. 24, secondo comma, della Costituzione. Il limite probatorio non e' infatti superabile sulla base dei rapporti tra norme ordinarie di legge: le norme sopra citate hanno carattere di specialita' rispetto a quelle del codice di procedura penale relative alla prova e dunque sono applicabili a preferenza di quelle, rispetto alle quali sono, tra l'altro, successive. Dunque e' ammessa la prova dell'avvenuto pagamento solo in forma documentale e nei modi specificamente indicati nei ciatati artt. 8 e 11. Se e' vero che, data l'estraneita' della prova legale al sistema processuale penale, tale prova documentale sara' soggetta al libero apprezzamento del giudice, e' simmetricamente vero che l'esistenza di un limite non superabile alla dimostrabilita' di un fatto storico (l'avvenuto pagamento) che impedisce in concreto l'inizio o il proseguimento dell'azione penale, compromette il diritto di difesa dell'autore di un fatto configurabile come reato: l'effettivita' del diritto che trova fondamento nell'art. 24, secondo comma, della Costituzione, si deve necessariamente estendere anche a questo momento iniziale. Ne' rileva che nel sistema delineato dall'art. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1990, n. 386, il destinatario della prova dell'avvenuto pagamento sia il pubblico ufficiale tenuto alla denuncia di reato, poiche' sempre e' consentito all'autorita' giudiziaria procedente rilevare - con differenti mezzi processuali - che l'azione penale non doveva essere iniziata o proseguita (artt. 129, 411, 425, 469, 529 del c.p.p.). Tali considerazioni a maggior ragione valgono nel caso dell'art. 11, in forza del quale la prova che consente di verificare l'improcedibilita' del reato "deve essere fornita in sede penale" in forma assolutamente vincolata "mediante quietanza del portatore con firma autenticata o attestazione del pubblico ufficiale che ha ricevuto il pagamento ovvero attestazione dell'azienda di credito comprovante l'effettuazione del deposito vincolato". Non e' manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1990, n. 386, e 11, primo comma, della legge 15 dicembre 1990, n. 386, in relazione all'art. 3 della Costituzione. Non pare giustificato da esigenze di tutela della collettivita' ne' dalla cura di altro interesse costituzionalmente tutelato che in un medesimo contesto - il processo penale - venga impedito all'imputato di valersi di uno strumento probatorio quale e' quello della testimonianza solo perche' a quell'imputato e' addebitato un reato previsto dalla disciplina sanzionatoria degli assegni bancari. Dunque, irragionevolmente, solo per i reati relativi agli assegni bancari non sarebbe possibile usufruire degli ordinari mezzi di prova. E se e' pur vero - come da codesta Corte affermato con la sentenza n. 32 del 3 febbraio 1992 - che in materia il legislatore ha potuto esercitare legittimamente scelte discrezionali, non pare potersi situare in tale area una cosi' vistosa deviazione dai principi generali in tema di prova.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Ritenuto che il giudizio in corso non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale degli artt. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1990, n. 386, e 11, primo comma, della legge 15 dicembre 1990, n. 386, nella parte in cui prevede che "la prova dell'avvenuto pagamento deve essere fornita in sede penale mediante quietanza del portatore con firma autenticata o attestazione del pubblico ufficiale che ha ricevuto il pagamento ovvero attestazione dell'azienda di credito comprovante l'effettuazione del deposito vincolato" in relazione agli artt. 24, secondo comma, e 3 della Costituzione; Ritenuta non manifestamente infodata tale questione; Dispone la trasmissione degli atti del presente processo alla Corte costituzionale sospendendo il giudizio in corso; Manda alla cancelleria per la notifica della presente ordinanza al pubblico ministero, all'imputato, al Presidente del Consiglio dei Ministri e per la comunicazione della stessa ai Presidenti della Cam- era dei deputati e del Senato della Repubblica. Varese, addi' 16 ottobre 1992 Il pretore: BATTARINO 93C0147