N. 83 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 dicembre 1992
N. 83 Ordinanza emessa il 7 dicembre 1992 dalla corte d'appello di Firenze nel procedimento penale a carico di Damigella Anna Maria Processo penale - Decisione con motivazione non contestuale - Impugnazione - Termini - Decorrenza della scadenza del quindicesimo giorno dalla pronuncia o dalla notifica dell'avvenuto deposito se oltre il trentesimo giorno - Modifica dei termini per il deposito da giorni trenta a giorni quindici - Norma disposta con decreto-legge, convertito senza l'osservanza delle specifiche forme imposte al Governo dal legislatore delegante in materia di processo penale - Mancato coordinamento con altra disposizione del codice (art. 548, secondo comma) - Conseguente compressione del diritto di difesa - Irragionevole disparita' di trattamento tra imputato presente (termine breve) e imputato contumace nonche' in rapporto al rispetto o meno da parte del giudice del termine di giorni quindici per il deposito della sentenza. (D.L. 1 marzo 1991, n. 60, art. 6, convertito in legge 22 aprile 1991, n. 133; c.p.p. 1988, art. 544, secondo comma, in relazione all'art. 585, secondo comma, lettera c), stesso codice). (Cost., artt. 3, 24, 72 e 77).(GU n.10 del 3-3-1993 )
LA CORTE D'APPPELLO Riunita in camera di consiglio, ha emesso la seguente ordinanza. Il 14 novembre 1991 Damigella Anna Maria - e per essa il suo difensore - proponeva appello contro la sentenza del tribunale di Prato, pronunciata il 19 settembre, e depositata il 3 ottobre 1991, recante condanna nei di lei confronti in ordine al delitto di cui all'art. 315 del c.p. Il 16 giugno 1992, in vista del dibattimento di secondo grado, fissato per il 19 giugno e poi differito ad oggi, il difensore dell'imputata dimetteva memoria ex art. 121 del c.p.p. per sostenere la tempestivita' del gravame, ovvero per sollevare eccezione di legittimita' costituzionale della disposizione dell'art. 6 del d.l. 1 marzo 1991, n. 60, convertito con modificazioni nella legge 22 aprile 1991, n. 133, con cui e' stato modificato l'art. 544, secondo comma, del c.p.p. quanto al termine per la redazione dei motivi della sentenza (trenta giorni secondo la previsione originaria del codice, quindici per effetto della modifica): cio' in collegamento con il disposto dell'art. 585, secondo comma, lett. c, del c.p.p., il quale fa decorrere il termine di trenta giorni per l'impugnazione, da parte dell'imputato presente, delle sentenze dibattimentali non contestualmente motivate, dalla scadenza del termine - ove rispettato dal giudice - stabilito dalla legge per il deposito della sentenza. Il dibattimento di secondo grado, contumace l'imputata, si e' svolto nell'udienza odierna, e dopo la relazione il p.g. ha concluso per la dichiarazione d'inammissibilita' dell'appello; la difesa di parte civile si e' associata a tali conclusioni, mentre il difensore dell'imputata ha chiesto che l'impugnazione sia giudicata ammissibile ed accolta nel merito. Osserva la Corte che lo stretto collegamento istituito dall'art. 585, secondo comma, lett. c, cit., con il disposto dell'art. 544, secondo comma, pure cit., determina la decorrenza del termine per l'impugnazione - di sentenza dibattimentale non contumaciale e non contestualmente motivata - dallo spirare del termine stabilito dalla legge per il deposito della sentenza medesima, ove osservato, e dunque - oggi - per effetto dell'art. 6 d.l. n. 61/1991, cit., dal sedicesimo giorno successivo dalla pronuncia della sentenza: nella specie il termine per il deposito scadeva il 4 ottobre 1991, per cui il termine di trenta giorni per l'impugnazione iniziava a decorrere il 5 ottobre, giungendo cosi' a scadenza il 3 novembre, mentre il difensore della Damigella ha depositato l'impugnazione il 14 novembre. Non e' pertanto offerta all'interprete, allo stato attuale della normativa in esame, una lettura di essa idonea a far ritenere tempestivo il gravame di cui si tratta, gravame che tempestivo sarebbe stato fino al 28 febbraio 1991 (il d.l. n. 60 del 1½ marzo 1991, cit., e' stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale lo stesso giorno 1½ marzo, ed e' entrato in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione, ex art. 7 di esso decreto), in quanto il termine di trenta giorni per l'impugnazione avrebbe preso a decorrere solo allo spirare del trentesimo giorno dalla pronuncia della sentenza. Prima di sanzionare d'inammissibilita' l'impugnazione della Damigella Anna Maria occorre peraltro chiedersi se sia, o meno, rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale del disposto dell'art. 6 d.l. n. 60 cit. La rilevanza della questione appare indubbia, poiche' e' per effetto della menzionata disposizione, modificativa del codice, che e' giudicata inammissibile un'impugnazione la quale sarebbe sicuramente tempestiva secondo l'originaria disposizione codicistica. Cadendo la norma modificativa, non si verificherebbe un vuoto normativo, se non altro perche' dispone in proposito l'art. 548, secondo comma, del c.p.p., secondo cui "quando la sentenza non e' depositata entro il trentesimo giorno .. l'avviso di deposito e' comunicato al pubblico ministero e notificato alle parti private cui spetta il dirito d'impugnazione; e' notificato altresi' a chi risulta difensore dell'imputato al momento del deposito della sentenza"; l'art. 548 cit. proseguendo poi, al terzo comma, con lo statuire che "l'avviso di deposito con l'estratto della sentenza e' in ogni caso notificato all'imputato contumace e comunicato al procuratore generale presso la corte d'appello", quest'ultima disposizione collegandosi con quella dell'art. 585, secondo comma, lett. d, per la quale il termine di trenta giorni per l'impugnazione decorre per l'imputato contumace dal giorno in cui e' eseguita nei suoi confronti la notificazione dell'avviso di deposito con l'estratto del provvedimento. Si deve quindi esaminare il punto ulteriore, e cioe' se la proposta questione sia dotata o meno del requisito della non manifesta infondatezza, con riferimento ai parametri costituzionali degli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, indicati dalla parte che ha proposto l'eccezione, e ad altri eventuali parametri ravvisati dalla corte. La soluzione del quesito e' positiva. Va premesso, in proposito, che nel sistema processuale italiano l'impugnazione costituisce una delle fondamentali esplicazioni del diritto di difesa, con riferimento tanto all'appello che al ricorso per cessazione, cosicche', in riferimento alla rilevanza costituzionale dell'interesse contemplato, appare sospetta di incostituzionalita', proprio in riferimento ai parametri indicati dalla difesa dell'imputata, ogni disposizione la quale apporti limitazioni o compressioni non ragionevoli alla facolta' di adire i gradi ulteriori di giudizio (in termini cfr. Corte costituzionale n. 363/1991). Nella specie i sospetti in tal senso appaiono particolarmente marcati, anzitutto per la disciplina dei termini per impugnare, quale obiettivamente risulta in relazione al caso di specie, a seguito della modifica come sopra introdotta alla disciplina codicistica circa il termine di deposito delle sentenze. Da un lato (art. 544/2), infatti, e' ora impo'sto per il deposito il termine di quindici giorni, ed e' dunque questo il "termine stabilito dalla legge" (art. 585/2/c), spirato il quale prende a decorrere quello di trenta giorni per l'impugnazione. Dall'altro (art. 548/2), solo l'inosservanza da parte del giudice del piu' ampio termine di trenta giorni dalla pronuncia impone la notifica dell'avviso di deposito all'imputato presente e al suo difensore: cosicche', ove la sentenza sia depositata, ad esempio, sedici giorni dopo la pronuncia del dispositivo, l'art. 548/2, nonostante l'avvenuta inosservanza del termine impo'sto dall'art. 544/2, non prescrive l'avviso, seguendone, per la norma dell'art. 585/2/c, l'impropria conseguenza che anche in tal caso (sentenza depositata fuori termine ma entro i trenta giorni) il termine per l'impugnazione iniziera' a decorrere dalla scadenza del quindicesimo giorno dalla pronuncia. La situazione del contumace, poi, benche' la contumacia sia per lo piu' ascrivibile ad una determinazione volontaria dell'imputato, viene a differenziarsi da quella dell'imputato presente: questi avra' infatti a disposizione per l'esercizio della facolta' di cui si tratta solo quarantacinque giorni, mentre il contumace, oltre a fruire dei giorni in piu' occorsi per la notifica dell'estratto, si giovera' del disposto dell'art. 548, secondo e terzo comma, la cui lettura coordinata - in mancanza di qualsivoglia modificazione segui'ta a quella dell'art. 544/2 - determina nel trentesimo giorno dalla pronuncia il momento della notifica dell'estratto (anche quando il deposito della motivazione avvenga entro il termine di quindici giorni oggi prescritto). Emerge da quanto notato fin qui la difersificazione irragionevole a svantaggio dell'imputato diligentemente presente al dibattimento, rispetto all'imputato contumace, ed altresi' una diversificazione ulteriore, collegata alla circostanza, estranea alla condotta dell'imputato, del rispetto o del non rispetto da parte del giudice del termine di quindici giorni ora fissato per il deposito. Cio' per quanto riguarda il profilo d'incostituzionalita' riferito all'art. 3 della Costituzione, che vuole siano informate a ragionevolezza le differenziazioni di trattamento, tanto piu' in quanto esse attengano all'esplicazione di diritti fondamentali, quale nel caso il diritto di difesa. Ma il diritto sancito dall'art. 24, secondo comma, della Costituzione appare vulnerato in se', quando, come nella specie, l'effetto di contrazione nella non indifferente misura di 1/4 del termine complessivo per impugnare sia la conseguenza di una norma estravagante in rapporto al testo codicistico in cui va inserirsi, e in rapporto al testo di legge da cui proviene. Sotto il primo profilo, non vi e' che da riferirsi al piu' volte menzionato disposto dell'art. 548/2, il quale lascia in vita il termine originario di trenta giorni, stabilito dal testo dell'art. 544/2 prima della modifica del 1991, collegando solo ad esso termine originario la necessita' dell'avviso per l'eventualita' della sua inosservanza: il che comporta le improprie conseguenze gia' richiamate, in punto di disciplina concretamente applicabile ai casi ivi previsti, e costituisce momento di disorientamento per l'interprete e per il fruitore (qui imputato e suo difensore) del sistema processuale delle impugnazioni. E' dunque del tutto pertinente, a questo punto, il riferimento operato dal difensore al disposto dell'art. 5, quinto comma, del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, recante "Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalita' organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attivita' amministrativa": tale articolo stabiliva che "nel secondo comma dell'art. 548 del codice di procedura penale le parole 'entro il trentesimo giorno' sono sostituite dalle seguenti: 'entro il quindicesimo giorno'". Simile disposizione parrebbe in effetti dettata per ovviare agli inconvenienti sopra segnalati, incidenti sulla stessa leggibilita' del testo codicistico: senonche' la legge 12 luglio 1991, n. 203, di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 152 ora citato, sopprime l'art. 5, quinto comma, dello stesso decreto-legge, derivandone che l'art. 548 rimane quello originario. Ed e' interessante in proposito sottolineare quanto ulteriormente notato dal difensore dell'imputata: negli atti parlamentari relativi ai lavori preparatori del Senato della Repubblica inerenti alla menzionata legge di conversione (atti parlamentari Senato, 2808/A, pag. 4) e' dato leggere: "sull'ultimo comma, che modifica l'art. 548 del codice di procedura penale riducendo da trenta a quindici giorni il termine per il deposito delle sentenze, vi e' stata vivace discussione, conclusasi con una proposta di soppressione della modifica stessa, ritenuta velleitaria ed illegittima". Emerge dunque da quanto ora riportato che gli stessi conditores legum ritennero: a) non essere stato modificato dal citato art. 6 del d.l. n. 60/1991 il termine per il deposito delle sentenze; b) essere tale modifica il frutto del disposto dell'art. 5, quinto comma, del d.l. n. 152 che essi conditores andavano a convertire; c) essere tale modificazione velleitaria, per l'evidente nullita' del suo effetto sulla "lotta alla criminalita' organizzata" costituente tema della specifica decretazione d'urgenza; d) essere tale modificazione illegittima. I sospetti di ingiustificata compressione del diritto di difesa esplicabile attraverso la facolta' d'impugnazione acquistano pertanto consistenza, nel momento in cui lo stesso legislatore, chiamato a convertire una disposizione urgente, modificativa di quella che si e' visto essere intimamente connessa a quella concernente il termine di deposito delle sentenze, ritenne di non fare luogo alla conversione, attribuendo proprio alla norma non convertita l'effetto di mutamento del termine stesso, e giudicando il mutamento velleitario ed illegittimo. Se poi si va a considerare il testo di legge nel quale trova posto la modificazione dell'art. 544/2, non si puo' fare a meno di notare che il d.l. n. 60/1991 e' intitolato alla "interpretazione autentica degli artt. 297 e 304 del codice di procedura penale e modifiche di norme in tema di durata della custodia cautelare": il decreto in questione, come e' notorio, segui' alla decisione della Corte di cassazione, con cui venne ritenuto l'avvenuto decorso dei termini di custodia cautelare relativamente a circa cinquanta imputati di gravi delitti di criminalita' organizzata (Cass., I sezione, 11-14 febbraio 1991, Agate ed altri, in Cass. pen. mass. ann., 1991, m. 86, parte II, p. 262); e nella quale veniva appunto in questione l'interpretazione - che ora si intendeva dare autenticamente - degli artt. 297 e 304 del c.p.p. E' evidente che nell'intitolazione non si trova traccia del riferimento ai termini di deposito delle sentenze, e che tali termini solo indirettamente e di riflesso possono rilevare il tema di durata della custodia cautelare: e simile rilievo era poi esaurito con la disposizione dell'art. 4 dello stesso decreto-legge, in cui si stabiliva - a modifica dell'art. 304 - il potere del giudice di sospendere i termini di custodia, a richiesta del p.m., durante la pendenza dei termini di deposito delle sentenze; e' infatti di tutta evidenza che, cosi' statuito, con disposizione poi convertita, rimaneva del tutto indifferente che il termine di deposito fosse di trenta o di quindici giorni, in quanto i termini di cui all'art. 303 decorrono dalla "pronuncia" e non dal deposito della motivazione. Il preambolo del decreto n. 60 faceva poi riferimento alla "straordinaria necessita' e urgenza, anche in relazione alla pendenza di importanti processi per fatti di eccezionale gravita', e all'allarme provocato nella pubblica opinione dalla scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare di persone gia' condannate per delitti di criminalita' organizzata, di procedere all'interpretazione autentica della normativa in tema di computo e di sospensione dei termini di custodia cautelare, nonche' di apportare idonei correttivi alla disciplina sulla durata della custodia cautelare". Il testo del decreto era coerente al preambolo, recando l'interpretazione dei mezionati artt. 297 e 304 (esclusione dal computo dei termini di custodia per fase dei giorni impiegati nel dibattimento e nella deliberazione), prolungando taluni termini di custodia in relazione a determinati fasi e a date categorie di delitti, modificando i criteri di computo delle pene edittalmente previste agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari, prev- edendo la possibilita' di sospensione dei termini di custodia in pendenza di deposito delle sentenze, prevedendo la possibilita' di ripristinare la custodia con la sentenza di condanna o successivamente. Simile coerenza viene meno invece quanto al termine di deposito della sentenza: simile termine, come si e' visto, non influenza quelli di custodia cautelare, tanto meno quando sia stata prevista la sospensione di essi termini in pendenza di quello, e tanto meno quando si vada a incidere solo sul termine ordinario, ritagliandone quindici giorni, e lasciando invece intatto il maggior termine, fino a novanta giorni, previsto dall'art. 544/3 per i casi complessi (e i processi di criminalita' organizzata, i quali costituiscono ragione giustificatrice dell'intervento con decreto-legge, sono solitamente complessi). Simile termine non e' poi menzionato nel titolo del decreto-legge, e neppure nel preambolo, il che accentua il disorientamento dell'interprete al quale una corretta legiferazione, ordinaria e di urgenza, deve offrire indicazioni chiare, per titolo, coerenza con la materia costituente argomento dell'intervento legislativo, e coerenza con le ragioni d'urgenza. Laddove una disposizione incoerente rispetto a tali parametri venga ciononostante emanata, e sia omesso qualsivoglia coordinamento con altra disposizione - quella dell'art. 548 gia' citata - ad essa intimamente collegata, ed anzi, tale coordinamento sia dipoi dal legislatore medesimo rifiutato e tacciato di velleitario ed illeggittimo, non puo' non giudicarsi fondato il sospetto d'incostituzionalita' dell'effetto di compressione del diritto di difesa, da tutto cio' derivante. L'incoerenza e il disorientamento conseguente sono tanto piu' sensibili, in una materia come quella in esame la quale, oltre a concernere diritti fondamentali (quello di difesa, appunto), e' frutto di una disciplina codicistica, a sua volta emanata in virtu' di delega legislativa, ove si prevedeva (art. 7 della legge 16 febbraio 1987, n. 81) la possibilita' per il Governo di emanare "disposizioni integrative e correttive, nel rispetto dei principi e criteri fissati dagli artt. 2 e 3, su conforme parere della commissione prevista dall'art. 8, con uno o piu' decreti aventi valore di legge ordinaria". Un decreto legislativo recante correzioni ed integrazioni venne appunto emanato il 14 gennaio 1991, con il n. 12, e neppure due mesi dopo seguiva invece il d.l. n. 60 che modificava il codice senza passare per il previo parere conforme della apposita commissione, e che interveniva con la decretazione d'urgenza in materia oggetto di specifica delega, oltre che incoerentemente - quanto alla norma dell'art. 544/2, che qui rileva - rispetto al codice cosi' modificato, e rispetto al provvedimento in cui la modifica si situava. Il sospetto d'incostituzionalita', emergente dal raffronto della norma in esame con i princi'pi posti dagli artt. 3 e 24 della Costituzione, e' dunque da riferirsi anche al processo formativo e alle modalita' di emanazione del d.l. n. 60, e dunque ai paramenti costituzionali di cui agli artt. 72 e 77 della Carta fondamentale, in relazione ai disposti dell'art. 7 legge n. 81 del 1987, e 15 della legge 23 agosto 1988, n. 400. Non appare infatti consentito, laddove il legislatore abbia conferito al Governo apposita delega, con prescrizione di specifiche forme (come nel caso il previo parere conforme di una commissione bicamerale costituita ex art. 8 della stessa legge delega), intervenire con decreto-legge, che finisce per alterare la delegazione stessa, nel senso di esautorarne il contenuto, cosi' da costituire, in negativo, esso stesso legge di delegazione legislativa. Ne' appare consentito incidere cosi' accentuatamente su una delle fondamentali esplicazioni del diritto costituzionale di difesa (quale la facolta' di adi're i gradi superiori di giudizio nell'ambito del procedimento penale, a sua volta involgente le liberta' fondamentali della persona), al di fuori delle straordinarie necessita' ed urgenza (si e' gia' cercato di dimostrare che non vi era alcuna necessita' di ridurre da trenta a quindici il termine ordinario di deposito delle sentenze dibattimentali, in rapporto al problema della durata della custodia cautelare e della sua scadenza), ed inoltre al di fuori di qualsivoglia motivazione, nel preambolo del decreto, su tali, neppure asserite, necessita' e urgenza, e al di fuori di qualsiasi menzione nel titolo, e di qualsiasi omogeneita' con la materia oggetto dell'intervento d'urgenza. In conformita' all'eccezione del difensore di Damigella Anna Maria, deve pertanto sollevarsi questione di legittimita' costituzionale del disposto dell'art. 6 del d.l. n. 60/1991, di modificazione dell'art. 544, secondo comma, del c.p.p., in collegamento con l'art. 585/2/c stesso codice, in riferimento agli artt. 3, 24, 72 e 77 della Costituzione. Il giudizio in corso va dunque sospeso in attesa della pronuncia della Corte costituzionale, cui devono trasmettersi immediatamente gli atti.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87; Ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale del disposto dell'art. 6 del d.l. 1½ marzo 1991, n. 60, convertito nella legge 22 aprile 1991 n. 133, di modificazione dell'art. 544, secondo comma, del c.p.p. in rapporto al disposto dell'art. 585, secondo comma, lett. c), stesso codice, con riferimento agli artt. 3, 24, 72 e 77 della Costituzione; Dispone la sospensione del procedimento penale a carico di Damigella Anna Maria, in grado d'appello avverso sentenza 19 settembre 1991 del tribunale di Prato; Dispone che la presente ordinanza sia notificata al procuratore generale presso questa Corte e ai difensori dell'imputata e della parte civile, e sia notificata inoltre al Presidente del Consiglio dei Ministri nonche' comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato; Dispone infine l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Firenze, addi' 7 dicembre 1992 Il presidente: AMATO I consiglieri: CAMPO - SORESINA Depositata in cancelleria oggi 14 dicembre 1992. Il collaboratore di cancelleria: SARRI 93C0185