N. 200 ORDINANZA 19 - 27 aprile 1993

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Idrocarburi  -  Deposito  di  olii minerali - Esercizio - Trattamento
 sanzionatorio penale - Sanzione, determinazione, criteri e  limiti  -
 Assunta  sproporzione  tra gravita' del fatto-reato e pena - Analoghe
 questioni gia' dichiarate  manifestamente  infondate  (ordinanze  nn.
 497/1991, 285 e 327 del 1992 e 67/1993) - Manifesta infondatezza.
 
 (D.-L.  5 maggio 1957, n. 271, artt. 1 e 13, convertito dalla legge 2
 luglio 1957, n. 474; c.p., art. 27).
 
 (Cost., artt. 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma).
(GU n.19 del 5-5-1993 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
 Giudici: dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo
    SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE,  prof.  Vincenzo  CAIANIELLO,
    avv.  Mauro  FERRI,  prof.  Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott.
    Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof.  Francesco  GUIZZI,
    prof. Cesare MIRABELLI;
 ha pronunciato la seguente
                               ORDINANZA
 nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale degli artt. 1 e 13 del
 decreto-legge 5 maggio 1957, n. 271 (Disposizioni per la  prevenzione
 e  la  repressione  delle  frodi  nel  settore  degli  oli minerali),
 convertito dalla legge 2 luglio 1957, n.  474,  e  dell'art.  27  del
 codice  penale,  promossi con n. 3 ordinanze emesse il 18 giugno 1992
 dal Pretore di Lucca nei procedimenti penali a carico di Barsi  Carlo
 Antonio,   Bocci   Fabrizio   e   Giulianelli   Giuliano   ed  altro,
 rispettivamente iscritte ai nn. 701, 702 e 703 del registro ordinanze
 1992 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  46,
 prima serie speciale, dell'anno 1992;
    Visti  gli  atti  di  intervento  del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio  del  24  marzo  1993  il  Giudice
 relatore Vincenzo Caianiello;
    Ritenuto  che  con le tre ordinanze di identico contenuto indicate
 in epigrafe il Pretore di Lucca  solleva  questione  di  legittimita'
 costituzionale degli artt. 1 e 13 del decreto-legge 5 maggio 1957, n.
 271, convertito dalla legge 2 luglio 1957, n. 474, e dell'art. 27 del
 codice  penale,  in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della
 Costituzione nonche' al principio di legalita'  della  pena  "sancito
 dall'art. 27 (recte: 25)", secondo comma, della Costituzione;
      che   il   giudice   remittente   osserva  che  la  disposizione
 incriminatrice (applicabile nei giudizi) del denunziato art.  13  del
 decreto-legge n. 271 del 1957, che punisce l'esercizio di un deposito
 di  oli  minerali  non  denunciato  ai sensi dell'art. 1 del medesimo
 decreto-legge, prevede una sanzione  proporzionale  -  la  multa  dal
 doppio  al  decuplo  dell'imposta  relativa  ai  prodotti trovati nel
 deposito - "la cui legittimita' e' sancita, sia pure in  qualita'  di
 eccezione,  dall'art.  27  c.p.",  norma quest'ultima che a sua volta
 dispone  che  le  pene  pecuniarie  proporzionali  non  hanno  limite
 massimo;
      che,  ad  avviso  del  giudice  a  quo, la mancanza di un limite
 superiore delle pene pecuniarie proporzionali si  pone  in  contrasto
 con  l'art.  27,  terzo  comma,  della  Costituzione,  in quanto puo'
 determinare una irragionevole sproporzione tra la gravita' del fatto-
 reato e la pena irrogata,  snaturando  la  finalita'  rieducativa  di
 questa,  che  viceversa  deve  essere - ed essere "sentita" dal reo -
 congrua non solo nella fase dell'esecuzione ma, ancor prima, in  sede
 di determinazione edittale;
      che la violazione dei parametri costituzionali invocati, secondo
 il  giudice  remittente,  consegue  da  una  "lettura coordinata" del
 principio  di  eguaglianza  con  l'art.  27,   terzo   comma,   della
 Costituzione:  ne emergerebbe la "costituzionalizzazione" degli artt.
 132  e  133  del  codice   penale,   come   affermato   dalla   Corte
 costituzionale   nella  sentenza  n.  50  del  1980,  e,  quindi,  la
 illegittimita' di una pena proporzionale senza un limite massimo,  in
 quanto riferita al solo danno - o pericolo - oggettivo e percio' tale
 da  far  escludere  la  considerazione  giudiziale di altri criteri e
 indici, in particolare quelli concernenti il disvalore  soggettivo  e
 la personalita' del reo;
      che  tale  questione  si  colloca,  ad avviso del remittente, in
 ambito diverso da quello affrontato dalla  Corte  costituzionale  con
 l'ordinanza  n.  285  del  1992;  ne'  varrebbe  a risolverla in modo
 soddisfacente la sentenza n. 167 del 1971, riferita all'art. 27 della
 Costituzione;
      che, inoltre, il Pretore reputa che l'accennata mancanza  di  un
 limite  superiore della pena proporzionale confligga con il principio
 di legalita' della pena (art. 25, secondo comma, della Costituzione),
 in quanto la  predeterminazione  -  indiretta,  perche'  mediata  dal
 meccanismo di rapporto tra sanzione ed entita' del danno o pericolo -
 della  pena  viene  a rapportarsi esclusivamente all'unita' di misura
 "oggettiva" del  fatto,  precludendo  in  via  astratta  il  giudizio
 sull'interezza  dell'illecito;  cosi',  il  rispetto  della legalita'
 risulterebbe solo apparente, giacche' siffatto meccanismo consente di
 seguire i diversi gradi di "entita'"  del  fatto  sino  all'infinito,
 laddove  al principio di legalita' sarebbe coessenziale la fissazione
 di "limiti che ne garantiscano la sostanziale attuazione";
      che  si e' costituito in tutti e tre i giudizi il Presidente del
 Consiglio dei Ministri, tramite l'Avvocatura  Generale  dello  Stato,
 concludendo  per  l'infondatezza  della  questione,  gia'  piu' volte
 affrontata e risolta dalla Corte costituzionale,  richiamando  a  tal
 fine le decisioni correlative (ord. n. 285 del 1992; sent. n. 167 del
 1971);  in  ogni  caso  -  osserva  l'Avvocatura  -  il  "meccanismo"
 censurato non si configura nel modo sostenuto dal giudice remittente,
 poiche' anche per i reati puniti con  pena  pecuniaria  proporzionale
 sono applicabili gli aumenti o le diminuzioni di pena per il concorso
 di  circostanze nonche' i criteri di commisurazione della pena di cui
 agli artt. 132 e 133 del codice penale;
    Considerato che le ordinanze sollevano  la  medesima  questione  e
 che, quindi, i relativi giudizi vanno riuniti;
      che  questa Corte, con numerose ordinanze (nn. 497 del 1991; 285
 del 1992; 327 del 1992 e, da ultimo, 67 del 1993), ha  dichiarato  la
 manifesta  infondatezza di analoghe questioni, sollevate sia sotto il
 profilo della sproporzione della sanzione - prevista dall'art. 13 del
 decreto-legge n. 271 del 1957 denunciato - rispetto alla gravita' del
 fatto, sia  sotto  il  profilo  della  inadeguatezza  della  sanzione
 rispetto alla finalita' rieducativa della pena;
      che   rispetto   alle  considerazioni  svolte  nelle  richiamate
 ordinanze,   idonee   a   contrastare   i   dubbi   di   legittimita'
 costituzionale  ora  sottoposti  all'esame  della  Corte,  il giudice
 remittente non prospetta argomenti nuovi che possano orientare per un
 diverso avviso, limitandosi ad enunciare una diversita'  di  "ambito"
 che  viceversa,  con riguardo al parametro dell'art. 27, terzo comma,
 della Costituzione, non e' ravvisabile;
      che, in particolare,  il  riferimento  alla  necessita'  di  una
 "lettura coordinata" dei parametri ex artt. 3 e 27 della Costituzione
 non  muta  i termini della questione: il trattamento sanzionatorio e'
 razionalmente commisurato alla quantita' di prodotto  transitata  nel
 deposito, anche in ragione della natura permanente del reato, laddove
 proprio   aderendo   alla   prospettazione   del  giudice  a  quo  si
 verificherebbe una scissione tra il detto  elemento  e  la  sanzione,
 irragionevolmente  determinandosi  un  livellamento  del  trattamento
 punitivo - rinvenibile, in ipotesi di caducazione della pena oggi  in
 esame,  nella  generale  previsione  dell'art.  24 c.p. - a fronte di
 situazioni  marcatamente  differenziate,   con   specifico   riguardo
 all'interesse  erariale  sotteso  alla  disposizione  e concretamente
 violato;
      che quindi va ribadita in via generale la legittimita'  di  pene
 pecuniarie  proporzionali  senza  limite massimo anche in riferimento
 all'art. 27 del codice penale (sent. n.  167  del  1971);  mentre  la
 diversa   esigenza   di   individualizzazione  ed  articolazione  del
 trattamento punitivo, quale sottolineata dalla Corte  nella  sentenza
 n.   313   del  1990  (richiamata  dal  remittente),  trova  adeguato
 soddisfacimento attraverso  l'incidenza,  sulla  pena  proporzionale,
 degli  istituti  che  in  vario  modo  concorrono alla determinazione
 concreta  della  sanzione:  valutazione  giudiziale  dei  criteri  di
 commisurazione  della  pena  ex  artt.  132  e  133  c.p. all'interno
 dell'escursione consentita dalla legge; applicazione degli aumenti  o
 delle  diminuzioni  di pena per le ipotesi circostanziali (in specie,
 di carattere "soggettivo"); facolta' di ulteriore aumento o riduzione
 della pena pecuniaria in ragione delle condizioni economiche del  reo
 (art.  133-  bis  c.p.);  rateizzazione della pena pecuniaria, per le
 medesime condizioni (art. 133- ter c.p.);
      che  per  quanto  concerne  il parametro di legalita' della pena
 (invocato nella parte motiva dell'ordinanza di rimessione,  sia  pure
 con  richiamo  dell'art.  27  anziche'  25 della Costituzione), detto
 principio  risulta   rispettato   attraverso   la   predeterminazione
 normativa  del  rapporto  tra  entita' della violazione (e quindi del
 danno arrecato) e pena pecuniaria; siffatto  rapporto  e'  pienamente
 compatibile  con  il  principio invocato (sentt. nn. 15 del 1962, 167
 del 1971), cui non e' connaturale una determinazione rigida di  quale
 sia  la  pena  massima  applicabile  in  concreto,  cosi' per le pene
 proporzionali propriamente dette (quale quella prevista  dalle  norme
 denunciate: fattispecie a struttura unitaria con sanzione commisurata
 al  danno prodotto o al valore dell'oggetto materiale del reato) come
 per le pene impropriamente proporzionali o progressive (fattispecie a
 struttura pluralistica, in cui il precetto riguarda  piu'  violazioni
 della medesima norma: tante sanzioni quante sono le violazioni);
      che,  pertanto, in ordine a tutti i profili dedotti le questioni
 sono manifestamente infondate;
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo  1953,  n.
 87  e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti
 alla Corte costituzionale;
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti  i  giudizi,  dichiara  la  manifesta  infondatezza   delle
 questioni  di  legittimita'  costituzionale  degli  artt.  1 e 13 del
 decreto-legge 5 maggio 1957, n. 271 (Disposizioni per la  prevenzione
 e  la  repressione  delle  frodi  nel  settore  degli  oli minerali),
 convertito dalla legge 2 luglio 1957, n.  474,  e  dell'art.  27  del
 codice  penale,  sollevate  in  riferimento agli artt. 3, 25, secondo
 comma e 27, terzo comma, della Costituzione dal Pretore di Lucca  con
 le ordinanze indicate in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 19 aprile 1993.
                        Il Presidente: CASAVOLA
                       Il redattore: CAIANIELLO
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 27 aprile 1993.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
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