N. 83 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 dicembre 1992

                                 N. 83
 Ordinanza emessa il 7 dicembre 1992 dalla corte d'appello di Firenze
 nel procedimento penale a carico di Damigella Anna Maria
 Processo  penale  -  Decisione  con  motivazione  non  contestuale  -
 Impugnazione - Termini - Decorrenza della scadenza  del  quindicesimo
 giorno  dalla  pronuncia  o  dalla notifica dell'avvenuto deposito se
 oltre il trentesimo giorno - Modifica dei termini per il deposito  da
 giorni  trenta  a giorni quindici - Norma disposta con decreto-legge,
 convertito senza  l'osservanza  delle  specifiche  forme  imposte  al
 Governo  dal  legislatore  delegante  in materia di processo penale -
 Mancato coordinamento con altra disposizione del  codice  (art.  548,
 secondo  comma)  -  Conseguente  compressione del diritto di difesa -
 Irragionevole  disparita'  di  trattamento  tra   imputato   presente
 (termine  breve) e imputato contumace nonche' in rapporto al rispetto
 o meno da parte del giudice del termine di  giorni  quindici  per  il
 deposito della sentenza.
 (D.L.  1  marzo  1991, n. 60, art. 6, convertito in legge 22 aprile
 1991, n. 133; c.p.p. 1988, art.  544,  secondo  comma,  in  relazione
 all'art. 585, secondo comma, lettera c), stesso codice).
 (Cost., artt. 3, 24, 72 e 77).
(GU n.10 del 3-3-1993 )
                          LA CORTE D'APPPELLO
    Riunita in camera di consiglio, ha emesso la seguente ordinanza.
    Il  14  novembre  1991  Damigella  Anna  Maria - e per essa il suo
 difensore - proponeva appello contro la  sentenza  del  tribunale  di
 Prato,  pronunciata  il 19 settembre, e depositata il 3 ottobre 1991,
 recante condanna nei di lei confronti in ordine  al  delitto  di  cui
 all'art. 315 del c.p. Il 16 giugno 1992, in vista del dibattimento di
 secondo  grado,  fissato per il 19 giugno e poi differito ad oggi, il
 difensore dell'imputata dimetteva memoria ex art. 121 del c.p.p.  per
 sostenere   la   tempestivita'  del  gravame,  ovvero  per  sollevare
 eccezione di legittimita' costituzionale della disposizione dell'art.
 6 del d.l. 1 marzo 1991, n. 60, convertito con modificazioni  nella
 legge 22 aprile 1991, n. 133, con cui e' stato modificato l'art. 544,
 secondo  comma,  del  c.p.p.  quanto  al termine per la redazione dei
 motivi della sentenza (trenta giorni secondo la previsione originaria
 del  codice,  quindici  per  effetto   della   modifica):   cio'   in
 collegamento  con  il disposto dell'art. 585, secondo comma, lett. c,
 del c.p.p., il quale fa decorrere il termine  di  trenta  giorni  per
 l'impugnazione,  da  parte  dell'imputato  presente,  delle  sentenze
 dibattimentali  non  contestualmente  motivate,  dalla  scadenza  del
 termine  -  ove rispettato dal giudice - stabilito dalla legge per il
 deposito della sentenza.
    Il dibattimento di secondo  grado,  contumace  l'imputata,  si  e'
 svolto  nell'udienza odierna, e dopo la relazione il p.g. ha concluso
 per la dichiarazione d'inammissibilita' dell'appello;  la  difesa  di
 parte  civile si e' associata a tali conclusioni, mentre il difensore
 dell'imputata ha chiesto che l'impugnazione sia giudicata ammissibile
 ed accolta nel merito.
    Osserva la Corte che lo stretto collegamento  istituito  dall'art.
 585,  secondo  comma,  lett.  c, cit., con il disposto dell'art. 544,
 secondo comma, pure cit., determina la  decorrenza  del  termine  per
 l'impugnazione  -  di  sentenza dibattimentale non contumaciale e non
 contestualmente motivata - dallo spirare del termine stabilito  dalla
 legge  per  il  deposito  della  sentenza  medesima, ove osservato, e
 dunque - oggi - per effetto dell'art. 6 d.l. n. 61/1991,  cit.,  dal
 sedicesimo  giorno  successivo  dalla pronuncia della sentenza: nella
 specie il termine per il deposito scadeva il 4 ottobre 1991, per  cui
 il  termine  di trenta giorni per l'impugnazione iniziava a decorrere
 il 5 ottobre, giungendo cosi' a scadenza il  3  novembre,  mentre  il
 difensore   della   Damigella  ha  depositato  l'impugnazione  il  14
 novembre.
   Non e' pertanto offerta all'interprete, allo  stato  attuale  della
 normativa  in  esame,  una  lettura  di  essa  idonea  a far ritenere
 tempestivo il gravame  di  cui  si  tratta,  gravame  che  tempestivo
 sarebbe  stato  fino al 28 febbraio 1991 (il d.l. n. 60 del 1½ marzo
 1991, cit., e' stato pubblicato nella Gazzetta  Ufficiale  lo  stesso
 giorno  1½  marzo, ed e' entrato in vigore il giorno stesso della sua
 pubblicazione, ex art. 7 di esso decreto), in quanto  il  termine  di
 trenta  giorni per l'impugnazione avrebbe preso a decorrere solo allo
 spirare del trentesimo giorno dalla pronuncia della sentenza.
    Prima   di   sanzionare  d'inammissibilita'  l'impugnazione  della
 Damigella Anna Maria occorre  peraltro  chiedersi  se  sia,  o  meno,
 rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita'
 costituzionale del disposto dell'art. 6 d.l. n. 60 cit.
    La  rilevanza  della  questione  appare  indubbia,  poiche' e' per
 effetto della menzionata disposizione, modificativa del  codice,  che
 e'   giudicata   inammissibile   un'impugnazione   la  quale  sarebbe
 sicuramente tempestiva secondo l'originaria disposizione codicistica.
 Cadendo  la  norma  modificativa,  non  si  verificherebbe  un  vuoto
 normativo,  se  non  altro  perche'  dispone in proposito l'art. 548,
 secondo comma, del c.p.p., secondo cui "quando  la  sentenza  non  e'
 depositata  entro  il  trentesimo  giorno  .. l'avviso di deposito e'
 comunicato al pubblico ministero e notificato alle parti private  cui
 spetta il dirito d'impugnazione; e' notificato altresi' a chi risulta
 difensore  dell'imputato  al  momento  del  deposito della sentenza";
 l'art. 548 cit. proseguendo poi, al terzo comma, con lo statuire  che
 "l'avviso  di  deposito con l'estratto della sentenza e' in ogni caso
 notificato  all'imputato  contumace  e  comunicato   al   procuratore
 generale   presso  la  corte  d'appello",  quest'ultima  disposizione
 collegandosi con quella dell'art. 585, secondo comma, lett. d, per la
 quale il termine di trenta  giorni  per  l'impugnazione  decorre  per
 l'imputato contumace dal giorno in cui e' eseguita nei suoi confronti
 la   notificazione   dell'avviso   di  deposito  con  l'estratto  del
 provvedimento.
    Si deve quindi  esaminare  il  punto  ulteriore,  e  cioe'  se  la
 proposta  questione  sia  dotata  o  meno  del  requisito  della  non
 manifesta infondatezza, con riferimento ai  parametri  costituzionali
 degli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, indicati dalla
 parte  che  ha  proposto  l'eccezione, e ad altri eventuali parametri
 ravvisati dalla corte.
    La soluzione del quesito e' positiva.
    Va premesso, in proposito, che nel  sistema  processuale  italiano
 l'impugnazione  costituisce  una  delle fondamentali esplicazioni del
 diritto di difesa, con riferimento tanto all'appello che  al  ricorso
 per    cessazione,   cosicche',   in   riferimento   alla   rilevanza
 costituzionale  dell'interesse  contemplato,   appare   sospetta   di
 incostituzionalita',  proprio  in  riferimento  ai parametri indicati
 dalla  difesa  dell'imputata,  ogni  disposizione  la  quale  apporti
 limitazioni  o  compressioni non ragionevoli alla facolta' di adire i
 gradi ulteriori di giudizio (in termini cfr. Corte costituzionale  n.
 363/1991).
    Nella  specie  i  sospetti  in  tal senso appaiono particolarmente
 marcati, anzitutto per la disciplina dei termini per impugnare, quale
 obiettivamente risulta in relazione al  caso  di  specie,  a  seguito
 della  modifica  come  sopra  introdotta  alla disciplina codicistica
 circa il termine di deposito delle sentenze.
    Da un lato (art. 544/2), infatti, e' ora impo'sto per il  deposito
 il  termine  di  quindici  giorni,  ed  e'  dunque questo il "termine
 stabilito dalla legge" (art. 585/2/c),  spirato  il  quale  prende  a
 decorrere quello di trenta giorni per l'impugnazione.
    Dall'altro  (art. 548/2), solo l'inosservanza da parte del giudice
 del piu' ampio termine di trenta giorni  dalla  pronuncia  impone  la
 notifica  dell'avviso  di  deposito  all'imputato  presente  e al suo
 difensore: cosicche', ove la sentenza  sia  depositata,  ad  esempio,
 sedici  giorni  dopo  la  pronuncia  del  dispositivo,  l'art. 548/2,
 nonostante  l'avvenuta  inosservanza  del  termine impo'sto dall'art.
 544/2, non prescrive l'avviso, seguendone,  per  la  norma  dell'art.
 585/2/c,  l'impropria  conseguenza  che  anche  in tal caso (sentenza
 depositata fuori termine ma entro i trenta  giorni)  il  termine  per
 l'impugnazione  iniziera' a decorrere dalla scadenza del quindicesimo
 giorno dalla pronuncia.
    La situazione del contumace, poi, benche' la contumacia sia per lo
 piu' ascrivibile  ad  una  determinazione  volontaria  dell'imputato,
 viene a differenziarsi da quella dell'imputato presente: questi avra'
 infatti  a  disposizione  per  l'esercizio  della  facolta' di cui si
 tratta solo quarantacinque  giorni,  mentre  il  contumace,  oltre  a
 fruire  dei  giorni in piu' occorsi per la notifica dell'estratto, si
 giovera' del disposto dell'art. 548, secondo e terzo  comma,  la  cui
 lettura  coordinata  -  in  mancanza  di  qualsivoglia  modificazione
 segui'ta a quella dell'art. 544/2 - determina nel  trentesimo  giorno
 dalla pronuncia il momento della notifica dell'estratto (anche quando
 il  deposito  della  motivazione avvenga entro il termine di quindici
 giorni oggi prescritto).
    Emerge da quanto notato fin qui la difersificazione  irragionevole
 a  svantaggio  dell'imputato diligentemente presente al dibattimento,
 rispetto all'imputato contumace,  ed  altresi'  una  diversificazione
 ulteriore,   collegata   alla  circostanza,  estranea  alla  condotta
 dell'imputato, del rispetto o del non rispetto da parte  del  giudice
 del termine di quindici giorni ora fissato per il deposito.
    Cio' per quanto riguarda il profilo d'incostituzionalita' riferito
 all'art.   3   della   Costituzione,  che  vuole  siano  informate  a
 ragionevolezza le differenziazioni  di  trattamento,  tanto  piu'  in
 quanto esse attengano all'esplicazione di diritti fondamentali, quale
 nel caso il diritto di difesa.
    Ma   il   diritto  sancito  dall'art.  24,  secondo  comma,  della
 Costituzione appare vulnerato in  se',  quando,  come  nella  specie,
 l'effetto  di  contrazione  nella  non indifferente misura di 1/4 del
 termine complessivo per impugnare sia la  conseguenza  di  una  norma
 estravagante  in rapporto al testo codicistico in cui va inserirsi, e
 in rapporto al testo di legge da cui proviene.
    Sotto il primo profilo, non vi e' che da riferirsi al  piu'  volte
 menzionato  disposto  dell'art.  548/2,  il  quale  lascia in vita il
 termine originario di trenta giorni, stabilito  dal  testo  dell'art.
 544/2  prima della modifica del 1991, collegando solo ad esso termine
 originario la necessita' dell'avviso  per  l'eventualita'  della  sua
 inosservanza:   il   che   comporta  le  improprie  conseguenze  gia'
 richiamate, in punto di disciplina concretamente applicabile ai  casi
 ivi   previsti,   e   costituisce   momento  di  disorientamento  per
 l'interprete e per il fruitore (qui imputato  e  suo  difensore)  del
 sistema processuale delle impugnazioni.
    E'  dunque  del  tutto  pertinente, a questo punto, il riferimento
 operato dal difensore al disposto  dell'art.  5,  quinto  comma,  del
 d.l.  13 maggio 1991, n. 152, recante "Provvedimenti urgenti in tema
 di lotta alla  criminalita'  organizzata  e  di  trasparenza  e  buon
 andamento dell'attivita' amministrativa": tale articolo stabiliva che
 "nel  secondo  comma  dell'art. 548 del codice di procedura penale le
 parole 'entro il trentesimo giorno' sono sostituite  dalle  seguenti:
 'entro il quindicesimo giorno'".
    Simile  disposizione  parrebbe in effetti dettata per ovviare agli
 inconvenienti sopra segnalati, incidenti  sulla  stessa  leggibilita'
 del  testo codicistico: senonche' la legge 12 luglio 1991, n. 203, di
 conversione, con modificazioni, del d.l. n. 152 ora citato, sopprime
 l'art. 5, quinto comma, dello stesso decreto-legge,  derivandone  che
 l'art. 548 rimane quello originario.
    Ed  e' interessante in proposito sottolineare quanto ulteriormente
 notato dal difensore dell'imputata: negli atti parlamentari  relativi
 ai  lavori  preparatori  del  Senato  della  Repubblica inerenti alla
 menzionata legge di conversione (atti  parlamentari  Senato,  2808/A,
 pag.  4) e' dato leggere: "sull'ultimo comma, che modifica l'art. 548
 del codice di procedura penale riducendo da trenta a quindici  giorni
 il  termine  per  il  deposito  delle  sentenze,  vi  e' stata vivace
 discussione,  conclusasi  con  una  proposta  di  soppressione  della
 modifica stessa, ritenuta velleitaria ed illegittima".
    Emerge  dunque  da  quanto ora riportato che gli stessi conditores
 legum ritennero: a) non essere stato modificato dal citato art. 6 del
 d.l. n. 60/1991 il termine per il deposito delle sentenze; b) essere
 tale modifica il frutto del disposto dell'art. 5, quinto  comma,  del
 d.l.  n.  152  che  essi conditores andavano a convertire; c) essere
 tale modificazione  velleitaria,  per  l'evidente  nullita'  del  suo
 effetto  sulla "lotta alla criminalita' organizzata" costituente tema
 della specifica decretazione d'urgenza; d) essere tale  modificazione
 illegittima.
    I  sospetti  di  ingiustificata compressione del diritto di difesa
 esplicabile attraverso la facolta' d'impugnazione acquistano pertanto
 consistenza, nel momento in cui lo  stesso  legislatore,  chiamato  a
 convertire una disposizione urgente, modificativa di quella che si e'
 visto  essere intimamente connessa a quella concernente il termine di
 deposito delle sentenze, ritenne di non fare luogo alla  conversione,
 attribuendo  proprio alla norma non convertita l'effetto di mutamento
 del  termine  stesso,  e  giudicando  il  mutamento  velleitario   ed
 illegittimo.
    Se poi si va a considerare il testo di legge nel quale trova posto
 la  modificazione  dell'art. 544/2, non si puo' fare a meno di notare
 che il d.l. n. 60/1991 e' intitolato alla "interpretazione autentica
 degli artt. 297 e 304 del codice di procedura penale e  modifiche  di
 norme  in  tema  di  durata  della custodia cautelare": il decreto in
 questione, come e' notorio, segui'  alla  decisione  della  Corte  di
 cassazione,  con cui venne ritenuto l'avvenuto decorso dei termini di
 custodia cautelare relativamente a circa cinquanta imputati di  gravi
 delitti di criminalita' organizzata (Cass., I sezione, 11-14 febbraio
 1991,  Agate  ed  altri, in Cass. pen. mass. ann., 1991, m. 86, parte
 II,  p.  262);  e   nella   quale   veniva   appunto   in   questione
 l'interpretazione  - che ora si intendeva dare autenticamente - degli
 artt. 297 e 304 del c.p.p.
    E' evidente  che  nell'intitolazione  non  si  trova  traccia  del
 riferimento ai termini di deposito delle sentenze, e che tali termini
 solo  indirettamente e di riflesso possono rilevare il tema di durata
 della custodia cautelare: e simile rilievo era poi  esaurito  con  la
 disposizione  dell'art.  4  dello  stesso  decreto-legge,  in  cui si
 stabiliva - a modifica dell'art. 304  -  il  potere  del  giudice  di
 sospendere  i  termini  di custodia, a richiesta del p.m., durante la
 pendenza dei termini di deposito delle sentenze; e' infatti di  tutta
 evidenza  che,  cosi'  statuito,  con  disposizione  poi  convertita,
 rimaneva  del  tutto indifferente che il termine di deposito fosse di
 trenta o di quindici giorni, in quanto i termini di cui all'art.  303
 decorrono dalla "pronuncia" e non dal deposito della motivazione.
    Il  preambolo  del  decreto  n.  60  faceva  poi  riferimento alla
 "straordinaria necessita' e urgenza, anche in relazione alla pendenza
 di  importanti  processi  per  fatti  di  eccezionale   gravita',   e
 all'allarme provocato nella pubblica opinione dalla scarcerazione per
 decorrenza   dei  termini  di  custodia  cautelare  di  persone  gia'
 condannate per delitti  di  criminalita'  organizzata,  di  procedere
 all'interpretazione autentica della normativa in tema di computo e di
 sospensione  dei  termini di custodia cautelare, nonche' di apportare
 idonei  correttivi  alla  disciplina  sulla  durata  della   custodia
 cautelare".  Il  testo del decreto era coerente al preambolo, recando
 l'interpretazione dei mezionati  artt.  297  e  304  (esclusione  dal
 computo  dei  termini  di  custodia per fase dei giorni impiegati nel
 dibattimento e nella deliberazione), prolungando  taluni  termini  di
 custodia  in  relazione  a  determinati  fasi  e  a date categorie di
 delitti, modificando i criteri di  computo  delle  pene  edittalmente
 previste agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari, prev-
 edendo  la  possibilita'  di  sospensione  dei termini di custodia in
 pendenza di deposito delle sentenze, prevedendo  la  possibilita'  di
 ripristinare   la   custodia   con   la   sentenza   di   condanna  o
 successivamente.
    Simile coerenza viene meno invece quanto al  termine  di  deposito
 della  sentenza:  simile  termine,  come  si  e' visto, non influenza
 quelli di custodia cautelare, tanto meno quando sia stata prevista la
 sospensione di essi termini in  pendenza  di  quello,  e  tanto  meno
 quando  si  vada a incidere solo sul termine ordinario, ritagliandone
 quindici giorni, e lasciando invece intatto il maggior termine,  fino
 a  novanta giorni, previsto dall'art. 544/3 per i casi complessi (e i
 processi di criminalita' organizzata, i quali  costituiscono  ragione
 giustificatrice  dell'intervento  con decreto-legge, sono solitamente
 complessi).
    Simile termine non e' poi menzionato nel titolo del decreto-legge,
 e  neppure  nel  preambolo,  il  che  accentua   il   disorientamento
 dell'interprete  al  quale una corretta legiferazione, ordinaria e di
 urgenza, deve offrire indicazioni chiare, per titolo, coerenza con la
 materia costituente argomento dell'intervento legislativo, e coerenza
 con le ragioni d'urgenza.
    Laddove una disposizione  incoerente  rispetto  a  tali  parametri
 venga  ciononostante emanata, e sia omesso qualsivoglia coordinamento
 con altra disposizione - quella dell'art. 548 gia' citata -  ad  essa
 intimamente  collegata,  ed  anzi,  tale  coordinamento sia dipoi dal
 legislatore  medesimo  rifiutato  e  tacciato   di   velleitario   ed
 illeggittimo,   non   puo'   non   giudicarsi   fondato  il  sospetto
 d'incostituzionalita' dell'effetto di  compressione  del  diritto  di
 difesa, da tutto cio' derivante.
    L'incoerenza  e  il  disorientamento  conseguente  sono tanto piu'
 sensibili, in una materia come quella in  esame  la  quale,  oltre  a
 concernere  diritti  fondamentali  (quello  di  difesa,  appunto), e'
 frutto di una disciplina codicistica, a sua volta emanata  in  virtu'
 di  delega  legislativa,  ove  si  prevedeva  (art.  7 della legge 16
 febbraio 1987, n. 81) la  possibilita'  per  il  Governo  di  emanare
 "disposizioni  integrative  e correttive, nel rispetto dei principi e
 criteri  fissati  dagli  artt.  2  e  3,  su  conforme  parere  della
 commissione prevista dall'art. 8,  con  uno  o  piu'  decreti  aventi
 valore di legge ordinaria".
    Un  decreto  legislativo  recante correzioni ed integrazioni venne
 appunto emanato il 14 gennaio 1991, con il n. 12, e neppure due  mesi
 dopo  seguiva  invece  il  d.l. n. 60 che modificava il codice senza
 passare per il previo parere conforme della apposita  commissione,  e
 che  interveniva  con la decretazione d'urgenza in materia oggetto di
 specifica delega, oltre  che  incoerentemente  -  quanto  alla  norma
 dell'art.   544/2,   che  qui  rileva  -  rispetto  al  codice  cosi'
 modificato, e  rispetto  al  provvedimento  in  cui  la  modifica  si
 situava.
    Il  sospetto  d'incostituzionalita', emergente dal raffronto della
 norma in esame con i  princi'pi  posti  dagli  artt.  3  e  24  della
 Costituzione,  e'  dunque  da riferirsi anche al processo formativo e
 alle modalita' di emanazione del d.l. n. 60, e dunque  ai  paramenti
 costituzionali di cui agli artt. 72 e 77 della Carta fondamentale, in
 relazione  ai  disposti  dell'art. 7 legge n. 81 del 1987, e 15 della
 legge 23 agosto 1988, n. 400.
    Non  appare  infatti  consentito,  laddove  il  legislatore  abbia
 conferito  al Governo apposita delega, con prescrizione di specifiche
 forme (come nel caso il previo parere  conforme  di  una  commissione
 bicamerale   costituita   ex  art.  8  della  stessa  legge  delega),
 intervenire  con  decreto-legge,  che   finisce   per   alterare   la
 delegazione  stessa,  nel senso di esautorarne il contenuto, cosi' da
 costituire,  in  negativo,   esso   stesso   legge   di   delegazione
 legislativa.  Ne' appare consentito incidere cosi' accentuatamente su
 una delle fondamentali esplicazioni  del  diritto  costituzionale  di
 difesa  (quale  la  facolta'  di adi're i gradi superiori di giudizio
 nell'ambito del  procedimento  penale,  a  sua  volta  involgente  le
 liberta' fondamentali della persona), al di fuori delle straordinarie
 necessita'  ed  urgenza  (si e' gia' cercato di dimostrare che non vi
 era alcuna necessita' di ridurre da  trenta  a  quindici  il  termine
 ordinario  di  deposito delle sentenze dibattimentali, in rapporto al
 problema della durata della custodia cautelare e della sua scadenza),
 ed inoltre al di fuori di qualsivoglia motivazione, nel preambolo del
 decreto, su tali, neppure asserite, necessita' e  urgenza,  e  al  di
 fuori  di  qualsiasi  menzione nel titolo, e di qualsiasi omogeneita'
 con la materia oggetto dell'intervento d'urgenza.
    In conformita'  all'eccezione  del  difensore  di  Damigella  Anna
 Maria,   deve   pertanto   sollevarsi   questione   di   legittimita'
 costituzionale del disposto dell'art. 6  del  d.l.  n.  60/1991,  di
 modificazione   dell'art.   544,   secondo   comma,  del  c.p.p.,  in
 collegamento con l'art. 585/2/c stesso codice,  in  riferimento  agli
 artt. 3, 24, 72 e 77 della Costituzione.
    Il  giudizio  in corso va dunque sospeso in attesa della pronuncia
 della Corte costituzionale, cui  devono  trasmettersi  immediatamente
 gli atti.
                               P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87;
    Ritenuta  rilevante e non manifestamente infondata la questione di
 legittimita' costituzionale del disposto dell'art.  6  del  d.l.  1½
 marzo  1991,  n. 60, convertito nella legge 22 aprile 1991 n. 133, di
 modificazione dell'art. 544, secondo comma, del c.p.p. in rapporto al
 disposto  dell'art.  585, secondo comma, lett. c), stesso codice, con
 riferimento agli artt. 3, 24, 72 e 77 della Costituzione;
    Dispone  la  sospensione  del  procedimento  penale  a  carico  di
 Damigella   Anna  Maria,  in  grado  d'appello  avverso  sentenza  19
 settembre 1991 del tribunale di Prato;
    Dispone che la presente ordinanza sia  notificata  al  procuratore
 generale  presso  questa  Corte  e ai difensori dell'imputata e della
 parte civile, e sia notificata inoltre al  Presidente  del  Consiglio
 dei  Ministri  nonche'  comunicata  ai  Presidenti  della  Camera dei
 deputati e del Senato;
    Dispone infine l'immediata  trasmissione  degli  atti  alla  Corte
 costituzionale.
      Firenze, addi' 7 dicembre 1992
                         Il presidente: AMATO
                                       I consiglieri: CAMPO - SORESINA
    Depositata in cancelleria oggi 14 dicembre 1992.
                Il collaboratore di cancelleria: SARRI

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